sabato 24 dicembre 2016

La simbologia occulta nella leggenda del Graal

Con estremo piacere vi segnaliamo il nuovo libro di Vito Foschi dedicato alla leggenda del Graal:

Il libro offre una lettura simbolica del Perceval di Chrétien de Troyes seguendo le lezioni di René Guénon. Dopo una descrizione della struttura del racconto che mette in evidenza una struttura tripartita tipica delle iniziazioni, che permette anche di ipotizzare una conclusione del romanzo lasciato incompiuto dall’autore, si passa ai vari aspetti simbolici contenuti nell’apparente semplice romanzo cavalleresco. Si scopre una ricchezza di simboli e significati molto densa, ritrovando aspetti iniziatici, del simbolismo alchemico, del mito del re sacerdote, il simbolismo dei colori, la simbologia del cuore e aspetti legati ai rituali agricoli e alla fecondità della terra.


Per poterlo acquistare e ve lo consigliamo veramente ;)



mercoledì 21 dicembre 2016

Che cos'è la pareidolia?

in collaborazione con Hesperya

tratto da: http://www.hesperya.net/il-ghost-hunting/che-cos-e-la-pareidolia/

di Stefano Urso

La pareidolia è l'illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili dalla forma casuale.
È la tendenza istintiva e automatica a trovare forme familiari in immagini disordinate; l'associazione si manifesta in special modo verso le figure e i volti umani. Classici esempi sono la visione di animali o volti umani nelle nuvole.
Si ritiene che questa tendenza sia stata favorita dall'evoluzione perché consente di individuare situazioni di pericolo anche in presenza di pochi indizi, ad esempio riuscendo a scorgere un predatore mimetizzato tra la vegetazione.
La pareidolia consente spesso di dare una spiegazione razionale a fenomeni apparentemente paranormali, quali le apparizioni di immagini su muri o la comparsa di spettri nelle fotografie.


domenica 18 dicembre 2016

Viaggiare nel tempo? Adesso è concepibile

tratto da L'Opinione del 14 ottobre 2016

Partiamo dalla relatività e, per provare a figurarcene gli effetti, pensiamo ad una vecchia pellicola cinematografica, di quelle di una volta, di celluloide, e immaginiamo di rallentare (o al contrario accelerare) il motore del proiettore durante la visione. Quello che accadrà sarà che il “tempo locale” del film proiettato non coinciderà più con il tempo della storia realizzata dal regista e noi potremmo alla fine ritrovarci ad aver trascorso tre ore, quando la sua durata sarebbe stata invece di un’ora sola. È solo una rappresentazione, abbiamo rallentato il film non la realtà, ma rende l’idea e aiuta a immaginare ciò che altrimenti è inimmaginabile, per noi che siamo sensorialmente e culturalmente del tutto impreparati all’idea. Grazie ad Albert Einstein, infatti, ormai sappiamo che il tempo è un fatto locale, relativo e cioè non un valore assoluto uguale ed immutabile ovunque - come abbiamo pensato per secoli - ma dipende in realtà dalla massa e dalla velocità del sistema di riferimento in cui viene misurato, cosicché, per esempio, viaggiando su di un razzo sufficientemente veloce per un tempo sufficientemente lungo, potremmo poi tornare sulla Terra e trovare i nipoti dei nostri nipoti e, magari, perfino più vecchi biologicamente di noi. E questa, anche se per ora sappiamo farlo solo con le particelle di cui allunghiamo la vita negli acceleratori, è già scienza dimostrata, passata in giudicato.

Fin qui Einstein. Ma ora immaginate di proiettare il film all’incontrario, facendo andare il motore del proiettore all’indietro. Ciò che succederà sarà che, nella visione, quello che nel film è il futuro diventerà il passato, il tempo locale sarà addirittura invertito, perché vediamo la pellicola dalla fine all’inizio. E questo è reso possibile da un fatto fondamentale: la persistenza delle immagini sulla striscia di celluloide, che non scompaiono durante una proiezione e sono sempre riproiettabili, il che vale a dire, in questa rappresentazione, la persistenza degli “attimi” di tempo. Il passato cioè non passa, non scompare e dunque potremmo ripercorrerlo. Se poi tagliamo uno o più fotogrammi o magari ne incolliamo di nuovi, avremo proprio cambiato la storia del film, a partire dal punto in cui interveniamo, e inoltre il film, modificato o no, possiamo riproiettarlo quante volte vogliamo ed in epoche successive. Questo, nei limiti della raffigurazione scelta, è quello che succede con la nuova teoria chiamata Open Quantum Relativity (OQR), perché in questa teoria emergono non una, ma due frecce del tempo: una, quella tradizionale, rivolta verso ciò che chiamiamo futuro ed un’altra rivolta verso quello che chiamiamo passato ed inoltre il passato non scompare.

