Visualizzazione post con etichetta Roma. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Roma. Mostra tutti i post

giovedì 15 settembre 2022

LA RELIGIONE DELL’ANTICA ROMA

tratto da "L'Opinione" del 3-02-2022

di Antonio Saccà

Dalla monarchia all’imperatore divinizzato

Ecco la nostra civiltà, la nostra antichità eterna, dalla Monarchia all’Impero, quasi un millennio, e per sempre. Roma, la Gerusalemme pagana, Roma, con Atene, la sommità a cui noi europei siamo pervenuti. Roma che ci guarda e la guardiamo, Imperatori, templi, strade, rovine monumentali, terme, colonne, ovunque Roma, quella dei millenni che furono e che sono. Abitare a Roma è vivere con i romani, dove fu ucciso Cesare, dove fu sepolti Augusto, e Traiano, e Antonino, e Caracalla. E Marco Aurelio, il Campidoglio, il Pantheon, la casa di Mecenate. Le origini di Roma sono mitiche al pari di quasi tutte le origini delle Città e delle Civiltà. Anche se non direttamente, Roma proverrebbe dai fuggitivi di Troia che, devastata dai Greci, tuttavia non fu annientata, riuscì a scampare uno degli eroi troiani, Enea, figlio di Priamo e della dea Venere. Enea, con pochi altri, salva il padre ed il figlio, Ascanio (Iulio), e si allontana dalla Patria, ramingo nel Mediterraneo, con vicende in qualche modo simili ad Ulisse. Vi è un destino per Enea, un compito sacro, ineluttabile, fondare una nuova Città, una nuova Civiltà. A tale scopo, Enea sacrifica Didone, Regina dei Cartaginesi, che gli offriva, insieme, amore e Regno. Enea non può accettare, il suo obbligo, disposto da forze supreme, è fondare la nuova Città, la nuova Civiltà. Enea parte, Didone si uccide. L’ amore infelice tra Didone ed Enea costituisce uno tra gli amori leggendari dell’antichità. Enea si volge all’ Italia, approda alle coste, si spinge nel Lazio, sposa la figlia del re Latino, Lavinia, vince i potenti locali, principalmente Turno, erge la città di Lavinio, che lascia al figlio, dal quale proverrà la Gens Iulia che conterrebbe anche Giulio Cesare, Ottaviano, Tiberio.

Enea reca, sempre nella Leggenda, gli Dei patrii. Ed è un particolare da considerare. Bisogna smentire radicalmente l’idea che “i pagani” fossero atei o miscredenti. Credevano in altri Dei, intensamente e con perenni forme ritualistiche, sacre, e vincolate alla interpretazione di “segnali” che venivano dagli Dei o da potenze occulte. Per gli antichi, ma la situazione non è cambia, ancora oggi, se, ad esempio, cadeva un fulmine, scoppiava un temporale, ciò non avveniva a caso, era un “segnale”, indicava qualcosa da fare o da non fare. Tutto, ripeto,doveva essere interpretato, tutto aveva un significato, era un’ indicazione. Gli antichi, mi riferisco soprattutto ai greci ed ai romani vivevano sotto l’ incubo di ottenere il favore degli Dei o di non esserne approvati. Quindi, riti, sacrifici, e soprattutto la ricerca delle cause che avevano (avrebbero) cagionato l’ ira di qualche Dio e il modo per riappacificarsi. La vita dei greci e dei romani, in genere degli antichi, era un continuo interpretare perché accadeva un evento, se celava segni favorevoli o sfavorevoli, nel timore di offendere un Dio, nella paura della vendetta degli Dei, nella volontà di riappacificazione. Tutto questo metteva l’ esistenza dei “pagani” sotto il segno della religione in modo pressante.

Antica Roma, la monarchia

Roma nasce con una leggenda. Esistevano popolazioni italiche dal I millennio, ma, nella leggenda, fu nel 753 a. C. che viene fondata dai gemelli Romolo e Remo, figli di Marte e di Silvia. Avversati, Romolo e Remo, dallo zio Amulio, vengono salvati in una cesta posta sul Tevere, raccolti e cresciuti dal pastore Faustolo, nutriti da una lupa; adulti riconquistano Albalonga per l’ avo Numitore, e si combattono tra loro perché Remo passa i confini della nuova Città, il che è atto sacrilego. Romolo uccide Remo, e regna per primo, il primo Re di Roma. La leggenda è tutta immersa nella religione superstiziosa e sacrale, nelle caratterizzazioni del mito: un parente avverso, il salvataggio prodigioso, la nascita da fonte divina, la disgrazia, la vittoria. Nel caso di Giove, di Edipo, di Mosè, di Gesù abbiamo circostanze simili. Nella leggenda di Romolo e Remo vi è il particolare nutrimento da una lupa. Di sicuro perché la vicinanza tra uomini e animali era assoluta, ma inoltre come segno che i gemelli sono nutriti con latte di lupa, saranno dei “lupi”. Importantissimo nella leggenda, il valore del confine. Secondo talune fonti, la lupa non è l’animale, è il soprannome di chi allevò i gemelli, e l’ uccisione di Remo fu dovuta alla disputa su chi avesse il diritto di fondare la Città.

domenica 17 gennaio 2021

Angeli, demoni e leggende: è la capitale dell'esoterismo

 tratto da "Il Giornale" del 04/08/2009

PIAZZA VITTORIO La Porta Magica reca formule che conducono alla pietra filosofale

di Valeria Arnaldi


Simboli alchemici, riti esoterici, apparizioni angeliche e demoniache e percorsi per iniziati. Roma è una città ricca di misteri, che attraversano i secoli, tra mito, leggenda e religione.

Una magia antica che seduce romani e turisti, ma si fa comprendere solo dagli «iniziati», ossia quanti sappiano andare oltre le apparenze. D'altronde è la forma stessa di Roma a indicare precisi rimandi esoterici. Detta dagli antichi quadrata, malgrado non lo fosse, e sita in un cerchio di colli, unisce in sé le due figure geometriche simbolo della perfezione e del Sacro. Concetto che si esalta se si attribuisce la «quadratura» alla ripartizione in quadranti che culminavano nella fossa circolare scavata da Romolo per la fondazione e ritenuta un passaggio per gli inferi.

