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mercoledì 22 febbraio 2023

La civiltà è sulle spalle dei Giganti di Mont'e Prama

tratto da "Il Giornale" del 31 luglio 2022

Dal sito "sacro" continuano a emergere statue. E a Cabras è pronto il museo che le accoglierà tutte

Luigi Mascheroni


Cabras (Oristano). La storia che raccontano i Giganti di Mont'e Prama è lunga tremila anni, dal IX secolo a.C., quando furono scolpiti ed eretti lungo la strada che corre verso lo Stagno di Cabras, fino a oggi, orgoglio della Sardegna, custodi di pietra di un passato ancestrale, eroico, misterioso. Furono scoperti, nella primavera del 1974, da due contadini, quando il loro aratro incocciò una pietra levigata che sembrava un volto. Poi ne trovarono un'altra, e un'altra ancora... Ci vollero anni per capire cosa fossero quei frammenti, di chi erano quei volti. Ma si intuì subito che si trattava della più grande scoperta archeologica d'epoca recente nell'area del Mediterraneo.

Penisola del Sinis, Sardegna centro-occidentale, attorno al grande stagno di Cabras. Oggi la terra è cotta dal sole, il caldo dell'estate è torrido, i centri abitati rari, isolati. Nel I millennio a.C. era una terra pianeggiate, fertile e per quei tempi ricca: per la caccia, la pesca, le insenature, il golfo, l'acqua dolce, la posizione felice per i commerci, le risorse minerarie. Il Sinis, a nord, è chiuso dai Montiferru. È qui, dove la presenza di uomini civilizzati è attestata da almeno settemila anni, che ai piedi della bassa collina - poco più di 50 metri sul livello del mare nel corso del IX secolo a.C. alcune comunità tardo nuragiche cominciano a seppellire i loro morti in tombe a pozzetto, coperte da cumuli di pietra, e poi, col passare del tempo, crescendo la potenza e la ricchezza di una società sorprendentemente avanzata e complessa, decidono di scolpire grandi statue nell'arenaria, in blocchi estratti da cave distanti qualche chilometro da qui, per arricchire la parte più nobile della necropoli, probabilmente riservata all'élite guerriera e sacerdotale. Eccoli, i Giganti di Mont'e Prama. Non si sa chi siano esattamente (antenati? eroi mitici delle leggende nuragiche?) ma di certo il loro compito era sorvegliare, silenziosi e imponenti, le tombe disposte sulla via sacra che scendeva verso lo stagno. Finora, dal '74 a oggi (due nuovi ritrovamenti sono stati fatti a maggio, due mesi fa) dal terreno, a trenta centimetri circa di profondità, sono emersi 5.178 frammenti che hanno permesso di ricostruire, parzialmente, 32 grandi statue, alte fra il metro e 85 e i due metri e 15 centimetri, collocate su basamenti di pietra e che avevano, in origine, anche elmi con corna animali molto lunghe, quindi di molto superiori all'altezza media degli uomini dell'epoca, e raffiguranti almeno tre diversi «tipi» di uomini: i guerrieri, i pugilatori e gli arcieri. Le statue, che non hanno altri paragoni con la storia dell'arte occidentale, sono bianche e lisce, ma non è escluso che in origine avessero uno strato di colore, e di certo portavano, in pugno e sulla schiena, lance e spade di ferro. Se oggi gli studiosi sono concordi nel ritenere che la funzione dei Giganti fosse quella di segnare dal punto di vista monumentale un luogo sacro, resta da capire quali popolazioni, in quale epoca - forse prima dell'arrivo dei punici - e per quale ragione abbatterono le statue, distruggendole. La caduta dei Giganti fu provocata da una «guerra civile»? O da invasori? O da cause naturali (che però non spiegherebbero la frammentazione)?

