mercoledì 30 luglio 2014

Guénon l'intransigente L'autorità dello spirito supera il potere politico

tratto da Il Giornale del 21 luglio 2014

di Marcello Veneziani

Rigoroso e matematico: così l'interprete della Tradizione critica la "falsa unità" delle nazioni nate per sete di dominio temporale

Se cercate un pensiero metafisico assoluto che non si contamina con la storia e col proprio tempo, che non scende a patti, non indulge sul piano personale ma resta integro e puro nei cieli della Tradizione, siete sulla via di René Guénon.
Rigoroso e preciso, matematico non solo nelle sue certezze ma anche nei suoi studi, che non completò (per poi laurearsi in filosofia e insegnare). Come accadde a Julius Evola, ingegnere mancato, e a Pavel Florenskij che abbracciò studi matematici, scientifici e umanistici con rigoroso ardore. Guénon torna ora in libreria con un suo testo del '29 che pubblicò in Italia Alfredo Cattabiani da Rusconi e che more solito Adelphi evita di citare nella riedizione. È un testo all'apparenza metapolitico, Autorità spirituale e potere temporale (pp.140, euro 12), che conferma la coerenza dei temi, il nitore dello stile, l'intransigenza antimoderna di Guénon. E anche, va detto, la solita, puntigliosa precisione espressa in reiterate precisazioni, che denuncia da un lato confusioni, malintesi e contraffazioni delle idee tradizionali e dall'altro ripete fino alla noia la sua estraneità a polemiche di scuola e di partito, appartenenze e rapporti col proprio tempo. Guénon insiste sulla sua indipendenza totale che però non coincide con il suo assoluto individualismo: anche quando rivendica la sua estraneità a ogni filone e a ogni legame col suo tempo, Guénon non parla mai a titolo personale ma sempre in nome d'una Tradizione metafisica rappresentata da pochi eletti. Sono le élites intellettuali, come le chiama Guénon, ma non c'entrano con l'uso corrente del termine intellettuale. Qui intellettuale sta per ispirazione dall'alto ed evoca l'uso dantesco (è notevole la sua interpretazione esoterica di Dante). La vera intuizione intellettuale per Guénon è del tutto perduta nell'epoca moderna. Brilla tra gli invisibili.
Quali sono i temi di questo testo? Innanzitutto la distinzione già presente nel titolo tra autorità e potere: la prima si addice al regno spirituale, la seconda al regno terreno e temporale. Quindi la distinzione tra religioso e sacro: la religione appartiene alla sfera del sacro ma non la esaurisce; il sacro si riferisce a un sacerdozio più ampio e a una conoscenza più alta. Non a caso, Guénon fondò da giovane una rivista, La Gnosi. A quale Tradizione Guénon si riferisce? A La Tradizione in sé, che è unica, sovrastante e permea le grandi tradizioni, sorge in Oriente, si manifesta nel sufismo, l'esoterismo islamico, e in Occidente diviene visione della vita e organizzazione gerarchica fino al Medioevo, per poi perdersi nella modernità. Come si accede alla Tradizione nell'epoca che ne è priva? Tramite il cammino iniziatico con i Maestri sulle Vie della Tradizione. Guénon da un verso percorre un itinerario che va dall'ordine martinista e dalla scuola ermetica alla Massoneria esoterica e alla Chiesa gnostica, in cui assume il nome di Palingenius - traduzione greca del suo nome - René, Ri-nato- che indica la rinascita. (Si veda La vita semplice di Guénon di Paul Chacornac, ed. Luni). Dall'altro si converte poi all'Islam e dopo aver scritto questo libro, nel 1930 va a vivere fino alla morte al Cairo, si risposa con la figlia di uno sceicco - avendo perso la prima moglie francese - e ha quattro figli, di cui uno postumo.
Rispetto al cristianesimo, Guénon criticò il protestantesimo che volta le spalle alla Tradizione, insedia il primato della coscienza individuale sul rito ed è il preambolo alle Chiese nazionali e poi alle nazioni, che per Guénon sono «false unità» che si sostituiscono per sete di dominio temporale alla «vera unità». Guénon ammira invece il cattolicesimo medievale e i suoi estremi bagliori. Ma aggiunge una considerazione importante: quando la Tradizione perde lo spirito della dottrina, meglio affidarsi alla lettera, alle sue forme esteriori, piuttosto che allontanarsi del tutto e definitivamente. Meglio i residui di verità perdute o dimenticate (le superstizioni di cui diceva Vico) piuttosto che il nulla. «La minima particella di spirituale sarà ancora incomparabilmente superiore a tutto ciò che appartiene all'ordine spirituale». Ma Guénon non applica lo stesso criterio nel giudicare il folclore, le usanze, le tradizioni umanistiche, nazionali e popolari che non considera estremi lasciti della tradizione ma segni negativi di una controtradizione. Nessuno, dice, può giudicare «una tradizione al lume di un'altra tradizione»: eppure Guénon lasciò la tradizione cristiana in cui nacque e fu battezzato e si convertì all'Islam. Questo contraddice l'idea stessa di Tradizione ed è più consono a una scelta autonoma di tipo individuale. Ma per Guénon non si può legare la sfera del sacro a un vincolo di tipo terreno, temporale e personale. Dense e dantesche sono le pagine sul paradiso terrestre e il paradiso celeste, il primo legato alla virtù e alla beatitudine in questa vita, il secondo invece legato alla visione divina e alla beatitudine della vita eterna. Alla prima si dedica l'Imperatore, il Princeps romano, alla seconda il Pontifex, che genera ponti tra l'umano e il divino. Il Pontifex maximus in Guénon è figura chiave della Tradizione: nell'iconografia è portatore di chiave, come al Sovrano si addice lo scettro. Il Papa è l'estremo erede, almeno nella lettera, di quella definizione e del suo ruolo pontificale. Guénon condanna «la superstizione dei valori» che sarebbero una contraffazione dei principi. Sui valori Heidegger e Schmitt arrivarono alle stesse conclusioni da altri percorsi. Per la dottrina orientale ripresa da Guénon «la giustizia è costituita dalla somma di tutte le ingiustizie, e nell'ordine totale ogni disordine è compensato da un altro disordine». Quasi una vichiana eterogenesi dei fini, direbbe Augusto del Noce. Come altri autori della Tradizione, Guénon sposa la dottrina dei cicli cosmici, dall'età dell'oro all'età oscura; una visione che ha senso se sottolinea la caduta dal piano metafisico e trascendente al piano profano e discendente. Ma se applicata al corso storico, si riduce a una visione regressiva, degenerativa e involuzionista della storia, speculare allo schema progressista e ai suoi limiti.
Chi incontrò Guénon a Villa Fatma, dove visse per anni, lo ricorda come un uomo esile, «fragile come un'arpa», con gli occhi di un azzurro intenso in un viso lungo; silenzioso, affabile e gentile, vestito con la galabiah e le babbucce, così trasparente che «sembrava avesse già raggiunto l'altra riva». Quando stava per morire, disse di lasciare intatto il suo studio perché lui sarebbe rimasto presente benché invisibile. Poi si raddrizzò dal letto e vide la sua anima prendere il volo.

lunedì 14 luglio 2014

Un italiano sconosciuto precursore di Einstein

pubblicato su Mystero n. 56, gennaio 2005 (rivista edita da Luigi Cozzi)



di Vito Foschi

«La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [...] La formula mv² ci dà la forza viva e la formula mv²/8338 ci dà, espressa in calorie, tale energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di milioni».

Introduzione

Albert Einstein in una fotografia del 1947. Nobel per la fisica 1921
Albert Einstein - Foto da Wikipedia
Ovvero E=mc2, come dirà dopo Albert Einstein. Dopo? Ebbene sì, non è una frase di Albert Einstein, ma di un suo oscuro precursore. Come si legge dal passo sopra riportato, l’equivalenza fra massa ed energia è chiaramente formulata nei termini matematici esatti che saranno poi di Einstein. Questo frase fa parte di un articolo apparso nel febbraio del 1904 negli atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti ed intitolato “Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo”. L’articolo porta in allegato una lettera di complimenti del famoso astronomo Schiaparelli.
L’articolo, in cui Einstein presenta la sua famosa formula è presentato alla rivista Annalen der Physik nel settembre 1905, quindi più di un anno e mezzo dopo la pubblicazione dell’“Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo”.
Vi chiederete chi è l’autore di questa opera che sembra anticipare e forse ispirare il famoso scienziato tedesco? L’autore è uno sconosciuto agronomo vicentino: Olinto De Pretto.
Esaminiamo i particolari della vicenda.

L’articolo di Einstein

L’articolo in cui Einstein presenta la formula dell’equivalenza fra massa ed energia segue di qualche mese quello sulla teoria della relatività. Potrebbe sembrarne una diretta conseguenza, ma in realtà non è così. L’idea è in un certo qual modo indipendente, anche se si inserisce perfettamente nell’ipotesi della relatività. Idee similari erano state proposte da alcuni scienziati, tra cui Poincaré che aveva ipotizzato che l’energia elettromagnetica potesse essere considerata come «"un fluide fictif", la cui massa è uguale al rapporto tra l'energia e il quadrato della velocità della luce». L’ipotesi di Einstein si poteva tranquillamente inserire in questa corrente di pensiero più che essere una conseguenza della teoria della relatività ristretta. Oltre a ciò, l’articolo di Einstein presenta un’ipotesi ristretta, rispetto alla formulazione generale di Olinto De Pretto, riferendosi al caso specifico di un corpo radiante. Infine, il titolo dell’articolo presenta un punto interrogativo come se si volesse rispondere ad un quesito già posto da altri. Questo, insieme alla possibilità che il giovane fisico tedesco potesse essere a conoscenza del lavoro di De Pretto, porta ad ipotizzare che si sia potuto ispirare a quest’ultimo. I legami con l’Italia del giovane Einstein sono stato importanti dato che la sua famiglia vi si trasferì definitivamente nel 1894 e che conosceva l’italiano tanto bene da tenere delle conferenze nella nostra lingua. Purtroppo non è facilmente dimostrabile che lo scienziato fosse a conoscenza del lavoro di De Pretto.