Uscendo dal semplice modello puramente esplicativo, è chiaro che una teoria che preveda due frecce del tempo, anziché una sola, non può non avere ricadute enormi sulla concezione del tempo stesso e segnatamente sull’ipotesi dei viaggi nel tempo, che a questo punto non sarebbero più in effetti solo “ritardi temporali” come nella relatività. Né ipotesi di complicati artifici spazio-temporali inventati per inseguire un puro sogno, ma una tesi basata su di una realtà sottostante di portata generale, anche se sensorialmente a noi invisibile, che li renderebbe davvero concepibili. Ma perché questa teoria è nata e perché è nata oggi? Perché le scoperte di raffinate tecniche sperimentali e l’avanzare della fisica teorica hanno posto in evidenza delle contraddizioni, che non erano ipotizzabili prima. Ne citerò solo tre: il teletrasporto quantistico che permetterebbe di trasferire informazioni a qualunque distanza “istantaneamente” (il che vuol dire a velocità infinita, contraddicendo la relatività che vuole che la velocità della luce sia insuperabile), la scomparsa di massa-energia nei buchi neri (che contraddice le leggi di conservazione) e infine il paradosso di Einstein (sempre lui), Podolsky e Rosen, a partire proprio dal quale la nuova teoria ha preso le mosse. I tre scienziati, nel 1933, misero in evidenza come ci fosse una frattura insanabile fra quantomeccanica e relatività, perché, seguendo la meccanica quantistica nella formulazione di Bohr e della scuola di Copenhagen, l’assoluta contemporaneità degli effetti indotti da un oggetto su di un altro, quantisticamente correlato, si realizza a prescindere dalla loro distanza, arrivando a contraddire la relatività, che stabilisce l’impossibilità di avere conseguenze “istantanee” di una correlazione tra oggetti lontani tra loro e infine anche la logica, perché, data l’impossibilità della contemporaneità richiesta dalla quantomeccanica, si avrebbe in definitiva “la possibilità di interagire con un oggetto correlato senza... poter interagire realmente con esso”.

La contraddizione tra le due più grandi teorie fondamentali del secolo scorso, per di più entrambe confermate da moltissime osservazioni, rendeva impossibile procedere ad impostare il nuovo problema del tempo in un quadro di riferimento unitario e consistente. La Open Quantum Relativity riesce ad unificare le due teorie in un quadro comune e, a partire dall’unico principio assunto che le leggi di conservazione non possano essere mai violate (il che non è certo irragionevole), risulta, per deduzioni matematiche, essere una teoria simmetrica nella quale le evoluzioni del tempo, in avanti e all’indietro, sono entrambe permesse. E, se esiste una freccia temporale che va all’indietro, non dobbiamo più immaginare contorsioni logiche per ipotizzare una “macchina del tempo”, come si è fatto fino ad oggi, ma semplicemente partire da lì. Questa, se confermata, sarebbe la conseguenza di gran lunga più importante di una teoria generale, che comunque sembra impostata correttamente, sia perché è basata su di un solo postulato, da cui derivare tutti gli ulteriori sviluppi senza necessità di correzioni “poste a mano”, sia perché sono già molti i campi in cui questa teoria (sviluppata ormai da anni in decine di lavori, sulle principali riviste scientifiche dedicate) si dimostra coerente con i dati sperimentali e le più recenti osservazioni astrofisiche. Ad esempio la dinamica dei “buchi neri”, la curva di rotazione piatta delle galassie, il teletrasporto quantistico, i principali parametri cosmologici (come l’Età dell’universo).