«Sos gigantes de Monti Prama», si dice in sardo. A oggi le statue ricostruite sono 28, più altre quattro da ricomporre, ma chissà quante altre giacciono nascoste sottoterra: la campagna di scavi continua e sarà ancora lunga. Venti sono al Museo archeologico di Cagliari, una è itinerante per una mostra, una in restauro e sei sono qui, al Museo di Cabras, centro nevralgico del Sinis, a pochi chilometri in linea d'aria, al di là dello stagno, dall'area dei ritrovamenti, destinata a breve a diventare Parco archeologico protetto. Eccoli qui i sei giganti di Cabras, allineati uno accanto all'altro nell'ultima sala del percorso di visita: l'allestimento è semplice, per nulla scenografico, ma l'effetto è potente. Vederli a pochi centimetri, accorgersi delle lunghe trecce che scendono sul busto, distinguere le decorazioni dei gambali, fissare i grandi occhi rotondi a doppio cerchiello che ricordano il robot di Guerre stellari C-3PO, notare i dettagli delle stole... - ci indica tutto l'archeologa Nicoletta Camedda che ci accompagna nella visita - è qualcosa di incomparabile, e di magico. Qui, nei depositi del museo, ci sono anche le due statue disseppellite da poco.

Ma presto tutti i Giganti - questi di Cabras, quelli di Cagliari e quelli in restauro - saranno radunati in un unico luogo, nella nuova ala del museo, qui accanto. È un lungo parallelepipedo orizzontale affacciato sullo stagno: sugli ampi pannelli esterni si vedono già delle meravigliose decorazioni che citano le sculture di sabbia del grande artista sardo Costantino Nivola, e all'interno è suddiviso in due grandi sale in cui sarà ricostruita la necropoli di Mont'e Prama. «L'ala del museo sarà terminata entro l'anno e l'apertura con il nuovo allestimento è prevista per la primavera 2023, e a quel punto, una volta trasformato il sito degli scavi in Parco archeologico, invece di arrivarci con i pullman o in auto - ora ci vuole un quarto d'ora circa - si potrà raggiungerlo direttamente dal museo attraverso lo stagno con un battello elettrico», spiega Anthony Muroni, nato in Australia ma sardo di origine, presidente della Fondazione Mont'e Prama costituita dal ministero per i Beni culturali un anno fa per valorizzare l'immenso patrimonio del sito archeologico. «Stiamo organizzando un tour europeo dei Giganti a Parigi, Barcellona e Londra; e poi negli Stati Uniti nel 2023-24, sulle due coste, a New York e San Francisco. E poi nel 2025 l'obiettivo è il gemellaggio tra i Giganti di Mont'e Prama e i guerrieri di Xi'an, in Cina, con due grandi esposizioni parallele. C'è un filo rosso che lega le grandi statue del Sinis all'Esercito di terracotta cinese: sono entrambi testimoni di due straordinarie civiltà del passato e sono stati scoperti nello stesso anno, il 1974». Da allora sono passati quasi cinquant'anni. Per molto tempo di loro non si sapeva nulla. Oggi i Giganti, pronti a entrare in una nuova casa, sono diventati quasi gente di famiglia, per i sardi. 