Olinto De Pretto, chi era costui?

Olinto De Pretto nacque in provincia di Vicenza il 26 aprile del 1857, sesto di sette fratelli e si laureò in Agraria presso l’Università di Milano per poi lavorare, subito dopo, alla scuola Superiore di agricoltura come assistente. Lasciato il lavoro all’università nel 1886, Olinto De Pretto assunse la carica di direttore amministrativo della Fonderia De Pretto, costituita da suoi famigliari, che lasciò nel 1920, quando l’azienda si fuse con la svizzera Escher Wyss. Accanto a questa attività si occupò di fondare scuole tecniche professionali e di varie società industriali. La sua vita si concluse tragicamente il 16 marzo 1921 quando fu ucciso da una donna che lo accusava di essere stato la causa del mancato successo del marito, proprietario di una cava di lignite. In quello stesso anno usciva alle stampe il libro di De Pretto “Lo spirito dell’universo” dove riprendeva i temi della suo lavoro del 1904.
In questo suo libro potrebbe trovarsi una rivendicazione della primogenitura dell’idea dell’equivalenza fra massa ed energia, ma non se ne trova traccia. In realtà, le idee di De Pretto e di Einstein avevano in comune solo l’enunciato dell’equivalenza fra massa ed energia mentre per il resto differivano totalmente. Le idee di De Pretto si basavano sul concetto di etere e negavano il valore limite della velocità della limite, anzi presupponevano un valore di propagazione dell’attrazione gravitazionale infinito, idee totalmente opposte a quelle einsteiniane. Probabilmente per questo, l’agronomo vicentino nel suo libro non incluse idee che inficiavano le sue teorie.

Il collegamento


Come accennato la famiglia di Einstein si stabilì in Italia dal 1894. Il padre dello scienziato si occupava dell’installazione della luce pubblica in alcuni comuni del Veneto e proprio la Fonderia De Pretto era una delle poche aziende capaci di costruire turbine necessarie per la produzione di elettricità. Inoltre i De Pretto compivano frequenti viaggi in Svizzera per motivi legati a brevetti internazionali. Questa potrebbe essere la via con cui Einstein venne a conoscenza della teoria di De Pretto, ma potrebbe esisterne un’altra, indiretta, ma più interessante.

“A conclusione osservo che durante il lavoro ai problemi qui trattati il mio e collega M. Besso mi stette fedelmente a fianco e che io devo allo stesso parecchi preziosi incitamenti”.

Questa frase si trova nell’articolo del 1905 in cui Einstein pone le basi della relatività ed è tanto importante perché nell’articolo manca totalmente la bibliografia.
L’amicizia fra Michele Besso ed Albert Einstein nacque al Politecnico di Zurigo e durò tutta la vita. Besso nacque nel 1873 a Trieste da una famiglia piuttosto agiata, divenuto ingegnere, lavorò presso la “Società per lo sviluppo delle Industrie elettriche in Italia” per poi lasciarla per andare a lavorare nell’ormai storico Ufficio Brevetti di Berna, dietro insistenza dell’amico tedesco. Di questo periodo non esiste documentazione scritta dato il contatto diretto dei due amici. Besso era dotato di profonda curiosità scientifica in vari campi ed aveva mantenuto legami con la famiglia in Italia, ma circostanza notevole, un suo zio con cui aveva un rapporto piuttosto stretto, Beniamino Besso, era Direttore delle Ferrovie Sarde e risiedeva a Roma, ed un fratello di Olinto De Pretto, Augusto, faceva parte del Reale Ispettorato delle Strade Ferrate, e per motivi di lavoro soggiornava spesso a Roma. Si può ipotizzare che Augusto De Pretto, abbia potuto parlare delle idee del fratello Olinto ai suoi colleghi, tra cui Beniamino Besso e questi ne abbia potuto accennare al nipote Michele con cui aveva un fitto rapporto epistolare. Certo, prove documentabili non ne esistono, ma esiste una concreta possibilità di un contatto, seppur indiretto, fra l’agronomo vicentino e lo scienziato tedesco.
Del fatto ne avrebbe potuto parlare lo stesso Einstein citandolo insieme ai tanti aneddoti della sua vita, raccontando di come aveva trasformato un’idea folle di uno sconosciuto nella più grande scoperta del secolo. Ma il fatto che non ne parla non significa nulla perché spesso ciò che ricordiamo del nostro passato è una ricostruzione a posteriori. A questo proposito riporto un passo dell’articolo “I sentieri dell’innovazione” di Armando Massarenti pubblicato su “Il Sole 24 Ore” del 19 settembre 2004:
«…gli storici della scienza sanno che i racconti individuali degli scienziati vanno sempre presi con molta cautela. In perfetta buona fede essi tendono a dare ricostruzioni mitiche delle loro scoperte e dei processi che vi hanno condotto. Esemplare è il caso di Einstein che era assolutamente convinto di aver elaborato la teoria della relatività ristretta in risposta all’esperimento di Michelson e Morley sul trascinamento dell’etere. In realtà esso era sì stato svolto alcuni anni prima, ma Einstein ebbe modo di conoscerlo solo dopo l’elaborazione della propria teoria. A convincerlo di ciò è stata la puntuale ricostruzione degli eventi fatta da Gerard Holton.
Ma non si può biasimare Einstein per aver creduto in una versione mitica ed edificante degli eventi, peraltro tuttora riprodotta in buona parte dei manuali di fisica».

Conclusioni


Dell’intricata ed affascinante faccenda ne parla diffusamente il prof. Bartocci dell’Università di Perugia, alle cui ricerche facciamo riferimento, nel suo libro “Albert Einstein e Olinto De Pretto: La vera storia della formula più famosa del mondo” (Bologna, Andromeda, 1999), opera quasi introvabile anche perché nessun grande editore rischierebbe su un libro del genere: Albert Einstein è per il momento intoccabile.

mercoledì 9 luglio 2014

La corta memoria della scienza (4 di 4)

di Vito Foschi

Comunicazione e metodologia della trasmissione del sapere


Un altro fattore da non trascurare è la metodologia della trasmissione del sapere. Anche oggi in un mondo in cui l’informazione sembra a portata di mano esistono zone oscure in cui è impedito l’accesso. Basti pensare a quanta tecnologia militare è chiusa in sicuri bunker inaccessibili ai più. O un esempio, più banale, ma forse più emblematico, la formula della Coca Cola, uno dei segreti meglio custoditi del mondo. Anche in passato la trasmissione del sapere è stata soggetta a questi vincoli. E così l’artigiano trasmetteva le sue scoperte ai suoi allievi, che avrebbero fatto lo stesso, mantenendo un vincolo di segretezza. Le corporazione medievali ne sono una chiara testimonianza. Un altro esempio è l’arte della metallurgia ammantata da oscuri simbolismi dai sacerdoti egizi per mantenere il loro segreto e il loro potere.
Naturalmente questa segretezza ha permesso ad alcune conoscenze di attraversare i secoli sottraendosi all’occhio di severi censori che accendevano falò su cui bruciare i libri, ma aumentando anche il rischio di vedere dimenticate certe conoscenze.

Effetto collaterale: esoterizzazione della cultura moderna


Come accennato prima per la scienza, che subisce un processo di esoterizzazione, sta avvenendo per la cultura in genere. Ormai si è creata una sovrastruttura informativa formata dai media quali stampa, radio, TV ed Internet che invece di facilitare l’accesso alla conoscenza finisce per occultarla in un bombardamento continuo di notizie e informazioni che finiscono per occupare tutto lo spazio mentale rendendo impossibile un pensiero ed una rielaborazione critica.
Un’altra sovrastruttura che apparentemente dovrebbe facilitare ma che in realtà nasconde è il commento dei testi classici. Con la scusa di renderli leggibili per i lettori moderni, si finisce di infarcirli tanto con introduzioni, note, commenti, glosse da nascondere l’opera. Inoltre, il numero di pagine di questi “aiuti alla lettura”, a volte, supera abbondantemente quelle dell’opera stessa, con il risultato finale di libri di centinaia di pagine che scoraggiano alla lettura, quando in realtà, l’opera originale è di poche pagine. E poi, perché è necessario il commento? Perché la cultura ha subito una destrutturazione ed una specializzazione. Prima esistevano le materie del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica) e la loro conoscenza era sufficiente ad accedere a tutto il sapere. Ora questa struttura non esiste più, esistono le specializzazioni, che rendono sì possibile dei risultati, ma al costo di vivere nella propria gabbia specialistica e di non riuscire più ad accedere alle diverse branche del sapere.
Un altro fattore che rende difficile la lettura di testi antichi è la cancellazione della religione dalle materie d’insegnamento. Sarà stata una conquista dello stato laico, ma, di fatto, impedisce l’accesso alla cultura antica tutta impregnata di religione e misticismo.
Come ho detto prima, viviamo in una continua rincorsa per stare a passo coi tempi imparando cose inutili e dimenticando spesso conoscenze utili. Gli esempi li viviamo noi stessi. Vi chiedo: sapreste riconoscere un santo che vedete raffigurato in una chiesa? Credo che la maggior parte di noi eccetto per i santi più noti avrebbe delle difficoltà. Sembra una sciocchezza, ma questo è un esempio concreto a noi vicino della distruzione della conoscenza del passato. E non crediate che sia un problema di poco conto. Quanti studiosi stanno lì a lambiccarsi il cervello per interpretare una raffigurazione religiosa cercando di capire che santi sono rappresentati? La cosa demoralizzante è, che un qualsiasi nonno, anche un po’ svanito, sarebbe in grado di riconoscerli, perché venendo da una società in cui la scrittura non era ancora dominante, al catechismo gli hanno insegnato a riconoscere i santi dai particolari della loro rappresentazione. San Rocco dalla piaga alla gamba e dal cane, per farvi un esempio concreto a me noto.

