sabato 29 dicembre 2012

Il Natale cos'è

pubblicato su L'Elzevirista del 15 dicembre 2011

di Vito Foschi

Il 25 dicembre si festeggia la data di nascita di Gesù anche se i più non sanno che si tratta di una data arbitraria fissata a posteriori per sovrapporsi ad una festa pagana. La vera data di nascita di Gesù non è nota e nei secoli ci sono state svariate proposte ma mai nessuna conclusiva. La data del 25 dicembre è stata scelta da papa Giulio I nel 336, per sovrapporsi alla festività pagana Dies Natalis Solis Invicti (Il giorno natale del Sole Invincibile) festeggiato in tutto l'impero romano e nel resto d'Europa. Il 25 dicembre era inoltre anche una festività ebraica, in cui si festeggiava la restaurazione e la purificazione del tempio profanato da Antioco Epifane e porta il nome di "Hannukah" o festa della Dedicazione o festa delle Luci.
La Chiesa Cattolica ha spesso sovrapposto alle festività pagane le proprie per estirpare più velocemente le credenze pagane anche se come effetto collaterale parti di tali credenze si sono perpetuate sotto vesti cristiane. Così, per esempio, i vari santi che proteggono ogni attività umana non sono altro che una riedizione del pantheon greco-romano con i vari dei che sovrintendono alle varie azioni dei mortali.
La scelta di tale data potrebbe sembrare casuale, legata a contingenze, ma in realtà ha un profondo significato simbolico.
Il 25 dicembre è in prossimità del solstizio d'inverno ovvero del giorno in cui il sole illumina la terra per il tempo più breve all'anno. Le ore di luce iniziano a crescere da quella data per raggiungere il massimo al solstizio estivo il 21 giugno per poi tornare a diminuire fino al minimo del solstizio invernale.
Il solstizio d'inverno ha rappresentato una scadenza importante per tutti i popoli antichi la cui vita era scandita dalle stagioni e dai ritmi naturali. Sapere che le ore di luce tornavano a crescere e ci si avviava verso la primavera doveva essere una grande gioia. Avere più ore di luce significava aver più tempo per procurarsi il cibo o legna o comunque riuscire ad avere più ore attive. Non dimentichiamoci che non avevano un sistema di illuminazione ed in ogni caso illuminarsi aveva un costo.
Questo ciclo astronomico di crescita e decrescita delle ore di luce è stato accostato al passo del vangelo di Giovanni(3, 30) in cui San Giovanni Battista dice: "Bisogna che Egli cresca e che io decada". Così alla fase discendente del sole si è legato il Battista e a quella ascendente Gesù Cristo. Per completare il simbolismo astronomico, al solstizio estivo, giorno in cui le ore di luce sono al massimo ed inizia il ciclo discendente del sole, è stata fissata la festività di San Giovanni Battista. Un altro passo evangelico in cui si fa riferimento a Gesù come sole nascente è un passo del vangelo di Luca in cui Zaccaria padre del Battista profetizza il destino del figlio e la venuta del Signore:
"grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace"(Luca 1, 78-79)
Il solstizio d'inverno, inizio del ciclo di crescita delle ore di luce si presta bene all'idea di sole che sorge. La scelta della data di nascita di Gesù per quanto a prima vista potrebbe sembrare arbitraria è invece carica di simbolismo tale da far pensare quasi naturale che il Signore non potesse che nascere in quella data

sabato 22 dicembre 2012

Sagrada Familia, l’arte che scolpisce nel tempo

tratto da "il giornale" del 18-7-2007

di Luca Doninelli

Etsuro Sotoo, giapponese di Fukuoka, classe 1953, scultore, è uno dei personaggi più discussi nel mondo dell’arte. Fa parte, infatti, del gruppo di architetti e artisti che stanno portando a termine nientemeno che la Sagrada Familia di Barcellona, il capolavoro incompiuto di uno dei mostri sacri della storia dell’architettura, Antoni Gaudì.
La sua responsabilità è immensa, data soprattutto la concezione della Sagrada, dove i confini tra le due arti sono aboliti completamente, e dove un pensiero potentemente unitario ha guidato l’opera del grande maestro catalano. La storia di Sotoo, raccontata nel libro-intervista realizzato con José Miguel Almuzara e pubblicata da Cantagalli nel volume Dalla pietra al maestro (pagg. 125, euro 14,50), è una di quelle che sembrano fatte apposta per prendere a calci i preconcetti estetici (e antropologici) nei quali siamo immersi.
Sotoo è un artista che, tanti anni fa, credette di passare dalle parti della Sagrada Familia e fermarsi lì per un breve periodo di lavoro. Invece ci è rimasto per sempre, convertendosi addirittura al cristianesimo. Ma non è questo l’aspetto che c’interessa maggiormente, qui. È, piuttosto, il termine principale della vicenda, ossia la pietra. Sotoo non ha incontrato Gaudì attraverso i libri, ma mettendo mano alla pietra là dove l’aveva messa il maestro, immedesimandosi con lui non tanto per via imitativa, ma attraverso l’amore per la materia. La grande scuola giapponese da cui Sotoo proviene non è stata rinnegata, anzi: è stata esaltata, poiché il metodo appreso dai suoi insegnanti si è rivelato esatto.
Noi viviamo nell’epoca più materialista e, insieme, più nemica della materia che si possa immaginare. Abbiamo elevato tristi monumenti all’Incomunicabilità, all’Unicità, alla Non-trasmissibilità dell’esperienza. Nel genio non ci si può immedesimare, dice la vulgata: lo si può ammirare, se ne può godere (ah, le emozioni!), ma non lo si può fare nostro. Sotoo smentisce questo preconcetto, che nasce dalla nostra paura della materia. Sia fatta di marmo, di terra, di colori o di parole, la materia è sempre la carne dell’esperienza.


sabato 8 dicembre 2012

Se il mercenario è "vera civiltà"

E’ la provocatoria tesi dello studioso Mockler secondo il quale nel ‘400 italiano i soldati di ventura fanno del mestiere delle armi un’arte nobile quasi incruenta

La recenzione al seguente link:

http://www.rassegnastampa-totustuus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=5235


mercoledì 14 novembre 2012

Se la cultura fa squadra e... compasso

tratto da Il Giornale di Gio, 12/07/2012

di Daniele Abbiati

 «Pierre, col cuore sospeso, con gli occhi sfavillanti, guardava in viso il massone, lo ascoltava senza interromperlo, senza interrogarlo, e con tutta l'anima credeva a ciò che gli diceva quell'estraneo. Credesse alle argomentazioni contenute nel discorso del massone o credesse, come credono i fanciulli, alle intonazioni, alla persuasione, al fervore che erano in quelle parole, al tremito della voce che a volte quasi impediva al massone di parlare, o a quei luminosi occhi di vecchio, invecchiati in quella convinzione, o a quella calma, a quella fermezza, a quella coscienza della sua missione che splendevano in tutta la persona di lui e che lo colpivano tanto più fortemente a paragone del proprio avvilimento e della propria disperazione, certo è che con tutta l'anima egli desiderava di credere, e credeva, e provava un lieto senso di tranquillità, di rinnovamento, di ritorno alla vita».Il cuore del leone Lev Tolstoj s'intenerisce, come sempre, quando si tratta di entrare nel cuore degli altri per scriverli dal di dentro. Il cuore di Pierre Bezuchov è terreno fertile, sia per il vecchio massone (fra i camei più preziosi di Guerra e pace), sia per lo scrittore. Intelligente ma ingenuo, ingenuo ma intelligente, fuori luogo nell'alta società eppure affascinante per i dubbi che lo tormentano, Pierre si dà all'iniziazione come un prigioniero che si arrende dopo la guerra e cerca la sua pace interiore. È il prototipo dell'affiliato, il sommerso salvato e insieme il salvato sommerso: mare concentrato nella goccia e goccia tuffata nel mare della religione laica.Lo stesso mare e le stesse gocce annaffiano gran parte della letteratura italiana del '900, come spiegava qualche anno fa Paolo Mariani nel saggio La penna e il compasso (Il Cerchio). Due i casi più eclatanti. Giovanni Pascoli il 22 settembre 1882 entrò nella loggia «Rizzoli» di Bologna, e il suo testamento massonico autografo, rinvenuto nel 2002 dallo storico Gian Luigi Ruggio, fu acquistato dal Grande Oriente d'Italia nel giugno 2006 a un'asta di manoscritti. Mentre vent'anni prima del «Fanciullino», dopo la «Giornata dell'Aspromonte», un altro «leone», a suo modo tolstojano, Giosue Carducci, divenne «fratello» (proprio la poesia Dopo Aspromonte ne è la certificazione). Nel 1862 Guerra e pace era ancora «in lavorazione», come l'Italia di Carducci e di Pascoli. E per mettersi all'opra molti indossarono i «grembiulini».

domenica 11 novembre 2012

Delle veloci considerazioni sul Signore degli Anelli

di Vito Foschi

I vari personaggi della Compagnia fanno parte di varie specie: elfi, uomini, hobbit, nani. Gli Hobbit, chiamati mezzi uomini sembrano rappresentare la parte infantile dell'uomo e vivono in un stato di tranquillità preoccupandosi delle piccole cose come il cibo. Come arma hanno un pugnale che rappresenta quasi un temperino da ragazzini.
Il nano rappresenta la parte più materiale dell'uomo. Vive sotto terra, è basso, brutto, ma robusto e usa l'ascia come arma che è un'arma molto primitiva una delle prime ad essere creata dall'uomo.
Gli elfi rappresentano la parte spirituale dell'uomo. Sono immortali, sono belli, usano l'arco che è un'arma che rimanda al cielo: la freccia vola. Infatti nell'oroscopo il segno del sagittario ha questa aspirazione spirituale rappresentato dall'arco anche se ha l'ambivalenza di avere le gambe ben piantate a terra.
L'uomo dovrebbe avere in sé tutti questi aspetti, unire la forza del nano, la spiritualità degli elfi e lo sguardo semplice degli hobbit.




 

domenica 28 ottobre 2012

Ritorna l'epico «Kalevala» Il poema che ha reso la Finlandia una nazione

Tratto da Il Giornale del 3 maggio 2010


di Giuseppe Conte

Nel primo cinquantennio dell'Ottocento, un medico e filologo, cultore
appassionato della mitologia e della lingua del suo popolo, quello finlandese,
vaga per i villaggi più sperduti e raccoglie dalla viva voce di cantori leggende
e cosmogonie, per poi trascriverle e ordinarle in un complesso grandioso che
rappresenta l'ultimo tra i poemi epici e tra i libri sacri dell'umanità. Il
medico filologo si chiama Elias Lönnrot. Il poema è il Kalevala, che oggi
riappare in una nuova traduzione integrale presso le Edizioni Mediterranee
(Kalevala, pagg.378, euro 24,50; a cura di Marcello Ganassini).



