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domenica 11 dicembre 2016

Silenzio e solitudine

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/silenzio-e-solitudine/

di René Guénon

Presso gli Indiani dell’America del Nord, e in tutte le tribù senza eccezione, esiste, oltre ai riti di diverso genere che hanno un carattere collettivo, la pratica di un’adorazione solitaria e silenziosa, che è considerata come la più profonda e dell’ordine più elevato[1]. I riti collettivi, infatti, a un grado o a un altro, hanno sempre qualcosa di relativamente esteriore; diciamo a un grado o a un altro, poiché, al riguardo, occorre naturalmente fare, lì come in ogni altra tradi­zione, una differenza tra i riti che potrebbero essere qualificati come exoterici, vale a dire quelli ai quali tutti partecipano indistintamente, e i riti iniziatici. È d’altronde beninteso che, lungi dall’escludere tali riti o d’opporvisi in qualunque modo, l’adorazione di cui si tratta vi si sovrappone solamente come un qualcosa in certo qual modo di un altro ordine; ed è anche il caso di pensare che per essere veramente efficace e produrre dei risultati effettivi, essa deve presupporre l’iniziazione come una condizione necessaria[2].

In merito a quest’adorazione, si è talvolta parlato di “preghiera”, ma ciò è evidentemente inesatto, giacché non v’è in essa alcuna domanda, di qualsivoglia natura; le preghiere, formulate generalmente in canti rituali, non possono d’altronde rivolgersi che alle diverse manifestazioni divine[3], e vedremo che qui in realtà si tratta di tutt’altra cosa. Sarebbe certamente molto più giu­sto parlare d’“incantazione”, prendendo questa parola nel senso che abbiamo definito altrove[4]; si potrebbe pure dire che è un’“invocazione”, intendendola in un senso esattamente paragonabi­le a quello del dhikr nella tradizione islamica, ma precisando che è essenzialmente un’invoca­zione silenziosa e tutta interiore[5]. Ecco quanto scrive sull’argomento Ch. Eastman[6]: «L’adora­zione del Grande Mistero era silenziosa, solitaria, senza complicazione interiore; era silenziosa perché ogni discorso è necessariamente debole e imperfetto, perciò le anime dei nostri antenati raggiungevano Dio in un’adorazione senza parole; era solitaria perché essi pensavano che Dio è più vicino a noi nella solitudine, e non c’erano affatto preti a fungere da intermediari tra l’uomo e il Creatore»[7]. Difatti, non possono esservi intermediari in un caso simile, poiché quest’adora­zione tende a stabilire una comunicazione diretta con il Principio supremo, che è designato qui come il “Grande Mistero”.

Non solamente è unicamente nel e con il silenzio che tale comunicazione può essere otte­nuta, poiché il “Grande Mistero” è al di là d’ogni forma e d’ogni espressione, ma il silenzio stesso «è il Grande Mistero»; come bisogna intendere esattamente tale affermazione? In primo luogo, si può ricordare a tale proposito che il vero “mistero” è essenzialmente ed esclusivamente l’inesprimibile, che può evidentemente essere rappresentato solo dal silenzio[8]; ma, per di più, essendo il “Grande Mistero” il non-manifestato, il silenzio stesso, che è propriamente uno stato di non-manifestazione, è con ciò come una partecipazione o una conformità alla natura del Principio supremo. D’altra parte, il silenzio, riferito al Principio, è, si potrebbe dire, il Verbo non proferito; per questo «il silenzio sacro è la voce del Grande Spirito», in quanto questo è identificato al Principio stesso[9]; e questa voce, che corrisponde alla modalità principiale del suono che la tradizione indù designa come parâ o non-manifestata[10], è la risposta all’appello dell’essere in adorazione: appello e risposta egualmente silenziose, essendo entrambe un’aspira­zione e un’illuminazione puramente interiori.

Perché sia così, occorre d’altronde che il silenzio sia in realtà qualcosa di più della semplice assenza di parole o discorsi, fossero pure formulati solamente in modo mentale; e, difatti, questo silenzio è essenzialmente, per gli Indiani, «l’equilibrio perfetto delle tre parti dell’essere», cioè di quanto, nella terminologia occidentale, si può designare come lo spirito, l’anima e il corpo, giacché l’essere intero, in tutti gli elementi che lo costituiscono, deve partecipare all’adorazione affinché un risultato pienamente valevole possa esserne ottenuto. La necessità di tale condizione d’equilibrio è facile da comprendere, giacché l’equilibrio è, nella stessa manifestazione, come l’immagine o il riflesso dell’indistinzione principiale del non-manifestato, indistinzione che è ben rappresentata anche dal silenzio, cosicché non ci si deve stupire in nessun modo dell’assi­milazione che così si stabilisce tra quest’ultimo e l’equilibrio[11].

Quanto alla solitudine, conviene notare innanzitutto che la sua associazione con il silenzio è in certo qual modo normale e anzi necessaria, e che, anche in presenza di altri esseri, colui che fa in sé il perfetto silenzio s’isola forzatamente da loro con ciò stesso; del resto, silenzio e solitudine sono anche implicati entrambi in ugual misura nel significato del termine sanscrito mauna, che, nella tradizione indù, è con ogni probabilità quello che s’applica il più esattamente a uno stato come quello di cui parliamo presentemente[12]. La molteplicità, essendo inerente alla manifestazione, e accentuandosi, se si può dire, quanto più si discende ai gradi più inferiori di questa, allontana dunque necessariamente dal non-manifestato; perciò l’essere che vuole met­tersi in comunicazione con il Principio deve anzitutto fare l’unità in se stesso, nella misura del possibile, mediante l’armonizzazione e l’equilibrio di tutti i suoi elementi, e deve anche, nello stesso tempo, isolarsi da ogni molteplicità a lui esteriore. L’unificazione così realizzata, anche se ancora solo relativa nella maggioranza dei casi, costituisce nondimeno, secondo la misura delle attuali possibilità dell’essere, una certa conformità alla “non-dualità” del Principio; e, al limite superiore, l’isolamento assume il senso del termine sanscrito kaivalya, che, esprimendo nello stesso tempo le idee di perfezione e di totalità, arriva, quando ha tutta la pienezza del suo significato, a designare lo stato assoluto e incondizionato, quello dell’essere che è pervenuto alla Liberazione finale.

