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mercoledì 23 settembre 2020

In Egitto ritrovato il “Libro delle due Vie”, il testo illustrato più antico al mondo. Eccezionale scoperta firmata da Harco Willems, professore all’Università di Lovanio in Belgio.

tratto da Il Giornale: http://blog.ilgiornale.it/franza/2020/02/02/in-egitto-ritrovato-il-libro-delle-due-vie-il-testo-illustrato-piu-antico-al-mondo-eccezionale-scoperta-firmata-da-harco-willems-professore-alluniversita-di-lovanio-in-b/

di Carlo Franza

Grandiosa scoperta in Egitto, ma certamente pare essere un  evento di stampo mondiale. E’ stata ritrovata l’edizione più datata del testo illustrato più antico del mondo; si tratta del Libro delle due Vie , una sorta di guida avventurosa per il regno dei morti. In Egitto è stata scoperta la copia più antica di quello che viene considerato il primo testo illlibro-due-vie-egittoustrato al mondo: un’edizione del Libro delle due vie risalente a 4mila anni fa. L’eccezionale  scoperta è stata pubblicata per la prima volta nel Journal of Egyptian Archaeology, già  nel settembre 2019, in un articolo a firma di Harco Willems, un collega egittologo di chiara fama,  professore all’Università di Lovanio in Belgio e tra i maggiori esperti dei Testi dei Sarcofagi. Tutto parte dalla data del marzo/aprile del 2012,  quando vicino alla città egiziana di Minya,  il Progetto Dayr al-Barsha, dell’università belga KU Leuven, ha scavato nel sito del complesso funerario di Medio Regno del nomarca Ahanakht I. La tomba di Ahanakht I è piuttosto conosciuta, dal momento che è stata esplorata tra il 1891 ed il 1891 e completamente scavata dall‘archeologo americano George Andrew Reisner nel 1915, sostenuto dalla Harvard University e dal Museum of Fine Arts di Boston. Il sito conserva la necropoli principale dei governatori della regione durante il Medio Regno, all’incirca dal 2055 al 1650 a.C., e vanta molte tombe riccamente decorate. Gli scavi dell’università belga hanno portato alla luce i resti di un sarcofago del Medio Regno, di una donna di nome Ankh, sulle cui pareti sono riportati i versi della prima versione de Il Libro delle due vie, una sorta di mappa mistica, mappa per l’aldilà egiziano. Il libro anticipa il corpus di testi funebri raccolto nel famoso Libro dei Morti,  una vera e propria guida, esemplarissima,  per il caro estinto, in quanto  descriveva i due percorsi irti di ostacoli, uno via terra e l’altro via acqua, che l’anima poteva intraprendere per approdare al cospetto di Osiride, sovrano e giudice supremo del regno dei morti. Secondo Rita Lucarelli, docente di Egittologia all’Università della California-Berkeley, gli antichi egizi erano ossessionati dalla vita in tutte le sue forme e la morte era una nuova vita. I due viaggi rappresentati nel Libro delle due vie, uno via terra e l’altro via acqua, erano una sorta di odissea purgatoria, straordinariamente ardua e così piena di pericoli che avevano bisogno di guide mortuarie come questo libro per accompagnare l’anima e garantire il suo passaggio sicuro.


libro-due-vie-egitto-2-1068x671Risulta chiaro che questo non è il solito libro da sfogliare, anche perché questi testi antichi erano incisi sulle pareti di legno dei sarcofagi, in quanto servivano proprio ad  essere letti dai defunti nel corso del pericoloso viaggio negli inferi, durante i quali potevano essere assaliti da ogni sorta di demoni,  fiamme ardenti e custodi  strani. Quasi una sorta di Divina Commedia dantesca ante litteram, tra il racconto e  vere e proprie formule magiche. Sebbene nelle iscrizioni si faccia riferimento a un governatore di nome Djehutynakht, la ricerca di Willems ha rivelato che la bara originariamente conteneva i resti di una donna di nome Ankh, indicata in tutto il testo come “lui” e imparentata con un alto funzionario della provincia. Anche in questo caso, nulla di strano, visto che spesso le defunte venivano chiamate con pronomi maschili, per assomigliare di più a Osiride.