Il rapporto tra fisica e metafisica, visibile e invisibile, è espresso in più luoghi con simboli e figure volutamente criptici. Si comincia dalla chiesa di San Lorenzo in Lucina. Qui, sulla lapide di Nicolas Poussin è riprodotto uno dei suoi dipinti più famosi I pastori d'Arcadia: sul sarcofago al centro dell'opera è incisa la frase «Et in Arcadia Ego», per alcuni, un memento mori di ispirazione classica - «Anche io (la morte) sono in Arcadia» - per altri, incluso il biografo di Poussin, un messaggio più sibillino da interpretare come «La persona qui sepolta è vissuta in Arcadia», per altri ancora un anagramma, in realtà, ben tre, che rimanderebbero tutti a un'ipotetica tomba di Gesù, inserendosi così nella più ampia e complessa ricerca del Santo Graal. Non solo. Il paesaggio rappresentato, a lungo ritenuto d'invenzione, corrisponde invece alla località di Arques nei pressi di Rennes-le-Chateau, internazionalmente noto per i misteri che hanno per protagonista l'abate Saunière e la ricerca del Sacro Calice appunto. Quest'ultimo, per alcuni studiosi, si troverebbe proprio a Roma, a San Lorenzo fuori le mura, dove sarebbe stata posta la prima sepoltura del Santo, cui sarebbe stato affidato nel 258. Riferimenti iconografici lo legano però a Maddalena nella chiesa di Santa Maria in Trastevere.

All'Aventino, l'appuntamento con misteri e «codici» è alla Villa dei Cavalieri di Malta, in piazza dei Cavalieri di Malta. Dopo la ristrutturazione effettuata nel 1764 da Piranesi, l'intera area presenta «figure» che rimandano alla tradizione templare: l'Aventino sarebbe la «nave» dei Cavalieri che un giorno tornerà a veleggiare con chi avrà decifrato il messaggio. Impresa non da poco, visto che, a oggi, sebbene le figure siano state interpretate singolarmente, non si è riusciti a comprenderne l'intero sistema.

È un'iniziazione spirituale neoplatonica quella delle pitture di Palazzo Spada, dove si assiste all'esaltazione dell'amore come via che porta all'Assoluto, attraverso più livelli di conoscenza. Da «leggere» anche la fontana dei Quattro Fiumi di Gian Lorenzo Bernini, in piazza Navona: la tetrade dei fiumi e la forma piramidale della stele sono simboli pitagorici di perfezione divina, mentre le coppie di opposti rappresentano la lotta tra Bene e Male, ribadita dalla pianta della vasca «trafitta» dall'obelisco-sole con rimandi al culto orientale di Zoroastro, in un percorso che culmina nello stemma di Papa Innocenzo X con la colomba-Spirito Santo.

Non fu da meno Francesco Borromini che della cupola di Sant'Ivo alla Sapienza fece un monumento al simbolismo massonico, prendendo le mosse dal Sigillo di Salomone per ricondurre il Cristianesimo, attraverso triangolazioni cosmiche - e architettoniche - a una spirale, metafora del cammino che l'uomo deve fare per avvicinarsi al cielo e rimando a una base spirituale comune all'umanità.

Impossibile non farsi affascinare dalla Porta Magica a piazza Vittorio. Eretta tra 1655 e 1689 dal marchese Massimiliano Palombara, reca incise epigrafi e figure, che condurrebbero alla pietra filosofale e alla formula per creare l'oro. La Porta, detta pure «dei Cieli», nasconderebbe un percorso di elevazione spirituale. Non c'è da stupirsi. Nella Città Eterna il rapporto con l'aldilà è molto stretto. Il Purgatorio ha un indirizzo preciso: la chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, in lungotevere Prati, dove si trova il Museo delle Anime del Purgatorio con impronte di fuoco lasciate dai trapassati. Sotto i Fori si troverebbe l'Inferno, la cui porta sarebbe la Lapis Niger, tomba di Romolo. Nella storia della città, inoltre, si confondono le vite di «iniziati» d'eccellenza, come Cagliostro, il cui fantasma comparirebbe spesso in piazza di Spagna.

sabato 11 aprile 2020

Le streghe all’Esquilino

in collaborazione con l'autore Michele Leone: https://micheleleone.it/streghe-allesquilino/

Priapo incontra le streghe all’Esquilino e racconta: cose mai viste!

L’esquilino oggi è un quartiere popolare di Roma, quanti si recano in treno nella nostra Capitale non possono non averlo visto almeno una volta dato che la Stazione Termini si trova qui.

Arrivo a Roma al sorgere del sole, mi concedo un caffè ed inizio a scambiare quattro chiacchiere con uno sconosciuto avventore dalla faccia stralunata ed un evidente bozzo nei pantaloni.

Si presenta, dice di chiamarsi Priapo, è di rientro da una notte brava. Avendo saputo delle mie ricerche sui misteri ed il mondo dell’occulto mi racconta di aver visto le streghe all’Esquilino:

Il racconto di Priapo

Ho visto Canidia con la veste succinta aggirarsi ululante a piedi nudi, i capelli sciolti e scarmigliati, con la vecchia Sagana: entrambe di un tale pallore nel viso da fare spavento. Si danno a raspare con le unghie la terra, a sbranare con morsi una nera agnella, il sangue lo fanno colare giù in una fossa per strappare di lì ai Mani le ombre dei morti che avrebbero dato i responsi. (in G. Luck, Arcana mundi. Magia e occulto nel mando greco e romano, Vol. I. Magia, Miracoli, Demonologia, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1997).

Intermezzo

Finito il suo racconto sistema l’impermeabile e va via con passo svelto. Sento la voce del barista che mi richiama alla realtà perché il mio caffè si sta raffreddando. La mancanza di sonno, la fantasia e le letture in treno a volte giocano brutti scherzi. Leggevo le Satire di Orazio.