A un grado molto meno elevato di quello, e che appartiene anzi ancora solo alle fasi prelimi­nari della realizzazione, si può far osservare questo: là ove v’è necessariamente dispersione, la solitudine, in quanto s’oppone alla molteplicità e coincide con una certa unità, è essenzialmente concentrazione; e si sa quale importanza è data effettivamente alla concentrazione, da tutte le dottrine tradizionali senza eccezione, in quanto mezzo e condizione indispensabile d’ogni rea­lizzazione. Ci sembra poco utile insistere oltre su quest’ultimo punto, ma v’è un’altra conse­guenza sulla quale teniamo ancora a richiamare più particolarmente l’attenzione terminando: è che il metodo di cui si tratta, con ciò stesso che s’oppone a ogni dispersione delle potenze del­l’essere, esclude lo sviluppo separato e più o meno disordinato di taluni o talaltri suoi elementi, e segnatamente quello degli elementi psichici coltivati in certo qual modo per se stessi, sviluppo che è sempre contrario all’armonia e all’equilibro dell’insieme. Secondo Paul Coze, per gli Indiani «sembra che, per sviluppare l’orenda[13], intermediario tra il materiale e lo spirituale, oc­corra anzitutto dominare la materia e tendere al divino»; questo insomma equivale a dire che essi considerano come legittimo accostare il dominio psichico solo “dall’alto”, essendo i risultati di quest’ordine ottenuti soltanto in modo del tutto accessorio e come “in sovrappiù”, il che è infatti il solo mezzo per evitarne i pericoli; e, aggiungeremo, ciò è certamente quanto di più lontano dalla volgare “magia” che troppo sovente è stata loro attribuita, e che è persino tutto quel che hanno creduto vedere presso di loro degli osservatori profani e superficiali, con ogni probabilità perché essi stessi non avevano la minima nozione di quel che può essere la vera spiritualità.

René Guénon

[1] Le informazioni che utilizziamo qui sono tratte principalmente dall’opera del sig. Paul Coze, L’Oiseau Tonnerre, da cui traiamo pure le nostre citazioni. Quest’autore dimostra una notevole simpatia nei riguardi degli Indiani e della loro tradizione; la sola riserva che andrebbe fatta, è che egli pare alquanto influenzato dalle concezioni “metapsichiche”, il che ha palesemente impatto su alcune sue interpretazioni e segna­tamente comporta talvolta una certa confusione tra lo psichico e lo spirituale; ma tale considerazione non deve d’altronde intervenire nella questione di cui ci occupiamo qui.

[2] Va da sé che, qui come sempre, intendiamo l’iniziazione esclusivamente nel suo vero senso, e non in quello in cui gli etnologi impiegano abusivamente questa parola per designare i riti d’aggregazione alla tribù; bisognerebbe avere molta cura di distinguere nettamente queste due cose, che in realtà esistono entrambe presso gli Indiani.

[3] Nella tradizione degli Indiani, queste manifestazioni divine sembrano essere il più abitualmente ri­partite secondo una divisione quaternaria, conformemente a un simbolismo cosmologico che s’applica contemporaneamente ai due punti di vista macrocosmico e microcosmico.

[4] Vedere Aperçus sur l’initiation, cap. XXIV.

[5] A questo proposito è interessante notare che certe turuq islamiche, segnatamente quella dei Naqsha­bendiyah, praticano anche un dhikr silenzioso.

[6] Ch. Eastman, citato dal sig. Paul Coze, è un Sioux d’origine, che pare, malgrado un’educazione “bianca”, aver ben conservato la coscienza della propria tradizione; abbiamo d’altronde delle ragioni per pensare che il suo caso sia in realtà lungi dall’essere così eccezionale come si sarebbe tentati di credere quando ci si arresti a certe apparenze tutte esteriori.

[7] L’ultima parola, il cui impiego qui è con ogni probabilità dovuto unicamente alle abitudini del lin­guaggio europeo, non è certamente esatto se si vuole andare al fondo delle cose, giacché, in realtà, il “Dio creatore” non può propriamente trovare posto che tra gli aspetti manifestati del Divino.

[8] Vedere Aperçus sur l’initiation, cap. XVII.

[9] Facciamo questa restrizione poiché, in certi casi, l’espressione “Grande Spirito”, o quel che così si traduce, appare anche solamente come la particolare designazione di una delle manifestazioni divine.

[10] Cf. Aperçus sur l’initiation, cap XLVII.

[11] È appena il caso di ricordare che l’indistinzione principiale di cui qui si tratta non ha niente in comune con ciò che si può anche designare con la stessa parola presa in un senso inferiore, vogliamo dire la pura potenzialità indifferenziata della materia prima.

[12] Cf. L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, 3a edizione, cap. XXIII.

[13] Questa parola orenda appartiene propriamente alla lingua degli Irochesi, ma, nelle opere europee, s’è presa l’abitudine, per maggiore semplicità, d’impiegarla uniformemente al posto di tutti gli altri termini con lo stesso significato che s’incontrano presso i diversi popoli indiani: ciò che essa designa è l’insieme di tutte le differenti modalità della forza psichica e vitale; è dunque pressappoco l’esatto equi­valente del prâna della tradizione indù e del k’i della tradizione estremo-orientale.

sabato 22 ottobre 2016

La Dottrina vedica del “Silenzio”

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/la-dottrina-vedica-del-silenzio/

di Ananda K. Coomarswamy*

«Soltanto allora lo vedrai, quando non puoi parlarne;

perché la sua conoscenza è profondo silenzio e soppressione dei sensi»[1]



Il significato generale di “silenzio” in connessione con riti, miti e misteri è stato mira­bilmente discusso da René Guénon in Études traditionnelles[2]. Qui ci proponiamo di citare altri, più specifici dettagli dalla tradizione vedica. Va premesso che l’Identità Suprema (tad ekam) non è meramente in se stessa “senza dualità” (advaita), ma quando è considerata da un altro ed esteriore punto di vista è un’identità di molte cose differenti. Con questo non intendiamo soltanto che un primo principio unitario trascende le coppie di opposti (dvandvau) reciproca­mente connesse che possono essere distinte in qualsiasi livello di riferimento come contrari o conosciute come contraddittorie; ma piuttosto che l’Identità Suprema, indeterminata persino come prima assunzione di unità, include nella sua infinità la totalità di ciò che può essere implicato o rappresentato dalle nozioni di infinito e di finito, di cui la prima comprende la seconda, senza reciprocità[3]. D’altra parte, il finito non può essere escluso o isolato da o negato all’infinito, giacché un finito indipendente sarebbe di per sé una limitazione dell’infinito per ipotesi. L’Identità Suprema è, perciò, rappresentata inevitabilmente nel nostro pensiero sotto due aspetti, che sono entrambi essenziali alla formazione di ogni concetto di totalità secundum rem. Così troviamo detto di Mitrāvaruṇau (apara e para Brahman, Dio e Divinità) che da uno stesso seggio essi contemplano «il finito e l’infinito» (aditiṃ ditiṃ ca, RV 1.62.8); dove, natu­ralmente, si deve tener presente che in divinis “vedere” equivale a “conoscere” e a “essere”. O similmente, ma sostituendo la nozione di espirazione con quella di manifestazione, si può dire che «Quell’Uno è ugualmente espirazione e inspirazione» (tad ekam ānīd avātam, RV X.129.2) oppure è allo stesso tempo «Essere e Non-essere» (sa-dasat, RV X.5.7)[4].