Dal 2001, Willems ha supervisionato gli scavi nella necropoli copta di Dayr al-Barshā, utilizzata come cimitero durante il periodo del Regno Medio, dal 2055 al 1650 a.C. circa. Gli antichissimi frammenti del sarcofago sono stati ritrovati all’interno di un lungo un pozzo, nella tomba di un antico governatore provinciale egiziano di nome Ahanakhtin già nel 2012. Ma il fragile stato dei manufatti, saccheggiati ripetutamente nel corso dei millenni e attaccati da funghi degradatori del legno, ha impedito agli studiosi di effettuare ricerche e verifiche, almeno fino a ora. Le immagini ritrovate su due pannelli di cedro, infatti, sono state elaborate con  DStretch, un potente software in grado di restituire immagini ad alta definizione, hanno rivelato incisioni preziose con figure e geroglifici, nonostante i segni siano per lo  più sbiaditi a occhio nudo. Nel 2012, dunque, il team di archeologi ha riaperto una tomba abbandonata da tempo e il pozzo su cui Willems ha investigato era uno dei cinque nel complesso tombale del monarca Ahanakht I. Alcuni metri più in basso, i ricercatori hanno scoperto i resti di un sarcofago trascurato dalle precedenti campagne di scavo il cui contenuto, però, era stato saccheggiato e distrutto da funghi degradatori del legno. Solo due pannelli di cedro in decomposizione hanno rivelato incisioni preziose con immagini e geroglifici.


Sulla base di iscrizioni su altri manufatti tombali che fanno riferimento al faraone Mentuhotep II, che regnò fino al 2010 a.C., Willems ritiene che questo Libro delle due vie recentemente identificato sia più antico di almeno quattro decenni delle altre versioni precedentemente conosciute del testo e già ritrovate in Egitto.



sabato 28 luglio 2018

Grandi scoperte e grandi bufale. I segreti dell'archeologia 2.0

Eric H. Cline in "Tre pietre fanno un muro" racconta successi e clamorosi errori: da Heinrich Schliemann ai giorni nostri

tratto da "Il Giornale" del 09/02/2018

di Matteo Sacchi

Una pietra è una pietra, due pietre sono un indizio, tre pietre fanno un muro. E un muro è quanto basta per far litigare a morte gli archeologi.

Perché capire davvero che cosa sia un reperto è tutt'altro che facile. Per rendersene conto, niente di meglio che leggere il saggio di Eric H. Cline che nel titolo riprende proprio questo detto che va di moda tra gli «scavatori» professionisti: Tre pietre fanno un muro. La storia dell'archeologia (Bollati Boringhieri, pagg. 478, euro 26).

Cline, che dirige il Capitol Archaeological Institute della George Washington University, non è soltanto uno degli archeologi più quotati al mondo - è forse il più grande esperto della storia della Palestina antica -, è anche un divulgatore dalla penna agile e divertente. Così, in questo volume mette alla portata del grande pubblico molti degli sviluppi più innovativi dell'archeologia. E fa capire, anche a chi non è del mestiere, quanto sia complicato questo tipo di ricerca che spesso, però, finisce gettato in pasto a noi tutti a colpi di titoloni di giornali, cosa che di sicuro non aiuta la comprensione vera.

sabato 16 giugno 2018

Iraq, team di archeologi italiani scopre porto del III millennio a.C.

giornale del tratto da Il Giornale del 18/03/2018

di Luca Romano

La sensazionale scoperta del team di italo-iracheno getta una nuova luce sulla civiltà mesopotamica. Il porto di Abu Tbeirah scrive un nuovo capitolo della storia dei Sumeri. I risultati sarano presentati il 21 marzo


Una scoperta importante quella realizzata dal team degli archeologi italiani ad Abu Tbeirah hanno scoperto un porto risalente al terzo millennio prima di Cristo.