Vale davvero la pena di immergersi in questo flusso straordinario di avventure
cosmiche, guerriere, magiche, sciamaniche. Il mito dimostra ancora qui la sua
potenza fondatrice. Ai tempi di Elias Lönnrot la Finlandia faceva parte della
Russia imperiale, e vi si parlavano, come lingue ufficiali, il russo e lo
svedese. Fu il lavoro apparentemente impossibile, quasi assurdo di Lönnrot e di
un gruppo di intellettuali imbevuti di spirito romantico a creare il finlandese
moderno e la Finlandia come Paese indipendente.
Un poema epico e pieno di potenza lirica e fiabesca messo insieme meno di due
secoli fa è il fondamento del Paese avanzato che oggi produce tecnologia tra la
più apprezzata al mondo. E il mito dimostra qui anche la sua intrinseca bellezza
di «canto dell'universo», come lo definiva Joseph Campbell, il mitologo cui ha
guardato come un maestro George Lucas mentre concepiva la saga di Guerre
stellari. Nel prologo cosmogonico dei primi due canti, o runi, viene descritta
Ilmatar, la grande madre, che stanca della sua esistenza di solitudine entra in
mare e viene fecondata dal vento e dalle onde. La sua gravidanza dura settecento
anni. Poi invoca Ukko, il dio supremo, e allora una anatra va a deporre le uova,
sei d'oro e una di ferro, nel suo grembo. Quando le uova si aprono, nascono dal
guscio il cielo e la terra e dal tuorlo il sole. Ma il suo ventre contiene anche
Vainamoinen, che vi resta trenta estati e trenta inverni prima di uscire nel
mare, e poi va alla deriva altri cinque anni sino a fermarsi a contemplare la
luna, il sole e le stelle. Vainamoinen è eroe e anche aedo, innamorato e
guerriero, sapiente e sciamano. È la voce pervasiva che regge tutto il poema
nella sua complessità. Accanto a lui, Ilmarinen, un fabbro che canta l'origine
magica e controversa del ferro, e che si sottopone per amore alle prove più
dure, arare un campo di serpi, catturare l'orso Tuoni e il lupo Manala, pescare
il terribile luccio del fiume Tuonela. Rimasto vedovo, Ilmarinen si costruisce
invano una compagna d'oro e d'argento. Lemminkainen è l'eroe birbante, bello,
spensierato, seduttore. Quando viene ucciso e gettato a pezzi in un fiume, il
pettine che ha lasciato nella casa natale sanguina, e sua madre può iniziare
l'opera di ricerca e di ricomposizione della salma, mettendo insieme i vari
pezzi con l'aiuto di Suonar, dea responsabile della circolazione sanguigna, e
poi di un'ape, «anima leggera», «agile creatura», che va a prendere in cielo il
nettare per ridare all'eroe la parola oltre che la vita.
Contro i tre eroi, si staglia Louhi, la signora di Pohjola, nemica insidiosa
perché può ricorrere ad arti magiche e inviare tra gli abitanti di Kalevala
epidemie che producono orribili piaghe e l'orso che divora il bestiame; e può
arrivare persino a nascondere il sole e la luna e a privare il popolo del fuoco.
La guerra si sposta dal terreno delle armi a quello della potenza sciamanica. Ma
non c'è solo guerra nel Kalevala.
Mirabili le descrizioni del risveglio della terra (l'eco delle quali ho
avvertito in Knut Hamsun), il tono fiabesco della madre che consiglia alla
figlia una dieta di bellezza come questa: «mangia buon burro per un
anno:/diventerai più florida delle altre;/ carne di maiale l'anno
dopo:/diventerai più graziosa delle altre» o l'episodio tragico dell'incesto
boschivo di Kullervo. C'è qui lo spirito etico che Carlyle riconoscerà nel mito
nordico svalutato da Goethe rispetto a quello greco-romano. E infine l'avvento,
con Marijatta e il suo bambino divino incoronato re, della nuova sapienza
cristiana, con la malinconica fuga di Vainamoinen su una barca di rame verso un
esilio che dura ancora.

giovedì 25 ottobre 2012

IL GRAAL IN ABRUZZO

Con grande piacere comunichiamo la pubblicazione del libro "IL GRAAL IN ABRUZZO" di una nostra antica amica, Nicoletta Travaglini, che ha collaborato con il nostro sito prestandoci alcuni suoi lavori:

La presentazione tratta dal sito della casa editrice:
"
Il Graal in Abruzzo

     L’eterna e affascinante ricerca del Graal ha incantato gli studiosi di tutte le epoche e la nostra non fa eccezione.
     Nel mistero di un lunga inchiesta che si snoda attraverso i secoli, luoghi e personaggi oscuri paiono sul punto di svelare i loro arcani segreti; la storia di questa inafferrabile Reliquia si perde così nella leggenda celata ai nostri occhi dalle pesanti coltri delle sabbie del tempo.
     In un percorso suggestivo Nicoletta Camilla Travaglini ha raccolto le possibili tracce del Graal nelle terre degli Abruzzi dove, come emerge da questo affascinante reportage, esso sembra aver lasciato profondi segni del suo probabile passaggio tanto a livello antropologico che archeologico.
     Lanciano e i suoi Miracoli Eucaristici, le sue Chiese, la storia di Longino e della lancia del destino; Atessa, la processione del Graal e le inquietanti testimonianze simboliche che al Graal rimandano; San Giovanni in Venere, in cui potrebbero essere stati custoditi la Sacra Reliquia e i molti, terribili segreti legati all’ordine del Tempio; Vasto, la Spina della Corona di Gesù e la tradizione del Toson d’oro; Manoppelo e la Veronica; e poi ancora San Buono, Liscia, Pollutri… Luoghi, appunto, e personaggi, come Celestino V, la Famiglia di Sangro, i Del Balzo, gli Orsini, i De Ocre, i D’Avalos, solo per citarne alcuni, la cui natura enigmatica e contraddittoria rende spesso ancora più misteriosa ed eccentrica la soluzione dell’arcano.


[ISBN-978-88-7475-290-4]
Pagg. 120 - € 10,00

Link al sito della casa editrice

domenica 21 ottobre 2012

Il simbolo

Un piccolo estratto dal libro di Titus Burckhardt "Considerazioni sulla conoscenza sacra":

"E' ugualmente possibile dimostrare a partire da questo esempio in qual modo i diversi significati di un simbolo relativi a differenti livelli di realtà, che sembrano talvolta contraddirsi, siano profondamente legati tra di loro e ricongiunti nel significato più alto dell'immagine, che è un significato puramente spirituale.
Questa molteplicità di interpretazioni fa parte del carattere del simbolo; è qui che risiede la sua superiorità rispetto alla definizione concettuale. Mentre quest'ultima integra un determinato concetto in un contesto logico e di conseguenza lo determina a un certo livello, il simbolo resta aperto, senza tuttavia essere impreciso; è innanzi tutto una 'chiave' che dona l'accesso alle realtà che oltrepassano la ragione"



giovedì 11 ottobre 2012

Il labirinto, la spirale ed il ballo

di Vito Foschi (pubblicato su Fenix del n.8 giugno 2009)

Il labirinto è un simbolo ricorrente che accompagna l’uomo fin dalla preistoria e che dal mito di Dedalo e del Minotauro lo ritroviamo in mille racconti, favole, fumetti e rappresentato dappertutto finanche nelle chiese medievali fino a costituire elemento di arredamento, a partire dal rinascimento, dei giardini delle ville signorili con i famosi labirinti di siepi.
Di labirinti esistono vari tipi, da quelli a pianta circolare a quelli con pianta quadrata, da quelli con un’unica via da percorrere per giungere al centro a quelli con incroci e vicoli ciechi da attraversare da una parte all’altra cercando la via giusta e così via. Una possibile classificazione può essere questa:

  • labirinti con un’unica entrata ed  un’unica uscita ovvero unicursale con un’unica strada aggrovigliata che impone una via di percorrenza obbligata ed unica ad esempio una spirale come il labirinto di Chartres;
  • labirinti con più entrate, più uscite;
  • labirinti con un’entrata, più uscite;
  • labirinti con più entrate, più uscite. 
In questo lavoro faremo alcune considerazioni sui labirinti unicursali ed in particolare considereremo quelli a forma di spirale in cui non esiste una vera e propria uscita ma l’obiettivo è raggiungere il centro.
Il simbolo della spirale è presente nella storia dell’uomo fin dalla preistoria ed facile trovarlo graffito su rocce o sulle pareti di caverne. Tale simbolo è stato associato spesso alle viscere dell’uomo data la loro conformazione. Se consideriamo i labirinti a spirale possiamo immaginare che attraversarli è per analogia un viaggio nelle viscere dell’uomo, al suo interno, al suo centro o cuore nascosto e per certi versi è anche un viaggio verso l’oltretomba che è una dimensione nascosta che si immagina interna alle viscere della terra e non a caso il termine. Dopotutto le stesse caverne e grotte sono considerate le viscere della terra. La spirale è una sorta di budello aggrovigliato che sta a rappresentare il mondo infero come le viscere all’interno dell’uomo.
Se consideriamo un altro simbolo come quello della triplice cinta formato da tre quadrati concentrici e da una croce sovrapposta che parte dal quadrato più interno e taglia i due più esterni a rappresentare il centro spirituale nascosto ed i tre gradi dell’iniziazione possiamo notare la sua somiglianza con un labirinto. Il quadrato nella tradizione rappresenta la terra contrapposto al simbolo del cerchio che rappresenta il mondo celeste. La capitale di Atlantide era circondata da tre fossati attraversati da ponti a ricordare la triplice cinta con cerchi al posto dei quadrati come già notato da altri studiosi quali il Guénon. Ed il cerchio rappresentava il suo essere più vicina al mondo celeste ed in effetti la distruzione avviene per mano degli dei che la puniscono per il suo allontanamento dalla legge divina.
Ritornando al labirinto di Chartres dobbiamo ricordare che percorrerlo in ginocchio era equivalente del pellegrinaggio a Gerusalemme. Nel medioevo Gerusalemme era rappresentata sulle mappe al centro del mondo perché la si considerava il centro del mondo e sul suo asse in cielo era disegnata la Gerusalemme Celeste ed in basso l’inferno a completare l’asse del mondo. Si percorreva la spirale per arrivare a Dio.
Il viaggio di Dante nella Divina Commedia è un viaggio a spirale, i gironi sono dei cerchi concentrici e Dante passa da un cerchio più largo a quello più stretto. Il numero tre che percorre tutta l’opera di Dante ricorda il tre della triplice cinta.
Nei riti praticati dagli sciamani è spesso usato il ballo per raggiungere il trance e così poter parlare con gli spiriti e si può ipotizzare che siano potuti esistere tipi di ballo per raggiungere il trance che seguivano il percorso della spirale, ballare lungo la spirale in tondo un po’ come i Dervisci che ballano freneticamente roteando su se stessi, ma in più nello stesso tempo avvicinandosi al centro. Il  ballo verso il centro poteva rappresentate il viaggio verso il centro occulto dell’uomo, all’interno delle viscere, nel cuore, centro spirituale dell’uomo che pone in contatto con la divinità. In fondo, nelle moderne scuole di ballo sul pavimento sono disegnati i passi da eseguire, così la spirale poteva servire agli sciamani per eseguire i loro balli e giungere alla trance.
La trance sciamanica è un modo per comunicare con l’oltremondano e può essere considerato una sorta di viaggio. La spirale rappresenta il mondo sotterraneo proprio perché rappresenta le viscere ed il ballo lungo la spirale è una sorta di viaggio verso il mondo infero per poi ri“uscire” a “riveder le stelle”.
La spirale è legata ai culti della Dea Madre, a rappresentare le viscere della dea come utero e la sua capacità riproduttive. Nella penisola salentina, in Puglia esistevano fino a pochi decenni fa il fenomeno delle tarantolate ovvero di donne che pizzicate da un fantomatico ragno, la tarantola, sono percorse da spasmi che le costringono a un ballo irrefrenabile che spesso termina nei pressi di un luogo sacro. Nonostante le spiegazioni sociologiche è evidente il legame con i culti della Dea Madre perché il ragno è un animale sacro alla dea ed il ballo non che può che essere il ricordo di un rito sciamanico che prevedeva il ballo e la musica per ottenere la trance come succede tuttora in alcune popolazioni o nel caso dei Dervisci già citato.
La grotta è il luogo di culto della dea e la spirale rappresenta anche il mondo sotterraneo per analogia con le viscere umane. Il percorso all’interno della dea, all’interno dell’utero, per giungere all’origine della vita, all’unità primordiale all’origine del Tutto.
Il labirinto può essere considerato un’evoluzione della spirale legata al culto della Dea Madre. La spirale come abbiamo già detto può essere considerato un labirinto unicursale con un’entrata ed un’uscita. Allontanandosi dalla perfezione iniziale, dalla mitica età dell’oro iniziale, il disegno della spirale-labirinto si confonde complicandosi sempre più. Si aggiungono dei bivii, più entrate, più uscite e si passa dal cerchio al quadrato dallo spirituale alla materialità, similmente alla pianta circolare della capitale di Atlantide che si trasforma nel quadrato della triplice cinta.
L’allontanamento dal centro spirituale e la progressiva materializzazione ha due conseguenze: il cerchio diventa quadrato e il labirinto da una via a più vie perché il centro diventa nascosto e non è più così semplice raggiungerlo.
Si aggiungono strade sbagliate per confondere chi non è degno e per occultare la strada come nella selva oscura di Dante che è equivalente al labirinto. All’interno della selva o labirinto non a caso la diritta via è smarrita, Dante trova finalmente la via guidato da Virgilio e si ha il passaggio da labirinto a spirale perché come abbiamo detto il percorso di Dante può essere considerato spriraliforme. L’evoluzione o meglio l’involuzione è stata da spirale a labirinto e per tornare al centro si deve passare dal labirinto alla spirale ovvero il passaggio inverso, all’interno del labirinto bisogna trovare la via diritta.
Il ricordo di una via privilegiata, di una strada maestra che permetta di giungere al cuore dell’uomo, a Dio si conserva ed abbiamo lo splendido labirinto di Chartres da percorrere come sostituzione del pellegrinaggio a Gerusalemme, centro per eccellenza.

domenica 7 ottobre 2012

Cos’è la "triplice cinta"

Tratto da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 18 luglio 2002

di Manlio Triggiani
 


Che significato ha la triplice cinta, presente in tutta Europa, con un simbolismo che aveva una forte caratterizzazione pagana e, in seguito, è stato assunto come simbolo cristiano della Chiesa? René Guénon ha spiegato il simbolismo ricordando che la triplice cinta druidica è una rappresentazione forse di tre gradi di iniziazione, presenti in tutte le scuole antiche nelle consorterie religiose. Insomma, si tratterebbe della rappresentazione della gerarchia.

Oppure, secondo la tradizione celtica, si tratterebbe dei tre cerchi o quadrati che indicano la vita, l’esistenza. Inoltre, le strisce a croce che collegano le tre cinte, sarebbero i livelli di insegnamento, tre canali attraverso la dottrina tradizionale, i saperi, che si comunicano da una parte all’altra.

La parte centrale della figura, quindi, rappresenterebbe il sapere, il punto più alto, il sapere supremo, che viene distribuito verso il basso. La parte centrale è quindi la fonte di insegnamento, come sosteneva lo stesso Dante.

mercoledì 26 settembre 2012

Un ponte tra due mondi - seconda parte


Prima parte dell'articolo

Il ponte sul fiume


28 luglio 1915

Sono io a parlarti, tuo fratello Sigwart, che ti ama, che è accanto a te, e che è cosí strettamente legato a tutti voi. Non devi piangere, questo è molto doloroso per me. Vi dovete liberare dai pensieri di afflizione. Voi siete i miei fratelli e sorelle, e cosí sarà sempre. Vedo che adesso avete accolto e compreso tutto nel modo giusto; ora niente ci può separare. Dillo ai fratelli, dillo ai genitori, che ringrazio di tutto. Tu devi fare da mediatrice; dopo tanti sforzi ci sono riuscito. Già all’inizio cercavo il contatto, ma tu non reagivi. Il vostro grande amore e i vostri pensieri mi aiutano ad avvicinarmi sempre piú a voi. Sarete felici, perché grazie a me potrete crescere e imparare molto, perché io sono morto anche per voi, per trasmettervi gli insegna- menti dello Spirito.



29 luglio 1915

Adesso sono molto contento di voi. All’inizio il vostro dolore mi tormentava. Poi ho cercato con grande fatica di farmi sentire da voi. Ora va meglio. Come è facile morire! Non posso ancora dirvi tutto, ma sto molto, molto bene, e voi dovete pensare a me come a una figura di luce che non deve piú patire alcun dolore. Ho provocato io stesso la mia morte perché avevo da fare qualcosa di piú molto piú grande. Di questi lavori voi non potete farvene un’idea, non potete immaginare quanto siano belli, grandiosi e perfetti. Benedetto colui che può portarli a termine! Il tuo corpo vuole pace. Dormi piú che puoi. Nel sonno ci incontriamo e ci aiutiamo. Presto lo saprai anche durante la veglia. Questo è il primo inizio. Se voi solo sapeste quello che qui ho vissuto di bello! Ma io ve lo mostrerò quanto prima. Ci sono delle leggi immutabili intorno a voi, che vi costringono a vivere la vostra vita cosí come voi stessi ve la siete preparata. L’Onnipotente guida tutto, ma siete voi a crearvi il vostro destino.

30 luglio 1915

Adesso non potete piú dubitare. Io vi devo dire ancora tante cose. Perché non mi credete, non credete che vi sto vicino? Non potrò rimanere a lungo in questo tipo di collegamento con voi, perciò fate tesoro del fatto che io, vostro fratello Sigwart, parli attraverso di te. Non dovete pensare che io adesso, come fratello spirituale, possa gioire con voi meno di quanto gioissi prima, da uomo. Io non sono cambiato affatto, solo che adesso non porto piú un corpo fisico, so molto di piú e sono molto felice di poter adem- piere ad una grande missione. Ma per il resto sono rimasto esattamente quello stesso che voi conoscete. Vero che adesso non dubitate piú? E ora ancora qualcosa sull’‘altro mondo’, come lo chiamate voi. Tutto è molto piú puro e piú chiaro. Non pensavo che già in questo primo periodo lo avrei visto in questo modo. Grazie ai miei interessi per il sovrasensibile, non ho vissuto delusioni, al contrario, è stato un ri- sveglio che piú bello di cosí non avrei potuto immaginare. Tutto agiva su di me ed io ero al tempo stesso consapevole di quello che mi stava succedendo, vale a dire che stavo attraversando le ‘porte della morte’, come la chiamate giustamente voi. Ho sofferto veramente tanto durante l’ultimo periodo della mia vita sulla terra. Ma il distacco della materia avviene nel sonno, la coscienza ritorna solo gradualmente e poi arriva il piacere della libertà, se non si è dei neofiti in ciò. Quanto è piacevole non avere piú un corpo fisico! Ma poi ritorna la nostalgia per le persone care che abbiamo lasciato. Vediamo la loro angoscia, e questo è terribile! Questi sono stati per me gli unici veri tormenti, e fino ad un certo punto lo sono ancora adesso. Ora però sapete come sto, e non avete piú nessun motivo di essere ango- sciati... Ora è appena arrivato uno di quei momenti che mi addolorano. Tu stai guar- dando la mia foto e pensi che io viva perché mi vedi fisicamente davanti a te, improvvisamente prendi coscienza della realtà, e cosí ritorna di nuovo tutto il dolore. Questi per te rappresentano sem- pre passi indietro. Per chi è unito dai vincoli d’amore che non s’interrompono mai, non esiste piú nessuna separazione, né nella vita, né nella morte!