Lo stesso concetto, espresso in termini di enunciazione e silenzio, è chiaramente formulato in RV II.43.3, «Oh Uccello, che tu enunci benessere ad alta voce, o sieda silente (tūṣṇīm), pensa a noi con favore»[5]. E analogamente nel rituale, troviamo che riti sono eseguiti con o senza formule enunciate, e che lodi sono offerte vocalmente o silenziosamente; per cui anche i testi forniscono una spiegazione adeguata. Qui si deve premettere che lo scopo primario del Sacrifi­cio Vedico (yajña) è di effettuare una reintegrazione della deità concepita come esaurita e disin­tegrata dall’atto della creazione, e allo stesso tempo quello dello stesso sacrificatore, la cui per­sona, considerata nel suo aspetto individuale, è evidentemente incompleta. La modalità di rein­tegrazione è mediante iniziazione (dīkṣa) e simboli (pratika, ākṛti), siano naturali, costruiti, attuati o vocalizzati; il sacrificante è tenuto a identificarsi con lo stesso sacrificio e così con la deità il cui auto-sacrificio primordiale esso rappresenta, «l’osservanza della regola di questo essendo la stessa com’era alla creazione». Una chiara distinzione è tracciata tra coloro che possono essere solamente “presenti” e quelli che “veramente” partecipano agli atti rituali che vengono eseguiti per loro conto.

Come già detto, ci sono certi atti che sono eseguiti con un accompagnamento vocale e altri silenziosamente. Ad esempio, in ŚB VII.2.2.13-14 e 2.3.3, a proposito della preparazione del­l’altare per il Fuoco, certi solchi sono scavati e certe libagioni fatte con un accompagnamento di parole pronunciate, e altri silenziosamente. «Silenziosamente (tūṣṇīm), poiché ciò che è silente è non dichiarato (aniruktam), e ciò che è non dichiarato è ogni cosa (sarvam) … Questo Agni (Fuoco) è Prajāpati, e Prajāpati è sia dichiarato (niruktaḥ) sia non dichiarato, limitato (parimitaḥ) e illi­mitato. Ora qualunque cosa faccia con formule espresse (yajuṣā), con ciò integra (saṃskaroti) quella sua forma che è dichiarata e limitata; e qualunque cosa faccia silenziosamente, con ciò integra quella sua forma che è non dichiarata e illimitata. In verità, chi come conoscitore di ciò fa così, integra la piena totalità (sarvam kṛtsnam) di Prajāpati; le forme ab extra (bāhyāni rūpāṇi) sono dichiarate, le forme ab intra (antarāṇi rūpāṇi) sono non dichiarate». Un passaggio quasi identico appare in ŚB XIV.1.2.18; e in VI.4.1.6 v’è un altro riferimento all’esecuzione di un rito in silenzio: «Egli distende la pelle d’antilope nera in silenzio, poiché è il Sacrificio, il Sacrificio è Prajāpati, e Prajāpati è non dichiarato».

In TS III.1.9, le prime libagioni sono sorbite silenziosamente (upāṇśu), l’ultima con rumore (upabdim), e «così quello concede alle divinità la gloria che spetta loro, e agli uomini la gloria che spetta loro, e diventa divinamente glorioso fra le divinità e umanamente glorioso tra gli uomini».

In AB II.31-32, i Deva, incapaci di sconfiggere gli Asura, sono detti aver “visto” la “lode silenziosa” (tūsṇīm śaṇsam apaśyam), e questo gli Asura non potevano capirlo. Questa “lode silenziosa” è identificata con ciò che è chiamato gli «occhi delle pigiature del soma, mediante i quali il Conoscitore raggiunge la Luce del mondo». V’è un riferimento a «questi Occhi del soma, con i quali occhi della contemplazione (dhī) e dell’intelletto (manas) noi contempliamo il Dorato» (hiraṇyam, RV I.139.2, vale a dire, Hiraṇyagarbham, il Sole, la Verità, Prajāpati, come in X.121). Si può osservare a tale proposito che, come il vino di altre tradizioni, il soma condiviso non è il vero elisir (rasa, amṛta) della vita, ma un liquore simbolico. «Di ciò che i Brahmani inten­dono con “soma”, nessuno ne gusta mai, nessun che dimora sulla terra ne gusta» (RV X.85.3-4): è «mediante il sacerdote, l’iniziazione e l’invocazione» che il potere temporale partecipa alla parvenza del potere spirituale (brahmaṇo rūpam), AB VII.31[6]. Qui la distinzione tra il soma realmente condiviso e il soma teoricamente condiviso è analoga a quella tra le parole del rituale pronunciate e ciò che non può essere espresso a parole, e analoga similmente alla distinzione tra la rappresentazione visibile e il «dipinto che non è nei colori» (Laṇkāvatāra Sūtra II,118).

La ben nota orazione in RV X.189, indirizzata alla Regina Serpente (sarparājñī) che è allo stesso tempo l’Alba, la Terra, e la Sposa del Sole, è conosciuta anche come il “canto mentale” (mānasa stotra), evidentemente perché, come spiegato in TS VII.3.1, è “cantato mentalmente” (manasā[7] stuvate), e questo proprio perché è nel potere dell’intelletto (manas) non solamente di comprenderlo (imām, i.e., l’universo finito) in un singolo momento, ma anche di trascenderlo, non solo di contenerlo (paryāptum) ma anche di avvolgerlo (paribhavitum). E in questo modo, mediante ciò che è stato precedentemente enunciato vocalmente (vācā) e ciò che è successiva­mente enunciato mentalmente, «entrambi (i mondi) sono posseduti e ottenuti». Proprio lo stesso è sottinteso in ŚB II.1.4.29, dov’è detto che quanto non è stato ottenuto con i riti precedenti è ora ottenuto mediante i versi del Sarparājñī, recitati, com’è evidentemente dato per scontato, mentalmente e in silenzio; e così il tutto (sarvam) è posseduto. Similmente in KB XIV.1, dove le prime due parti del Ājya sono il “mormorio silenzioso” (tūṣṇiṃ-japaḥ) e la “lode silenziosa” (tūṣṇiṃ–śaṇsa), «Egli recita in modo inudibile, per il raggiungimento di tutti i desideri», va inteso, naturalmente, che il canto vocalizzato attiene solo al conseguimento di beni temporali.

Si può notare, altresì, che la corrispondenza delle parole pronunciate verso l’esterno e quelle non dette verso le forme interne di divinità, sopracitata, è in perfetto accordo con la formula­zione di AB I.27, dove quando il soma è stato acquistato dai Gandharva (tipi di Eros, armati di archi e frecce, che sono i guardiani di Soma, ab intra) al prezzo della Parola (vāc, femm., chiamata qui “la Grande Nuda”, la Dea Nuda, e rappresentata nel rito da una giovenca vergine), è prescritto che il recitativo dev’essere eseguito in silenzio (upāṇśu) fino a che ella non sia stata riscattata da loro, vale a dire, fino a quando ella rimane “dentro”.