Secondo gli esperti, la scoperta rappresenta un capitolo importante per la storia della Mesopotamia e della sua civiltà. Il rinvenimento del porto, infatti, scalfisce l'immagine di una civiltà mesopotamica fatta di deserti, campi di cereali e canali. C'era qualcosa di più, e l porto lo dimostra.

Il team, diretto da Licia Romano e Franco D'Agostino, presenterà i risultati della scoperta il 21 marzo, a Roma. Come riporta il sito de La Repubblica, "Il porto situato nella parte nord ovest del Tell di Abu Tbeirah è un bacino artificiale, una zona più depressa, circondata da un massiccio terrapieno con un nucleo di mattoni d'argilla, con due accessi che lo mettevano in comunicazione con la città e che sono chiaramente visibili anche dalle immagini satellitari di Google. Si tratta del porto più antico sinora scavato in Iraq, visto che le uniche testimonianze di strutture portuali indagate archeologicamente provengono da Ur, ma sono di duemila anni più tarde".

sabato 19 ottobre 2013

Archeologia, la città della Sibilla svela i resti della prima cucina greca d'Italia

tratto da Il Giornale del 10 ottobre 2013

A Cuma, la più antica colonia ellenica del Mediterraneo occidentale, rinvenuti alcuni focolari in ceramica dell'ottavo secolo avanti Cristo. La scoperta si deve a uno scavo realizzato dal cantiere scuola dell'Università Orientale di Napoli nel quale opera un centinaio di studenti italiani e stranieri

di  Vincenzo Pricolo

Sotto l'insediamento romano di Cuma sono emersi i resti di quella che fu la prima colonia greca d'Occidente, fondata quasi tremila anni fa. Tra i resti più rilevanti, scoperti grazie al lavoro di un gruppo di archeologi dell'Università Orientale di Napoli guidati da Matteo D'Acunto, un ambiente adoperato come cucina che conserva una sequenza di focolari, succedutisi nel corso del tempo. Il più antico dei quali presenta un piano refrattario realizzato con frammenti ceramici in stile geometrico dell'ultimo quarto dell'VIII secolo avanti Cristo. «Sotto una stratificazione di centinaia di anni di storia, ad appena tre metri e mezzo di profondità, al di sotto delle case romane - spiega D'Acunto in una nota - si conservano intatte le abitazioni di quel gruppo di greci che, avventurandosi in Italia meridionale alla metà dell'VIII secolo avanti Cristo, ha segnato la storia dell'Occidente, tra l'altro trasmettendo ai Latini l'alfabeto che sarebbe divenuto di gran lunga il più adoperato di tutto il continente. Proprio in questi giorni stiamo scavando un'abitazione risalente alla seconda metà dell'VIII-VII secolo avanti Cristo, con i focolari ben conservati e i vasi domestici un tempo adoperati per cucinare, mangiare e bere».
Sotto l'egida della Soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei, lo scavo dell'Orientale si svolge nell'area del Parco archeologico di Cuma, nella città bassa, più in particolare, nel settore compreso tra il Foro e le mura settentrionali della città antica, settore interessato da una continuità abitativa nel tempo, dalla fondazione della colonia greca fino all'abbandono della città romana, avvenuto agli inizi del VI secolo dopo Cristo.
Secondo la leggenda, i fondatori di Cuma furono gli Eubei di Calcide, che sotto la guida di Ippocle di Cuma (è incerto se si trattasse di Cuma Euboica o di Cuma Eolica ma probabilmente si tratta della prima) e Megastene di Calcide, scelsero di approdare in quel punto della costa perché attratti dal volo di una colomba o secondo altri da un fragore di cembali.
Tali fondatori trovarono un terreno particolarmente fertile ai margini della pianura campana. Pur continuando le loro tradizioni marinare e commerciali, i coloni di Cuma rafforzarono il loro potere politico ed economico sull'agricoltura. Oltre che sul grande prestigio di cui godeva la Sibilla, la sacerdotessa veggente che lungo i secoli fu impersonata dalle vergini consacrate ad Apollo che svolgevano i loro culti presso il vicino Lago d'Averno.
Col passare del tempo, Cuma stabilì il suo predominio su quasi tutto il litorale campano fino a Punta Campanella, raggiungendo il massimo della sua potenza nel 524 avanti Cristo, quando gli Etruschi di Capua formarono una lega con altre popolazioni per conquistarla ma furono sconfitti grazie all'abilità strategica del tiranno Aristodemo detto Màlaco.
Lo scavo dell'Orientale sta mettendo in luce un vero e proprio palinsesto di tutta la storia della città antica, in particolare della sua quotidianità: un quartiere centrale della città con le sue strade e le abitazioni che restituiscono gli utensili e il vasellame domestico. Si tratta di uno spaccato delle trasformazioni nel modo di vivere e nella cultura materiale dalla città greca a quella romana. Lo scavo si svolge come cantiere-scuola che prevede la partecipazione di oltre 100 studenti dell'Orientale e di altre università italiane e straniere. «Stiamo lavorando - sottolinea D'Acunto - con il pieno coinvolgimento di una ventina di collaboratori, tra assegnisti, specialisti, laureati e laureandi al monumentale progetto di pubblicazione scientifica del complesso che, per primo nella storia della ricerca a Cuma, offrirà un panorama diacronico di tutta la sua vita».
 