 


Conclusioni


Possiamo ben dire come afferma Hancock nel suo libro “Le impronte degli dei”, di essere una specie affetta da amnesia e, aggiungiamo, che i moderni sistemi di comunicazione e memorizzazione delle informazioni non rendono più facile il compito di ricordare; anzi, sono loro la causa principale della crescita esponenziale della produzione di documenti, spesso privi di qualsiasi utilità, che essendo più veloce della capacità di immagazzinamento, lo rendono più difficile. Senza contare, che anche se si riuscisse ad immagazzinare tutto, rimarrebbe il problema di come accedere a tale sconfinata massa di informazioni e se qualcosa rimane inaccessibile è come non averla affatto.
Questo in termini generali, ma è ancor più necessario un ripensamento di tutto il processo scientifico, affinché la scienza non diventi un’inutile fatica di Sisifo, impegnata a scoprire per poi dimenticare più e più volte. Sarebbe necessario, forse, che gli stessi scienziati dedicassero parte del loro tempo a ricerche d’archivio, esercizio che permetterebbe loro di aver un’apertura mentale ed una flessibilità di pensiero più ampia ed, a volte, di evitare l’inutile sforzo di riscoprire cose già note. Questo permetterebbe di risparmiare risorse da impegnare in “vere” nuove scoperte.


           
Note:


1)      Salvatore Settis, Le officine di Archimede, Il Sole 24 Ore del 18 gennaio 2004;
2)      Rick Sanders, “ll”, Graal n.8, marzo-aprile 2004, Hera Edizioni;
3)      Articolo riportato parzialmente sul libro di Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La scienza alla prova”, CUEN 1998;
4)      Giorgio Nebbia, “Innovazione in Italia? Si provveda di ufficio”, “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 12/3/2000.
5)      Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La scienza alla prova”, CUEN 1998, pag. 94;
6)      Per chi volesse avere qualche informazione in più può leggere l’articolo “Albert Einstein e Olinto De Pretto: un dimenticato precursore italiano dell’equivalenza tra massa ed energia” di U. Bartocci, M. Mamone Capria, reperibile in Internet all’indirizzo: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/depre.html.


Bibliografia:

Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La scienza alla prova”, CUEN 1998;
AA. VV. Episteme, Physis e Sophia nel III millennio, Perugia, n. 1 – 6, 2000 – 2002;
Paolo Rossi, “Origini di una favola clericale”, IlSole-24ore di domenica 6 giugno 2004.

martedì 8 luglio 2014

La corta memoria della scienza (3 di 4)

di Vito Foschi


Un altro esempio ci viene dalla zoologia. Esistono degli elenchi delle specie in pericolo di estinzione dando così per scontato che le specie non in elenco non corrono pericolo. Ma è proprio così? Purtroppo no. In realtà di molte specie non si sa più nulla perché dopo la loro scoperta e classificazione avvenuta anche più di un secolo fa, non sono state più fatte ricerche. Nel diciannovesimo secolo è stato fatto un enorme sforzo di scoperta e classificazione e numerosissime specie si conoscono solo grazie alle pubblicazioni di allora. Nel curriculum dei biologi di oggi alla zoologia è riservato ben poco spazio. Quando qualche spedizione ritorna ad esplorare i luoghi di avvistamento di alcune specie, spesso non le ritrova, perché ormai estinte.
Un altro esempio dal libro di Lévy-Leblond:«Da qualche anno, non è raro veder citare, in articoli di ricerca “di punta”, come riferimento tecnico immediato, dei lavori del matematico Henri Poincaré che risalgono a più tre quarti di secolo e che non erano più stati menzionati per diversi decenni. […] L’irruzione della fisica detta moderna, teorie quantistiche, relatività, aveva all’inizio del secolo relegato – così sembrava – quella fisica negli scaffali di un classicismo polveroso». Più avanti:«Si è dovuta operare una vera riconquista e, attraverso i campi fino a poco tempo fa riconosciuti e coltivati ma abbandonati e ridivenuti incolti, ritrovare sentieri dimenticati. Così l’ingenua fede in una modernità irreversibile e la sottovalutazione presuntuosa di un’antica disciplina hanno impedito e ritardato uno sviluppo scientifico maggiore».
Da un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno: «Alcune innovazioni sono già state fatte decenni fa e alcuni insuccessi erano già prevedibili: la pericolosità e la tossicità del piombo tetraetile – l’antidetonante delle benzine ormai quasi definitivamente eliminato dalle benzine in commercio, quelle che si chiamano “con piombo” – erano ben conosciute da chi aveva scoperto la nuova sostanza negli anni venti del Novecento. Alcuni processi per diminuire l’inquinamento atmosferico erano già stati inventati nella metà dell’Ottocento e poi accantonati. Gli attuali processi di riciclo dei rottami metallici sono stati inventati un secolo e mezzo fa.»(4)
Da un articolo de “Il Sole-24 Ore” del 22 febbraio 2004 di Cristina Marcuzzo: «La teoria economica, nella sua storia, non segue un tracciato regolare, né si presenta come un accumulo di verità acquisite una volta per tutte. I “ritorni” a idee del passato sono frequenti, come sono ripetuti gli abbandoni di alcune concezioni, quando non reggono al confronto con la teoria ritenuta al momento più “vera”». Abbiamo visto che non è una caratteristica tipica dell’economia, ma è comune a tutte le scienze. Dallo stesso articolo: «Rivisitare le idee del passato può significare rafforzare le convinzioni del presente, oppure ricercare percorsi che non si sono imboccati o che sembrava portassero, in un particolare momento storico, a un vicolo cieco. Qualunque sia il fine dell’esercizio, interrogare la storia, sia dei fatti che delle idee, è la condizione della crescita della conoscenza, intesa non come progresso lineare dall’errore alla verità, ma come consapevolezza dei suoi limiti e della sua circonstanzialità».
Ed ancora: «Ormai una componente regolare delle riviste scientifiche generiche, come “Nature” o “Science”, è la messa in rilievo di lavori dimenticati che anticipano di parecchi decenni delle (ri)scoperte recenti presentate come originali.»(5)
Altri esempi li possiamo trovare nella rubrica Reprints della rivista “Episteme” del prof. Umberto Bartocci reperibile anche in Internet. In tale rubrica sono pubblicati o vecchi lavori ormai dimenticati o teorie recenti ma controverse. Ad esempio nel numero 2 troviamo il discorso tenuto dal prof. Quirino Majorana, zio del più noto Ettore Majorana, all’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna in occasione della inaugurazione dell’Anno Accademico in data 9 Dicembre 1951, in cui lo scienziato contesta la teoria della relatività di Einstein evidenziandone le contraddizioni.
Un articolo interessante è “Low Energy Nuclear Reactions” con sottotitolo “The revival of alchemy” di Roberto A. Monti presente nel numero 4 di Episteme. Vi riporto la traduzione dell’abstract:

«Nel 1959 C.L. Kervran mostrò l’evidenza sperimentale delle Trasmutazioni a bassa Energia, ma i fisici contemporanei rifiutarono di credere nell’evidenza sperimentale di fronte a loro perché avrebbe messo in questione gli interessi, molto ben stabiliti, della Fisica delle Alta Energia. Nel 1989 Fleishmann e Pons fecero un’altra Trasmutazione a bassa Energia, erroneamente chiamata “Fusione Fredda”, il quale attirò grande attenzione. I fisici dell’Alta Energia iniziarono una fortissima campagna per invalidare la “Fusione Fredda” di fronte al pubblico. Nel 1996 “Lo Sviluppo delle Tecnologie delle Trasmutazioni” diventa il problema fondamentale della Seconda Conferenza delle Reazione delle Basse Energie (College Station, TX). Nel 1998, ICCF-7 (Vancouver) e nel 2000, ICCF-8 (Lerici, Italia) mostra l’evidenza conclusiva dei Fenomeni di Trasmutazione a Bassa Energia. Le allusioni alchemiche risultano essere sempre corrette, provando che l’alchimia è una scienza sperimentale. La fisica del XXI secolo sarà caratterizzata dalle Reazione Nucleari a bassa energia: il risveglio dell’alchimia.»

Il prof. Roberto Monti è anche un forte critico della teoria della relatività di Einstein. L’esistenza di critiche alle teorie einsteiniane è cosa pochissimo nota e comunemente si pensa che tali teorie siano verità incontestabili o per lo meno così viene fatto credere, ma come visto non è affatto così.

Un caso sbalorditivo, perfetto esempio dell’amnesia programmata della scienza, è quello che riguarda un possibile antesignano della famosa formula E=mc2 di Einstein; nel 1904 un certo Olinto De Pretto, agronomo vicentino, pubblica “Ipotesi dell’etere nella vita dell’universo” negli Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze con prefazione del famoso astronomo Schiaparelli. La frase che sembrerebbe anticipare la teoria della relatività è la seguente:

«La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [...] La formula mv² ci dà la forza viva e la formula mv²/8338 ci dà, espressa in calorie, tale energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di milioni».