In BU III.6, dove c’è un dialogo su Brahman, la posizione viene finalmente raggiunta dove all’interrogante viene detto che Brahman è «una divinità sulla quale altre domande non possono essere poste», e così l’interrogante «possiede la sua pace [della divinità]» (upararāma). Questo, naturalmente, è in perfetto accordo con l’impiego della via remotionis negli stessi testi, dov’è detto che il Brahman è “No, No” (neti, neti), e anche con il testo tradizionale citato da Śaṇkara sui Vedānta Sūtra III.2.17, dove Bāhva, interrogato in merito alla natura di Brahman, rimane in silenzio (tūsṇīm), esclamando solo quando la domanda è ripetuta per la terza volta: «Invero io v’insegno, ma voi non capite: questo Brahman è silenzio». Il rifiuto del Buddha d’analizzare lo stato di nirvāṇa comporta precisamente lo stesso significato. [Cfr. avadyam, “l’impronuncia­bile”, da cui i principi conseguenti sono liberati dalla luce manifestata, RV passim.] In BG X.38, Krishna parla di se stesso come «il silenzio di coloro che son nascosti (mauna guhyāṇām), e la gnosi degli Gnostici (jñanaṃ jñanavataām)»; dove mauna corrisponde al muni familiare, “saggio silente”. Naturalmente, questo non significa che Egli non “parli” anche, ma che il suo parlare è semplicemente la manifestazione, e non un’affezione, del Silenzio; come BU III.5 pure ci ricorda, lo stato supremo è tale da trascendere la distinzione tra enunciazione e silenzio. «Senza rispetto verso enunciazione o silenzio (amaunaṃ ca maunaṃ nirvidya), allora egli è veramente un Brāhman». Quando inoltre è chiesto, «Con quali mezzi si diviene così un Brāhman?» all’in­terrogante è detto, «Con quei mezzi con cui si diviene un Brāhman», che è come dire, per una via che può essere trovata ma non può essere tracciata. Il segreto dell’iniziazione rimane inviolabile per sua stessa natura; non può essere tradito perché non può essere espresso, è inesplicabile (aniruktam), ma l’inesplicabile è ogni cosa, allo stesso tempo tutto ciò che può e tutto ciò che non può essere espresso.

Si vedrà dalle citazioni di cui sopra che i testi dei Brāhmaṇa e i riti cui si riferiscono sono non solo assolutamente coerenti in sé ma in completo accordo con i valori sottintesi nel testo dei RV II.43.3; le spiegazioni sono, infatti, di validità universale, e potrebbero essere applicate anche alle Segrete Orazioni della Messa Cristiana (che è anche un sacrificio) come alla ripe­tizione silente della formula degli Indiani Yajus[8]. La coerenza offre allo stesso tempo un’eccel­lente illustrazione del principio generale che quanto si trova nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad non rappresenta in linea di principio nulla di nuovo, ma solo un’espansione di quanto è dato per scontato e più “eminentemente” enunciato negli stessi testi liturgici “più vecchi”. Coloro che suppongono che nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad siano insegnate dottrine del tutto “nuove” stanno semplicemente ponendo inutili difficoltà sulla via della loro comprensione delle Saṃhitā.

Sarà vantaggioso anche considerare la derivazione e la forma della parola tūṣṇīm. Questa forma indeclinabile, generalmente avverbiale (“silenziosamente”) ma talvolta da rendere in mo­do aggettivale o come un sostantivo, è in realtà l’accusativo di tūṣṇa, femm. tūṣṇī, presumibil­mente andato perso, corrispondente al significato del greco σιγή, e derivato da Vtuṣ, che significa essere soddisfatto, contento e a riposo, nel senso che il movimento s’arresta nel raggiungimento del suo oggetto, e proprio come il discorso s’arresta nel silenzio quando tutto ciò che si poteva dire è stato detto. La parola tūṣṇīm si presenta come un vero accusativo (W. Caland, «tūṣṇīm è uguale a vācaṃyamaḥ») [poiché parlare di “contemplare silenziosamente” comporterebbe una tautologia] in PB VII.6.1, dove Prajāpati, desiderando procedere dallo stato di unità a quello di molteplicità (bahu syām), si espresse con le parole «Possa io nascere» (prajāyeya), e «avendo con l’intelletto contemplato il silenzio» (tūṣṇīm manasā dhyāyat), con ciò “vide” (ādīdhīt) che il Germe (garbham, vale a dire, Agni o Indra, che come il Bṛhat diventa il “primogenito”) era na­scosto dentro di sé (antarhitam), e così si prefisse di farlo nascere per mezzo della Parola (vāc). [Cfr. TS II.5.11.5, yad-dhi manasā dhyāyati, dove yad è equivalente a “parola non detta”, “concetto inespresso”.] Tūsṇīm manasā dhyāyat poi corrisponde al più usuale manasā vācam akrata (RV X.71.2) o manasāivā vācaṃ mithunaṃ samabhavat (ŚB VI.1.2.9), con riferimento a «l’atto della fecondazione latente nell’eternità», così[9] «Egli (Prajāpati) rimase gravido (garbhin)[10] e manifestò (asṛjata) i Singoli Angeli». La nascita del Figlio è, a rigore, non solo un concepimento dai principi congiunti, nel senso di un’operazione vitale, ma allo stesso tempo un concepimento intellettuale, per verbum in intellectu conceptum, corrispondente alla designazione del Germe (garbham, vale a dire, Hiraṇyagarbha) come un concetto (dīdhitim) in tal senso, RV III.31.1.