Sulle streghe potresti leggere: Le Streghe in Toscana è il primo articolo su streghe, stregoneria, stregheria e via dicendo… continua a leggere.

Seguito e fine del racconto di Priapo

L’incontro di Priapo con le streghe all’Esquilino continua così:

Avevano anche due fantocci: uno di lana e uno di cera; più grande quello di lana, per infliggere il castigo a quello più debole. In fantoccio di cera se ne stava in atto supplichevole, come destinato a subir tra poco una morte ignominiosa. L’una evoca Ecate, l’altra invoca la crudele Tisifone. Allora avresti veduto uscir vagando serpenti e cagne infernali, e la luna rosseggiante, per non esser presente alla scena, nascondersi dietro gli alti sepolcri.

Se mentisco in alcuna cosa, che io abbia la testa insozzata dal bianco sterco dei corvi, e su me vengano a mingere e a cacare Giulio e la infrollita Pediazia e il borsaiuolo Vorano. Perché ricorderò io le singole operazioni, e in che modo le ombre, alternando le voci con Sagana, cacciassero suoni lugubri e stridenti, e come le streghe nascondessero sottoterra furtivamente una barba di lupo con i denti d’una serpe striata, e il fuoco ardesse più vivo per lo struggersi del fantoccio di cera? Io non volli rimaner testimone passivo delle cabale e dei misfatti delle due Furie; e con quel suono, che manda una vescica quando scoppia, io fico, dischiusa la natica, trassi un peto. E quelle, a gambe levate verso la città. Con che gusto e con che risa avresti visto tutto all’aria: la dentiera di Candia, la parrucca torreggiante di Sagana, e cader loro di mano le erbe e i nastri dell’incantagione.  (Orazio, Satire, Libro I, 8, Utet, Torino 2015, ed. digitale).


Postilla

Orazio in questa satira ci fornisce informazioni sui luoghi e sulle pratiche di quella che oggi chiameremmo magia nera o voodoo nell’antica Roma. Incontreremo in prossimi post le protagoniste di questa satira, figure chiave della magia nella Roma antica. La descrizione che fa Orazio delle due streghe all’esquilino con i capelli disordinati, scalze, vecchie, ululanti e pallide è un’immagine ormai cristallizzata della strega malevola, intenta in riti oscuri e alle volte osceni. È utile ricordare come Roma non vedesse di buon occhio la magia. Orazio, membro del “Club di Mecenate” era contemporaneo di Augusto. Questo volle riformare i costumi di una città dissoluta, recuperare le priscae virtutes e le tradizioni; anche eliminando ogni forma di devianza religiosa. È ipotizzabile che Augusto abbia intrapreso una Caccia alle streghe ante litteram e che i membri del “Club di Mecenate” combattessero questa battaglia con le armi della poesia e della parola.

Questo articolo non ha la pretesa di esaustività, anzi è una goccia nel mare della storia della magia, vuole solo essere un esperimento narrativo e l’occasione per farti conoscere Orazio e i racconti sulle streghe.

       Gioia – Salute – Prosperità



mercoledì 30 ottobre 2019

Tonache di sangue

Un veloce consiglio di lettura.

Tonache di sangue è un libro di Davide Busato che tramite documenti che vanno XV secolo al XVIII racconta delitti anche piuttosto raccapriccianti in cui i protagonisti sono uomini e donne appartenenti al clero.

Su Vanilla Magazine potete trovare una sintesi di uno di questi casi in cui la protagonista è una suora serial killer: Suor Maria Luisa: una Serial Killer al monastero Sant’Ambrogio di Roma

La breve presentazione del libro:

«Tonache di sangue. Assassini, briganti e sicari» raccoglie trentasei casi di cronaca nera che hanno come protagonista il clero. Suddiviso in sette sezioni - sicari, iracondi, lussuriosi, pluriomicidi, banditi, avari e blasfemi - il volume narra eventi delittuosi svoltisi fra Cinquecento e Novecento, che hanno coinvolto preti, monaci, abati e badesse disposti a uccidere per cupidigia, lussuria o semplice follia: dal sicario frate Donato di Milano che attentò la vita di Carlo Borromeo, alle atmosfere torbide del monastero di Sant'Ambrogio di Roma nel quale operò un'assassina seriale; da "papa" Ciro il brigante di Taranto, a fra' Diego la Matina di Palermo che uccise un inquisitore. Con stile coinvolgente e suggestivo, l'autore trae da fatti di cronaca e archivi dell'epoca episodi rimasti celati alla Storia ufficiale, mostrando tutta la fragilità e la vulnerabilità dell'essere umano.

Tonache di sangue
Copertina rigida: 314 pagine
Editore: Rusconi Libri (26 luglio 2018)
Collana: Rusconi Libri
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8818032739
ISBN-13: 978-8818032734
Peso di spedizione: 458 g


sabato 5 ottobre 2019

Alieni e Umani - Una questione di contatto - Roma

Nel corso dei secoli, popoli di tutto il mondo hanno tramandato attraverso i testi e le raffigurazioni artistiche, la comparsa di misteriosi oggetti volanti nei cieli del nostro pianeta.
In alcuni casi essi hanno anche descritto gli incontri con gli occupanti di questi velivoli rappresentandoli a volte come temibili divinità, a volte come pacifici visitatori celesti.
L’obiettivo che si propone, partendo dalla consapevolezza che non siamo certamente soli in questa parte dell’universo e che, forse, non lo siamo mai stati, è quello di stimolare la curiosità, ma soprattutto i dubbi, di tutti coloro che si sentono attratti da questi argomenti, per cercare di trovare, insieme, le risposte alle molte domande e ai molti enigmi che ancora oggi circondano l’affascinante mistero degli UFO.