mercoledì 22 aprile 2020

Un genovese disegna Atlantide in Sardegna

tratto da "Il Giornale" del 18/07/2006

di Irene Liconte

«L'isola era completamente circondata da mura di pietra su cui si ergevano torri di avvistamento»: così Platone descrive nel «Crizia» la mitica isola di Atlantide, posta oltre le colonne d'Ercole. E se le vestigia dell'imponente architettura difensiva di Atlantide non fossero altro che i nuraghi sardi? Che Atlantide sia identificabile con la Sardegna è l'ipotesi (mutuata dal giornalista e scrittore Sergio Frau) che il disegnatore genovese Enzo Marciante adotta in «Atlantis», il suo ultimo romanzo a fumetti, incentrato sulla guerra mossa da Atlantide all'Egitto nel 1200 a.C. Le opere di Marciante, da «Genova a fumetti» alle biografie di Colombo e Marco Polo, si basano tutte su una rigorosa analisi storica: ecco allora che l'ardita teoria di «Atlantis» è stata sottoposta a un vero processo con tanto di giuria archeologico-scientifica al BerioCafè.
Marciante «sposta» le colonne d'Ercole dallo stretto di Gibilterra al canale di Sicilia proprio sulla base delle fonti antiche, che descrivono i bassi fondali insidiosi e la bonaccia di venti del braccio di mare tra le colonne: caratteristiche che non si adattano alle perturbazioni atlantiche e ai 300 metri di profondità dello stretto di Gibilterra, bensì al canale di Sicilia. Nell'ultima glaciazione il livello del mare sarebbe diminuito di ben 200 metri, facendo affiorare tra la Sicilia e la Libia terre oggi sommerse. La favolosa civiltà di Atlantide coinciderebbe quindi con la civiltà nuragica dell'Età del Bronzo (II°-I° millennio a. C.), artefice di maestosi megaliti alti fino a 25 metri: i nuraghi, appunto. E sono 8000 i nuraghi rinvenuti, sia singole torri sia fortezze come il complesso di Barumini, testimonianze di un'evoluta tecnica di lavorazione della pietra.
Eleganti miniature di navi in bronzo, custodite al Museo Archeologico di Cagliari, rivelano anche un'avanzata tecnica nautica. Le statuette bronzee di animali ritraggono cervi, daini e cinghiali, anziché pecore ed agnelli, mentre quelle umane rappresentano guerrieri armati di scudi, elmi ed archi. E nel tempio di Medinet Habu, in Egitto, l'affresco raffigurante la guerra mossa agli Egizi dai Libi e dai loro alleati, «i popoli del mare» (tra cui le fonti egizie citano gli Shardana, cioè i Sardi) mostra combattenti equipaggiati proprio come i guerrieri del museo di Cagliari. Un popolo di guerrieri e navigatori più che di pastori, quindi, che fortificò un'isola allora lussureggiante di querce, in gran parte abbattute nell'800 per ricavare le traversine della nascente rete ferroviaria italiana. Una civiltà distrutta forse da bellicosi invasori, forse da un terribile cataclisma: un maremoto causato da un'eruzione della faglia siciliana? La catastrofe, secondo Marciante, provocò ai discendenti un trauma collettivo tanto acuto che il ricordo fu relegato nei recessi del mito, sprofondando nel senso del pudore connaturato ai Sardi.
Molte, e veementi, le critiche dei cattedratici a questa ipotesi: Platone data Atlantide al 9500 a. C., mentre la civiltà nuragica conobbe il suo splendore intorno al 1000 a.C.; ed è ritenuta eccessiva la stima dell'abbassamento del livello del mare durante l'ultima glaciazione, limitata al più a qualche decina di metri. Il mito di Atlantide, ultima roccaforte dell'età dell'oro, che Platone situò in uno spazio e un tempo volutamente remoti, conobbe la sua fortuna nel '500 e nell'800, secoli delle grandi esplorazioni e del gusto per l'esotico. Negli ultimi decenni si sta invece affermando l'«endotismo», la riscoperta del fascino delle terre a noi prossime: in quest'ottica la teoria propugnata da Marciante, al di là della sua fondatezza, presenta l'innegabile pregio di offrire il quadro di una Sardegna misteriosa che va oltre le attrattive del suo mare e della sua gastronomia.

mercoledì 4 settembre 2019

NURKARON, L'ARCIERE DELL'ISOLA DEI NURAGHI

Un romanzo che introduce al mondo misterioso della Sardegna del 10° secolo a.C. E’ uscito ai primi di maggio, a cura della Carlo Delfino Editore, l’opera prima di Giuseppe Tito Sechi, dall’arcano titolo “Nurkaron, l’arciere dell’isola scomparsa”. Ma, fin dalle prime righe dell’originale e accattivante prefazione, il lettore scopre che quell’isola dall’infelice sorte è tuttora baciata dal mare ed è la Sardegna, quella di qualche millennio fa; quella che ha espresso la bella civiltà dei nuraghi.

 Un’isola reale e fantastica in pari tempo che emerge dalla penna di un sardo doc che, alla bella età di settantasette anni, ha realizzato il sogno cullato fin da quando era dirigente di banca e specialista di diritto tributario. Sorprendentemente la Sardegna di Grazia Deledda, di Giuseppe Dessì, di Salvatore Satta, di Marcello Fois, di Michela Murgia, riscopre uno scrittore dalla felice scrittura, forbita, vivida e coinvolgente. Una prosa classica, che descrive straordinari scenari bucolici, situazioni drammatiche, timori e paure ancestrali, nella quale trovano spazio similitudini che conferiscono forza suggestiva a sensazioni e moti dell’anima.