Nel teletrasporto quantistico, per citare un caso, ci sono diversi gruppi sperimentali che hanno mostrato di aver scoperto che è possibile trasferire un’informazione istantaneamente e quindi violare la relatività. Se il fenomeno verrà ulteriormente confermato, lo si può spiegare senza violare la relatività, perché in Oqr non occorrerebbero trasformazioni superluminali, cioè più veloci della luce, ma a-luminali, che non implicano nessuna violazione del limite della velocità della luce. Per fare un esempio: ci vorrà un determinato tempo per andare da New York a Los Angeles, ma se immaginiamo una curvatura dello spazio-tempo (già prevista in relatività generale) tale da far combaciare le due città come se fossero i lembi di una carta geografica, lo spostamento sarebbe a-luminale, senza violare il limite della velocità finita della luce. La spiegazione in Oqr dei buchi neri è un altro elemento convincente, perché un buco nero si potrebbe considerare come una macchina del tempo naturale, che “buca” lo spazio-tempo e conduce in un’altra zona dello spazio-tempo stesso, dove fuoriesce come “fontana bianca”, sotto forma di emissioni ad altissima energia (i Gamma ray bursts) già osservate, ma finora non convincentemente spiegate. Ed è immediato che il principio di conservazione risulta rispettato, perché non si ipotizza più una massa-energia che “scompaia” nel buco nero.

È probabilmente più facile immaginare un viaggio nel tempo attraverso un buco nero, che attraverso una macchina del tempo artificiale. Tuttavia è vero il contrario a livello di ipotetica realizzazione, perché noi non possiamo portarci all’ingresso di un buco nero istantaneamente e, dunque, uno sarebbe schiacciato e ridotto a particelle dall’enorme forza di attrazione gravitazionale, prima di poter arrivare al buco nero stesso. Il meccanismo dell’ipotetica macchina del tempo, naturale o artificiale che sia, è però sempre lo stesso: la natura reagisce al tentativo di violare - in maniera non altrimenti evitabile - una legge di conservazione, cambiando la topologia dello spazio-tempo e consentendo così un teletrasporto istantaneo (il viaggio a-luminale di prima). Sarebbe questo il motore del fenomeno, quando la natura non ha altro modo di evitare una violazione, cambia la topologia, il che vuol dire, sempre per esemplificare, che se usiamo in una descrizione delle coordinate cilindriche, con una freccia a descrivere il tempo ed una circonferenza a descrivere lo spazio, dobbiamo invertirle descrivendo invece il tempo con la circonferenza. C’è un precedente illustre e divertente, risalente al 1947, quando un grande logico matematico austriaco, Kurt Gödel, si presentò, formale com’era, in abito da cerimonia (secondo la vulgata attribuibile al nobel indiano Chandrasekhar) a Princeton, nello studio di Einstein, trasandato invece come sempre, nel giorno in cui quest’ultimo compiva gli anni, portandogli come “regalo” una soluzione delle equazioni di campo einsteiniane, ma con una novità molto innovativa. La novità consisteva nel fatto che tali equazioni ammettevano soluzioni con linee temporali “circolari”, mentre fino ad allora si credevano possibili solo soluzioni con linee temporali longitudinali. Diveniva possibile, insomma, ripercorrere il tempo... percorrendo il cerchio. Era solo un elegante formalismo matematico, eppure c’era sotto qualcosa di profondo significato fisico, perché, nel momento in cui la Oqr, partendo da leggi fisiche, porta davvero alla situazione in cui è ammesso questo cambio di topologia, beh, allora il discorso ipotetico di Gödel, entra in un quadro teorico basato su una teoria dinamica. Il semplice formalismo diventa così, grazie all’Oqr, una legge fisica e apre la strada almeno alla concepibilità di una macchina del tempo.