Fusolab 2.0
Sabato 19 ottobre 2019 dalle ore 16:00 alle 20:30
Viale della Bella Villa 94, 00172 Roma




sabato 22 dicembre 2018

UFOLOGY WORLD

UFOLOGY WORLD organizzato dalla dott.ssa Francesca Bittarello si svolgerà l’11 e 12 maggio 2019 a CINECITTA’ WORLD. L’evento ufologico mondiale del 2019. UFOLOGY WORLD avrà da isposizione tutto il Parco di Cinecittà World. UFOLOGY WORLD difatti sarà una metropoli dell’ufologia composta da 2 grandissime aree padiglioni con gazebo per gli stand, aree mostre ed esposizioni a tema, 3 teatri dove si svolgeranno continuativamente e contemporaneamente il sabato e la domenica relazioni da parte di relatori, attrazioni ufo quali “Altair” astronave di 100 metri, “Guerra dei mondi” attrazione virtuale con visore dove l’utente viene catapultato in una guerra contro gli alieni (in questo caso definiti “cattivi”), e altre 2 attrazioni di realtà virtuali di tecnologie del futuro quali “Labirinto” e “Jurassic War” e tante altre sorprese. La manifestazione ha il patrocinio dello storico CUN fondato nel 1966 dal Capostipite dell’Ufologia in Italia Roberto Pinotti. I BIGLIETTI E I PACCHETTI SI POSSONO ACQUISTARE SOLO ON-LINE SINO AD ESAURIMENTO SUL SITO DI CINECITTA’ WORLD A PARTIRE DAL 3 GENNAIO 2019. Acquistateli per non rimanerne senza. Visita il sito www.ufologyworld.it troverai tutte le informazioni. 



sabato 1 dicembre 2018

Il bunker misterioso voluto da Mussolini a Roma Termini

Dieci metri sotto i binari c'è una sala di cemento voluta da Mussolini per duplicare i comandi da utilizzare in caso di emergenza – La scoperta grazie a un libro sulla stazione di cui sono autori Amedeo Gargiulo e Deborah Appolloni

tratto da Il Giornale del 19/06/2018

di Paolo Stefanato


Le stazioni ferroviarie sono luoghi pieni di segreti, nascosti sotto ai binari e agli edifici.


Mondi sotterranei fatti di magazzini, di apparati tecnici di ogni epoca, di centrali, di passaggi, di locali bui. Nelle viscere della Stazione Termini, a Roma, c'è un bunker, una scatola di cemento armato di 40 metri quadrati 10 metri sotto il livello stradale, voluto da Mussolini nel 1936 – quando non c'era ancora l'attuale eificio passeggeri - per duplicare la sala di controllo della stazione e consentirle di essere funzionante anche in condizioni di emergenza. Evidente lo scopo di sicurezza, in tempi in cui già si cominciava a intravedere la guerra. Cinismo della sorte: la centrale fu inaugurata il 19 luglio el 1943, il giorno di un grande bombardamento della Capitale. Quel vano segreto, nel quale rimangono intatti tutti i vecchi comandi della stazione, oggi non è visitabile ma le Ferrovie stanno studiando di renderlo accessibile.

Dell'esistenza di questo bunker, durato in funzione, con vari ammodernamenti, fino al 1999, pochi sono a conoscenza. Oggi lo si trova descritto, forse per la prima volta, nel libro “La Stazione Termini di Roma” (Giordano editore, 160 pagine, 25 euro), scritto a quattro mani da Amedeo Gargiulo e da Deborah Appolloni, rispettivamente direttore dell'Agenzia nazionale per la sicurezza delle Ferrovie e giornalista specializzata in trasporti. Il libro è una piacevole ricostruzione storica, tecnica e sociologica di uno degli edifici più importanti in Italia, progettato dall'architetto Angiolo Mazzoni, poi sostituito da Eugenio Montuori, e inaugurata nel 1950. Fu una delle ultime grandi stazioni europee di testa (nelle quali i binarî principali si arrestano, ed è perciò necessario, per proseguire, invertire il senso di marcia dei convogli ), alle quali furono nel tempo preferite le stazioni passanti o di transito, dove le operazioni ferroviarie sono più semplici e più veloci. Anche Milano Centrale è di testa, ma lo stesso progettista, Ulisse Stacchini, prima dell'avvio dei lavori cercò di convincere le Ferrovie, senza riuscirci, ad arretrarla per farla diventare passante, quindi più moderna.

Termini è la stazione più grande in Italia e quinta in Europa, con 500mila passeggeri e 850 treni in arrivo o in partenza ogni giorno, 150 milioni di passeggeri all'anno. Ma è anche un luogo sociale, emblematico della città e di tante contraddizioni. Il degrado, per esempio, non è un fatto nuovo, risale almeno agli anni Settanta e fa parte dell'essenza stessa di una stazione – luogo pubblico, sempre aperto, complesso – fin dagli esordi della ferrovia. A Termini nel 1987 dopo varie esperienza solidaristiche è nato l'Ostello della Caritas, mentre al Giubileo e all'assistenza di tanti pellegrini va fatta risalire l'esperiena del Polo sociale.

Nel libro è scandita, anche per immagini, la cronaca della stazione con i suoi grandi eventi. Nel 2006, per esempio, gli autori ci ricordano che lo scalo fu dedicato a Giovanni Paolo II, al quale fu innalzata una statua poco distante. Ma Termini resta Termini, e col nome del Pontefice non la chiama nessuno.

La stazione è stata anche protagonista di tanti film. Uno tra tutti, Roma Termini, diretto da Vittorio e Sica, girato nel 1953, e prodotto dallo stesso produttore di Via col vento, David O. Selznick.

giovedì 22 ottobre 2015

Rieti e la sua ricchezza sotterranea

tratto da L'Opinione del 7 ottobre 2015 (http://www.opinione.it/cultura/2015/10/07/perricone_cultura-07-10.aspx)

di Gianluca Perricone

L’Italia è il Paese più bello del mondo perché ricco di testimonianze della propria storia, del proprio passato, delle proprie origini. E, a questo proposito, diverse città italiane “nascondono”, nel loro sottosuolo, le testimonianze di quelle che furono le loro origini. Ci è capitato di recente di esplorare i sotterranei di Rieti, nel Lazio, alle pendici del monte Terminillo: sotto alle vie dell’attuale centro cittadino si apre un mondo straordinario ed affascinante (www.rietidascoprire.it), fatto di volte, architravi, antichi vicoli, che conduce al viadotto romano e che aspetta di essere scoperto dai visitatori.