Né mancano i momenti aulici, nei quali la poesia offre il destro agli ispirati sentimenti dell’arciere protagonista del romanzo. Così come quando sulle alture del Sinis, giubilante per la grande meraviglia che aveva preso l’amata giovane Kersa, alla scoperta per la prima volta dell’azzurra distesa del mare, egli canta: “Non volle Dio Creatore/ che del piede suo/ la solitaria impronta di pietra/ i figli di Sardegna tenesse prigionieri./ Così cullati dal Grande Mare,/ così liberi/ e soli./ Si commosse al vederli/ in quell’esilio dorato. / Al primo Sardo che bagnò il suo piede/ nel salato mare/ mostrò la navicella e la rotta, / guidò il suo sguardo/ verso le infinite sponde abitate/ che la vastità dell’inesplorate acque/ nascondeva.” Si coglie in diverse parti del romanzo di Sechi il filo conduttore di una struggente passione per la sua terra, nell’epoca indagata ancora più bella e misteriosa.

Sentimento presente specie nella descrizione dei paesaggi, della flora e della fauna che arricchiscono i luoghi, degli ambienti di vita e di lavoro, dove si muove un’umanità semplice, che tiene in gran conto i defunti, che nutre una profonda fede verso “Babbai nostru”, il Dio creatore del cielo e della terra. Così assume corpo e anima l’affresco di una Sardegna risalente a trenta secoli prima, frutto di attenta indagine delle fonti accreditate, nonché di recupero di sentimenti e passioni atavici e di antichissime tradizioni, di cui ancor oggi la Sardegna mantiene viva memoria.

 Si pensi, ad esempio, alla pratica della più cordiale accoglienza al forestiero, tuttora riscontrabile, specie nei centri dell’interno. Forti così si possono cogliere l’anima e le esteriori manifestazioni di una antica e affascinante civiltà, ancora poco indagata e raccontata, specie per quanto riguarda i costumi, la vita sociale, l’organizzazione amministrativa, la fede. Ma perché, potrebbe chiedersi chi legge queste note, il titolo del libro rimanda ad un’isola “scomparsa”? La ragione la rivela l’autore nella prefazione e risiede nell’infausta sorte che toccò alla Sardegna nella seconda metà del sesto secolo avanti Cristo a causa dell’invasione subita da Cartagine.

Questa potenza emergente d’Africa, occupate le coste dell’isola e sospinte all’interno le popolazioni rivierasche, chiuse per sempre al popolo dei nuraghi le millenarie vie del Mediterraneo che aveva percorso fin dai lontani tempi del commercio dell’ossidiana, la pietra vulcanica lucida e tagliente tratta dal suo Monte Arci. Questo drammatico evento avrebbe così cancellato dalle mappe nautiche, e dalla storia, l’isola di Sardegna. Da allora, e per secoli, l’isola “scomparsa” prese ad emergere dai racconti dei naviganti, fantastica, prospera e felice, ricca di foreste e di selvaggina, priva di fiere e animali velenosi. Forse la favoleggiata Atlantide siccome, con dotte argomentazioni, ha supposto Sergio Frau, nel suo argomentato “Le Colonne d’Ercole”. Quell’evento, per quanto attestano via via gli scavi archeologici, deve esser stato realmente deleterio per i Sardi.

 Essi, che in tutto il millennio precedente, in piena libertà e autonomia, avevano preso a occupare con molte migliaia di torri megalitiche troncoconiche – singole o riunite con antemurali a formare vere fortezze – ogni contrada dell’Isola, si ritirarono in gran parte nei luoghi più sicuri dell’interno. Quando, in sul finire del terzo secolo a.C., Roma strappò dalle mani di Cartagine la Sardegna, si trovò, malgrado la fiera resistenza delle genti dell’interno, in una terra che era regredita ad un regime di sopravvivenza: lo spirito illuminato e civile, profondamente religioso, che aveva contraddistinto quell’epoca era stato umiliato e soffocato. Sul terreno, e sotto terra, di essa rimasero le gigantesche torri nuragiche, le grandi tombe “di Giganti”, i preziosi pozzi sacri, le piccole immagini espresse con grande maestria nel bronzo.

Di queste straordinarie testimonianze di civiltà, del resto, neppure la superba Roma si era curata. Tutto ciò l’Autore accoratamente esprime tra le righe del romanzo e, come già detto, nella sua prefazione, facendo di ciò un’appendice di estremo interesse per il lettore che si avvicina per la prima volta alla conoscenza dell’antica civiltà sarda. Giuseppe Tito Sechi – studi classici al liceo Azuni e laurea in giurisprudenza nell’Università di Sassari, dove è nato e risiede – prova sofferenza per quegli eventi storici che hanno mortalmente ferito l’antica civiltà espressa dai suoi avi. Ma, come egli argomenta, con la sua isola, comunque, il tempo è stato galantuomo: ancorché non siano state rintracciate finora attendibili testimonianze scritte, il frutto degli scavi archeologici finora effettuati le sostituisce degnamente. Quanto sinora è venuto alla luce costituisce autentica narrazione di una storia realmente vissuta e testimoniata.