Come vedete, eccetto il riferimento all’etere, la formula E=mc2 è chiaramente formulata. I legami con l’Italia del giovane Einstein erano piuttosto forti considerato che la sua famiglia vi si trasferì definitivamente nel 1894. Inoltre, conosceva l’italiano tanto bene da tenere delle conferenze nella nostra lingua e la formulazione che Einstein fa della formula è meno generale di quella di De Pretto  riferendosi al caso specifico di un corpo radiante. Purtroppo non è facilmente dimostrabile che lo scienziato fosse a conoscenza del lavoro di De Pretto.
Della questione ne parla diffusamente il su citato prof. Bartocci nel suo libro “Albert Einstein e Olinto De Pretto: La vera storia della formula più famosa del mondo” (Bologna, Andromeda, 1999), opera quasi introvabile anche perché nessun grande editore rischierebbe su un libro del genere: Albert Einstein è per il momento intoccabile.
In ogni caso è regola ricordare il primo che ha concepito una idea e non i suoi successori. La teoria di De Pretto contiene ancora il riferimento all’etere e conterrà altri errori però sarebbe giusto riconoscerli la paternità della formula più famosa del mondo.(6)

Come si evince da quanto detto la scienza ha la spiccata tendenza a dimenticare se stessa, cancellando di fatto la sua storia rendendo difficile se non impossibile recuperare idee accantonate, ma che in un secondo momento potrebbero ritornare utili.
Altra conseguenza è la sempre maggiore difficoltà della scienza di spiegare se stessa. Se scompaiono i sentieri che hanno condotto ad una scoperta, come sarà possibile spiegarla ai non specialisti? Se gli stessi addetti ai lavori non controllano il loro sapere, sempre più parcellizzato, come posso pretenderlo di divulgarlo? Si assiste ad un processo che potremmo chiamare “esoterizzazione”, nel senso di rendere difficile l’accesso a qualcosa, senza nessun riferimento al sapere iniziatico, della scienza. Una delle accuse mosse alla magia da parte della scienza, sta diventando sua componente fondante.

lunedì 7 luglio 2014

La corta memoria della scienza (2 di 4)

di Vito Foschi

L’amnesia del presente


L’uomo ha la strana tendenza a dimenticare e non è un'esclusiva dei nostri avi come si potrebbe pensare, anzi si può dire che questo processo nella nostra epoca “scientifica” stia subendo un’accelerazione. La continua produzione di nuovi saperi costringe l’uomo ad una continua rincorsa del presente dimenticando tutto quello che ha imparato per poter essere “al passo con il tempo”. Ma fra le tante cose che si dimenticano non ci sarà qualcosa di utile? Ma poi, tutta la rincorsa ad essere aggiornati coi tempi è veramente importante? Non sarebbe necessaria una rielaborazione critica di tutta la messe di informazioni prodotta per discernere l’utilità o meno? Mi interessa veramente sapere come funziona l’ultimo modello di telefonino che non comprerò mai, perché ora non ho i soldi e fra un mese quando li avrò, sarà già uscito il modello successivo? O ancora, perché affannarsi con gli aggiornamenti del sistema operativo del computer o del programma di videoscrittura, giusto per non fare nomi, quando per il mio uso corrente quello che ho, è già ottimo? E il risultato qual è? Che perderò tempo a leggere il nuovo manuale del programma di videoscrittura, invece che a leggere il tal libro che mi serve per scrivere un articolo. Questo a livello individuale, mente a livello collettivo si avrà una distruzione sistematica del sapere che diventa veramente “passato”! Si vendono manuali sulle nuove versioni dei programmi a scapito di opere che meriterebbero di essere lette con una graduale sostituzione dei libri buoni con i libri cattivi utilizzando una metafora economica sulla moneta che recita che la moneta cattiva scaccia quella buona. Con una differenza: la moneta buona viene tesaurizzata, mentre i buoni libri finiscono al macero.

I nostri progenitori avevano una cultura orale che si trasmetteva da padre in figlio. Questo ci fa pensare che fosse una cultura che tendesse a dimenticare se stessa. Ma ne siamo proprio sicuri? Gilgamesh non esiste tuttora? E i Veda? E i miti egizi? Quelli greci o romani? E perfino quelli celtici sono sopravvissuti alla sistematica persecuzione dei druidi da parte degli antichi romani!
In passato il mito riusciva a passare indenne attraverso le generazioni, forse modificandosi ma mantenendo intatto il nucleo centrale. Oggi tutto questo non esiste. Esistono le varie soap-opera,  telenovelas, telefims che dopo successi strepitosi svaniscono come neve al solito come se non fossero mai esistiti. Chi si ricorda più di programmi degli inizi degli anni ottanta? Del nome di attori che all’epoca sembravano tenere il mondo in una mano?

Certo delle perdite ci sono state, ma purtroppo ci saranno sempre. Anche nel nostro mondo industrializzato in cui scienza e tecnica sono padrone c’è una spiccata tendenza ad obliare il passato. Quante opere del cinema mute sono andate perse? E quante si sono riuscite a salvare solo con costosi restauri? Per fare un esempio nel campo artistico, ma questo succede ed è ancora più grave perché implica i suoi stessi processi di produzione, nella scienza. Abbiamo accennato alla parentesi medievale in cui il sapere umano ha subito una distruzione sistematica e questo è sicuramente successo in passato in altre civiltà. Basti pensare che ancora non si è grado di capire come sono state costruite opere megalitiche con la semplice forza umana e animale.

L’amnesia programmata della scienza: il processo scientifico si basa sulla distruzione del saper precedente ed alcune scoperte l’uomo le ha dovuto fare più volte

La scienza è un continuo processo di affinamento della conoscenza e questo implica la necessità di cancellare gli errori del passato per far spazio agli ultimi risultati ritenuti più corretti. «L’oblio è costitutivo della scienza. Impossibile per lei conservare la memoria di tutti i suoi errori, la traccia di tutte le sue erranze. La pretesa di dire il vero costringe a dimenticare il falso». Dal libro di Lévy-Leblond.
Banalmente la teoria eliocentrica ha cancellato la teoria tolemaica ormai dimenticata. Questo processo è giusto e necessario, ma comporta dei rischi. Abbiamo visto come in passato la scienza è dovuta ritornare sui suoi passi per riscoprire ciò che si sapeva secoli prima, ma questo accade tutt’ora. È insito nell’attività scientifica la distruzione delle vecchie ricerche per far posto alle nuove. Ma in tutto questo scarto non ci sarà qualcosa che meritava di essere salvato? Sono molteplici gli esempi di ricerche non proseguite perché le necessità o le mode del momento, perché anche nella scienza esistono le mode, hanno spostato l’attenzione su altri settori e poi sono state riprese decenni dopo. Questo potrebbe sembrare un problema da poco, ma oggi la produzione scientifica è su una scala molto vasta e lo scarto è a sua volta su una scala altrettanto vasta. Non esistono più i pochi studiosi che si conoscevano tutti quanti e che si incontravano in qualche congresso mondiale, ormai a livello mondiale possiamo parlare di milioni di persone impegnate nella ricerca. Basti pensare al moltiplicarsi delle università italiane e della conseguente moltiplicazione dei professori, che volenti o nolenti per esigenze di sopravvivenza devono produrre o almeno dimostrare di fare ricerca pubblicando articoli su apposite riviste. Anzi, il loro avanzamento di carriera è anche ancorato al numero di articoli pubblicati con tutte le conseguenze del caso sull’inflazione produttiva di articoli. Alcuni vengono scritti solo per allungare un curriculum senza contenere nulla di interessante sul piano scientifico.
L’accumularsi di tutta questa produzione pone problemi di spazio alle biblioteche che tendono ad accumulare in modo disordinato le riviste scientifiche, strumento principe dell’attività scientifica, e recuperare ricerche del passato è a volte quasi impossibile. Oltre a questo problema logistico, esiste il ben più grave problema culturale, che chi ha condotto studi specialistici, trova difficoltà a prendere in mano nuovi saperi in branche completamente nuove: di fatto è impreparato! Il lavoro scientifico si basa su una specie di allenamento fatto di letture di articoli di settore, nel padroneggiare certi procedimenti matematici e determinati strumenti, se tutto questo manca è come ritrovarsi a leggere un libro in un’altra lingua. Si è grado di leggere, cioè si hanno le conoscenze scientifiche di base, ma non si conosce la lingua cioè gli strumenti specifici di quella particolare materia. Non è un lavoro da poco. Ne ho fatto esperienza personale con la mia tesi. Ho dovuto passare mesi per familiarizzare con l’argomento e padroneggiare un programma di simulazione matematica per poter incominciare a lavorarci. Immaginate la difficoltà a riprendere studi di decenni fa, che trattano di teorie completamente diverse e dimenticate. Ancora Lévy-Leblond:
«…i meccanismi di rimozione e occultamento, costitutivi del funzionamento della ricerca, conducano ormai a degli effetti perversi o, se non altro, controproducenti. […] Il fatto è che l’eliminazione delle foglie morte della scienza, il rigetto dei suoi rifiuti opera ormai sulla stessa scala industriale della sua produzione. […] Più precisamente, come esser certi che, in quelli che consideriamo oggi lavori secondari o senza sbocchi, abbozzi o doppioni, non giacciono, invisibili nel contesto attuale, un punto di vista, un metodo, un risultato ricchi di implicazioni future?».
Ecco alcuni esempi di scoperte dimenticate e poi ritrovate.
La malattia dell’olmo che ha portato alla distruzione di milioni di piante è stata affrontata coi metodi della biologia moderna senza alcun risultato, mentre nell’ottocento si sapeva come affrontarla. Ci si era dimenticati degli studi condotti dal 1843 al 1859 di un certo Eugène Robert che permisero all’epoca di fermare l’epidemia! Vi riporto una frase dell’articolo di Didier Fleury che ha riscoperto il metodo:«Avendo a disposizione mezzi di indagine di una potenza senza uguali nel passato, la biologia ha tendenza a vedere questioni nuove laddove di fatto c’è ben poco di nuovo!»(3)
Per anni si è pensato che lo stomaco non potesse ospitare batteri patogeni cronici non riuscendo a capire l’origine dell’ulcera gastrica. Invece da pochi anni si è “scoperto” che la causa è proprio un batterio, l’Helicobacter pilori. Di fatto si sono trascurate osservazioni di un secolo fa che affermavano la presenza di batteri nello stomaco.

domenica 6 luglio 2014

La corta memoria della scienza (1 di 4)



pubblicato su Mystero n. 56, gennaio 2005 (rivista edita da Luigi Cozzi)

di Vito Foschi

Introduzione


Noi viviamo in un mondo tecnologico, in cui tecnica e scienza sono dominanti ed anche in un paese poco attento a tali tematiche com'è l’Italia, siamo indotti a pensare di vivere in un mondo lineare in cui il progresso scientifico sia un processo chiaro e lineare, in cui le scoperte dell’oggi migliorano le nostre conoscenze in un continuo affinamento tendente al raggiungimento della verità. Ma è proprio cosi? Né dubitiamo…

Se volessimo descrivere il progresso scientifico con una metafora non è certamente possibile usare né una linea retta né una linea di trend, tipo l’indice di borsa con locali discese e salite ma con una tendenza di lungo periodo al rialzo. È più corretto usare l’immagine usata da Lèvy-Leblond nel suo libro “La Pietra di Paragone, la scienza alla prova…”: «Alla visione tradizionale di un sapere scientifico stabile, che cresce per estensione sistematica e concentrica, deve allora sostituirsi l’immagine frattale di un ambito parcellizzato, costituito da saperi differenziati, pseudopodi in perpetua ramificazione, che lasciano negli interstizi golfi di ignoranza e al loro interno vacuoli di dubbio».