Anticamente occupata da un grande bacino, Rieti fu conquistata insieme al resto della regione sabina, nel 290 a.C. da Manio Curio Dentato. Le acque del fiume Velino, ricche di sostanze minerali, avevano nel corso dei secoli incrostato le rocce, creando una barriera travertinosa che impediva il deflusso delle stesse a valle. Il console romano fece eseguire il taglio delle Marmore, consentendo così al fiume di precipitare nel Nera e liberare la pianura di Rieti dalle acque del “lacus Velinus”. Questa importante opera idraulica, citata spesso nelle fonti antiche, è considerata uno degli interventi paesaggistici più interessanti e spettacolari della storia, che da una parte mise Reate in urto con Terni per i contrastanti interessi connessi alla regolamentazione delle acque del fiume Velino; dall’altra trasformò la città in un importante centro agricolo, naturale fornitore di Roma, “vocazione” che il capoluogo sabino non ha mai abbandonato nel corso dei secoli.

Dopo la conquista Rieti fu sempre molto legata a Roma e collegata ad essa dalla Salaria, la via più antica che usciva da Roma. La denominazione dell’importante arteria si deve alla sua funzione originaria che consentiva alla popolazioni dell’entroterra sabino e dell’agro reatino di raggiungere Roma per rifornirsi di sale nel Foro Boario, trasportato qui dalle saline della foce del Tevere ed alle popolazioni del Piceno di trasportare numerosi prodotti verso la capitale. Inizialmente la strada doveva giungere a Rieti, e solo successivamente venne prolungata fino all’Adriatico, in seguito all’assoggettamento del Piceno avvenuto nel 268 a.C.

L’ampliamento del percorso richiese un notevole dispendio di energie e di risorse economiche, se si pensa che per aprirsi un varco in direzione del mare, i romani furono costretti a realizzare subito dopo l’abitato di Interocrium (l’odierna Antrodoco) dei tagli verticali nelle rocce che ancora oggi caratterizzano le “gole del Velino”. In loco il fiume ha scavato una forra profondissima , forse la più selvaggia e suggestiva di tutto l’Appennino, dove è possibile ammirare il “Masso dell’Orso”, rupe tagliata dai romani per un’altezza di circa 30 metri e una lunghezza di 20 a perpendicolo sul fiume. Queste ed altre modifiche, furono necessarie per rendere la consolare Salaria, la principale via di comunicazione per l’intero territorio sabino, utilizzabile in qualsiasi periodo.

Insomma, proprio all’acqua sono state, nella storia, collegate le vicende del capoluogo sabino. L’abbondanza delle acque della città di Rieti infatti, e le ricorrenti piene del Fiume Velino, resero altresì necessaria la costruzione di un viadotto formato da fornici rampanti per elevare la Salaria. Questo manufatto, superando il fiume con un solido ponte in pietra dove sono ancora visibili i profondi solchi lasciati dalla ruote dei carri utilizzati per il trasporto del sale, permetteva alla strada di raggiungere la città sviluppatasi su una rupe, evitando allagamenti ed impaludamenti. La struttura inglobata nei sotterranei di alcune dimore patrizie reatine è formata da grandiosi fornici romani costruiti con enormi blocchi squadrati di travertino cavernoso, a sostegno del piano stradale.

Il rapporto tra Rieti e l’acqua è testimoniato anche dall’esistenza di quello che fu un porto fluviale posizionato sulla riva destra del fiume Velino e che veniva utilizzato per l’attracco delle barche che trasportavano granaglie dalla valle reatina ai sotterranei degli edifici citati. In loco, la presenza di archi ribassati testimonia i continui aumenti di livello delle rive del fiume, tesi ad evitare l’annoso problema delle inondazioni delle case. Nel passato infatti, le acque si addentravano per diversi metri lungo l’odierna via del Porto trasformandola in un canale navigabile. Così Rieti, con stretti canali formati da case torre appoggiate al viadotto romano, si trasformava in un piccola “Venezia di acqua dolce” per poi tornare, per brevi periodi, alla percorribilità delle sue strade. Una interazione in continua evoluzione del rapporto città-acqua-fiume-viadotto romano e le cui testimonianze sono ancora evidenti nel meraviglioso mondo sotterraneo della città.

sabato 7 febbraio 2015

La cripta-ossario dei cappuccini a Roma

tratto da L'Opinone del 04 febbraio 2015 http://www.opinione.it/cultura/2015/02/04/ricci_cultura-04-02.aspx