Infatti, non solo i numerosissimi monumenti megalitici che costellano il paesaggio sardo, ma anche le straordinarie opere d’arte rappresentate dai “bronzetti nuragici” già ricordati, all’attento osservatore dicono in termini non equivoci del grado evoluto e dello sviluppo sociale raggiunto in crescendo sino al 6° secolo a.C.. Queste singolari statuette, fuse nel bronzo col metodo della cera persa, si trovano esposte nei principali musei archeologici, specie dell’Isola. Al visitatore si mostrano in una variegata gamma di personaggi appartenenti ad ogni ceto sociale: sono arcieri, opliti, frombolieri, sacerdoti, capi dei villaggi, offerenti che si accostano alla divinità con spirito devoto, donne e sacerdotesse, madri che recano sul grembo e offrono al Dio il figlio esanime; tutti in significativi abbigliamenti e austeri portamenti.

Non manca una rassegna di animali domestici e una ricca collezione di navicelle, talune recanti a bordo uccelli, carri e bovi. Vi è da osservare che le ricerche archeologiche degli ultimi decenni hanno fornito un ulteriore insperato contributo alla riscrittura della storia della Sardegna: a occidente dello stagno di Cabras, non molto distante dall’approdo nuragico di Tharros e dalla penisola del Sinis, prima richiamata, cinquemilatrecento grandi e piccoli frammenti di bianca arenaria, ivi ritrovati, sono stati in buona parte ricomposti dall’Istituto del restauro di Sassari in ventisei gradi statue di atleti e guerrieri, ribattezzate Giganti di Mont’e Prama dal sito del ritrovamento.

Queste opere, di straordinario rilievo artistico anche per l’epoca nella quale sono state realizzate, precedente alla grande fioritura della straordinaria scultura greca, sono richiamate nel romanzo di Sechi e immaginate a corredo e lustro del Tempio di “Babbai Nostru”, un santuario che secondo taluni sarebbe realmente esistito; descritto nel romanzo, perché mèta del pellegrinaggio di Nurkaron e Kersa prima della partenza del guerriero alla volta della Palestina. La narrazione, per tutte le oltre trecento pagine del volume, procede fluida e coinvolgente, conducendo il lettore con straordinaria ispirazione a rivivere il mondo dei Nuragici in sul finire del decimo secolo a.C.

E’ questa l’epoca in cui i Libri Storici della Bibbia (Samuele 1-2) collocano una precisa fase della lunga guerra tra le cinque città confederate dei Filistei e Israele: quella della sanguinosa battaglia del Monte Gelboe, nella quale l’esercito israelita condotto da Saul subisce la sconfitta e lo sfortunato Re, persi nello scontro Gionata ed altri due suoi figli, si procura eroicamente quella morte che tanta letteratura e teatro ha ispirato fino ai nostri giorni. Nurkaron, alla guida della compagine degli arcieri nuragici, si distingue nello scontro cruento e riesce a portare a salvamento il re della città confederata di Gath.

Ma prima che le ombre della notte siano calate sulla spianata insanguinata resta ferito, vaga febbricitante nel buio, finisce in territorio nemico. Ma è il vecchio pastore Ibrahim – un saggio ebreo, potenziale nemico – che lo porta a salvamento, l’ospita nella sua casa e lo affida alle cure della giovane e bella figlia Anna. In quel frangente una serie di avvenimenti cambiano la vita del guerriero toccandolo nel suo intimo: inconsci stati d’animo lo turbano, mentre scopre altre ragioni che rafforzano l’idea che già s’era fatta in terra di Palestina: che quella guerra tra Filistei ed Ebrei sia insensata, giacché accordi di pace potrebbero favorire la convivenza dei due popoli e assicurare agli Ebrei l’accesso al Mediterraneo.