E questo porta ad un’altra grande conseguenza e cioè che la teoria dei Many Worlds o Molti Universi, già nota, diviene necessaria. Questa teoria, esistente ormai da tempo, diviene necessaria perché, se dalle equazioni è possibile ipotizzare di andare indietro nel tempo, questo vuol dire interferire nello spazio-tempo stesso. Anche il semplice fatto di andarci con un oggetto che ti ci porta è una perturbazione, che conduce a dire che si è determinato un “altro universo”, perché l’universo che conosciamo, quello che si chiama “la nostra linea di mondo”, non è cambiato nel suo passato e non può cambiare, è sempre lo stesso. E allora, se davvero si può ritornare nel passato e modificarlo, portando una persona ad interferire in esso, ciò equivale a creare un’altra linea di mondo, uguale alla nostra fino all’interferenza, ma diversa successivamente. E si spiega bene con un esempio paradossale: se uno può andare indietro nel tempo ed uccidere la propria nonna prima della nascita del proprio padre, come può farlo se suo padre non era ancora nato e lui di conseguenza non esiste? Questo però non è più generalmente vero, se si ipotizzano gli universi paralleli, che diventano a questo punto una necessità, per permettere l’ipotesi di viaggi “perturbativi” nel passato (e mantenere valido il principio generale di conservazione). Uno torna indietro nel tempo, uccide la nonna e crea un universo parallelo uguale al nostro, in cui però non esistono né lui giovane né suo padre, ma c’è in più uno sconosciuto assassino. Potremmo forse vincere al totocalcio pre-conoscendo i risultati, ma in un “altro” mondo, un mondo del tutto familiare e praticamente uguale, ma da quel momento in poi differente.

Il viaggio nel tempo qui ipotizzato è diverso da come lo potevamo immaginare, ma questo è sempre successo nel passaggio dalle speculazioni intellettuali alle scoperte scientifiche, quando sognavamo di volare pensavamo di metterci piume sulle braccia e agitarle, poi abbiamo volato in tutt’altra maniera, con una macchina a combustione interna e con un apparato metallico. Però, anche se in un modo del tutto diverso da come ce l’eravamo immaginato, noi oggi davvero voliamo. Il viaggio nel tempo che risulterebbe da questa teoria non è quello che uno potrebbe pensare: cioè di poter interferire nella propria vita in questo mondo, però sarebbe lo stesso un viaggio nel tempo vero, perché si potrebbe, in ipotesi, tornare indietro e determinare una vita differente cambiandone i particolari, pur nello stesso quadro generale, nella stessa epoca e con le stesse persone, in un mondo insomma quasi del tutto simile e inoltre quante volte si vuole. Oppure cambiare la propria vita in epoche completamente diverse e, molto probabilmente, senza perdere autocoscienza. perché legati al tempo della macchina con cui si viaggia. È una teoria, certo, però attenzione il termine teoria in fisica ha un significato diverso che nel parlare comune; nella fisica una teoria non è una semplice ipotesi, ma una costruzione matematica che procede per dimostrazioni e fatta in modo da essere confermabile o smentibile dagli esperimenti, oltre che coerente con i dati sperimentali già esistenti e questo la Open Quantum Relativity lo è. Non è insomma una mera semplice ipotesi. E, d’altronde, la stessa relatività fu ritenuta vera, già ben prima che Enrico Fermi la dimostrasse definitivamente tale con la pila atomica. A conclusione, possiamo dire con assoluta certezza che potremmo viaggiare nel Tempo, modificando così radicalmente il modo di porci nell’universo ed il senso stesso della nostra vita? No, non possiamo, però possiamo dire che è concepibile, il che è già enorme.


domenica 11 dicembre 2016

Silenzio e solitudine

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/silenzio-e-solitudine/

di René Guénon

Presso gli Indiani dell’America del Nord, e in tutte le tribù senza eccezione, esiste, oltre ai riti di diverso genere che hanno un carattere collettivo, la pratica di un’adorazione solitaria e silenziosa, che è considerata come la più profonda e dell’ordine più elevato[1]. I riti collettivi, infatti, a un grado o a un altro, hanno sempre qualcosa di relativamente esteriore; diciamo a un grado o a un altro, poiché, al riguardo, occorre naturalmente fare, lì come in ogni altra tradi­zione, una differenza tra i riti che potrebbero essere qualificati come exoterici, vale a dire quelli ai quali tutti partecipano indistintamente, e i riti iniziatici. È d’altronde beninteso che, lungi dall’escludere tali riti o d’opporvisi in qualunque modo, l’adorazione di cui si tratta vi si sovrappone solamente come un qualcosa in certo qual modo di un altro ordine; ed è anche il caso di pensare che per essere veramente efficace e produrre dei risultati effettivi, essa deve presupporre l’iniziazione come una condizione necessaria[2].