Il Pañcaviṃśa Brāhmaṇa, sopracitato, continua a spiegare con riferimento all’intenzione di «portare alla nascita per mezzo della Parola» (vācā prajanayā) che Prajāpati «emise la Parola»[11] (vācam vyaṣarjata, in altre parole, effettuò la separazione di Cielo e Terra), ed Ella discese come Rathantara (vāg rathantaram avapadyata, dove avapad è letteralmente “discendere”) … e di lì nacque il Bṛhat … che era rimasto così a lungo all’interno “(jyog antar abhūt); cfr. RV X.124.1, «Tu giacesti abbastanza a lungo nella vasta oscurità» (jyog eva dīrghaṃ tama āśayiṣṭhāh)[12]. Vale a dire che Aditi, Magna Mater, Notte, diventa Aditi, Madre Terra, e Alba, per essere rappresentata nel rituale presso l’altare (vedi), che è il luogo di nascita (yoni) di Agni: si fa distinzione tra la Parola che «era presso Dio ed era Dio» e la Parola come Madre Terra, o in altre parole tra “Maria spirituale” e “Maria incarnata”[13]. Poiché, come sappiamo da TS III.1.7 e JB I.145-146, il Bṛhat (il Padre portato alla nascita) corrisponde al Cielo[14], il futuro (bhaviṣyat), l’illimitato (aparimitam), e all’espirazione (apāna); il Rathantara (la natura separata del Padre) corrisponde alla Terra, il passato (bhūtāt), il limitato (parimitam), e all’inspirazione (prāna)[15]. Gli stessi assunti si trovano in JU I.53 sgg., sostituendo Sāman e Ṛc a Bṛhat e Rathantara: il Sāman (masch.) rappresentante l’intelletto (manas) e l’espirazione (apāna), la Ṛc (femm.) la Parola (vāc) e l’inspirazione (prāṇa). Il Sāman è anche in se ipso «sia lei (sā) sia lui (ama)», ed è come una singola potenza luminosa (virāj)[16] che i principi congiunti generano il Sole, e poi immediata­mente si separano l’uno dall’altro, questa divisione dell’essenza dalla natura, del Cielo dalla Terra, o della Notte dal Giorno essendo l’inevitabile condizione di tutta la manifestazione; è in­variabilmente la venuta della luce che separa nel tempo i Genitori che sono riuniti nell’eternità. Ora sāman è sempre in rapporto con la musica, ṛc con l’articolata formulazione delle incanta­zioni (ṛc, mantra, brahma), così che quando le parole sono cantate con musica misurata questa rappresenta un’analisi e un rendere in natura una musica celestiale che in sé è una, e imper­cettibile all’orecchio umano[17]. Possiamo dire, di conseguenza, che il nome di “Grande Liturgia” (bṛhad ukthaḥ, dove ukthaḥ viene da vāc, “parlare”) applicato ad Agni, e.g., in RV V.19.3, rappresenta il Figlio come Parola parlata, e Logos manifestato[18]; e allo stesso modo Indra è «la più eccellente incantazione» (jyeṣṭhaś ca mantraḥ, RV X.50.4).

La Parola parlata è un’armonia. In KB XXIV.2 e XXIV.1 «Prajāpati è colui il cui nome non è menzionato[19]; questo è il simbolo di Prajāpati … “A voce alta” in “Canta a voce alta, Oh tu dall’ampio splendore” (Agni) è un simbolo del Bṛhat». In ŚB VI.1.1.15, il Giubilo trionfante della Parola parlata è descritto come segue: «Lei (la Terra, bhūmi, essendo pṛthivī, “distesa”), sentendosi del tutto completa (sarvā kṛtsnā), cantò (agāyat); e poiché “cantò”, lei è Gāyatrī. Dicono anche che “Fu Agni, invero, sulla sua schiena (pṛṣṭhe)[20] che, sentendosi del tutto completo, cantò; e dacché cantò, pertanto egli è Gāyatra”. E quindi chiunque si senta del tutto completo, o canta o si diletta nel canto».

Abbiamo così brevemente discusso la natività divina da certi punti di vista al fine di far emer­gere le corrispondenze dei riferimenti vedici e gnostici al Silenzio. In entrambe le tradizioni le potenze autentiche e integrali a ogni livello di riferimento sono sizigie di principi congiunti, maschile e femminile; riassumendo la dottrina gnostica degli Eoni (vedico amṛtāsaḥ=devāḥ) possiamo dire che ab intra e informalmente vi sono ßνθóς e σιγή, “Abisso” e “Silenzio”, e ab extra, formalmente, νoûς e ἔvvoια o Sofia, “Intelletto”, e “Saggezza”, e senza entrare in ulteriori dettagli, che σιγή corrisponde al vedico tuṣṇī e νoûς a manas, σιγή e Sofia rispettivamente agli aspetti nascosti e manifesti di Aditi-Vāc; e anche che la “caduta” della Parola (vāg … avapadyata, sopracitata), e la sua purificazione come Ṛc, Apālā, Sūryā (JU I,53 sgg., RV VIII.91 e X.85) corrisponde alla caduta e redenzione di Sofia e della Shekinah nelle tradizioni gnostica e cabalistica, rispettivamente. In quelle che sono forme di Cristianesimo in realtà più accademiche che “ortodosse”, i due aspetti della Voce, interiore ed esteriore, sono quelli di «quella natura con cui il Padre genera» e «quella natura che recede dalla somiglianza a Dio, e tuttavia mantiene una certa somiglianza con l’essere divino» (Summa Theologiæ I.41.5c e I.14.11 ad 3), il Theotokoi eterno e temporale, rispettivamente.

In conclusione ripetiamo che l’Identità Suprema non è meramente silente né solo vocale, ma letteralmente una non-cosa che è allo stesso tempo indefinibile e parzialmente definita, una Parola tacita e parlata.



Ananda K. Coomaraswamy

* Ananda K. Coomaraswamy, The Vedic Doctrine of “Silence”, in Indian Culture, n. 4, vol. III, Princeton University Press, 1937 (cfr. Coomaraswamy. 2: Selected Papers. Metaphysics, Princeton University Press, 1987).

Legenda: RV: Ṛg Veda Saṃhitā; TS: Taittirīya Saṃhitā; AV: Atharva Veda; PB: Pañcavimśa Brāhmaṇa; ŚB: Śatapatha Brāhmaṇa; AB: Aitareya Brāhmaṇa; KB: Kauṣītaki Brāhmaṇa; JB: Jaiminīya Brāhmaṇa; JU: Jaiminlya Upaniyad; GB: Gopatha Brāhmaṇa; AĀ: Aitareya Āraṇyaka; BU: Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad; MU: Muṇḍaka Upaniṣad; BG: Bhagavad Gita; KU: Kauṣītaki Upaniṣad.

Cfr. R. Guénon, Études Traditionnelles, no 214, octobre 1937, Les Revues, ripreso in Études sur l’Hindouisme, Éditions Traditionnelles, Paris, 1968, Compte-rendu d’articles de revues, Année 1937: «In Indian Culture (Vol. III, no 4), il sig. Ananda Coomaraswamy studia La dottrina vedica del “silenzio”, ch’egli ricollega a quanto abbiamo qui esposto a proposito del “segreto iniziatico”, così come dei “miti” e dei “misteri” intesi nel loro senso originario. Si tratta dunque essenzialmente dell’inesprimibile, che è il “supremo” (para), mentre la “parola” espressa si riferisce necessariamente al “non-supremo” (apara), i due aspetti apparendo d’altronde come inseparabilmente associati in numerosi testi, così come nel rituale, a costituire insieme la concezione totale del Principio».

[1] Ermete, Libro X, 5.

[2] René Guénon, Organisations initiatiques et sociétés secrètes e Du Secret initiatique, in Le Voile d’Isis (1934), pp. 349 e 429; Mythes, mystères et symbols, in Le Voile d’Isis (1935), p. 385. Dal 1936 Le Voile d’Isis è stato pubblicato come Études traditionelles.