Ci capita di pensare al passato immaginando un’epoca barbara in cui dominava la superstizione e l’ignoranza. Ma ancora una volta: è proprio così? Noi abbiamo effettivamente più conoscenze dei nostri antenati? O più precisamente: ogni generazione aumenta la conoscenza della generazione precedente? O, accanto a nuove scoperte, distrugge parte della conoscenza acquisita dai propri avi? È vera l’immagine di Lévy-Leblond di un sapere parcellizzato incuneato di profonde sacche di ignoranza?

L’amnesia del passato


La parte di passato che conosciamo con una certa accuratezza coincide sostanzialmente con l’inizio della produzione di testi scritti, mentre del periodo precedente, chiamato preistoria, abbiamo solo conoscenze indiziarie e congetture basate sul lavoro degli archeologi. È da notare però, che questo schema è vero in parte, perché in realtà la nostra conoscenza del passato parte da un periodo all’incirca coincidente con la nascita di Roma; del periodo antecedente si posseggono comunque documenti scritti come le scritture egizie e le tavolette d’argilla mesopotamiche, però spesso non sono considerate attendibili ma riferentesi ad eventi mitici. L’assurdo si ha con alcuni documenti,  che sono considerati esatti quando si riferiscono ad eventi recenti ed inattendibili quando si riferiscono ad eventi più remoti. Ma si tratta dello stesso documento! Questo è un altro argomento, però già da questo si incomincia ad intuire che l’uomo ha la tendenza a dimenticare il proprio passato.

Anche di un’epoca recente come quella greca e romana ci rimane poco ed anche opere di autori come Aristotele sono andate perdute. Di altri abbiamo solo frammenti sopravissuti come citazioni di altri autori, come è accaduto per esempio, ad Eraclito. In epoca medievale si è assistito ad una ampia distruzione del sapere classico, salvatosi in parte, grazie alla civiltà araba allora fiorente e ai monaci, anche se la stessa Chiesa ha, a volte, contribuito alla scomparsa di alcune conoscenze che riteneva pagane.
La distruzione medievale è stata molto più grave di quanto si creda. Semplificando il discorso, la tecnica romana era all’incirca equivalente a quella rinascimentale. Tanto è vero, che alcuni autori hanno potuto affermare che gli uomini del rinascimento hanno semplicemente copiato da antichi trattati greco-romano. Un brano da un articolo de “Il Sole 24 Ore” del 25 gennaio 2004 che recensisce una nuova edizione di un manuale di metallurgia rinascimentale: «All’autore che è medico e filosofo, che nutre una forte passione per lo studio dei minerali, delle miniere, delle tecniche d’estrazione e lavorazione dei metalli, sia le cose sia i nomi appaiono collocati in una sorta d’indistinto caos. Molti minerali, già nel mondo antico, sono stati utilizzati come farmaci, ma l’oblio della lingua greca, la confusione derivante dalle traduzioni dal greco e dal siriano in arabo e dall’arabo al latino, hanno come oscurato le conoscenze, hanno distrutto, accanto alla nomenclatura, anche una traduzione di sapere e una continuità di pratiche. Va fatto il tentativo di introdurre ordine e chiarezza, bisogna classificare e descrivere sia ciò che era noto e mal definito, sia ciò che è nuovo».
Ma questi episodi sono meno eclatanti. Ad esempio tutti pensano che la macchina a vapore sia un’invenzione del ‘700 per opera di Thomas Newcomen e migliorata da James Watt. E si sbagliano. Una macchina che funzionava grazie al vapore esisteva già all’epoca dei romani, la famosa eolipila di Erone di Alessandria, uno dei più grandi ingegneri di tutti i tempi. Una sfera veniva riempita d’acqua che riscaldata produceva il vapore che attraverso due tubi piegati ad angolo retto e diametralmente opposti metteva in moto la sfera libera di girare su un perno.
«Egli [P.M. Schul] ha notato che Erone descrive accuratamente non solo l’eolipila (una piccola macchina a vapore che produce il moto circolare di una sfera), ma anche una versione dell’hodometron da applicarsi alle navi per misurare le distanze percorse mediante una ruota a pale parzialmente sommersa in acqua. Come osserva Schuhl, sarebbe bastato che il meccanismo dell’eolipila di Erone fosse applicato a una o più pale come quello dell’odometro descritto dallo stesso Erone, perché la navigazione a vapore fosse inventata con molti secoli di anticipo»(1). Esistono molti studiosi che si chiedono come mai non ci sia stata la rivoluzione industriale ai tempi dell’impero romano, dato che già esistevano tutte le conoscenze tecniche perché ciò avvenisse ed hanno pensato di trovare la causa di questa mancata rivoluzione nel sistema sociale ed economico dell’epoca con un’economia basata sul lavoro degli schiavi. È emblematico, il titolo “La rivoluzione dimenticata”, che lo studioso Lucio Russo ha voluto dare al suo libro che si occupa della scienza in epoca classica.
Una cosa semplice come la rotondità della terra, i più pensano che sia stata una scoperta moderna e confermata dal viaggio di Cristoforo Colombo. Niente di più sbagliato. La rotondità della terra era stata già ipotizzata ai tempi dell’antica Grecia, da Pitagora nel VI secolo a.C., da Aristotele, Euclide e così via e, se si va ai Fori Imperiali a Roma e si raggiunge il Tempio di Vesta ci si troverà un cartello affisso che recita: «sembra che Numa Pompilio re dei romani abbia costruito il tempio di Vesta rotondo avendo creduto che della stessa forma fosse la terra, da cui dipende la vita degli uomini». Questo semplice esempio dimostra che i nostri antenati non erano così ingenui come li dipingiamo.
D’altro canto, lo stesso Colombo non ha affrontato il viaggio verso le Americhe così alla cieca come a volte si lascia intendere, seguendo una sua brillante intuizione. Sicuramente era conoscenza di queste antiche teorie e si è servito sì del suo intelletto, ma per verificarne la fondatezza e non per inventarsele. Il suo viaggio è stato accuratamente preparato e sicuramente si è documentato su antichi testi dei vari astronomi e geografi dell’antichità.
Rick Sanders, un ricercatore straniero, in un suo lavoro(2) dimostra, che già gli antichi egizi erano in grado di affrontare viaggi intorno al globo, grazie ad uno strumento in grado di calcolare la longitudine, simile al torquetum usato a fine ‘400. In particolare si occupa della spedizione di Rata e Maui, promossa dallo scienziato Erastotene, direttore della Biblioteca di Alessandria nel III secolo a.C., forse allo scopo di dimostrare la sua teoria sulla rotondità della Terra. Si Ricordi, inoltre, che ci sono stati vari studiosi che hanno riprodotto antiche imbarcazioni ed hanno attraversato gli oceani dimostrando la fattività di simili imprese nel passato.
Le stesse idee di Leonardo da Vinci sono state trascurate per cinque secoli, quando un loro attento studio avrebbe potuto aiutare ad arrivare prima a certi risultati. In una puntata di Stargate-Linea di confine, si è visto costruire uno scafandro basato sui disegni di Leonardo dimostrandone la fattività già nel cinquecento, mentre i primi scafandri sono stati costruiti solo nel secolo scorso!
Possiamo affermare che l’uomo ha difficoltà a conservare memoria delle sue scoperte.

domenica 29 giugno 2014

Uomo Ente Magico

Uomo Ente Magico

Uomo Ente Magico vuole offrire un percorso giornaliero di pratiche volte al risveglio interiore. Meditazione, visualizzazione, ritualistica, tattwa, preghiera, ricarica energica, ed autosservazione, sono tutti utili strumenti per rompere lo stato di sonnambulismo in cui si trova l'essere umano. L'uomo vive una vita a metà, dove la parte magica e sacra che è in ognuno di noi viene continuamente soffocata da una serie di meccanismi sociali e psicologici. Il nostro obiettivo è una reale ed integrale presa di coscienza interiore, in grado di poterci risvegliare e liberarci dal potere esercitato dalle eggregore di questo mondo.
 
Indice delle tecniche proposte: RESPIRAZIONE CONSAPEVOLE,MEDITAZIONE SUL RESPIRO, MEDITAZIONE IO SONO, AUTOSSERVAZIONE, CONTROLLO DEL PENSIERO, MEDITAZIONE E PENSIERO, LA VISUALIZZAZIONE, LA PENTALFA,L'ARTE DEL MANTRA, PAROLE DI POTERE, TATTWA, UN RITO GIORNALIERO


Per poterlo acquistare: http://www.lulu.com/shop/filippo-goti/uomo-ente-magico/paperback/product-21686091.html

domenica 1 giugno 2014

La città in pace con gli dèi

tratto da "Il Sole 24 Ore" del 03/11/2002



Dalla leggenda di Romolo e Remo in poi, la scelta della localizzazione e la disposizione delle strade sottendevano una ricerca di armonia tra uomini e divinità

di Carlo Carena

Racconta Plutarco nella Vita di Romolo che il primo re di Roma, dopo aver sepolto il fratello, "fondò la città, avendo fatto venire dall' Etruria uomini che gli spiegassero ogni cosa con alcune norme e testi sacri e che glieli insegnassero, come durante i misteri. Scavò una fossa di forma circolare per deporvi le primizie di tutto quanto era utile secondo consuetudine o necessario secondo natura. E infine ciascuno, portando un po' di terra dal paese da cui proveniva, la gettò dentro e la mescolò insieme. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, mundus".