6 Agosto 1915

Le battaglie nel Mondo spirituale sono molto piú violente di quelle che ci sono in guerra da voi, perché qui si tratta di distruggere lo Spirito (l’individualità), mentre da voi è solo il corpo ad essere distrutto. Di notte da voi è riposo, mentre da noi ferve l’attività. Allora noi abbiamo piú tempo per aiutare i defunti, che ora ci invadono a migliaia. Come sono stato felice questo pomeriggio, è stato cosí bello da parte vostra! Io vivo ancora come sulla terra, solo che ho maggiori capacità rispetto a quelle che aveva il mio corpo fisico. Con lo sguardo penetro molte cose, ma so che non è tutto, anche se ho un forte desiderio di andare avanti. Tale desiderare naturalmente qui è di gran lunga di maggiore aiuto rispetto a quando si è immersi nel corpo fisico sulla terra, in quanto è molto piú efficace. Ma per il resto è ancora tutto esattamente come sulla terra. Quando discutete su questioni relative al mondo sovrasensibile con persone spiritualmente evolute, io ne approfitto e apprendo da voi alcune cose che qui non sperimento. Io stesso non posso ancora dirvi molte cose su di esso, perché non ho ancora visto tutto. So che fate fatica a comprendere ciò; per questo ve lo ripeto continuamente. Il piú grande errore è pensare che l’uomo, una volta spogliatosi del suo corpo, sia perfetto. I vostri discorsi, per esempio oggi, mi hanno aiutato tanto quanto hanno aiutato voi, forse anche di piú, perché io, con i miei sensi attuali, afferro e comprendo piú rapidamente, mentre il cervello umano lavora spesso molto lentamente. Per questo dovete capire che io sono felice quando vi incontrate con persone come quelle di oggi, perché anche io allora posso imparare molto, e in quei momenti vi posso stare molto piú vicino che nella vita quotidiana, quando vi occupate di cose senza importanza. Non so ancora quanto tempo io debba rimanere sul livello spirituale dove mi trovo attualmente, ma credo non molto. Poi uscirò un’altra volta dal mio corpo attuale, esattamente come quando voi deponete il vostro corpo fisico.
Vorrete certo sapere qualcosa della mia vita qui: sappiate che io vivo solo per la grande opera di cui vi ho parlato molte volte, la Musica Sacra, che sarà di grande beneficio per l’umanità. Il mio lavoro sulla terra è stato appena un assaggio di ciò. È qualcosa di straordinariamente bello, che permea tutte le sfere e tra- smette le sue vibrazioni fino alle regioni piú alte. Ciò richiede molta energia e molti grandi talenti. Sentivo di essere chiamato alla realizzazione di qualcosa di grande. Per questo motivo ero cosí sereno quando sono andato in guerra. Sapevo che tutto è nelle mani di Dio. Non ho avuto rimpianti neppure per un momento. Doveva avvenire, era il mio destino! Avevo sempre sentito dentro di me che non sarei diventato vecchio, ma non per questo meno allegro e felice; ho goduto la mia vita al massimo, perché sapevo che tutto è determinato, ed io stesso non posso cambiarne nulla.
Quando poi la morte è arrivata, sono rimasto comunque sorpreso, perché non credevo avvenisse in quel momento. Durante i lunghi periodi d’infermità avevo fatto ancora comunque piani per il futuro, e la spe- ranza di ritornare presto a casa mi sorreggeva e mi dava coraggio, anche se a volte la mia voce interiore mi diceva: “Preparati, è finita”. Non ci credevo completamente, ma poi, improvvisamente, ho visto la mia vita davanti a me e ho capito che era finita! L’ultimo minuto è stato terribile, ma è durato solo un attimo ed è passato, vale a dire che poi è venuto il sonno della morte che mi ha liberato da tutti i dolori che il corpo doveva sopportare. Inconsciamente mi ero preparato alla morte. Il mio karma positivo mi ha consentito di stare per tre settimane in malattia dopo il ferimento, in modo da staccarmi lentamente dall’involucro terreno. Quanto sono piú sfortunati gli uomini che muoiono di colpo, perché non riescono a capire di essere morti. A volte anch’io ho creduto di essere ancora vivo, perché all’inizio ci sono condizioni molto simili. Grazie a Dio ho avuto presto coscienza di non possedere piú un corpo fisico. Poi è arrivata la separazione dal corpo eterico, ed io sapevo che cosa stesse accadendo.
Poi giunse il difficile compito di calmarvi e di farvi capire che io ero vivo. Questo ha richiesto molto tempo e molte energie, ma mi avete ascoltato e questo mi ha sollevato di molto, quindi vi ringrazio dal piú profondo dell’anima! Non potrò mai dimenticare come abbiate superato voi stessi per amor mio. Un giorno vi ricompenserò! Quando vi distaccherete dal vostro corpo ci sarò io ad aiutarvi. Quello sarà un meraviglioso ritrovarsi! Tenete bene a mente che questo vi deve sempre dare nuova forza per aiutarvi a superare il dolore. Per favore, non abbiate dubbi, ma siate fermamente convinti che io continuo a vivere come sulla terra, solo che non mi potete vedere e che sto molto meglio, perché non devo piú portarmi appresso il corpo!
Ora abbiamo parlato a lungo senza intralci. Deve andare e andrà sempre meglio, ma è necessario che tu ti procuri molta tranquillità e non ti affatichi con troppe cose, perché esse portano troppa inquietudine nella tua vita, e a quel punto io non sono in grado di arrivare sino a te. Non sapevo che tu mi fossi cosí vicina spiritualmente. Perché non siamo stati piú vicini nel corso della vita? Tu sei stata troppo assorbita da te stessa, ma ora siamo strettamente collegati e ci stiamo aiutando vicendevolmente.
Fratello mio, vedo perfettamente il tuo progresso spirituale. Quando lavori su di te è come se nascesse, da una singola piccola colonna, il grande edificio di un tempio indistruttibile. Questo è il tuo sé spirituale! Il legame che ci unisce è ora molto piú intenso rispetto a quando ero vivo, perché adesso io posso entrare dentro di te. Io ti circondo con il mio aiuto e con il mio amore; possa io proteggerti dalle cose spiacevoli che la vita sulla terra porta con sé. Chiamami quando hai bisogno di me. Il tuo compito è grande, ma anche bello e nobile. Il tuo percorso è illuminato dal radioso amore dell’insegnamento del Cristo. Il sentimento di gratitudine verso di voi cresce sempre di piú, perché vedo che vi evolvete per amor mio. Un giorno vi ricompenserò per tutto questo!

20 Novembre 1915

La vita terrena non è una vita di gioia, è difficile e dura. Tutti lo sanno, eppure si aggrappano a questa terra. Ho avuto già occasione di dirvi
talmente tante cose, che adesso l’idea di lasciare il corpo fisico non dovrebbe piú suscitare in voi alcun pensiero di orrore o rammarico. Questa vita terrena è sopportabile solamente se la si considera un breve periodo di passaggio.Non ti preoccupare, essa arriva, ha il suo senso, e non possiamo aggiungervi altri significati.Potete raffigurarvi l’essere incarnati con un viaggio sgradevole che si è costretti a intraprendere. All’arrivo a desti- nazione – vale a dire sulla terra – venite rinchiusi in un cortile circondato da alte mura. Vedete il cielo sopra di voi, ma siete convinti che sia irraggiungibile. Rimanete lí fino a quando vi si viene a prendere.
Alcuni di voi possono, con il loro sviluppo spirituale, at- traversare quelle pareti. Per costoro la prigionia non significa piú nulla, perché essi hanno comunque la libertà dello Spirito. Quando verrete qui, poi il dolore e la preoccupazione si trasformeranno in felicità. Come vi compatisco, a volte, quando, vicino a voi, vedo le vostre piccole preoccupazioni, perché sono davvero piccole preoccupazioni. Grandi preoccupazioni sono solo quelle che riguardano l’anima, vale a dire quando l’anima, o lo Spirito, subiscono dei danni, quando le persone sempre piene di dubbi sono in collera con il loro Dio per il fatto che Egli non cosparge la loro esistenza solo di rose; queste sono per noi le grandi preoccupazioni!
Ricordatevi di questo, voi che siete intrappolati nelle preoccupazioni.
Ricordatevi di questo, e siate forti, dovete essere al di sopra di queste preoccupazioni. Dio è con voi e fa solo ciò che è la cosa migliore per voi e per la vostra evoluzione.




Dal volume: Brücke über den Strom: Sigwarts Mitteilungen aus dem Leben nach dem Tod – Il ponte sul fiume:
comunicazioni di Sigwart sulla vita dopo la morte (Oratio Verlag, Schaffusa 2008).


Traduzione di Piero Cammerinesi

fonte:http://www.larchetipo.com su autorizzazioone dell' autore

martedì 25 settembre 2012

Un ponte tra due mondi - Prima parte

di Piero Cammerinesi

La salvezza della Terra dipende dalla realtà che l’umanità nel presente non trascuri di formarsi pensieri sui Mondi spirituali. Poiché moltissimo dipende dal fatto che il cammino dell’evoluzione dell’umanità venga compreso spiritualmente.
(Rudolf Steiner, I retroscena spirituali della I Guerra Mondiale.)

«Vita dopo la morte? Sarà, ma nessuno è mai tornato a raccontare cosa c’è dall’altra parte…». Quante volte abbiamo sentito ripetere questa battuta, quando in una conversazione volevamo dare un senso meno materialistico e prosaico alla vita e all’essere umano…
«Nessuno è mai tornato…» ma ne siamo proprio sicuri?
In realtà di testimonianze sull’esistenza umana oltre la soglia della morte ve ne sono state moltissime nel corso della storia, piú o meno attendibili e piú o meno articolate.
Naturalmente, trattandosi di comunicazioni provenienti da un mondo profondamente diverso dal nostro mancando il piano fisico è evidente che il linguaggio non può essere il medesimo della terra. La persona che ha attraversato la soglia della morte tende a modificare molti dei punti di vista che aveva quando viveva incarnato in un corpo fisico, e questo in misura sempre maggiore quanto piú egli tende a distaccarsi dalla sua vita trascorsa; tuttavia, nei sia pur rari casi di comunicazioni serie, si può avere l’opportunità di ‘seguire’ per cosí dire, il cammino del defunto nel suo percorso post-mortem.
Tralasciando tutto l’ampio spettro delle testimonianze ‘medianiche’ in cui non è dato sapere chi sia realmente a comunicare, e anche la pur ricchissima letteratura sulla NDE (particolarmente interessanti ed approfonditi gli studi sulla Near-Death Experience di Raymond Moody), di persone, cioè, ritornate a vivere dopo essere morte per alcuni minuti o piú, e che hanno raccontato quanto hanno sperimentato in tale lasso di tempo, vi sono testimonianze attendibili e di lunga durata, tali da poter offrire una immagine dettagliata del percorso dell’anima umana dopo la morte fisica.
Una di queste ci è stata lasciata da Botho Sigwart, conte di Eulenburg, secondo figlio del diplomatico prussiano Philipp Graf zu Eulenburg e di Augusta, contessa di Sandels. Il padre Philipp, che aveva ricevuto il titolo di conte nel 1900, era molto dotato artisticamente, componeva, cantava ed era amico e consigliere dell’Imperatore Guglielmo II, il quale si recava spesso nella proprietà di famiglia a Liebenberg, a circa 50 chilometri da Berlino.