[3] «L’Infinito (aditiḥ) è Madre, Padre e Figlio, di tutto ciò che è nato, e il principio di nascita, ecc.» (RV I.89.10); «Nulla è cambiato nell’Infinito inamovibile (ananta) dall’emanazione o riassorbimento dei mondi» (Bhāskara, Bījagaṇita [Benares, 1927], ripetendo il pensiero di AV X.8.29 e BU V.I, che «No­nostante plenum (lat.) (pūraṇam) sia sottratto da plenum, plenum ancora rimane»). L’inclusione del finito nell’Infinito è espressamente formulata in AĀ II.3.8, «A è Brahman, l’ego (aham) è al suo interno». Sulla relazione tra unità e molteplicità vedi Coomarswamy, Vedic Exemplarism, in Harvard Journal of Asiatic Studies, 1936.

[4] Le “operazioni distinte” (vivrata), interne ed esterne (tira o guhya, e āvis), dell’Identità Suprema sono rappresentate da molte altre coppie, e.g., ordine e disordine (cosmo e caos), vita e morte, luce e tenebre, vista e cecità, veglia e sonno, potenza e impotenza, movimento e riposo, tempo ed eternità, ecc. Si può osser­vare che tutti i termini negativi rappresentano privazioni o mali se considerati empiricamente, ma assenza di limite, e bene, quando considerati anagogicamente, il concetto negativo includendo il positivo, come la causa include l’effetto. [Questo è ulteriormente illustrato dalle due nature, niruktānirukta, mortale e immortale, come Mitrāvaruṇau in RV I.164.38, i due Brahmani in BU II.3.1, Prajāpati in ŚB X.1.3.2.]

[5] Cfr. RV X.27.21, «Oltre ciò che è udito qui, v’è un altro suono» (śrava id ena paro anyad asti); I.164.10, «Dietro all’immensità del Cielo gli dei incantano una parola onnisciente senza effetti verso l’esterno» (mantrayante … viśvavidaṃ vācam aviśminvam); JU III,7-9, dove si dice che l’iniziato (dìkṣitaḥ, considerato come un morto per il mondo) pronunci una parola “non umana” (amānuṣiṃ vācam) o “brahmadictum” (brahmavādyam). Nient’altro che un’eco della vera Parola può essere udito o compreso da orecchie umane.

[6] AĀ II.3.7, «Mediante la forma dell’Unico si ha l’essere in questo mondo» (amuno rūpeṇêmaṃ lokam ābhavati); l’opposto, «mediante questa forma (umana) si è interamente rinati in quel mondo» è asserito qui, e anche in II.3.2 dove una “persona” (puruṣa) si distingue dall’animale (paśu) dacché «dal mortale cerca l’immortale, che è la sua perfezione». Ad esempio, in AB VII.31, sopracitato, è mediante i colpi della nyagrodha che il rappresentante del potere temporale condivide metafisicamente il soma (parokṣeṇa). Questa dottrina di “transustanziazione” è enunciata similmente in ŚB XII.7.3.11, «Per fede fa sì che il surā sia soma», cfr. ŚB XII.8.1.5 e XII.8.2.2. Vedi anche Coomaraswamy, Angel e Titan: An Essay in Vedic Ontology, Journal of the American Oriental Society, n. 12, 1935, p. 382.

[7] Da qui Manasā Devī, la moderna denominazione bengalese della Dea Serpente.

[8] Si può aggiungere che mentre, da un punto di vista religioso, silenzio e digiuno e altri atti d’asten­sione sono atti di penitenza, da un punto di vista metafisico il loro significato non ha più a che fare con il mero miglioramento dell’individuo come tale, ma con la realizzazione di condizioni sovra-individuali. La vita contemplativa come tale è superiore alla vita attiva come tale. Non ne consegue, tuttavia, che lo stato del Conoscitore o persino quello del Viaggiatore dovrebbe essere d’inazione totale; questa sarebbe un’i­mitazione imperfetta dell’Identità Suprema, dove eterno riposo ed eterno lavoro sono una e stessa cosa. V’è una imitazione adeguata solo quando inazione e azione sono identificate, come inteso dalla Bhagavad Gitā e nel wu wei Taoista; l’azione non implica più limitazione quando non è più determinata da necessità o imposta da fini da raggiungere, bensì diviene una semplice manifestazione. In tal caso, ad esempio, l’enunciazione non esclude, ma piuttosto rappresenta il silenzio [«È solo dal suono che il non suono è rivelato», MU VI.22]; ed è proprio in questo modo che un mito o altro simbolo adeguato, sebbene sia invero un’”espressione”, rimane essenzialmente un “mistero”. Allo stesso modo, di ogni funzione natu­rale, quando riferita al principio che rappresenta, si può propriamente dire che vi si è rinunciato anche quando è compiuta.

[9] “Così”, i.e., come esprime sant’Agostino: avendo così «fatto Se stesso madre di chi deve nascere» (Epiphanius contra quinque hæreses, 5). [Vedi A Coptic Gnostic Treatise Contained in the Codex Bru­cianus Ms. 96, trad. Charlotte Baynes (Cambridge, 1933), XII.10 (p. 48), per Source and Silence.]

[10] Cfr. Epiphanius contra quinque hæreses XXXIV.4, «Il Padre era in travaglio», e nel folklore, la “covata”.

[11] È interessante notare il rituale parallelo in ŚB IV.6.9.23-24 dove, dopo essersi seduti senza parlare (vācaṃyamaḥ), i sacrificatori devono «formulare la loro richiesta» (vācam visṛjetan) secondo i loro desideri, e.g., «Possa esserci concessa abbondante prole». [Nota tūsṇīm śansaṃ tira iva vai retāṃsi vikryante, AB II.39; cfr. particolarmente JB III.16.]

[12] Dīrghatamas, “Vasta Oscurità”, uno dei “profeti” ciechi (ṛṣī) del Ṛg Veda, è, di conseguenza, la desi­gnazione di una ab intra, nascosta forma di Agni, la cui relazione con suo fratello minore Dīrghaśravas, “Grido Lontano”, è come quella di Varuna con il fratello minore Mitra o Agni, o, in altre parole, come quella della Morte (mṛtyu) con la Vita (āyus). Di Dīrghaśravas è anche detto che era «rimasto a lungo in stato di privazione e mancanza di cibo» (jyog aparuddhó śayānaḥ, PB XV.3.25), e tutte queste espressio­ni corrispondono a quanto si dice di Vṛtra in RV I-32.10, cioè, che «il nemico di Indra giaceva nella vasta oscurità (dīrgham tama aśayat) sotto le Acque»; l’aspetto ab intra della divinità è quello del Drago o del Serpente (vṛtra, ahi), la processione di Prajapati un «trascinarsi fuori dalla cieca oscurità» (andhe tamasi prāsarpat, PB XVI.1.1), e quella dei Serpenti generalmente uno «strisciare avanti» (ati sarpana), per cui essi diventano i Soli (PB XXV.15.4). Su questa processione serpentina vedi Coomaraswamy, Angel and Titan, in Journal of the American Oriental Society, 1935. La processione di Dīrghatamas richiede una più lunga discussione.