di Paolo Ricci

 
Nel centro di Roma, vicino piazza Barberini, sorge la chiesa dell'Immacolata Concezione. È la prima chiesa romana dedicata “a Dio in onore dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria”.
La prima pietra fu posta nel 1626 per volere del Cardinale Antonio Barberini, cappuccino e fratello germano del Papa Urbano VIII. Padre Michele da Bergamo fu l'architetto incaricato di costruire il convento e la chiesa dei cappuccini, proprio nei pressi di piazza Barberini, all'inizio di via Veneto. Prima di entrare nella Cripta il percorso proposto passa per un interessante museo nel quale si ritrovano diversi dipinti, tra i quali un san Francesco del Caravaggio. Poi numerosi oggetti della vita religiosa dei cappuccini, reliquie, ex voto. Sono otto le sezioni del museo: la prima è dedicata al convento, voluto, come si è detto, dalla famiglia Barberini, che fu ultimato nel 1631. La seconda presenta l'Ordine; la terza sezione propone la Santità cappuccina e si sofferma sulla spiritualità attraverso immagini e storie di alcuni santi dell'Ordine.
La quarta sezione propone l'esposizione di vesti e oggetti di uso liturgico e di manufatti di uso quotidiano. Nella quinta sezione si trova il san Francesco del Caravaggio. Nella sesta sezione i cappuccini nel XX secolo e nella settima i cappuccini nel mondo, il percorso espositivo giunge fino ai nostri giorni mostrando l'attività spirituale, culturale, missionaria e artistica che ha caratterizzato l'Ordine nel XX secolo. Infine si giunge alla cripta-cimitero. In questo luogo si trova la Cripta dei frati cappuccini, un “loco onesto” che l'architetto suddetto progettò per la sepoltura dei frati. Dal 1631 al 1870 i resti di circa 3500 frati furono ammassati lungo le pareti. La cripta è indescrivibile nella sua essenza.
Qui regna la morte, “sora nostra morte corporale”. Nell'ambiente, composto da sei stanze, si ritrovano 18 mummie di cappuccini col saio, posti in posizione sdraiata o in piedi. Sia le pareti che le volte sono ricoperte di motivi ornamentali composti con le ossa delle diverse parti del corpo umano. Il percorso è suggestivo, lo sguardo si perde in una penombra dove tutto è ossa accatastate, teschi, strutture fatte di resti, che compongono simboli diversi: la clessidra alata, l'orologio a una sola sfera, il teschio con le ali; riflessioni sul valore della vita, sul tempo, sullo spazio e oltre. La prima cripta del percorso originario che ora si presenta come ultima, è quella concepita come “ingresso” in cui il visitatore viene invitato a riflettere sull'inevitabilità della morte.
La seconda cripta è quella delle tibie e dei femori, la più grande; la terza è quella dei bacini; la quarta quella dei teschi, la quinta stanza è la cappella della Messa in cui è presente un altare con una tela che rappresenta la Vergine seduta con il Bambino in piedi sulle sue ginocchia; la sesta cripta è dedicata alla Resurrezione, qui si ritrova una tela raffigurante la resurrezione di Lazzaro, conclusione del percorso escatologico. Così tornano alla mente le parole di san Francesco, proposte ovviamente anche nel percorso: “Laudato sii, mi' Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare”.
E usciti dal silenzio, il centro della città di Roma, riavvolge (e forse rassicura) l'anima del visitatore.

domenica 1 giugno 2014

La città in pace con gli dèi

tratto da "Il Sole 24 Ore" del 03/11/2002



Dalla leggenda di Romolo e Remo in poi, la scelta della localizzazione e la disposizione delle strade sottendevano una ricerca di armonia tra uomini e divinità

di Carlo Carena

Racconta Plutarco nella Vita di Romolo che il primo re di Roma, dopo aver sepolto il fratello, "fondò la città, avendo fatto venire dall' Etruria uomini che gli spiegassero ogni cosa con alcune norme e testi sacri e che glieli insegnassero, come durante i misteri. Scavò una fossa di forma circolare per deporvi le primizie di tutto quanto era utile secondo consuetudine o necessario secondo natura. E infine ciascuno, portando un po' di terra dal paese da cui proveniva, la gettò dentro e la mescolò insieme. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, mundus".

Cosa vuol dire tutto questo, di cui noi non riusciamo a capire il significato e nemmeno il perché immersi in un ambiente urbano senza capo né coda, senza significato e identità, dove si dorme, si viaggia, si traffica, in cui si entra o da cui ci si allontana indifferentemente: per povertà concettuale, ci dice Joseph Rykwert in L' idea di città, per la perdita di ogni forma simbolica e di qualsiasi ancoraggio nello spazio e nel tempo. Il rito di Romolo è, con altri antichi, il punto di partenza del libro di questo architetto dell' università della Pennsylvania; libro non nuovo, anzi già famoso (apparve la prima volta in inglese nel ' 63, e Adelphi lo riprende ora assai bene - peccato manchi un indice dei nomi - dall' edizione Einaudi dell' 81); ma libro tuttora suggestivo e ancor più ammonitore.

La città romana ne resta al centro, sia per la documentazione scritta e archeologica che ne possediamo sia per la ricchezza delle sue implicazioni. Essa è anche nell' esperienza e nella fantasia di semplici turisti o curiosi di archeologia per quella sua forma a pianta squadrata e regolare, frutto di esperienze successive e spiegata razionalmente. Le cose, per Rykwert, stanno in realtà ben diversamente, sono molto più complesse, implicano ben altro, e quella non è una semplice soluzione tecnica di problemi utilitari, bensì il prodotto di una particolare visione del mondo e di un rapporto armonico fra le leggi divine e il vivere umano. La complessa struttura geometrica della città romana, la sua localizzazione e il suo orientamento non derivano, come spesso si sostiene ma Rykwert confuta, dalla forma dell' accampamento; né sono invenzione di Ippodamo di Mileto (e in ogni caso Ippodamo fu un urbanista curioso di cose celesti); bensì da tutto un sistema di usanze e di credenze, per cui quella struttura fu anche il veicolo della diffusione di un' intera cultura e di un certo modo di vivere. Né fu, sia per la sua forma sia per le procedure con cui fu costituita, la sola nel mondo antico. Forma e procedure fanno anch' esse parte di quella civiltà del sacro che è poi andata perduta, più totalmente che mai nel mondo odierno, dove non sopravvive non solo il luminoso ma nemmeno il religioso (la religione, si pensi un po' , è come dice Cicerone "ciò che porta il pensiero e il culto di una natura superiore, che chiamiamo divina").

Di qui l' importanza che avevano i riti di fondazione e la loro memoria. Non per nulla i Romani ne festeggiavano il natale in coincidenza con la primavera, contavano gli anni ab urbe condita. Non per nulla vi convocavano sacerdoti e indovini, adottavano cerimoniali che Rykwert dice con ogni probabilità etruschi, di quel popolo che portava i segni delle sue origini orientali e presso cui la divinazione, dagli uccelli o dai visceri delle vittime dei sacrifici, era espertissimamente coltivata. Per gli storici romani, che li descrissero minutamente anche se non in modo strettamente concorde, quei riti rappresentavano la chiave d' interpretazione della storia di questa come delle altre città, quali quelle che i coloni greci avevano fondato in tutto l' arco del Mediterraneo portandosi dietro zolle di terra dalla città natale e custodendone sacralmente, e anche politicamente la memoria.