Nato a Monaco il 10 gennaio 1884, Sigwart ereditò insieme alla sorella piú piccola, Victoria, detta Tora, che divenne poi pianista le disposizioni musicali paterne. Sigwart era talmente dotato che a soli 7 anni scriveva Lieder ad orecchio e a 8 anni componeva ed eseguiva Lieder e musica per pianoforte, spesso dinanzi all’Imperatore in visita a Liebenberg.
L’apprezzamento che Guglielmo II dimostrò al giovanissimo compositore fu tale che gli ordinò Sigwart aveva allora 11 anni – delle variazioni su unamarcia di Dessau, musica che fu

successivamente eseguita e diretta da lui stesso a Vienna. Nel 1898 studiò organo al ginnasio di Bunzlau, in Slesia, e poi al ginnasio Luitpold, a Monaco, nel 1899, per trasferirsi infine a Berlino, al ginnasio umanistico Friedrich Wilhelm, dove conseguí la maturità nel 1902. Un anno prima, a soli 17 anni, aveva preso parte su invito di Cosima Wagner, vedova di Richard e amica di famiglia al Festival di Bayreuth, dove aveva avuto modo di dirigere l’orchestra, se pur durante le prove. Dal 1902 fece ritorno a Monaco dove studiò storia e filosofia fino al 1907, quando conseguí la laurea. Contemporaneamente al corso di laurea studiò musica con Ludwig Thuille e, successivamente, con Max Reger a Lipsia. Da allora iniziò a produrre composizioni musicali che sono ancora oggi disponibili.
Un viaggio di studio in Grecia risvegliò in lui una profonda passione per l’arte greca classica; in particolare la musica greca antica era per lui qualcosa di appassionante, tanto che musicò i Lieder di Euripide di Ernst von Wildenbruch, fino a farne una composizione operistica. Quest’opera – la cui esecuzione fu rimandata a causa dello scoppio della I Guerra mondiale – venne eseguita per la prima volta, con grande successo, a Stoccarda il 19 dicembre del 1915, cinque mesi dopo la morte di Sigwart.
Nel 1909 sposò la cantante lirica Helene Staegemann, che gli diede un figlio, Friedrich, nato nel
1914, destinato anche lui ad una morte prematura; morirà, infatti, nel 1936, a soli 22 anni, nel corso di un’esercitazione militare.
A Strasburgo ebbe occasione di conoscere Albert Schweitzer, anch’egli organista, con il quale terminò, nel 1911, i suoi studi musicali e cui dedicò un concerto per organo. Al circolo di giovani amici musicisti di Sigwart appartenevano anche Wilhelm Furtwängler e Artur Nikisch.
La passione di Sigwart non era solo la musica ma anche la filosofia e l’esoterismo. Nella sua breve vita si interessò appassionatamente di religioni orientali, Buddhismo, Teosofia, sino a incontrare Rudolf Steiner nel 1906, seguendo da quel momento con trasporto l’Antroposofia.
Steiner era, infatti, amico dei conti di Eulenburg, ed era a volte ospite a Liebenberg; dal momento in cui lo conobbe, nella dimora di famiglia, Sigwart non perse occasione per seguirne le conferenze e per approfondirne l’opera. Condivise questo profondo interesse con i fratelli Lycki, Tora, Karl e con la cognata Marie. In tal modo vennero poste le basi per le comunicazioni che avrebbe iniziato a fare dopo la sua morte.
Allo scoppio della I guerra mondiale Sigwart aveva 30 anni, e partí come volontario nell’esercito tedesco, con il profondo impulso di difendere la Patria in pericolo. Serví con il grado di sottotenente in un reggimento di cavalleria prima sul fronte occidentale e successivamente su quello orientale.
Gravemente ferito ai polmoni il 9 maggio 1915, durante un attacco in trincea in Galizia, venne ricoverato in un ospedale militare a Jaslo dove morí il 2 giugno 1915. Nonostante le enormi difficoltà per la guerra in corso, secondo i suoi desideri, il suo corpo venne portato nel castello del padre a Liebenberg, dove fu sepolto sotto la grande quercia a lui molto cara.
Il legame particolarmente profondo tra Sigwart e Marie fece sí che quest’ultima subisse un trauma profondo per la morte del cognato.
Ad appena poche settimane dalla morte, Sigwart si mise in contatto con sua sorella Lycki, a lui molto legata, e successivamente anche con altre persone di famiglia. Lycki cosí descrive ciò che provò quando iniziò a sentire che il fratello voleva mettersi in contatto con lei: «Nella solitudine e nel silenzio di questa giornata ho capito ciò che Sigwart si aspetta da me. Lui non vuole guidare la mia mano dall’esterno, ma sono io che devo aprire una porta dentro di me; allora sentirò le sue parole che poi devo trascrivere».
Le comunicazioni non avevano carattere medianico; Sigwart trasmetteva i suoi messaggi dall’Aldilà a persone non in trance ma perfettamente coscienti, che poi provvedevano a trascriverli. Lycki, poi Tora e piú tardi Marie, iniziarono allora a trascrivere i messaggi di Sigwart, che proseguirono per 35 anni. quercia nel parco di Liebenberg nel 1935
Dapprima la sorella nutriva chiaramente molti dubbi sulla autenticità dei messaggi che sentiva nascere dentro di sé e che man mano provvedeva a trascrivere. Ma le esortazioni del fratello e la straordinarietà di quelle comunicazioni, che le giungevano in piena coscienza e non tramite fenomeni di trance, la convinsero che si trattasse proprio dell’amato Sigwart che tentava di mettersi in contatto con lei. Sigwart le chiedeva di aprire la propria mente, lasciando penetrare quei messaggi, contrastando e superando ogni sorta di pur comprensibile afflizione per la sua scomparsa fisica.
Consapevole dei giudizi negativi che il maestro di Sigwart, Rudolf Steiner, aveva sempre dato delle comunicazioni dall’Aldilà, e non ancora certa dell’autenticità dei messaggi, un giorno la famiglia mandò Marie da Steiner. Si recò dunque a Berlino dove viveva in quegli anni Steiner e, su richiesta dello stesso Steiner, gli lasciò i quaderni con i messaggi del cognato con l’accordo di rivedersi dopo un paio di settimane. Venne il giorno dell’appuntamento, e Marie era in ansiosa attesa di sapere cosa le avrebbe detto il Maestro su questa vicenda sicuramente poco ‘ortodossa’ rispetto alla Scienza dello Spirito, anzi, per certi versi contraria allo spirito dell’Antroposofia.
«Cosa dirà?» si domandava dunque Marie, in attesa di incontrare Steiner. «Questa domanda stava davanti a me a lettere cubitali, perché nel frattempo in me si era molto rafforzata la fiducia verso l’identità di Sigwart. Per un’ora e tre quarti il Dr. Steiner mi spiegò accuratamente, pagina per pagina, le comunicazioni [di Sigwart] mettendo nella giusta luce quelle che non avevo compreso, spiegando cosa aveva inteso Sigwart con questo o quello, e mi pose delle domande. Mentre leggeva, annuiva spesso con il capo, esclamando con approvazione: “Questo è descritto molto bene” – “Ben espresso” – “Definizione precisa” – “Sí, le esecuzioni musicali, quelle sono realtà”.
Attesi inutilmente obiezioni a una qualche comunicazione; non ve ne furono! Accomiatandosi mi disse: “Sí, queste sono comunicazioni straordinariamente chiare e assolutamente autentiche dei Mondi spirituali. Non vedo ragione alcuna per sconsigliarLe di continuare ad ascoltarle…”. Nel salutarci, ancora una volta sottolineò che comunicazioni di questo genere erano molto rare. Io sentii che era veramente felice di questo e che avevamo condiviso questa gioia» (dal libro Brücke über den Strom: Sigwarts Mitteilungen aus dem Leben nach dem Tod – Il ponte sul fiume: comunicazioni di Sigwart sulla vita dopo la morte, Oratio Verlag, Sciaffusa 2008).
Le comunicazioni di Sigwart proseguirono per anni e vennero raccolte devotamente e riservatamente dalla famiglia. Fino a che, il 25 aprile 1932, arrivò questo messaggio: «È giunto il momento in cui i doni divini che abbiamo lasciato elargire da nostro fratello Sigwart devono diffondersi in circoli piú ampi. Quanto da lui vi è stato comunicato deve essere diffuso per donare benedizione, per alleviare sofferenze, per aiutare le persone ed indicare loro la via verso la Luce. Il momento è arrivato!».
Da allora le comunicazioni di Sigwart sono state pubblicate in volume e tradotte in molte lingue del mondo.
Nei messaggi dal Mondo spirituale Sigwart descrive alla sorella Lycki, e al circolo di amici che ben presto si forma intorno a lei ciò che accade all’anima nel momento della morte e nei periodi successivi. Il suo amore per i suoi familiari gli consente di stare loro vicino e di assisterli nel superamento del grande dolore per la perdita. Un dolore che però va superato, perché produce al defunto solo grande sofferenza e gli impedisce di comunicare con i suoi cari.
La morte è qualcosa di meraviglioso – non si stanca di ripetere Sigwart – l’avvenimento piú bello della vita; quello che risveglia al Mondo spirituale, dunque perché dolersi per chi è ormai immerso nella Luce divina?
Chi attraversa la soglia della morte è letteralmente assetato dei pensieri elevati che si possono
formare solo nel corso dell’esistenza fisica, e per questo motivo Sigwart gioisce con la sorella quando lei e i suoi amici si incontrano e discutono di argomenti elevati o si dedicano alla meditazione.
Sigwart racconta giorno per giorno – in una sorta di diario ultraterreno – il proprio percorso dal piano astrale a quello del Devachan. Il mondo fisico, quello astrale e quello spirituale, o Devachan, in realtà non sono separati, ma si compenetrano; solo la nostra limitazione nella percezione di ciò che non è fisico ci impedisce di vedere oltre i confini del nostro mondo. La pratica spirituale che egli ha coltivato già nel corso della vita terrena gli consente di procedere molto rapidamente nel percorso tra morte e nuova nascita, permettendogli altresí di conseguire delle conoscenze particolarmente elevate dei Mondi spirituali.
Racconta alla sorella, sin nei dettagli, la prosecuzione – sul piano spirituale – delle proprie creazioni musicali. La “musica celeste” destinata a trasformare l’atmosfera della Terra. «La musica è l’arte piú elevata, anche se può agire solo indirettamente sugli uomini. …Il suo compito è quello di tra- sformarne l’anima. …È il nostro mezzo piú efficace per influenzare l’umanità» (op.cit.).
Il suo impegno nella realizzazione di sette sinfonie ‘celesti’ è qualcosa che lo occupa molto e lo entusiasma; tale opera – realizzata sul piano spirituale insieme ad altre anime – rappresenta la prosecuzione della sua missione sulla terra. Descrive con toni rapiti l’indescrivibile felicità delle anime che assistono alle esecuzioni di musica ‘celeste’ e narra di periodi d’intenso ma luminoso lavoro per creare le opere e successivamente per educare altre anime alla musica.
Cosí dice Rudolf Steiner nella conferenza “Alle soglie della Scienza dello Spirito” tenuta a Berlino nell’agosto 1906 (O.O. N° 95): «L’attività e la beatitudine nel Devachan consistono specialmente nell’attività creatrice. I grandi mutamenti della Terra sono creati dall’essere umano sotto la direzione e la guida degli esseri superiori. I morti lavorano alla trasformazione della fauna e della flora. La trasformazione della Terra è dovuta all’operare dei morti. Anche nelle forze della natura dobbiamo vedere le azioni degli esseri disincarnati. Ciò che l’uomo non può fare qui sulla Terra lo compie nel periodo che vive tra la morte e una nuova nascita».
Ma i messaggi di Sigwart sono anche ricchi d’indicazioni per l’esistenza terrena, per la preparazione
necessaria onde poter penetrare coscientemente nel mondo che ci aspetta oltre la soglia della morte, dove, se non siamo coscienti, viviamo a lungo in uno stato di doloroso sonno, senza poterci rendere conto di dove ci troviamo.
Allora non ci rendiamo conto neppure di essere morti e non riusciamo a riconoscere le anime delle persone a noi legate che ci si avvicinano.
L’uomo che attraversa la soglia della morte non è come spesso si immagina automaticamente
consapevole di ciò che ha davanti; in realtà egli guarda al nuovo mondo in cui si trova ancora con i pensieri, le emozioni ed i giudizi che aveva da uomo terreno.
Solo se nel corso della vita terrena si è lavorato spiritualmente, appropriandosi delle corrette descrizioni del Mondo spirituale, si può superare rapidamente il periodo di disorientamento che l’anima del defunto si trova ad attraversare.
Come sottolinea Steiner: «Escludere il sapere sui Mondi spirituali durante la vita sulla Terra vuol dire rendersi cieco nel senso animico-spirituale per la propria vita dopo la morte» (Nessi cosmici nella formazione dell’organismo umano – O.O. N° 218).
Ciò fa comprendere – ove ve ne fosse la necessità – la straordinaria importanza di quanto Rudolf Steiner ha portato nella cultura attuale con la Scienza dello Spirito, che ha messo a disposizione dell’umanità un quadro esaustivo del Mondo e delle Entità spirituali, rendendo di fatto operativo il ponte tra il mondo terreno e quello dello Spirito.
«Non importa – ci dice Sigwart - quali sono i sentieri che percorriamo nella nostra vita, quali lavori
abbiamo fatto, tutto dipende da quello che l’uomo ha pensato, ha sentito e ha fatto nella sua ultima vita terrena. ...Io adesso so qualcosa in piú, vedo piú lontano di prima. Ma una volta che ci siamo liberati della materia del nostro corpo fisico, non si diventa improvvisamente onniscienti. Voi non ci crederete, ma io sono accanto a voi, sento tutto quello che dite. Io vivo!» (op.cit.).
Man mano che il tempo passa e che il defunto si distacca dalla terra, il racconto di questo straordinario viaggio si arricchisce anche d’immaginazioni cosmiche, di esperienze spirituali elevatissime che si traducono in preghiere, meditazioni e indicazioni per le anime di coloro che ancora vivono incarnati.
Seguendo il percorso di Sigwart, viene a crearsi dentro la nostra anima un ponte tra il nostro mondo e quello spirituale; cominciamo a guardare alla morte con un occhio diverso.
Non piú “regno delle ombre” ma Regno di Luce e di Amore.
Iniziamo a immaginarlo come una porta che si apre su una nuova realtà, nella quale riversare i frutti dell’evoluzione spirituale conseguiti nella nostra esistenza terrena.
«Potete raffigurarvi l’essere incarnati con un viaggio sgradevole che si è costretti a intraprendere.
All’arrivo a destinazione vale a dire sulla terra venite rinchiusi in un cortile circondato da alte mura. Vedete il cielo sopra di voi, ma siete convinti che sia irraggiungibile. Rimanete lí fino a quando vi si viene a prendere.
Alcuni di voi possono, con il loro sviluppo spirituale, attraversare quelle pareti. Per costoro la prigionia non significa piú nulla, perché essi hanno comunque la libertà dello Spirito» (op.cit.).
 