[13] Diversamente rappresentato miticamente come il ratto della Parola (RV I.130.9, dove Indra “ruba la Parola,” vācam … muṣāyati), o come un’analisi della Parola (RV VII.103.6, X.71.3 e 125.3), o ancora come una misura o la nascita di Māyā da Māyā (AV VIII.9.5, «Māyā naque da Māyā», seguito dal Lalita Vistara XXVII.12, «Dacché come lei, i.e., la madre del Buddha, la sembianza fu modellata secondo quella di Māyā, Māyā fu chiamata».).

[14] Agni, sebbene il Figlio, è lo stesso Padre rinato, e immediatamente ascende; inoltre, «Agni è acceso da Agni» (RV I.12.6). Di conseguenza, si può dire di lui non solo che «Essendo il Padre, divenne il Figlio» (AV XIX.53.4) e che Egli è insieme «il Padre degli dei e il loro Figlio» (RV I.69.1, vedi ŚB VI.1.2.26), ma anche che «Colui che un tempo era il proprio Figlio ora diventa il proprio Padre» (ŚB II.3.3.5), che egli è «Padre di suo padre» (RV VI.16.35), a un tempo Figlio e Fratello di Varuṇa (RV IV.1.2 e X.51.6), e “Proprio-figlio” (tanūnapat, passim), quest’ultima espressione corrisponde esattamente allo Gnostico “αῦτoγεvης”. Quindi, è facile vedere come Agni, sebbene Figlio di nascita ctonia [ctonio dal gr. χϑόνιος, der. di χϑών -ονός “terra”, letter. sotterraneo (N.d.T.)], può nella sua identità con il Sole essere considerato anche come l’Amante della Madre Terra; la sigizia [dal gr. σύζυγος, lett. aggiogato insieme; in astronomia, dicesi sigizia una configurazione in linea retta di tre corpi celesti (N.d.T.)] Agni-Prithvī essendo quindi un aspetto dei genitori Cielo e Terra, Savitṛ-Sāvitṛī, e più alla lontana Mitrāvaruṇau (GB I.32 e JUB IV.27, ecc.).

[15] Cfr. in AĀ II.3.6 la distinzione dello spirito (prāna) dal corpo (śarīra), di cui il primo è nascosto (tira) e il secondo evidente (āvis), come “a” intrinseca e “a” espressa: ŚB X.4.3.9, «Nessuno diventa immortale mediante il corpo, ma che si tratti di gnosi o di lavoro, solo dopo aver abbandonato il corpo».

[16] Virāj, da cui tutte le cose “suggono” la loro specifica virtù o carattere, è comunemente una designa­zione della Magna Mater, ma anche quando così considerato è una sigizia, «Chi conosce la sua dualità progenitiva?» AV VIII.9.10. I termini virāj e aditi, benché entrambi di solito femminili, possono anche avere un senso maschile con riferimento simile al primo principio. Sostenere, invero, che qualsiasi potere creativo considerato nel suo aspetto creativo possa essere definito come esclusivamente “maschio” o esclu­sivamente “femmina” implica una contraddizione in termini, essendo qualunque creazione una co-gnizione e una con-cezione; persino nel Cristianesimo, la generazione del Figlio è «un’operazione vitale da un principio congiunto» (a principio conjuncto, Summa Theologiæ I.27.2), i.e., un principio che è sia un’es­senza sia una natura, «Quella natura onde la quale il Padre genera». E solo quando ci si è resi conto una volta per tutte che il potere creativo a qualsiasi livello di riferimento, che sia ad esempio come Dio o Uomo, è sempre un’unità di principi congiunti, vale a dire, una sigizia e mithunatva, che può essere vista l’adeguatezza di espressioni come «Egli (Agni) nacque dal grembo di Titan (asurasya jaṭharāt ajāyata)», RV III.29.14; «Mitra versa il seme in Varuṇa (retaḥ varuṇo siñcati)», PB XXV.10.10; «Il mio grembo è il Grande Brahman, in esso depongo il Germe», BG XIV.3, e molti riferimenti simili alla maternità di una divinità attribuiti con nomi grammaticalmente maschili o neutri.

[17] Proprio come in Plotino, Enneadi I.6.3, «Armonie non udite nel suono creano le armonie che udiamo e risvegliano l’anima alla sola essenza in un’altra natura»; e V.9.11, «Una rappresentazione terrena della musica che c’è nel ritmo (Skr. chandāṇsi) del mondo ideale». È precisamente in tal senso che la musica rituale, come ogni altra parte del Sacrificio, è un’imitazione di «ciò che fu fatto dalle Divinità al principio» (ŚB VII.2.1.4 e passim), che vale non meno per la Messa o il Sacrificio Cristiano.

Si può osservare che nell’operazione dei principi congiunti necessariamente ne concepiamo uno come attivo, l’altro come passivo, e diciamo che uno è agente e l’altro mezzo, o che uno dà e l’altro riceve. L’apparente conflitto con la dottrina Cristiana, che nega una “potenza passiva” in Dio (Summa Theologiæ I.41.4 ad 2), è irreale. Lo stesso San Tommaso osserva che «in ogni generazione v’è un principio attivo e uno passivo» (Summa Theologiæ I.98.2c). Il fatto è che una distinzione di questo tipo è determinata dalla necessità di parlare in termini di tempo e spazio; mentre in divinis l’azione è immediata, e non v’è una di­stinzione reale, ma soltanto logica tra agente e mezzo. Savitṛ e Sāvitṛī sono entrambi ugualmente “grembi” (yonī, JU IV.27). Se «Una delle perfezioni agisce (kartā), l’altra favorisce (ṛndhan)», RV III.31.2, ed entrambe le cose sono operazioni attive; non significa che “agire” o “favorire” rappresentino possibilità che potrebbero o meno essere state realizzate, ma solamente si riferisce alla co-operazione dei principi congiunti, intenzione e potenza. Non v’è distinzione fra potenzialità e atto. È solo quando la creazione è avvenuta, e i concetti di tempo e spazio sono quindi coinvolti, che possiamo pensare a un “puro atto” come separato dalla “potenza” dalla misura dell’intero universo (Dante, Paradiso XXIX.31-36), pensare al Cielo e alla Terra “in atto di separarsi” (te vyadravatām, JU I,54), o alla «Natura che si allontana dalla somiglianza con Dio» (Summa Theologiæ I.14.11). Questa separazione (viyoga) è l’occasione della sofferenza cosmica (traiśoka, il dolore dei Tre Mondi che un tempo erano stati uno, PB VIII.1.9, loka-duḥkha, Weltschmerz, KU V.II), e non v’è da meravigliarsi che «Quando la coppia congiunta fu divisa, i Deva gemettero, e dissero, “Lasciate che s’uniscano ancora”» (RV X.24.5); tuttavia, è solo «all’incontro delle vie», «alla fine dei mondi», che il Cielo e la Terra «s’abbracciano» (JU 1.5, ecc.), solo «nel cuore» che il matrimonio di Indra e Indrāṇī è davvero consumato (ŚB X.5.2.11), vale a dire, in un silenzio e oscurità che sono gli stessi come nella «Notte che nasconde l’oscurità della coppia congiunta» in RV I.123.7, il Śatapatha Brāhmaṇa interpreta questa condizione di cognizione inconscia (saṃvit), beatitudine perfetta (para-mānanda), e sonno (svapna) come un «entrare all’interno, o essere posseduto da, ciò che è il proprio Sè» (svāpyaya). [Cfr. Māṇḍ. Up. II, apīti.]