Cosa vuol dire tutto questo, di cui noi non riusciamo a capire il significato e nemmeno il perché immersi in un ambiente urbano senza capo né coda, senza significato e identità, dove si dorme, si viaggia, si traffica, in cui si entra o da cui ci si allontana indifferentemente: per povertà concettuale, ci dice Joseph Rykwert in L' idea di città, per la perdita di ogni forma simbolica e di qualsiasi ancoraggio nello spazio e nel tempo. Il rito di Romolo è, con altri antichi, il punto di partenza del libro di questo architetto dell' università della Pennsylvania; libro non nuovo, anzi già famoso (apparve la prima volta in inglese nel ' 63, e Adelphi lo riprende ora assai bene - peccato manchi un indice dei nomi - dall' edizione Einaudi dell' 81); ma libro tuttora suggestivo e ancor più ammonitore.

La città romana ne resta al centro, sia per la documentazione scritta e archeologica che ne possediamo sia per la ricchezza delle sue implicazioni. Essa è anche nell' esperienza e nella fantasia di semplici turisti o curiosi di archeologia per quella sua forma a pianta squadrata e regolare, frutto di esperienze successive e spiegata razionalmente. Le cose, per Rykwert, stanno in realtà ben diversamente, sono molto più complesse, implicano ben altro, e quella non è una semplice soluzione tecnica di problemi utilitari, bensì il prodotto di una particolare visione del mondo e di un rapporto armonico fra le leggi divine e il vivere umano. La complessa struttura geometrica della città romana, la sua localizzazione e il suo orientamento non derivano, come spesso si sostiene ma Rykwert confuta, dalla forma dell' accampamento; né sono invenzione di Ippodamo di Mileto (e in ogni caso Ippodamo fu un urbanista curioso di cose celesti); bensì da tutto un sistema di usanze e di credenze, per cui quella struttura fu anche il veicolo della diffusione di un' intera cultura e di un certo modo di vivere. Né fu, sia per la sua forma sia per le procedure con cui fu costituita, la sola nel mondo antico. Forma e procedure fanno anch' esse parte di quella civiltà del sacro che è poi andata perduta, più totalmente che mai nel mondo odierno, dove non sopravvive non solo il luminoso ma nemmeno il religioso (la religione, si pensi un po' , è come dice Cicerone "ciò che porta il pensiero e il culto di una natura superiore, che chiamiamo divina").

Di qui l' importanza che avevano i riti di fondazione e la loro memoria. Non per nulla i Romani ne festeggiavano il natale in coincidenza con la primavera, contavano gli anni ab urbe condita. Non per nulla vi convocavano sacerdoti e indovini, adottavano cerimoniali che Rykwert dice con ogni probabilità etruschi, di quel popolo che portava i segni delle sue origini orientali e presso cui la divinazione, dagli uccelli o dai visceri delle vittime dei sacrifici, era espertissimamente coltivata. Per gli storici romani, che li descrissero minutamente anche se non in modo strettamente concorde, quei riti rappresentavano la chiave d' interpretazione della storia di questa come delle altre città, quali quelle che i coloni greci avevano fondato in tutto l' arco del Mediterraneo portandosi dietro zolle di terra dalla città natale e custodendone sacralmente, e anche politicamente la memoria.

La localizzazione e l' orientamento erano fissati con studi e cerimonie che coinvolgevano gli àuguri con i bastoni ricurvi non meno degli agrimensori con i loro strumenti essi pure di origine divina, che solo Aristofane osò deridere (negli Uccelli, versi 992-1020). Äuguri e agrimensori guardavano al cielo non meno che al terreno: perché la città doveva riprodurre sul terreno il cielo; conteneva anch' essa nel suo mundus, uno scavo negli abissi infernali nel punto in cui s' incrociavano le due vie ortogonali fra nord e sud e fra ovest ed est. Gli àuguri dividevano la loro zona di osservazione celeste, il "tempio" come veniva chiamato, in quadranti per mezzo delle linee del cardo e del decumanos; e così i fondatori di città li tracciavano, li ricuperavano per sempre sul terreno. Il "cardine" vi designava l' asse intorno a cui ruota il sole, e quindi l' asse dell' universo; mentre il "decumano" divideva l' universo, e la città, da oriente a ponente.

Fra questi simboli trascendenti e perenni viveva l' uomo romano e in genere l' uomo antico (Rykwert dà paralleli non solo nell' ovvia Mesopotamia ma in India, Africa e America in tempi anche più recenti; né erano concepite in modo e con contenuti ideali sostanzialmente diverse le città immaginate dai grandi rinascimentali, la Sforzinde di Filarete o le Vedute prospettiche di Francesco di Giorgio). Quegli uomini avevano sotto gli occhi e si muovevano dentro una pianta dell' universo, partecipavano a cerimonie che la ricordavano e ribadivano annualmente. Mai si sarebbero attentati di intaccarla, perché era una misura sacra, che comunicava sicurezza e valore anche a loro stessi. Quando invece Freud, come osserva il nostro autore in suadenti pagine, descrive alcune metropoli moderne, Londra o Parigi, mostra come la struttura del modello urbano si sia disintegrata. Anche le memorie che vi sono sparse tacciono ormai per gli abitanti, quando non sono addirittura un ingombro per i suoi traffici. Haussmann, lo sventratore di Parigi antica e il costruttore della moderna, pensava che l' agglomerato urbano dovesse servire solo alla produzione e al consumo, e che i vincoli municipali per i suoi abitanti siano solo l' essere, essa, un grande mercato, un immenso opificio e un' arena per le loro ambizioni. Tracciò anch' egli i suoi assi ed ebbe qualche idea di percorsi, d' incroci e di prospettive, ma nessuna percezione o preoccupazione simbolica. E questa è una condizione "patologica" per la città moderna e per i suoi abitanti, laddove un romano sapeva che camminando lungo il cardo procedeva parallelamente all' asse incrollabile del sole, e camminando lungo il decumanos ne seguiva il corso immutabile; ed era in pace con gli dèi, che non è poco.

Joseph Rykwert ci dà questi avvisi non meno che queste notizie e interpretazioni: le seconde usando Plutarco e Livio, Vitruvio, Plinio e Frontino, i primi affiancandosi a Fustel de Coulanges, a Guénon, a Dumézil, persino a Simone Weil. Spiegando la città antica, dove si cercava di proteggere le personalità umane con la tutela della divinità e di armonizzare il proprio agire col volere degli dèi, addita la scissione che invece l' urbanesimo moderno ha introdotto e le "esistenze parapsicotiche" che ne derivano. Richiami, e libro, oggi ancor più necessari, o vani.

Joseph Rykwert, "L' idea di città. L' antropologia della forma urbana nel mondo antico", a cura di Giuseppe Scattone, Adelphi, Milano 2002, pagg. XXVIII-306, 30,00.

domenica 18 maggio 2014

Il simbolismo apocalittico del film 300, versione aggiornata



di Vito Foschi
  

Il film 300 è stato tacciato di essere un film violento e “testosteronico”, qualunque cosa voglia dire questo termine; una subitanea interpretazione politica-sociologica lo ha trasformato nel conflitto fra oriente ed occidente, ma al di là degli aspetti più spettacolari, 300 nasconde un simbolismo molto chiaro e se vogliamo anche semplice. Diciamolo subito il film è stato caricato di una simbologia apocalittica piuttosto evidente e sia la battaglia delle Termopili che il fumetto di Miller sono solo un pretesto per parlare dell’eterna lotta del bene e del male, sempre presente. Chi ha visto il film e letto il fumetto si sarà reso conto che esistono solo piccole differenze fra i due tipi di narrazione, ma queste differenze non sembrano casuali. Il disegnatore Miller si è ispirato alla battaglia per farne un’opera di profondo impatto visivo, ma chi ha messo mano al film ci ha aggiunto alcuni particolari per trasformarlo in un’opera simbolica.

Nella scena iniziale lo spartano Delios narra di come il giovane Leonida ammazza un feroce lupo nero dalle dimensioni mostruose e subito dopo paragona il re Serse ad una belva feroce. Il lupo ha significati positivi, come nel caso della Lupa di Roma, ma anche negativi simboleggiando la ferocia e la violenza. Il lupo nero, in particolare, è simbolo del demonio e l’accostamento e il conseguente significato sono chiari.
Lo spartano definisce l’esercito di Serse un esercito di schiavi e ciò a grandi linee è storico, perché l’impero persiano era multinazionale e le varie nazioni gli tributavano truppe che chiaramente non avevano molto interesse ad immolarsi per un re straniero che aveva conquistato i loro territori.
Al di là della storicità della battuta è lapalissiana l’idea dello scontro fra l’esercito dei greci formato da uomini liberi e l’esercito di schiavi di Serse.

La figura di Serse non ha nulla di storico, la sua figura da transessuale con piercing è totalmente inventata, ma è proprio l’ambiguità a risultare interessante. Nel film e nel fumetto Serse si proclama Dio Re e anche questo è totalmente inventato. L’ambiguità è caratteristica dell’anticristo, ed uno dei titoli con cui si presenta è quello di re di questo mondo. Beninteso, re di questo mondo e non Re del Mondo. Essere il re di questo mondo significa essere signore del mondo materiale, mentre Re del Mondo ha il preciso significato di signore della creazione in tutti i suoi aspetti anche non materiali. Gesù è Re del Mondo, perché ne comprende tutti i suoi aspetti, mentre Satana può essere signore solo della materia ed infatti tenta Cristo con regni e ricchezze, non con doni che vanno oltre il dominio della materia. Serse tenta Leonida con l’offerta del governo dell’intera Grecia. Un altro particolare interessante del film è il carro d’oro su cui viaggia Serse decorato con arieti chiaro simbolo di Satana.

Punto centrale del film è il discorso incentrato sulla ragione: “La sola speranza che ha il mondo di giustizia e ragione” grida lo spartano Delios ai suoi compagni.
La scena in cui Efialte, lo spartano deforme, va da Serse a tradire costituisce la summa di tutto il film. Serse dice di sé che lui è buono, che può dare tutto, donne e potere ed è sufficiente piegarsi; al contrario Leonida che aveva chiesto allo storpio di alzare lo scudo, ovvero aveva chiesto di essere uomo. La proposta del re è quella tipica dell’Anticristo che si presenta come buono e accondiscendente e in cambio vuole l’anima. Da notare che la scena si apre con un caprone che suona uno strumento a fiato e anche ai più distratti l’iconografia non può non ricordare il famoso quadro di Francisco Goya, “Il grande caprone”  con il sabba delle streghe con al centro un caprone antropomorfizzato a simboleggiare il diavolo.