lunedì 24 settembre 2012

La caccia al numero perfetto per trovare il senso della vita

Tratto da "Il Giornale" del 31 dicembre 2010


di Matteo Sacchi

Milano - Armonia, proporzione. Quel qualcosa che consente a una forma, a un oggetto o ad un essere vivente, di espletare al meglio le sue funzioni e, perché no, di avvicinarsi il più possibile all’ideale della bellezza. Quella bellezza che l’occhio percepisce istintivamente e il cervello fa così fatica a trasformare in concetto razionale e replicabile.

Ecco quello che gli uomini, in qualità di artefici, cercano da sempre e che la natura, ed eventualmente il suo Grande architetto, portano nascosto dentro di sé. E così per secoli, anzi per millenni, si è scatenata la caccia alla formula, al numero perfetto che spiegasse il meccanismo del creato, la sua «divina proporzione». Un numero che, una volta scoperto, avrebbe consentito di fare propria la logica creatrice che sovrintende al mondo come lo conosciamo.
Così gli antichi pitagorici si misero a studiare le proprietà del cinque e del pentagono. Così i cabalisti, prima, e gli alchimisti, poi, si misero a studiare il rapporto tra testo sacro e numeri (in ebraico ogni lettera equivale anche a una cifra). Senza contare i pittori-filosofi dell’umanesimo che cercarono di trasformare un preciso rapporto numerico conosciuto come «sezione aurea» e corrispondente a 1,618 in una sorta di metro del mondo.
Tutte semplici leggende? Tentativi rudimentali, ben diversi dalla scienza sperimentale contemporanea, di trovare una regola occulta in un caotico mondo dove regola non c’è?
No. È di questi giorni la notizia che una serissima università austriaca ha compiuto uno studio che dimostrerebbe che vive molto più a lungo chi ha un rapporto tra pressione minima e massima pari a 1,618 (insomma per intenderci sta gran bene chi fa 74 di minima e 120 di massima oppure chi fa 77 di minima e 125 di massima). Guarda caso proprio quel numerino che corrisponde alle proporzioni dell’uomo leonardesco e alle ricerche che, dai pitagorici in poi, hanno portato sino alla dottrina degli gnostici del rinascimento. Non solo: il magico 1,618 compare nei rapporti che determinano la struttura di molti altri esseri viventi. Tanto per dire detta la regola logaritmica che spiega la crescita del guscio dei molluschi o delle chiocciole o anche il modo in cui le piante «scelgono» quanti petali avere.
Abbastanza da far spalancare, metaforicamente, la bocca a Vittorio Messori che ne ha dato notizia sul Corriere della sera, e abbastanza per chiedersi se quel numero non sia l’impronta digitale del Deus Absconditus che da sempre un po’ si nega un po’ si rivela all’uomo (divertendosi a lasciarlo lì, indeciso). La questione di Dio non la risolveremo certo qui, sulla presenza di un numero perfetto (o di più numeri magici e perfetti), invece, qualcosa si può dire.
Il primo dato di fatto è semplice: ci sono dei rapporti numerici che davvero identificano «qualcosa» di importante e senza i quali le cose non funzionano. Alcuni sono nascosti ed altri no. Alcuni sono noti dall’antichità, magari in maniera intuitiva, altri da molto meno tempo. Un esempio abbastanza recente. La materia trova la sua «pace» sulla base del numero otto. I chimici la chiamano regola dell’ottetto: se un atomo ha otto elettroni nella sfera esterna smette di reagire con gli altri elementi (succede ai gas nobili). Otto in quel contesto è il solo numero che va bene, quello che regola la chimica, il numero dell’equilibrio. Se il neon non brucia al passaggio della corrente lo dovete a questo.
Un esempio antico: esiste una costante matematica conosciuta come numero di Nepero o di Eulero (per lo più approssimata a 2,71828182845905) che è fondamentale per svolgere calcoli logaritmici. Ma molto prima che i cervelloni del Seicento e del Settecento la «scoprissero» gli antichi greci la utilizzavano per dare proporzioni gradevoli ai templi (il Partenone è lungo 69,5 metri e largo 30,9, dividendo la prima per la seconda si ottiene un 2,24 periodico che era l’approssimazione antica al numero di Nepero).
Quanto al famoso 1,618 (altre parti del Partenone rispondono alla sua proporzione) è l’unico numero noto che consente di ottenere un rapporto fra due grandezze disuguali, «tale che la maggiore sia medio proporzionale tra la minore e la somma delle due, mentre lo stesso rapporto esiste anche tra la grandezza minore e la loro differenza». Non avete capito?
Bene in soldoni è un rapporto in grado di generare serie numeriche con un preciso ordine interno. Non è misterioso il fatto che le conchiglie decidano di crescere secondo questo schema: è semplicemente lo schema più comodo. Crea gruppi di numeri chiamati serie di Fibonacci (dal nome del matematico che le scoprì) che piacciono molto anche alle piante. Il numero di petali dei fiori più comuni dal giglio alla cicoria è quasi sempre regolato da questo schema: 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55... (e se dividete 55 per 34 e approssimate ecco il solito 1,618 e così via). La natura lo usa perché è armonico (una bella infiorescenza in cui i petali o i semi stanno alla giusta distanza l’uno dall’altro) e gli uomini lo hanno copiato per creare edifici armoniosi ma anche musica (Bach creava serie di note «alla» Fibonacci) o oggetti (il vostro badge dell’ufficio è un’approssimazione del rettangolo aureo costruito sul numero 1,618). Gli antichi guardando la natura ebbero l’intuizione e la trasformarono in regola, noi continuiamo a trovare le prove che la regola funziona anche dove non c’è la mano dell’uomo.
Se invece ci chiediamo perché proprio un determinato numero e non un altro regola certi rapporti trovare una risposta diventa più difficile. Seguendo Pitagora e anche i costruttori di cattedrali del medioevo (quelli del quadrato magico per intenderci), si può però prendere atto che «tutto è numero».
Non nel senso dell’astrazione pura ma nel senso che i numeri esprimono anche dei concetti funzionali. Altro esempio scemo? La visione funziona bene in stereoscopia. Gli animali vedono con due occhi tranne qualche rara eccezione (i ragni ne hanno da 2 a 12). Nessuno ha optato per una visione basata su numeri dispari (i dispari funzionano male anche per fare le gambe e camminarci sopra). Non se ne abbia Pitagora che li preferiva ai pari.

lunedì 17 settembre 2012

Siamo su Facebook

Se vuoi discutere di misteri con altri appassionati ti puoi iscrivere al gruppo Facebook degli "Amici de Il Sito Del Mistero". Ti aspettiamo.

L'indirizzo è:

http://www.facebook.com/groups/ilsitodelmistero/

Il bosco di Bomarzo

All'indirizzo sottostante potete scaricare liberamente un libro in pdf sul bosco di Bomarzo scritto da Luigi Manzo. Il Bosco è noto per le sculture meravigliose volute dal Principe Pier Francesco Orsini nel 1552. A voi il link:

https://drive.google.com/open?id=0B9gAVKKaFP9cdDdQLXZKUWpVdjg

domenica 16 settembre 2012

Nuovo numero della rivista Lex Aurea

Vi segnaliamo l'uscita del nuovo numero dell'interessante rivista Lex Aurea di Filippo Goti. Fra i vari articoli anche uno di Vito Foschi.