mercoledì 29 agosto 2012

L'archeologia dei simboli della comunicazione umana

tratto da Corriere dell'arte del 7 maggio 2010

di EMILIANO PALADINI

La longevità della forza di un simbolo si misura con lo spesso re delle proprie radici culturali; e se il celebre ippopotamo dello Studio Testa incanta ancora oggi è perchè è stato fatto per durare nel tempo, avendo ancorato il contenuto della sua rappresentazione e il motivo della sua esistenza (testimoniai di una linea di prodotti per bambini) all' immagine della dea mitico-egiziana Taueret, protettrice delle partorienti e dei oro nascituri, raffigurata per il tramite del lapislazzulo e lei suo caratteristico colore azzurro sotto forma di ippopotamo. Ma è questo chiaramente uno solo degli esempi che si possono fare della corrispondenza tra le immagine dell'arte contemporanea e l'archeologia dei simboli grafici, e uno dei tanti se gli esempi li prendiamo dalla stola dell' Antico Egitto, e proabilmente non l'unico se dialoghiamo con Pietro Gallina. Di fatto a Pisa, Palazzo Blu, fino al 25 luglio si svolge la mostra dal titolo: Lungo il Nilo che documenta la nascita dell' egittologia e di conseguenza dello studio delle origini della comunicazione nana oltre la dicotomica affermazione: «tra oralità e scrittura», presentando in un percorso a tappe che ricalca idealmente il tragitto della spedizione di Ippolito Rosellini, le aspettative, le azioni, i ritrovamenti e le conclusioni di un viaggio alla scoperta dell' evoluzione dei simboli grafici primordiali voluto da Leopoldo II Granduca di Toscana e da Carlo X Re di Francia, e realizzato nei sedici mesi intercorsi tra il 1828 e il 1829 dal Professore di Lingue Orientali dell'Università di Pisa (Ippolito Rosellini) in coppia con lo studioso francese che nel 1822 decifrò la stele di Rosetta (Jean-Francoise Champollion). L'esposizione, quindi, curata da Marilina Bertò, egittologa dell'Università di Pisa, mostra i documenti originali, dipinti e manoscritti, che contribuiscono alla creazione di un vero e proprio registro di viaggio della Spedizione; laddove ciascuno di questi documenti è di volta in volta, o la copia grafica dei simboli visitati nei siti archeologici, o la trascrizione letterale dell' emozione della loro scoperta; e in tutti i casi si tratta dei primi documenti del viaggio dell'uomo all'origine delle sue parole.