In merito a quest’adorazione, si è talvolta parlato di “preghiera”, ma ciò è evidentemente inesatto, giacché non v’è in essa alcuna domanda, di qualsivoglia natura; le preghiere, formulate generalmente in canti rituali, non possono d’altronde rivolgersi che alle diverse manifestazioni divine[3], e vedremo che qui in realtà si tratta di tutt’altra cosa. Sarebbe certamente molto più giu­sto parlare d’“incantazione”, prendendo questa parola nel senso che abbiamo definito altrove[4]; si potrebbe pure dire che è un’“invocazione”, intendendola in un senso esattamente paragonabi­le a quello del dhikr nella tradizione islamica, ma precisando che è essenzialmente un’invoca­zione silenziosa e tutta interiore[5]. Ecco quanto scrive sull’argomento Ch. Eastman[6]: «L’adora­zione del Grande Mistero era silenziosa, solitaria, senza complicazione interiore; era silenziosa perché ogni discorso è necessariamente debole e imperfetto, perciò le anime dei nostri antenati raggiungevano Dio in un’adorazione senza parole; era solitaria perché essi pensavano che Dio è più vicino a noi nella solitudine, e non c’erano affatto preti a fungere da intermediari tra l’uomo e il Creatore»[7]. Difatti, non possono esservi intermediari in un caso simile, poiché quest’adora­zione tende a stabilire una comunicazione diretta con il Principio supremo, che è designato qui come il “Grande Mistero”.

Non solamente è unicamente nel e con il silenzio che tale comunicazione può essere otte­nuta, poiché il “Grande Mistero” è al di là d’ogni forma e d’ogni espressione, ma il silenzio stesso «è il Grande Mistero»; come bisogna intendere esattamente tale affermazione? In primo luogo, si può ricordare a tale proposito che il vero “mistero” è essenzialmente ed esclusivamente l’inesprimibile, che può evidentemente essere rappresentato solo dal silenzio[8]; ma, per di più, essendo il “Grande Mistero” il non-manifestato, il silenzio stesso, che è propriamente uno stato di non-manifestazione, è con ciò come una partecipazione o una conformità alla natura del Principio supremo. D’altra parte, il silenzio, riferito al Principio, è, si potrebbe dire, il Verbo non proferito; per questo «il silenzio sacro è la voce del Grande Spirito», in quanto questo è identificato al Principio stesso[9]; e questa voce, che corrisponde alla modalità principiale del suono che la tradizione indù designa come parâ o non-manifestata[10], è la risposta all’appello dell’essere in adorazione: appello e risposta egualmente silenziose, essendo entrambe un’aspira­zione e un’illuminazione puramente interiori.

Perché sia così, occorre d’altronde che il silenzio sia in realtà qualcosa di più della semplice assenza di parole o discorsi, fossero pure formulati solamente in modo mentale; e, difatti, questo silenzio è essenzialmente, per gli Indiani, «l’equilibrio perfetto delle tre parti dell’essere», cioè di quanto, nella terminologia occidentale, si può designare come lo spirito, l’anima e il corpo, giacché l’essere intero, in tutti gli elementi che lo costituiscono, deve partecipare all’adorazione affinché un risultato pienamente valevole possa esserne ottenuto. La necessità di tale condizione d’equilibrio è facile da comprendere, giacché l’equilibrio è, nella stessa manifestazione, come l’immagine o il riflesso dell’indistinzione principiale del non-manifestato, indistinzione che è ben rappresentata anche dal silenzio, cosicché non ci si deve stupire in nessun modo dell’assi­milazione che così si stabilisce tra quest’ultimo e l’equilibrio[11].

Quanto alla solitudine, conviene notare innanzitutto che la sua associazione con il silenzio è in certo qual modo normale e anzi necessaria, e che, anche in presenza di altri esseri, colui che fa in sé il perfetto silenzio s’isola forzatamente da loro con ciò stesso; del resto, silenzio e solitudine sono anche implicati entrambi in ugual misura nel significato del termine sanscrito mauna, che, nella tradizione indù, è con ogni probabilità quello che s’applica il più esattamente a uno stato come quello di cui parliamo presentemente[12]. La molteplicità, essendo inerente alla manifestazione, e accentuandosi, se si può dire, quanto più si discende ai gradi più inferiori di questa, allontana dunque necessariamente dal non-manifestato; perciò l’essere che vuole met­tersi in comunicazione con il Principio deve anzitutto fare l’unità in se stesso, nella misura del possibile, mediante l’armonizzazione e l’equilibrio di tutti i suoi elementi, e deve anche, nello stesso tempo, isolarsi da ogni molteplicità a lui esteriore. L’unificazione così realizzata, anche se ancora solo relativa nella maggioranza dei casi, costituisce nondimeno, secondo la misura delle attuali possibilità dell’essere, una certa conformità alla “non-dualità” del Principio; e, al limite superiore, l’isolamento assume il senso del termine sanscrito kaivalya, che, esprimendo nello stesso tempo le idee di perfezione e di totalità, arriva, quando ha tutta la pienezza del suo significato, a designare lo stato assoluto e incondizionato, quello dell’essere che è pervenuto alla Liberazione finale.