[18] Il Sacrificio nel suo aspetto liturgico è un «portare alla nascita mediante la Parola»: si «canta la Sāman su un Ṛc», e questo è un accoppiamento procreativo (mithunam), identico a quello tra Intelletto e Parola (manas e vāc), Sacrificio e Ricompensa (yajña, dakṣinā, i.e., Prajāpati e Alba), e letteralmente una in-form-azione della Natura, «se non fosse per l’Intelletto, la Parola sarebbe incoerente» (ŚB III.2.4.11), mentre è in realtà il «luogo di nascita dell’Ordine». La Rathantara, ad esempio, è un «mezzo di procrea­zione» (prajananam, PB VII.7.16, corrispondente a prajananam in quanto “amante” viśpatnī, la “madre” di Agni in RV III.29.1); Sāvitrī in tal senso è identificato con i misuratori (chandāṇsi) e chiamata la “Madre dei Veda” (Gopatha Brāhmana I.33 e 38), i quali “misuratori” sono comunemente considerati come il mezzo per eccellenza di reintegrazione (saṃskaraṇa, AB VI.27, ŚB VI.5.4.7, ecc.), e nella sua unione con Savitṛ presenta un’analogia con l’Ecclesia Gnostica (“Chiesa Madre”) e Gnosi come costituenti una sigizia con l’Uomo (άνθρωπος=Prajāpati, Agni, Manu). Anche in questo nesso andrebbe notata la stretta relazione delle parole mātrā, mātṛ, e māyā, “metro”, “madre”, e “mezzi magici” o “matrice”; mā “misurare” e nir-mā “delimitare” essendo costantemente impiegati non solo nel senso di dare forma e definizione, ma nel senso strettamente correlato di creare o dare alla luce, segnatamente in RV III.38.3, III.53.15, X.5.3, X.125.8, AV VIII.9.5, e nella ben nota espressione nirmāṇa-kāya, che denota precisa­mente il presunto ed effettivamente manifestato e nato “corpo” del Buddha.

Sacrificio e nascita sono concetti inseparabili; il Śatapatha Brāhmaṇa, invero, propone la hermeneia, «yajña, perché “yañ jayate”». Il Sacrificio crea divisione, uno “spezzare del pane”; il risultato è articolato e chiaro. Il Sacrificio è un distendersi, un fare un tessuto o rete della Verità (satyam tanavāmahā, ŚB IX.5.1.18), una metafora comunemente impiegata altrove in relazione all’irraggiare della luce fontale, che forma la trama dei mondi. Proprio come l’accensione di Agni è il rendere percepibile ed evidente una luce nascosta, così l’enunciazione dei canti è il rendere percepibile un silente principio del suono. La Parola parlata è una rivelazione del Silenzio, che misura la traccia di ciò che è di per sé incommensurabile.

[19] [Prajāpati sceglie aniruktaṃ sāmno … svargyam, la «(parte) indistinta del sāman che appartiene al Cielo», JU I.52.6; cfr. manasā “in silenzio”, opposto a vācā, come nel JU I.58.6; vedi ŚB IV.6.9.17 e la nota di Eggeling su manasā stotra, anche JU I.40.4.]

[20] Pṛṣṭhe, i.e., (1) con riferimento ad Agni seduto sull’altare della terra (vedi), che è il luogo della sua nascita (yoni), e/o (2) con riferimento ad Agni sostenuto da Pṛṣṭhhastotra, del cui inno la Gāyatrī è la madre per mezzo di Prajāpati, PB VII.8.8.

lunedì 7 marzo 2016

Nota 0.1 Parola e Silenzio

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleoneblog.blogspot.it/2013/11/nota-01-parola-e-silenzio.html

 Le poche righe che seguono sono preparatorie ad un lavoro più ampio. In questo momento, non vi è volontà se non accidentale di indagare sull’idea di Parola e Silenzio nella Massoneria, ma di iniziare a tentare di inquadrare il problema in uno spazio più ampio e con uno sguardo critico. Ad esempio le righe che seguono e il discorso che verrà vogliono indirizzare al non utilizzo del termine parola in contesti “iniziatico-esoterici” e comunque in quelle valli ove l’intelletto si spinge verso l’essere. L’essere per il momento è volutamente minuscolo in quanto è prematuro interfacciarci con l’ESSERE.

Dal vocabolario Treccani: paròla s. f. [lat. Tardo parabŏla (v. parabola1), lat. Pop. *paraula; l’evoluzione di sign. Da «parabola» a «discorso, parola» si ha già nella Vulgata, in quanto le parabole di Gesù sono le parole divine per eccellenza]. 1. Complesso di fonemi, cioè di suoni articolati, o anche singolo fonema (e la relativa trascrizione in segni grafici), mediante i quali l’uomo esprime una nozione generica, che si precisa e determina nel contesto di una frase.

Se mettiamo un attimo da parte la definizione vediamo che la paròla è relativamente giovane e mantiene la sua forza vitale nel senso della parabola, infatti originariamente questo era il senso, ovvero, un insegnamento e nei secoli per estensione e divenuta la parola che di per se è insufficiente a se stessa in quanto ha bisogno di altre parole per completare e rendere esprimibile un pensiero.

Un sinonimo di parola, ormai non più in uso, ma strategico ai fini di questo discorso è verbo. Soprattutto se prendiamo le accezioni che ad esso si riferiscono non tanto alla grammatica, che poco interesse ha in questo viaggio, ma quelle di verbo inteso come verbum o meglio come Logos. Per ora prendiamo il Logos in quanto Logos e non disperdiamo energie nella differenza che ci potrebbe essere tra quello Eracliteo e quello Giovanneo. Il dire, l’esprimere non già un qualunque pensiero, ma l’essere deve essere necessariamente vincolato ad una forma espressiva basata sul Logos. Questo dire, nasce da una riflessione che è duplice. In primo luogo l’essere che si ripiega su se stesso  scendendo nella propria interiorità (v.i.t.r.i.o.l.) prima di ascendere e in secondo luogo l’essere che si rispecchia e rispecchia quello che è e che non può essere diversamente. Questa è una delle motivazioni, se non la motivazione per cui nelle scuole iniziatiche veniva e viene imposto ai neofiti il silenzio. Essi non posso ancora staccarsi dalla materia (metalli) e collegare il loro essere al Logos, sono impegnati nel re-flectere ed a quello struere, di cui ho detto altrove, che li impegna nella fase di distruzione prima ancora che di costruzione.

Michele Leone