Ecco a voi il link dove scaricare il pdf della rivista:

http://www.fuocosacro.com/pagine/lexaurea/lexaurea43.pdf

venerdì 14 settembre 2012

IGNATIUS DONNELLY, LETTERATURA E UTOPIA NEL NUOVO WEST

Friday, March 21, 2003
IGNATIUS DONNELLY, LETTERATURA E UTOPIA NEL NUOVO WEST© Copyright 2003-2013 by the author

Lo sguardo scrutatore del bibliofilo nella produzione narrativa di un autore sottovalutato dalla critica

di Simone Berni

SOMMARIO
The Golden Bottle, un romanzo sconosciuto che nel 1892 ha previsto l'ONU – Il mistero della scomparsa delle Azzorre

THE GOLDEN BOTTLE, UN ROMANZO SCONOSCIUTO CHE NEL 1892 HA PREVISTO L'ONU
ENGLISH ABSTRACT
A farm-boy dreams he is given a liquid that enables him to make gold. He uses his wealth to support a secret organization (Populist-Christian-co- op) and to finance low interest loans. His policies save America, and America saves the masses of the world.

È curioso come alcuni autori, magari popolarissimi nei loro paesi, dove il loro nome ha un “valore editoriale” che si protrae negli anni, a volte ben oltre la loro morte, siano viceversa del tutto ignorati all'estero, talvolta poco conosciuti anche dagli addetti ai lavori.
Ce n'è uno in particolare la cui conoscenza diventa basilare per chi si occupa di Atlantide e di civiltà scomparse, perché a detta di molti è a tutt'oggi l'autore più importante e rivoluzionario nell'ambito di questa materia dopo Platone. Ebbene, di questo autore americano, si trovano pochissime tracce fuori dagli Stati Uniti. Sto riferendomi ad Ignatius Donnelly.
Per molti dizionari biografici Ignatius Donnelly è poco più che qualche breve riferimento. Nato a Philadelphia nel 1831, di origine irlandese. Nel 1857 si trasferì in Minnesota assieme al suo socio John Nininger, anche lui di Philadelphia, dove cominci? il progetto di una città-ideale, Nininger City, nella Contea di Dakota . La città avrebbe dovuto situarsi lungo il fiume Mississippi, circa diciassette miglia a sud di St. Paul ma il progetto fallì.
Fu vice Governatore del Minnesota dal 1859 al 1863. Morì a Minneapolis il primo di gennaio del 1901. È sepolto nel Cimitero Calvary di St. Paul, Minnesota.
Ma se è già difficile trovare ormai citato Ignatius Donnelly nei libri su Atlantide, direi che è quasi impossibile reperire notizie circa la sua attività di romanziere. Donnelly ha infatti scritto sul finire dell'800 tre utopian novels, cioè tre romanzi di utopia. Essi sono Caesar's Column (1890), Doctor Huguet (1891) e The Golden Bottle (1892). Il carattere spiccatamente "americano" di questi scritti e il loro chiaro intento politico, li rende un materiale cristallizzato nell'epoca che li ha partoriti e per questo motivo essi hanno subito un crescente isolamento fino all'oblio vero e proprio, perpetuato anche nella stessa America. Queste storie, che pure hanno conosciuto grande popolarità ai tempi della loro uscita, soprattutto "Caesar's Column" (l'ultima edizione importante in America è del 1949), oggi appaiono misconosciute, forse addirittura incomprensibili nelle sfumature politiche e sociologiche, almeno per chi non conosca nel dettaglio la storia del Minnesota e degli stati del nord-ovest della confederazione ai tempi di Donnelly.
Io personalmente trovo questi romanzi entusiasmanti, pieni di ingenua e focosa passione, meravigliosamente fuori dal nostro tempo e senza ombra di dubbio da riscoprire, ma la mia ha tutte le caratteristiche riconosciute della classica "voce nel deserto". Nessun editore in Italia li ha mai presi sul serio. Sono sempre stati considerati un fenomeno "tipicamente americano", e come tale improponibile alle nostre latitudini. Punto e basta.
Mi sono spesso domandato una cosa. Sarebbe possibile tradurli, riproporli in una forma moderna, ma allo stesso tempo mantenere rigorosamente intatta la loro natura? Ritengo di no, è una cosa quasi impossibile. The Golden Bottle, il romanzo che tra questi prediligo, è come un mosaico nel pavimento di una cattedrale. Il suo posto è quello e non pu? essere rimosso, perché altrove sarebbe senza senso, perderebbe il suo significato originale. Diciamo che, in caso di traduzione in italiano, il libro sarebbe un prodotto per "pochi intimi", accessibile solo previa e adeguata indottrinazione. In una parola: snaturato. Non fedele ai suoi principi.
In America il romanzo The Golden Bottle fu pubblicato da D.D. Merrill Company di New York & St. Paul (Minnesota) nel 1892. Il libro è in formato sedicesimo, con una copertina rigida in tela verde scuro, fregi e titoli in oro al piatto anteriore e al dorso. La mia copia è appartenuta ad Helen A. Kellogg, una persona gentile vissuta tra i due secoli. Era forse un'insegnante, amava molto i bambini e adorava fare lunghe sortite a cavallo lungo il fiume. Non so dirvi perché, ma sento che è così.
Il libro in edizione originale è difficile da trovare, la mia copia l'ho fatta arrivare da Rochester, Minnesota, e per poco non è andata persa durante il lungo viaggio, complice una dogana disattenta e poco incline al dialogo. Salvo poche eccezioni, per me l'arrivo a buon fine di testi pregiati spediti coi servizi postali è sempre stato un problema. Talvolta irrisolvibile, come nel caso dei libri di John A. Keel, di cui ho detto nel saggio “I misteriosi libri di John A. Keel”, pubblicato su Blogger (http://johnkeel.blogspot.com/).
Prima di quest'opera Donnelly aveva già alle spalle libri famosi come "Atlantis: The Antediluvian World", "Ragnarok: The Age of Fire & Gravel" e "The Great Cryptogram", ma con The Golden Bottle si avvale di tutta la sua esperienza e produce un piccolo capolavoro d'evasione. Certo, è innegabile che il romanzo sia anche un pezzo di campagna elettorale rivolto agli interessi degli agricoltori dell'Ovest ma il libro è comunque un'utopia letteraria di fine congettura, e per questo degno di un particolare interesse. Donnelly pubblicò The Golden Bottle, dice lui stesso, «...con l'intenzione di spiegare e difendere, sotto forma di storia, alcuni ideali del Popular Party (...) Ho la speranza che l'interesse per questo libro non si spenga fino a che i propositi in esso narrati non giungano a compimento».
La storia è abbastanza semplice e allo stesso tempo di grande presa per il pubblico. Si tratta delle avventure del ragazzo Ephraim Benezet del Kansas, figlio di contadini, al quale un misterioso vecchio materializzatosi nel mezzo della notte, consegna una bottiglia miracolosa con un liquido capace di trasformare i metalli vili in oro. Discutendo sull'impatto politico e sociale di questo potere - il potere di creare nuovo denaro a piacimento (per decreto, nella realtà) - Donnelly descrisse le condizioni alle quali si erano ridotti gli agricoltori dell'ovest, vessati dalle tasse e oppressi dalla dilagante corruzione del sistema bancario, che gli precludevano la possibilità di estinguere i loro debiti. Sviluppando questo background, Donnelly enfatizzò molte delle paure dell'America rurale di fine Ottocento. Focalizzò le sue attenzioni soprattutto sul fenomeno dello spostamento delle famiglie di agricoltori verso le grandi città e sulle degradanti condizioni di lavoro delle grandi fabbriche. Donnelly denunciò anche la disonestà di una parte preponderante dell'editoria, soprattutto la diffusione di giornali e quotidiani di parte, a esclusiva difesa degli interessi dei grandi industriali.
Benezet si risveglia al mattino con davanti a sé due realtà conflittuali. Da una parte la situazione della sua famiglia, oppressa da mutui inestinguibili con le banche, e della sua dolce fiamma Sophie, anch'essa finita in rovina e costretta a emigrare coi suoi genitori. Dall'altra, la bottiglia dorata, appoggiata ai piedi del letto.
Benezet, avendo il potere di creare denaro, riesce pian piano a migliorare la sua situazione, quella della sua famiglia, degli amici, fino a capovolgere completamente le sorti per tutti gli agricoltori sia dello stato che dell'intera confederazione. Divenuto ricco e famoso, vinte le tentazioni del denaro, riuscirà a farsi eleggere presidente degli Stati Uniti. Compirà molte importanti riforme, come la concessione del voto alle donne, la nazionalizzazione delle ferrovie, l'eliminazione dei ghetti cittadini. Da non dimenticare, infatti, quanto egli vedesse di buon occhio le minoranze, i nativi americani, gli afro-americani (come si dice oggi) e gli ebrei.
Nella parte finale del libro Donnelly si occupa dei rapporti dell'America con il resto del mondo. Fa approdare Benezet in Europa, con la ferma intenzione di estendere le dottrine della Rivoluzione del 1776 a tutte le nazioni. Benezet precipita in un'Europa dilaniata dalla guerra ma ben presto si fa garante della pace, esortando le masse ad opporsi ai governi totalitari e liberando tutta l'Europa occidentale dalle dittature. Tra le altre cose, incoraggerà gli ebrei a stabilire uno stato in Palestina.
Per garantire la pace sia sul vecchio che sul nuovo mondo costituirà un'organizzazione apposita, che egli chiamerà The Universal Republic. La sede di questa organizzazione mondiale sarà nelle Azzorre, cioè sulla "punta di Atlantide", come aveva affermato dieci anni prima nella sua famosa opera Atlantis: The Antediluvian World (New York: Harper & Brothers, 1882). La capitale scelta da Benezet è situata nell'isola di S. Michael, che verrà appositamente acquistata dal "piccolo regno del Portogallo".
Il libro si chiude con il giovane protagonista che si risveglia dal suo sogno. Riprecipita al cospetto della cruda realtà, e si trova costretto a fare i bagagli e abbandonare la sua fattoria, oppresso dalla situazione economica. Dovrà così cominciare a lavorare per il mondo di ideali e d'utopia che ha appena sognato. Senza la bottiglia dorata, però.
Tra le utopistiche visioni di Donnelly quella che colpisce di più è l'aver concepito l'ONU con oltre mezzo secolo d'anticipo, dimostrando come a livello inconscio già a quei tempi si avvertisse la necessità di un organismo sovra-nazionale teso a vigilare le sorti del mondo.
«The Golden Bottle - dice Donnelly - fu scritto di fretta, per la maggior parte sulle mie ginocchia durante i frequenti spostamenti in treno a causa della campagna di governatore del Minnesota». E nelle stanze di albergo che lo ospitavano di volta in volta».
The Golden Bottle usc? sia in versione hard cover, cioè con copertina rigida, che in paper cover (paperback), vale a dire con copertina morbida e in ogni caso non fu ristampato. Ne esiste una sola edizione, quella del 1892. Evidentemente il libro fu visto solo come un'edizione propagandistica, non ebbe un riscontro favorevole e fu presto dimenticato. Nel secondo dopoguerra è stato valorizzato solo a livello universitario. In Canada, Stati Uniti ed Australia ci sono infatti vari studiosi e ricercatori che hanno trattato le opere di Ignatius Donnelly, suddividendo la sua produzione in tre filoni principali: Atlantide, Bacone e Utopia.
Recentemente mi sono procurato un'edizione in lingua svedese, di cui non sospettavo neppure l'esistenza. Il libro in questione è "Den Gyldene Flaskan" (Stockholm: Loostr?m & Komp:s, 1893). Il formato del volume è simile a quello dell'edizione americana, il colore predominante della copertina è anche in questo caso il verde scuro. È la precisa traduzione dell'originale, a cura di Victor Pfeiff. Il libro uscì probabilmente sulla scia del successo di Caesar's Column, che in Svezia ebbe tre edizioni nello spazio di un anno, curiosamente con tre titoli differenti: Caesars kolonn (1891); Varldens undergang (1891); Civilisationens Undergang (1892).
Di Ignatius Donnelly e della sua passione per Bacone (e dell'antipatia per Shakespeare) mi occuperò in un prossimo articolo, quello dedicato alle “Cronache dell'incredibile”.
Anche Doctor Huguet (Chicago: F.J. Schulte & Co.), apparso l'anno prima di The Golden Bottle, è un romanzo utopistico dalle interessanti implicazioni. Lo scambio di personalità fra due protagonisti (in genere tipi opposti) come espediente narrativo diverrà un classico, e sarà ripreso più volte nel secolo successivo sia in letteratura che nel cinema. La critica fu assai sfavorevole e anche se nel 1899 Donnelly si vanterà di essere arrivato alla quinta edizione, alcuni suoi biografi sono dell'idea che il numero fu più basso. E' certo però che le edizioni furono almeno tre.
Donnelly usa la formula dello pseudonimo, Edmund Boisgilbert, lo stesso di Caesar's Column, ma sia nella copertina che nel frontespizio appare il suo nome per esteso, cos? che non ci possano essere dubbi sull'identità dell'autore.
Dei tre romanzi utopistici di Donnelly, solo Caesar's Column ebbe un certo successo editoriale, con 60.000 copie vendute solamente nell'anno di uscita, il 1890, e traduzioni in vari paesi. Donnelly lo scrisse in meno di cinque mesi e lo sottopose subito ad Harper & Brothers di New York, con il quale aveva già pubblicato Atlantis, ma questi lo rifiutò. Così come lo rifiutarono, uno dopo l'altro, Scribner's, Houghton Mifflin, Appleton e A.C. McClurg, che anzi lo videro come un incitamento alla rivoluzione. Donnelly però? conobbe un nuovo editore, appena trasferitosi a Chicago, Francis J. Schulte, che si dimostrò entusiasta del lavoro, ne comprese la portata e lo fece uscire nell'aprile del 1890, suggerendo comunque di usare uno pseudonimo, che poi fu Edmund Boisgilbert, M.D. Le duemila copie della prima tiratura si esaurirono in un lampo e fu subito ristampato. In autunno il libro fece la sua uscita anche in Europa, per conto di Sampson Low, Marston & Co. di Londra.