A un grado molto meno elevato di quello, e che appartiene anzi ancora solo alle fasi prelimi­nari della realizzazione, si può far osservare questo: là ove v’è necessariamente dispersione, la solitudine, in quanto s’oppone alla molteplicità e coincide con una certa unità, è essenzialmente concentrazione; e si sa quale importanza è data effettivamente alla concentrazione, da tutte le dottrine tradizionali senza eccezione, in quanto mezzo e condizione indispensabile d’ogni rea­lizzazione. Ci sembra poco utile insistere oltre su quest’ultimo punto, ma v’è un’altra conse­guenza sulla quale teniamo ancora a richiamare più particolarmente l’attenzione terminando: è che il metodo di cui si tratta, con ciò stesso che s’oppone a ogni dispersione delle potenze del­l’essere, esclude lo sviluppo separato e più o meno disordinato di taluni o talaltri suoi elementi, e segnatamente quello degli elementi psichici coltivati in certo qual modo per se stessi, sviluppo che è sempre contrario all’armonia e all’equilibro dell’insieme. Secondo Paul Coze, per gli Indiani «sembra che, per sviluppare l’orenda[13], intermediario tra il materiale e lo spirituale, oc­corra anzitutto dominare la materia e tendere al divino»; questo insomma equivale a dire che essi considerano come legittimo accostare il dominio psichico solo “dall’alto”, essendo i risultati di quest’ordine ottenuti soltanto in modo del tutto accessorio e come “in sovrappiù”, il che è infatti il solo mezzo per evitarne i pericoli; e, aggiungeremo, ciò è certamente quanto di più lontano dalla volgare “magia” che troppo sovente è stata loro attribuita, e che è persino tutto quel che hanno creduto vedere presso di loro degli osservatori profani e superficiali, con ogni probabilità perché essi stessi non avevano la minima nozione di quel che può essere la vera spiritualità.

René Guénon

[1] Le informazioni che utilizziamo qui sono tratte principalmente dall’opera del sig. Paul Coze, L’Oiseau Tonnerre, da cui traiamo pure le nostre citazioni. Quest’autore dimostra una notevole simpatia nei riguardi degli Indiani e della loro tradizione; la sola riserva che andrebbe fatta, è che egli pare alquanto influenzato dalle concezioni “metapsichiche”, il che ha palesemente impatto su alcune sue interpretazioni e segna­tamente comporta talvolta una certa confusione tra lo psichico e lo spirituale; ma tale considerazione non deve d’altronde intervenire nella questione di cui ci occupiamo qui.

[2] Va da sé che, qui come sempre, intendiamo l’iniziazione esclusivamente nel suo vero senso, e non in quello in cui gli etnologi impiegano abusivamente questa parola per designare i riti d’aggregazione alla tribù; bisognerebbe avere molta cura di distinguere nettamente queste due cose, che in realtà esistono entrambe presso gli Indiani.

[3] Nella tradizione degli Indiani, queste manifestazioni divine sembrano essere il più abitualmente ri­partite secondo una divisione quaternaria, conformemente a un simbolismo cosmologico che s’applica contemporaneamente ai due punti di vista macrocosmico e microcosmico.

[4] Vedere Aperçus sur l’initiation, cap. XXIV.

[5] A questo proposito è interessante notare che certe turuq islamiche, segnatamente quella dei Naqsha­bendiyah, praticano anche un dhikr silenzioso.