 Dopo, si apre la via del ritorno al suo accampamento, ai suoi arcieri, all’isola avita e alla sua promessa sposa Kersa. Drammatica è l’attesa dei familiari a Shardara, tra una ridda di voci che dai lontani lidi giungono agli approdi dell’isola, e drammatico ancor più è l’arrivo del drappello dei cavalieri condotti da Nurkaron nella spianata delle adunanze del suo villaggio di Sa Costa”. Vi è da notare che, tra le altre, due interessanti tracce arricchiscono il romanzo. Una, che percorre tutta la narrazione, costituita dall’ordine perentorio impartito all’Arciere dall’Autorità degli Otto Cantoni in cui è suddivisa la Sardegna: impadronirsi ad ogni costo del segreto del ferro negato dall’alleato filisteo.

L’altra coinvolge – in una costruzione fantastica il cui ordito è costituito dalla narrazione biblica – Davide, rifugiato in una città filistea del regno di Gath, al tempo in cui Saul gli dà ostinatamente la caccia. Nurkaron, ospite coi suoi cinquanta guerrieri, di re Achis, sovrano della stessa Città, ha la ventura d’incontrare il giovane Unto del Signore nel palazzo reale e, alla fine delle libagioni, invitati dal sovrano entrambi i guerrieri declamano versi. Davide, accompagnandosi con la cetra, canta il Salmo 17, a lui attribuito secondo la tradizione.

Nurkaron, al suono delle launeddas, antichissimo strumento di Sardegna, rende omaggio all’intrepido israelita e al suo Jhwh, che riconosce essere lo stesso Babbai Nostru , il Dio unico dei Sardi. Egli così canta: “Il Dio, creatore del cielo e della terra,/che, sull’Isola nostra del Grande Mare,/ impresse l’orma del suo piede/ non è forse anche/ il Dio di Abramo e di Mosè?/ Quale misteriosa forza/ ha guidato i nostri Padri/ verso la Verità del Cielo/ se non lo stesso Jhwh?” E’ singolare e degna di nota l’intuizione espressa nel romanzo che il Popolo dei nuraghi credesse nel Dio unico, creatore del cielo e della terra, portato in Sardegna – forse una delle bibliche “lontane isole” del Mediterraneo – dalla travagliata diaspora ebraica. La supposizione è giustificata da Sechi con riferimento a quanto ebbe a scrivere lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni nel suo trattato del 1912, “La religione primitiva in Sardegna”.

Questo assunto, ampiamente giustificato nel contesto del libro, porta l’Autore a credere che le torri nuragiche, presenti in ogni contrada dell’isola, siano state erette, con grande perizia ed enorme dispendio di energie, primieramente per rendere omaggio al Dio dei Sardi. Le loro circolari aggettanti terrazze erano ciascuna l’occhio levato alto al cielo, sede della divinità, dalle popolazioni dell’isola. Solo una fede forte e condivisa poteva giustificare quelle torri megalitiche sparse per tutta l’isola. L’assunto – che esclude sia la destinazione a guerre intestine, sia l’esclusivo uso abitativo dei nuraghi – appare giustificato sia dalla presenza di numerose abitazioni circolari che attorniano molti nuraghi, sia dall’assenza di città fortificate e plaghe disabitate; e ancor più da una fede consolidata, testimoniata da centinaia di personaggi fusi nel bronzo colti nell’atto di salutare o di offrire doni alla divinità.

In conclusione si può ben affermare che il romanzo costituisce lo straordinario affresco di un’isola e di un’epoca così mai prima a vive tinte indagata e, in pari tempo, un contributo alla speculazione e alla ricerca di un mondo che ancora tarda ad essere riportato completamente all’attenzione dell’umanità. Una storia così articolata e nuova per ambienti e costumi che potrebbe facilmente suscitare l’interesse del cinema e della tv. Un’opera che per la novità del filone storico meriterebbe di dare spunto a una lunga serie di contributi letterari e teatrali. Niente di più, niente di meno, di quanto sinora alla letteratura, al teatro e al cinema hanno ispirato i più noti giacimenti storico-culturali specialmente dell’antico Egitto, di Grecia, di Roma.


domenica 7 luglio 2013

Il segreto di Atlantide nascosto in Sardegna

Tratto da il Giornale, 27/9/2004

Lorenzo Scandroglio

E se la mitica Atlantide fosse stata davvero la Sardegna? La domanda, rimbalzata da un angolo all'altra del mondo accademico e giù giù fin sulla bocca di tutti, ha cominciato a girare nella tarda primavera del 2002, quando, per la casa editrice romana Nur Neon, è uscito il libro di Sergio Frau Le Colonne d'Ercole, un'inchiesta.