Il grande caprone di Francisco Goya (immagine presa da Wikipedia)
Fotogramma del film 300. E' evidente la somiglianza con il quadro del Goya
 
Il fanatismo degli spartani che si immolano è paragonabile a quello dei cristiani che si facevano
sbranare dai leoni. Anche la morte di Leonida ha qualcosa di cristiano. La scena finale vede il re spartano trafitto da frecce come S. Sebastiano e a braccia aperte come se fosse in croce. Probabilmente l’autore del film si è ispirato a qualche rappresentazione classica e potrebbe darsi trattarsi di un caso, ma una semplice coincidenza? Alla fine sembra che l’autore abbia considerato gli spartani alla stregua dei martiri cristiani. Ed in un certo qual modo la fede c’entra. I cristiani si immolavano per la fede in Cristo, gli spartani per la loro fede nella libertà e nella ragione. Sono interessanti i continui rimandi alla ragione, che poi è il lascito culturale dei greci a noi occidentali che i cristiani hanno pensato bene di includere nel loro sistema di pensiero. Efialte, il traditore invita Leonida ad essere ragionevole e a sottomettersi a Serse, cosa ovviamente ragionevole visto la sproporzione di forze. Ma è alla stessa ragione che si appella Leonida, ma ad una ragione sorretta dalla fede, una fede che porta a sperare che infine la ragione trionfi nella libertà e nella giustizia.
La fede nella libertà porta gli spartani a morire da uomini liberi che vivere da schiavi. Speranza e fede non ricordano qualcosa?

“.. hanno dato la vita, non solo per Sparta, ma per tutta la Grecia e per la speranza difesa da questa nazione [..]. Quest’oggi noi riscattiamo il mondo dal misticismo e dalla tirannia e lo accompagniamo in un futuro più radioso di quanto si possa immaginare”

domenica 27 aprile 2014

La casa infestata. Il Grande Mistero di Amherst

[ISBN 978-88-98776-00-9] Walter Hubbell, La casa infestata. Il Grande Mistero di
Amherst, Golem Libri, Roma 2013, pp. 104, € 12,00
(http://www.golemlibri.it/parapsicologia/la-casa-infestata/).


Amherst, Nuova Scozia, estate del 1878: degli strani fenomeni
iniziarono a verificarsi nel piccolo cottage in cui Daniel Teed, uomo onesto e rispettato da tutti, viveva insieme alla sua famiglia. Un'inquetante forza invisibile sembrava aver preso possesso della casa: oggetti grandi e piccoli venivano lanciati senza che nessuno li toccassse, misteriosi rumori risuonavano ad ogni ora del giorno e dellla notte, miniacciosi incendi si sviluppavano spontaneamente e gli stessi membri della famiglia, come nelle più sfrenate leggende della stregoneria medievale, venivano fatti oggetto di veri e propri assalti fisici...
Fenomeni talmente strani che, di lì a poco, in paese non si parlò d’altro. Cosa fu a suscitare lo stupore e la meraviglia degli abitanti di Amherst? Che cos’era il “Grande Mistero” su cui tutti si interrogavano? Per la prima volta in italiano lo storico resoconto, scritto da un testimone diretto e corredato da numerosi documenti di convalida, di uno dei più bizzarri casi di poltergeist mai apparsi nella letteratura parapsicologica.


[L'autore] Nato da una famiglia di avvocati della Pennsylvania, Walter Hubbell (1851-1932) fu un attore fin da giovane. Fu durante una trasferta teatrale nel 1879 che ebbe modo di far visita alla celebre “casa infestata” di Amherst, in Nuova Scozia, e di conoscere Esther Cox, la ragazza intorno alla quale si incentravano i misteriosi fenomeni. La passione per le tematiche
occulte lo accompagnò per tutta la vita. Pur critico verso i dogmi e le pratiche dello Spiritismo allora in voga, ne recepì i presupposti teorici elaborando una personale visione metafisica.









lunedì 31 marzo 2014

La mitica Agharta nel libro di Pruneti

tratto da L'Opinone del 13 marzo 2014

di Luca Bagatin

Chi è il Re del Mondo che tutto sa e governa? Esiste davvero la mitica Agharta o Agharti – regno sotterraneo incontaminato dove albergano perfezione, bellezza, pace e amore e dove, appunto, il Re del Mondo vive al riparo da occhi indiscreti? Pressoché tutte le culture, le tradizioni folkloristiche, le correnti gnostiche ed esoteriche ne parlano, anche se con nomi e forme differenti, per quanto solo eruditi studiosi ed esoteristi quali René Guénon, Alexandre Saint-Yves d’Alveydre e Ferdynand Ossendowski, hanno tentato di penetrarne e raccontarne il segreto.
Il professor Luigi Pruneti, docente, saggista, scrittore ed ex Gran Maestro della Massoneria della Gran Loggia d’Italia, nel suo ultimo ed agile saggio edito da “La Gaia Scienza” con prefazione del principe Tiberio Dobrinya, ovvero “Il mistero del Re del mondo e della mitica Agharta”, ci presenta l’ampia letteratura a disposizione relativa a tale figura. Pruneti esordisce con il mito della cosiddetta “Terra Cava”, ovvero l’idea – sviluppatasi in particolare nel corso dell’Ottocento in cenacoli teosofici, occultistici ed esoterici – che la Terra fosse cava e popolata da esseri viventi, talvolta esseri mitologici, talaltra draghi e/o rettili.
In particolare, Pruneti fa riferimento ad opere quali “La razza ventura”, bellissimo romanzo del barone Edward Bulwer-Lytton che racconta del popolo degli Ana, una razza superiore abitante il mondo sotterraneo; oppure alle celebri opere del romanziere d’avventura Jules Verne, quali “Viaggio al centro della terra” e “Le Indie nere”. Come ricorda il professor Pruneti, già alcuni anni fa fu edito dalle Edizioni Mediterranee un ottimo volume dal titolo “Jules Verne e l’Esoterismo”, nel quale l’autore, Michel Lamy, racconta e dimostra come le opere del celebre scrittore francese racchiudano profondi significati esoterici e facciano riferimento a credenze e studi tipici di noti cenacoli esoterici quali, fra gli altri, la Società Teosofica fondata da Madame Blavatsky e la Massoneria.
René Guénon, Saint-Yves d’Alveydre e Ferdynand Ossendowski, dicevamo, sono i maggiori studiosi del mito del Re del Mondo. Nelle loro opere - frutto di fonti orientali, afghane, indiane (d’Alveydre), mongole e tibetane (Ossendowski) - tali studiosi delineano la figura del Re del Mondo quale una sorta di governatore occulto del Mondo, guidato da Dio, abitante di Agharta, una terra somigliante a Lhasa, la dimora del Dalai Lama in Tibet. Terra di saggi e veggenti (Agharta) che volendo sarebbero in grado di curare tutti gli infermi del pianeta e resuscitare i defunti.
Molti uomini, nel corso della Storia, hanno ricercato Agharta e il Re del Mondo. In particolare in Tibet. Fra questi il barone Von Urgern-Sternberg, il quale lottò – ai tempi della guerra civile in Russia – contro l’armata rossa e tentò, invano, di raggiungere Lhasa, purtuttavia non riuscendovi in quanto fu fucilato dai russi prima di poterla raggiungere. Il professor Pruneti nel suo saggio ci fa notare come, di volta in volta, nel corso della storia e delle tradizioni, il Re del Mondo sia stato identificato come il Prete Gianni – sovrano e sacerdote d’Oriente (forse indiano o etiope) – oppure come un discendente dei Re Magi, oppure ancora come un alleato di Gengis Khan.
Il mito rimane e le fonti letterarie, storiche, esoteriche e religiose sono numerosissime e tutte citate dal professor Pruneti, sia nella documentata bibliografia che nelle ampie note a margine. Il mito rimane, dicevamo, al punto da aver influenzato anche la cinematografia e la musica. Il regista Frank Capra, nel 1937, girò “Orizzonte perduto”, tratto dall’omonimo romanzo di James Hilton, ovvero la storia dell’equipaggio di un aereo dirottato in una sperduta valle del Tibet in cui era celata la città di Shangri- La, i cui abitanti, estremamente longevi, vivevano – a differenza del mondo dei mortali – in una condizione di amore e felicità.
Nel 1973 il regista e scrittore Alejandro Jodorowsky girò “La montagna sacra”, film surrealista nel quale un ladro e nove ricchi, con l’aiuto di un alchimista, si mettono alla ricerca del cenacolo dei nove saggi della montagna, bramando il segreto dell’immortalità. Il musicista Franco Battiato, appassionato di esoterismo nonché amico dello stesso Jodorowsky, nel 1979 incise il disco “L’Era del cinghiale bianco”, nel quale è contenuta la canzone “Il Re del Mondo”, dove si incrociano critiche alla società dei consumi ed alla guerra e riferimenti alla tradizione sufi, ovvero la tradizione esoterica dell’Islam.
Evidenti riferimenti, ancora una volta, al mito in questione che, si dice, allorquando l’umanità precipiterà nelle barbarie e nelle violenze più turpi, riporterà Agharta in superficie ed instaurerà una nuova Età dell’Oro in cui la pace e le prosperità trionferanno sull’ignoranza degli uomini. Tutto ciò e molto altro ne “Il mistero del Re del Mondo e della mitica Agharta”. Ancora una volta Luigi Pruneti non delude, dunque, i suoi lettori più raffinati e curiosi.