[6] Ch. Eastman, citato dal sig. Paul Coze, è un Sioux d’origine, che pare, malgrado un’educazione “bianca”, aver ben conservato la coscienza della propria tradizione; abbiamo d’altronde delle ragioni per pensare che il suo caso sia in realtà lungi dall’essere così eccezionale come si sarebbe tentati di credere quando ci si arresti a certe apparenze tutte esteriori.

[7] L’ultima parola, il cui impiego qui è con ogni probabilità dovuto unicamente alle abitudini del lin­guaggio europeo, non è certamente esatto se si vuole andare al fondo delle cose, giacché, in realtà, il “Dio creatore” non può propriamente trovare posto che tra gli aspetti manifestati del Divino.

[8] Vedere Aperçus sur l’initiation, cap. XVII.

[9] Facciamo questa restrizione poiché, in certi casi, l’espressione “Grande Spirito”, o quel che così si traduce, appare anche solamente come la particolare designazione di una delle manifestazioni divine.

[10] Cf. Aperçus sur l’initiation, cap XLVII.

[11] È appena il caso di ricordare che l’indistinzione principiale di cui qui si tratta non ha niente in comune con ciò che si può anche designare con la stessa parola presa in un senso inferiore, vogliamo dire la pura potenzialità indifferenziata della materia prima.

[12] Cf. L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, 3a edizione, cap. XXIII.

[13] Questa parola orenda appartiene propriamente alla lingua degli Irochesi, ma, nelle opere europee, s’è presa l’abitudine, per maggiore semplicità, d’impiegarla uniformemente al posto di tutti gli altri termini con lo stesso significato che s’incontrano presso i diversi popoli indiani: ciò che essa designa è l’insieme di tutte le differenti modalità della forza psichica e vitale; è dunque pressappoco l’esatto equi­valente del prâna della tradizione indù e del k’i della tradizione estremo-orientale.

sabato 3 dicembre 2016

Apollodoro: Ermes, Zeus e gli inferi

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleone.it/apollodoro-di-ermes-zeus-fa-il-messaggero-suo-e-degli-dei-inferi/

In Apollodoro il legame tra principio ermetico e il ciclo morte-vita iniziatico

La frase di Apollodoro : Di Ermes, Zeus fa il messaggero suo e degli dei inferi. Obbliga alla riflessione sul rapporto tra le forze ctonie o dell’oltremondo e la vita iniziatica. Dovrebbe apparire sempre più evidente da un lato l’identificazione tra Hermes (Ermes) ed Ermete, identificazione basata più sull’analogia che sulla storiografia e dall’altro come il principio ermetico sia in fin dei conti principio primo delle iniziazioni. Della figura di Ermes Ermete ho già detto in altri luoghi, di come possa rappresentare il dio, il principio del limite attraverso l’hérma (sarebbe interessante un approfondimento, una indagine tra hérma e Landamarks), come rappresenti il principio della rottura dei tabù e il tabù più grande che viola è proprio quello del confine tra il mondo dei vivi ed il mondo dei morti.

Ed è Apollodoro a farci sapere che è Zeus a crearlo messaggero degli inferi, Ermes ha la possibilità di viaggiare senza rischio alcuno in quel luogo che era avverso agli dei dell’Olimpo, essi che erano presenti dove era la vita ed assenti ove era la morte. Il buon pastore Ermes, con il bastone dorato donatogli dal fratello Apollo o con il caduceo con cui viene più spesso raffigurato (che siano lo stesso bastone?) percorre cieli e inferi, accompagna le anime, solo dei defunti?

Ogni iniziato è in Hermes, è nel principio ermetico. Questo, il principio con cui vengono regolamentate le scienze ermetiche, spesso in base ad i testi della tradizione alessandrina, esse divengono: l’Alchimia, l’Astrologia e la Magia. Hermes è iniziato e iniziatore, è colui che dona il fuoco agli uomini, il fuoco dei sacrifici, neonato sacrifica due vacche. Quante somiglianze ci potrebbero essere tra la stirpe di Caino ed Ermes.

Già gli inferi, ogni iniziato è un ri-nato, ha fatto del V.I.T.R.I.O.L. una esperienza di vita. Raccontare l’oltremondo non è possibile e l’iniziazione ancora meno, ma bisogna parlarne per combattere la superstizione ed il pregiudizio. Queste poche righe sono al massimo una piccola provocazione o un memento mori per chi ha orecchie per intendere.

Gioia – Salute – Prosperità