Oggi, a due anni dalla bomba culturale di questa ipotesi, un gruppo di quindici Indiana Jones, composto da archeologi, ricercatori, direttori di musei, e un rappresentante dell'Unesco per la Sardegna, sono partiti a caccia di indizi: vogliono sapere che cosa c'è di vero in quello che dice lo scrittore-studioso Sergio Frau nel suo libro. In effetti l'ipotesi è meno strampalata di quello che sembra. Sicuramente meno strampalata di quelle sostenute dagli "ufaroli" - come li chiama lo stesso Frau -, tutti coloro che sulla leggenda dell'isola-continente sprofondata hanno sovrapposto di volta in volta gli extraterrestri, i Mu, l'Antartide e via delirando. Intanto, quasi a voler prendere le distanze da tante ciarlatanesche ipotesi che hanno usurato il nome di Atlantide, Frau parla di isola di Atlante.

Ma vediamo in sintesi come è nata l'intuizione dello scrittore di evidenti origini sarde: tutto è cominciato a partire dalle analisi geologiche di come era il Mediterraneo millenni fa, compiute da Vittorio Castellani, ordinario di Fisica stellare all'Università di Pisa. Nel libro Quando il mare sommerse l'Europa l'astrofisico spiega che nella protostoria (circa cinquemila anni fa) il livello del mar Mediterraneo era assai più basso di adesso. Ecco allora che, essendo molto inferiori le distanze fra Sicilia e Tunisia, Frau ipotizza che, confortato da geografi e viaggiatori antichi, le Colonne d'Ercole, in seguito identificate nello stretto di Gibilterra, fossero proprio là. E la Sardegna come diventa Atlantide? Ricollocando le colonne d'Ercole nel canale di Sicilia, traslocano all'interno del Mediterraneo tutti quei miti e luoghi leggendari estromessi nell'Oceano e lì lasciati in balia delle ipotesi più peregrine. Quello che più conforta la reinterpretazione fatta da Frau - come ha scritto Roberta Mocco - è che le distanze e i riferimenti geografici, che gli antichi fanno nel raccontare di queste due terre mitiche, risultano alla perfezione, cosa che non succede invece se si spostano le colonne d'Ercole a Gibilterra. Qualche difficoltà di spiegazione viene dalle date che indica Platone per dare i tempi della storia gloriosa di Atlantide. Il filosofo greco parla infatti di "novemila anni" nel passato rispetto alla sua epoca. Qui Frau si ritrova a fare l'"aggiustamento" più rilevante sulle parole degli antichi, e lo fa seguendo ancora una volta una logica che allontana dalle suggestive leggende. Non è pensabile che un popolo che usava i metalli, conoscitore della scrittura, potesse esistere nel Diecimila prima di Cristo. Peraltro è estraneo alla mentalità antica la misurazione del tempo in anni, cosa che i Greci non facevano mai. Tutto torna, invece, se si interpreta come "mesi" ciò che per secoli è stato tradotto come "anni". Un rammendo interpretativo visibile, ma motivato. In questo modo, inoltre, coinciderebbero i tempi con lo sviluppo della civiltà nuragica, il popolo "venuto dal mare", come lo chiama Platone, ossia gli Shardana, gli stessi che ritroviamo poi schiavi del faraone Ramsete. Un sospetto, questo che la Sardegna coincida con la mitica Atlantide, che ora quindici studiosi vogliono smentire o confermare. L'équipe è arrivata i giorni scorsi all'aeroporto di Elmas e per prima cosa ha voluto vedere la mostra allestita al secondo piano, nell'area riservata al check in, chiamata "Atlantikà, l'isola del mito". Pannelli e video che raccontano la storia della Sardegna come la immagina Frau. Un'isola circondata di torri, i nuraghi, come un'antica Manhattan che domina le scelte economiche, politiche e belliche del Mediterraneo. L'ha ribadito l'autorevole voce di Azzedine Beschausch, accademico di Francia, ex direttore del Patrimonio mondiale dell'umanità e ora in Sardegna come rappresentante dell'Unesco: "Siamo qui per cercare le tracce di un passato forse diverso da quello che la storia ci ha raccontato. Dire che la Sardegna in passato abbia avuto un ruolo centrale nella civiltà del Mediterraneo non è un'eresia. Gli indizi sono parecchi. Ora andiamo a cercare le conferme".