domenica 30 marzo 2014

Napoli: misteriosi segni sulla pietra

tratto da "L'Opinone" del 13 marzo 2014


di Achille Della Ragione


 
Il primo a parlare di architettura esoterica, cercando di penetrare la testimonianza misteriosa lasciataci da quelle maestranze attive a Napoli, tra tardo Medioevo e primo Rinascimento, fu Mario Buonoconto nel suo prezioso volumetto sulla “Napoli esoterica”.
Già sotto i Normanni e poi durante i regni di Svevi, Angioini ed Aragonesi, giunsero in città, dal nord Europa prima e poi dalla Francia e dalla Spagna, artigiani organizzati in confraternite sul modello franco templare. Essi erano particolarmente abili nel sagomare il piperno, pietra molto dura, adoperata in genere per la pavimentazione stradale e per ricavare portali e soglie di balconi. Già in epoca tardo romana si erano costituite delle corporazioni di maestri pipernieri che tramandavano i “segreti dell’arte” solo a pochi fidati apprendisti. Nel Rinascimento erano chiamati “maste ‘e prete” e si immaginava che sapessero caricare la pietra di energia positiva. Quando si apprestavano alla costruzione di un edificio importante, oltre a porre nelle fondamenta alcune monete, come obolo per i morti, in ossequio a riti propiziatori in uso presso i Caldei ed i Greci, cercavano, sfruttando una sorta di rabdomanzia, d’identificare i punti di forza del luogo, scegliendo il più adatto per costruire.
Questa breve introduzione è necessaria per affrontare il discorso sui segni presenti sul bugnato della facciata della chiesa del Gesù Nuovo, precedentemente palazzo della nobile famiglia dei Sanseverino, edificato nel Quattrocento e, dopo sfortunate vicende della casata, ceduto all’Ordine del Gesuiti, che lo trasformarono nella splendida chiesa barocca, tra le più note della città. L’architetto Novello da San Lucano si servì di maestranze locali che crearono quella serie di piccole piramidi aggettanti verso l’esterno con il vertice puntato sull’osservatore. Queste facciate a bugnato, relativamente diffuse al nord, sono insolite nel meridione ed a Napoli ve ne son ben pochi esempi. Su quelle in esame sono presenti numerosi e strani segni incisi sulla superficie, un misterioso alfabeto con una sorta d’ideogrammi che si ripetono secondo un ritmo particolare, che fa supporre ad una chiave criptata di lettura, di recente oggetto di una suggestiva interpretazione da parte di uno studioso locale, Vincenzo De Pasquale, che ha ritenuto di identificarvi un pentagramma che si è materializzato in un concerto eseguito nella navata della stessa chiesa del Gesù Nuovo. La lettura fatta da De Pasquale parte dall’ipotesi, smentita da esperti della lingua, che i misteriosi segni non siano tracce lasciate dai cavatori per conteggiare il lavoro svolto, bensì lettere dell’aramaico, la lingua parlata da Gesù. Ad ogni segno corrisponde una nota e la facciata è un pentagramma sul quale l’architetto, Novello da San Lucano, ha scritto la sua opera musicale che, di traccia in traccia, per vie misteriose, sarebbe finita persino in un’opera di Johann Sebastian Bach.
Il concerto, re-intitolato “Enigma”, è stato suonato dall’organista ungherese LorentRez ma sarebbe stato scritto originariamente per strumenti a plettro. Il legame con l’Ungheria non è casuale. Novello da San Lucano andò a vivere nel Paese magiaro e lì morì, dopo aver progettato e costruito diversi edifici e aver lasciato sue tracce nella storia artistica e musicale. Alla ricerca di altri messaggi sulla pietra si è mosso da tempo un appassionato medico di professione, Lucio Paolo Raineri, che ha indagato sulle mura medioevali cittadine, costruite dagli Aragonesi, a partire dal 1484, servendosi di maestranze di Cava de’ Tirreni ed utilizzando piperno proveniente dalle cave di Soccavo. La folgorazione per il riflesso di uno specchio provocato da un’insolita luce estiva gli fece scorgere i frammenti di un misterioso discorso sulle pietre scure della Torre San Michele in via Cesare Rosaroll, una fra le meglio conservate. Ha continuato le sue indagini fotografando altri segni strani su mura e torri che da via Marina arrivano fino a via Foria. Ha così fatto molte altre scoperte, alcune già note agli studiosi della Napoli segreta. “Sono quasi tutti segni lapicidi, marchi di fabbrica dei cavatori, segni di posa, di allestimento”. Per lo più si tratta di lettere dell’alfabeto, numeri o simboli astrologici ed anche una croce uncinata, segno di antica tradizione indiana (molto simili a quelli trovati anche sul bugnato della facciata del Gesù Nuovo). In altri casi, sono segni che richiamano l’alchimia o la massoneria perché le logge segrete originariamente erano composte da fratelli muratori. I segni su Torre San Michele sono stati soltanto il punto di partenza. Armato di taccuino e macchina fotografica, il medico-Indiana Jones s’è fatto tutto il percorso aragonese. “Naso all’aria – racconta – confrontandomi con le supposizioni di chi mi vedeva in giro, cominciai a rivisitare i massi di piperno di altre torri, con i soli limiti di penetrazione del mio sguardo e della loro dislocazione e accessibilità”, perché gran parte della fortificazione è ormai all’interno di palazzi privati o è stata abbattuta o è stata sommersa da superfetazioni architettoniche. L’anamnesi di Raineri è stata scrupolosa e ha partorito una relazione documentatissima nella quale si legge il resoconto delle sue esplorazioni nella metropoli dei segni che avrebbe fatto la felicità di un Roland Barthes in cerca del grado zero della testimonianza operaia.
“Niente scorsi sui massi della piccola Torre Duchesca a vico Santa Maria a Formiello – scrive – né sulla vicina Torre Sant’Anna. Porta Capuana ed il tratto di mura tra Torre Onore e Torre Gloria fu ricchissimo di reperti, visibili ad occhio nudo e ad altezza d’uomo. La stessa scarsezza di risultati l’ebbi per porta Nolana, anche se la grafia di quello che può sembrare un’intera parola sconosciuta, alla base della Torre Fede, mi ha lasciato sconcertato”.
Oltre che sulle torri aragonesi, i segni lapicidi sono presenti in Campania sull’abbazia di San Guglielmo al Goleto e sulla cattedrale di Sant’Antonino a Sant’Angelo dei Lombardi e sull’abbazia di Santa Maria di Realvalle a Scafati. Ma in una metropoli perennemente affollata e costruita su se stessa, ogni angolo racchiude un segreto, un messaggio, una pietra parlante. “L’importante è cominciare a capirne la lingua”, commenta Raineri, che, molto probabilmente, è solo quella del lavoro. Al fianco di scritte pseudocriptiche, ve ne sono altre, perfettamente leggibili, ma delle quali ci sfugge il significato, come quella che s’incontra nel porticato del chiostro dell’ex dimora dei Caracciolo, i cui locali sono stati utilizzati negli ultimi anni dai giudici di pace per i loro uffici. Cogliamo l’occasione per descrivere il mastodontico edificio che ospita la scritta, posto sull’ultimo tratto di via Tribunali, l’unico in stile tardo gotico ed unico che ricorda l’architettura catalana. L’edificio era stato disegnato dal grande architetto dell’arca funebre di re Ladislao a San Giovanni a Carbonara, Andrea Ciccione, e ne sopravvissero, come si vede, l’arco d’ingresso, il pianterreno del primo chiostro e la porta della sala di ricevimento, in origine sacello gentilizio di Sergianni e fino al diciottesimo secolo ricchissima cappella, detta “il tesoro”, dove si nominavano i nuovi magistrati del vicino tribunale. Oggi, ad abitare il complesso, è il Comune di Napoli con i suoi uffici, sezione San Lorenzo, quartiere Forcella. Al primo piano i corridoi con gli infissi in legno e le vetrate mostrano ancora il disegno ospedaliero. Qui erano ricoverate persone fino a pochi decenni fa: gli ultimi anziani pazienti ne sono usciti nel 1970.
Il Lazzaretto, sala maestosa, sgombra dai letti o dai pagliericci che si dovevano usare per appestati, malati di tifo e altri pazienti colpiti da epidemia, è un trionfo di luce. Una separazione architettonica con timpano distingue la corsia dalla sala chirurgica o gabinetto medico. Oggi, al posto dei tavoli anatomici, c’è una piccola sala conferenze su cui troneggia una lapide dedicata a Mariano Semmola. Tutta la sala del Lazzaretto è circondata a mezza altezza da una lunga balconata da cui passare cibo e rimedi ai malati con cui non si poteva entrare in contatto. Qui si curavano, tolte le epidemie, le diffusissime malattie veneree e della pelle (nel 1888 vi fu istituito un reparto dermoceltico). Pochi anni fa in questa sala, infinitamente lunga ed infinitamente alta, sessanta metri, per dieci, per sei, è stata girata una fiction dedicata al medico santo Giuseppe Moscati, interpretato da Beppe Fiorello.
Due anni fa, con la venuta a Napoli, in occasione del Napoli Teatro Festival, del grande regista spagnolo Enrique Vargas, il Lazzaretto diventò spazio teatrale, oscurato ed irriconoscibile, un lungo ventre di balena dove si avveravano visioni felliniane, gomitoli di cotone e ragnatele, morti e voci del passato e feste mobili che avvolgevano lo spettatore in un’esperienza irripetibile: un bell’esorcismo per un luogo del potere diventato luogo di sofferenza e, infine, luogo d’arte. Il bellissimo palazzo, che era stato simbolo del potere di Sergianni Caracciolo su Napoli e sulla regina Giovanna II, sede di feste e intrighi, manifesto della potenza degli uomini nuovi sulle antiche dinastie, acquistato dai frati Ospedalieri nel 1587, si trasformò in ospedale, per necessità. Giaceva in abbandono da un secolo, infiltrato da case private, tanto che le liti fra vicini produssero un morto, come testimonia la lapide minacciosa, ancora oggi presente, voluta da un diffamato, in un lato del cortile: “Dio m’arrassa da invidia canina da mali vicini, et da bugia d’homo dabbene”. Questa frase si presta a varie interpretazioni: potrebbe essere una preghiera o una delle tante invocazioni scaturite dalla filosofia dei napoletani. Viene anche citata dal Chiarini e una leggenda vuole che se i frati dell’ospedale avessero tolto la targa, il possesso della donazione sarebbe passato all’ospedale degli Incurabili.