La localizzazione e l' orientamento erano fissati con studi e cerimonie che coinvolgevano gli àuguri con i bastoni ricurvi non meno degli agrimensori con i loro strumenti essi pure di origine divina, che solo Aristofane osò deridere (negli Uccelli, versi 992-1020). Äuguri e agrimensori guardavano al cielo non meno che al terreno: perché la città doveva riprodurre sul terreno il cielo; conteneva anch' essa nel suo mundus, uno scavo negli abissi infernali nel punto in cui s' incrociavano le due vie ortogonali fra nord e sud e fra ovest ed est. Gli àuguri dividevano la loro zona di osservazione celeste, il "tempio" come veniva chiamato, in quadranti per mezzo delle linee del cardo e del decumanos; e così i fondatori di città li tracciavano, li ricuperavano per sempre sul terreno. Il "cardine" vi designava l' asse intorno a cui ruota il sole, e quindi l' asse dell' universo; mentre il "decumano" divideva l' universo, e la città, da oriente a ponente.

Fra questi simboli trascendenti e perenni viveva l' uomo romano e in genere l' uomo antico (Rykwert dà paralleli non solo nell' ovvia Mesopotamia ma in India, Africa e America in tempi anche più recenti; né erano concepite in modo e con contenuti ideali sostanzialmente diverse le città immaginate dai grandi rinascimentali, la Sforzinde di Filarete o le Vedute prospettiche di Francesco di Giorgio). Quegli uomini avevano sotto gli occhi e si muovevano dentro una pianta dell' universo, partecipavano a cerimonie che la ricordavano e ribadivano annualmente. Mai si sarebbero attentati di intaccarla, perché era una misura sacra, che comunicava sicurezza e valore anche a loro stessi. Quando invece Freud, come osserva il nostro autore in suadenti pagine, descrive alcune metropoli moderne, Londra o Parigi, mostra come la struttura del modello urbano si sia disintegrata. Anche le memorie che vi sono sparse tacciono ormai per gli abitanti, quando non sono addirittura un ingombro per i suoi traffici. Haussmann, lo sventratore di Parigi antica e il costruttore della moderna, pensava che l' agglomerato urbano dovesse servire solo alla produzione e al consumo, e che i vincoli municipali per i suoi abitanti siano solo l' essere, essa, un grande mercato, un immenso opificio e un' arena per le loro ambizioni. Tracciò anch' egli i suoi assi ed ebbe qualche idea di percorsi, d' incroci e di prospettive, ma nessuna percezione o preoccupazione simbolica. E questa è una condizione "patologica" per la città moderna e per i suoi abitanti, laddove un romano sapeva che camminando lungo il cardo procedeva parallelamente all' asse incrollabile del sole, e camminando lungo il decumanos ne seguiva il corso immutabile; ed era in pace con gli dèi, che non è poco.

Joseph Rykwert ci dà questi avvisi non meno che queste notizie e interpretazioni: le seconde usando Plutarco e Livio, Vitruvio, Plinio e Frontino, i primi affiancandosi a Fustel de Coulanges, a Guénon, a Dumézil, persino a Simone Weil. Spiegando la città antica, dove si cercava di proteggere le personalità umane con la tutela della divinità e di armonizzare il proprio agire col volere degli dèi, addita la scissione che invece l' urbanesimo moderno ha introdotto e le "esistenze parapsicotiche" che ne derivano. Richiami, e libro, oggi ancor più necessari, o vani.

Joseph Rykwert, "L' idea di città. L' antropologia della forma urbana nel mondo antico", a cura di Giuseppe Scattone, Adelphi, Milano 2002, pagg. XXVIII-306, 30,00.

lunedì 15 aprile 2013

La prima Roma, una Storia e una capanna

tratto da Il Messaggero del 15 febbraio 2005


M.Guidi

Da qualche parte, nei Campi Elisi, Tito Livio, Dionigi d’Alicarnasso, Plutarco e Varrone stanno certamente facendo festa. Le loro storie, i loro racconti, definiti leggendari, mitici, ricostruzioni a posteriori di eventi mai avvenuti o avvenuti molto diversamente dal vero ricominciano a essere considerati per quel che loro li vollero e li scrissero, come storie. Anzi come la Storia, quella storia che forse non sarà magistra vitae o magari opus oratorium maxime , ma semplicemente il racconto, come secoli dopo avrebbe scritto un grande storico tedesco, von Ranke, dei fatti come accaddero e come li sappiamo rendere.Le scoperte che va facendo ormai da anni Andrea Carandini nello spazio del Palatino e del Foro repubblicano non solo rivalutano l'opera degli storici antichi, ma restituiscono alla storia quello che era ritenuto mito, leggenda, racconto favoloso di origini troppo spostate indietro nel tempo per poter essere credibili.Quella che sta risorgendo sotto la vanga dell’archeologo è davvero la Prima Roma, quella dei re sempre meno leggendari, quei re che un tempo, alle elementari, si mandavano a memoria come una filastrocca. Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Nomi leggendari e nomi storici mischiati. Ricordi di un tempo antichissimo quando Roma era probabilmente solo un agglomerato di capanne sul Palatino. Un agglomerato però circondato da un muro fin dall’VIII secolo e non, come per decenni e decenni sostennero tanti storici, una città fondata se va bene nel VII se addirittura nel VI secolo avanti Cristo. No, Roma, ora cominciamo a saperlo davvero, sorse se non proprio il 21 aprile del 753/54 prima di Cristo, certamente in un periodo di tempo molto vicino alla data tradizionale ab urbe condita .La scoperta di un grande palazzo, una reggia?, e di una vasta capanna, forse il primitivo spazio del fuoco di Vesta e casa delle sue sacerdotesse, le vestali, sta costringendo a ripensare tutto quello che pensavamo di sapere.Certo gli scavi del Palatino ci restituiscono un’immagine estremamente arcaica, la stessa grande casa che Andrea Carandini ha trovato vicino al tempio di Vesta usava come tetto una copertura vegetale simile a quella delle capanne. Ma le mura erano già di pietra e le ceramiche, lo avete letto ieri nel pezzo che annunciava la scoperta, erano di qualità finissima.Proviamo quindi a chiudere gli occhi e a immaginare come fosse questa Roma delle origini. Sulle estreme pendici del Palatino (perché, come ci spiega il professor Eugenio La Rocca, soprintendente archeologico del Comune di Roma, il Palatino si estendeva fino alla casa delle vestali, praticamente dal tempio del Divo Giulio all’arco di Tito era ancora Palatino) esistevano case patrizie, case che si estendevano sino ai limiti dell’area che sarebbe diventata poi il Foro.Il Foro allora era una pianura abbastanza malsana, percorsa da un ruscello, piena di acque stagnanti, tanto che, lo sappiamo, gli etruschi dovettero scavare la Cloaca Maxima, la madre di tutte le fognature, per liberarla dall’acqua. E d’altra parte proprio per evitare le acque morte, con le loro zanzare, i loro insetti e i loro miasmi, Roma prima di Roma era costituita nei secoli precedenti l’VIII, da villaggi, agglomerati di capanne sui colli. Il Palatino ma anche l’arce capitolina fu occupata da capanne e così altre alture vicine, come il Celio. Il cui nome, dice la tradizione, ricorda quel Celio Vibenna comandante etrusco, alleato di Macstarna, che in latino sarebbe diventato Magister e poi Servio Tullio. E la memoria corre alla tomba François di Vulci, dove Aule e Caile Vipinas, alleati con Macstarna, combattono contro Cnaive Tarcunies Rumach e nella scena compare anche un Marce Camitlans. Nomi che tradotti in latino assumono sembianze più note: Aulo e Celio Vibenna, appunto Magister-Servio Tullio, Cneo Tarquinio Romano, Marco Camillo.Una serie di villaggi che però dovettero cedere alla prima Roma quadrata, la Roma dei re. "Un grande merito di Andrea Carandini - è sempre il professor La Rocca che parla - è stato quello di effettuare scavi sistematici mettendo in luce la stratigrafia fino al terreno vergine. Questo è potuto avvenire perché nella zona dove ha lavorato non erano stati effettuati altri scavi come è successo altrove nel foro dove sono stati usati criteri molto più primitivi, tenendo scarsamente conto della stratigrafia, come purtroppo nel foro è avvenuto spesso. Così sono venuti alla luce la reggia, la casa delle vestali e il tempio dei Penati". I Penati, divinità familiari e private dei romani, delle gentes che costituirono almeno la S di Spqr, senatus populusque romanus (il senato e il popolo romano). I Penati che avevano il posto vicino al focolare e che proteggevano la loro gente.Ma c’è dell’altro, la reggia, il palazzo, chiamatelo come volete, messo in luce da Carandini ricorda la tradizione che volle assegnare al pio re Numa Pompilio la costruzione del tempio di Vesta. "E la vicinanza del palazzo scavato da Carandini con il tempio di Vesta va in questo senso", spiega La Rocca. E anche questo rivaluta, a ben pensare, gli storici antichi che queste notizie ci tramandarono. "Vede - osserva il soprintendente - noi sappiamo che i primi racconti furono certamente orali e un racconto orale nel giro di una generazione diventa mito, leggenda anche se porta dentro di sé sempre una parte di verità, del resto gli storici antichi credevano a quello che raccontavano e quello che raccontavano per loro era storia, era La Storia". E a guardare bene non è che poi si sbagliassero di molto. Certo, conveniamo con La Rocca, ogni tanto qualcuno più sveglio degli altri fa compiere alla narrazione storica un salto in avanti. È successo soprattutto con Tucidide, il grande narratore delle guerre del Peloponneso, ma successe per Roma con Eratostene, che obiettò che la primitiva leggenda che voleva Roma fondata da Enea o dal figlio non poteva reggere, dal momento che tra la guerra di Troia (circa 1180) e la fondazione di Roma passano oltre 4 secoli.Ma gli scavi del professor Carandini ora ci restituiscono quell’impasto di mito e di racconto reale, di fatti e di leggende che un tempo si ritenevano del tutto inattendibili mentre ora sappiamo che almeno nel quadro generale invece erano credibili e a modo loro veritieri. Anche se è sempre il professor La Rocca che spiega come a volte capiti che, ed è il caso dei due Tarquini, per mancanza di notizie, gli antichi tendessero ad attribuire a entrambi i re le stesse vicende, le stesse notizie in una reduplicazione che spetta a noi moderni risolvere.Ma a pensarci bene non è poi così importante, ora noi sappiamo che "Mito e leggenda celano sempre una narrazione storica. Bisogna soltanto saperla capire". E per capirla servono i fatti. Fatti come le mura di pietra, il grande cortile, la vicina capanna con i resti del focolare. Il ricordo di una domus ante litteram che ci piace pensare abitata dal pio Numa, reduce dai suoi colloqui con la Ninfa Egeria, mentre intorno un popolo trino, formato da latini, sabini ed etruschi andava nascendo e nella sua diversità interna nella sua mistione (ricordate le tre tribù originarie: Tities, Ramnes, Luceres?) aveva senza saperlo le fonti della sua grandezza futura, quando essere civis romanus non era necessariamente un fatto di razza o di nascita ma significava essere ascritti a un popolo che sapeva prendere un poeta come Ennio da Rudie o fare dell’umbro Plauto e dell’africano Terenzio i suoi massimi commediografi. E tutto ha inizio in quelle mura minuscole che recingevano il Palatino, in quella capanna-tempio di un fuoco perenne vigilato da vergini, in quella casa con i tetti ancora di frasche, in quel tempio dei Penati povero e primitivo.Ora non resta che sperare che Carandini trovi altro terreno non sconvolto nel foro in modo da poterci regalare qualche altra scoperta. Così apparentemente avulsa da noi ma così legata al nostro passato.