IL MISTERO DELLA SCOMPARSA DELLE AZZORRE
Mi sia concesso adesso un po' di svago.
Sulla scia della lettura, per me un'autentica scoperta, di The Golden Bottle, ho costruito la trama di un romanzo surreale. Ho immaginato che, dopo essermi addormentato con il libro di Donnelly, al risveglio scopro che le Azzorre sono sparite. Sì, proprio le isole al largo della costa portoghese dove Ephraim Benezet vi aveva collocato The Universal Republic, l’Onu ante litteram. Voi vi chiederete: «in che senso, sparite?» Ve lo dico subito. Cancellate, come non fossero mai esistite. Se io prendevo un atlante o una mappa geografica e cercavo le Azzorre nel punto in cui ci sono le Azzorre, non le trovavo più. Solo tanta acqua. Cos? telefonavo agli amici, uno c'era stato addirittura in viaggio di nozze anni addietro, e gli dicevo: «Ehi, ti ricordi le Azzorre in luna di miele, belle vero?». E lui: «Le che...? Sono stato alle Canarie, scemo!» E io: «Sì, ma delle Azzorre che ne pensi?» E lui, credendo che lo volessi prendere in giro inventandomi un posto che non c'è: «Ah, belle belle e anche le Bluturchine, che isole! Dovresti andarci!»
Ora, tutto questo potrà apparire comico. Ma nella realtà io venivo colto da un terrore crescente. Cominciavo a credere di essere in preda a terribili allucinazioni, visto che tutto lasciava supporre che fossi l'unico a pensare che esistessero queste isole. Gli altri non le avevano mai sentite nominare. Il loro stesso nome era un non senso. In nessun posto, in nessun luogo c'era una traccia, anche solo una, dell'esistenza di queste isole.
Dopo settimane di ricerche, in biblioteca, all'università, nelle agenzie turistiche, avevo dovuto alzare bandiera bianca. Un gruppo di isole al largo del Portogallo chiamato Azzorre non c'era e non c'era mai stato. Era tutto nella mia testa. Anni fa, chissà quando, dovevo aver sognato questa cosa e da allora l'avevo creduta reale, costruendoci sopra un castello di riferimenti sempre più grande e complesso.
Ma nella realtà il crollo di questo castello non aveva prodotto alcun fragore. L'esistenza o meno di queste isole era un fatto puramente formale per me. In fondo, cosa cambiava nella mia vita? Non mi ci sarei mai recato, almeno non di mia spontanea volontà; non conoscevo nessuno che abitasse laggiù; inoltre, nessun progetto della mia vita, vicino o lontano, aveva a che fare, seppure di riflesso, con le Azzorre. In realtà esse non erano mai veramente esistite per me, neanche negli anni durante i quali le ritenevo reali a tutti gli effetti.
Il castello di riferimenti che avevo costruito mentalmente attorno alle Azzorre era però molto vasto. Il libro di Donnelly, per esempio, non solo era scomparso. Non risultava che Ignatius Donnelly lo avesse mai scritto. Tutti i testi riportavano l'informazione che il politico del Minnesota aveva scritto in vita due novelle d'utopia, Caesar's Column e Doctor Huguet. Di questa Golden Bottle non c'era traccia da nessuna parte. «Curioso - mi disse un docente di letteratura americana - lo sai Donnelly avrebbe potuto scrivere davvero una storia come quella che mi ha raccontato! Sarebbe stata proprio nel suo stile. Peccato che non l'abbia fatto, avrebbe avuto un grande successo».
«Non credo, dissi io, la critica l'avrebbe stroncata senza pietà e ne sarebbe uscita una sola edizione. Un fiasco totale, mi creda». Mi lanciò un'occhiata perplessa.
Da allora la mia vita è cambiata. Sì, non solo perché le Azzorre sono sparite dalla mia vita - e da quella di tutti quanti, ma perché è sparita la sicurezza, la certezza di vivere una vita logica e sensata. Sono sempre in attesa di una nuova sparizione e temo che stavolta possa essere di grande portata. Qualcosa di così grande ed eclatante da riuscire a portarmi alla pazzia.
Fu così, dopo questa presa di coscienza, come per incanto, che realizzai come nella vita noi viviamo pensando di conoscere ma che in realtà la nostra conoscenza è frutto della collettività. Noi sappiamo in quanto apprendiamo e condividiamo le informazioni. Tante cose che si danno per scontate, pur non avendole mai viste, potrebbero sparire da un momento all'altro. E con esse parte dei nostri ricordi, parte della nostra vita. Non è terribile tutto questo? Si, lo è, ma non c’è modo di evitarlo. In nessuna maniera.
© Simone Berni 2003

sabato 8 settembre 2012

PER CAPIRE RENÉ GUÉNON

tratto da "Il Sole 24 Ore" del 9 maggio 1999

Metafisico e tradizionalista

di Claudia Gualdana

Nel 1886, a Blois, in Francia, nacque un uomo le cui opere, a quasi cinquant' anni dalla sua morte, dividono ancora il pubblico in lettori appassionati e detrattori. Stiamo parlando di René Guénon, imparziale critico dell' Occidente moderno. Dopo un lungo silenzio, da qualche anno i suoi scritti ricompaiono nei cataloghi di alcune raffinate case editrici. Del pari, sono ricomparsi anche equivoci e confusioni che, paradossalmente, da sempre accompagnano l' opera del più olimpico espositore delle dottrine tradizionali.

Di Guénon, si è detto e scritto di tutto, sovente a sproposito. Tuttavia, è possibile dissipare la nebbia che lo circonda, grazie a un libro uscito in questi giorni da Luni. Si tratta di René Guénon e l' Occidente, curato da Pietro Nutrizio, il maggiore esperto dell' opera del metafisico francese; nel volume, sono raccolti alcuni saggi pubblicati negli ultimi anni nella Rivista di Studi Tradizionali. Seguendo la direzione indicata da Nutrizio e Balestrieri, è possibile afferrare lo scopo dell' opera di Guénon e, in modo particolare, sfuggire gli equivoci.

Guénon non era un filosofo. Egli era un metafisico poiché la filosofia, nell' accezione moderna del termine, è il dominio del razionale distaccato dal principio divino, dunque una forma di pensiero legata all' individualità, alla sfera mentale e sentimentale. Dunque, nulla a che vedere con l' intellettualità pura, alias "ciò che gli Indù designano con la parola jnana (...), identica al greco Gnosis attraverso il suo radicale, il quale del resto è anche quello della parola conoscenza (da co-gnoscere), ed esprime un' idea di "produzione" o di "generazione", perché l' essere "diventa" quel che conosce e realizza se stesso attraverso tale conoscenza".

Diremo che non fu uno scrittore, bensì un tramite, attraverso cui trovano equa collocazione le concezioni metafisiche che riposano alla base di ogni tradizione ortodossa. Aggiungeremo anche che non fu certo un occultista, e che è un' assurdità far risalire le sciocchezze diffuse dalla new age alle concezioni da lui esposte. Lo dimostrano tutte le sue opere, ma in modo particolare Errore dello spiritismo (Luni editrice 1998), in cui Guénon mina le incerte fondamenta delle elucubrazioni di occultisti e spiritisti. Egli non scrisse opere "mistiche": i mistici sono degli irregolari, in quanto non ricollegati tramite iniziazione a tradizioni esoteriche ortodosse.

Guénon, pur essendosi convertito all' Islam, non spinse mai gli europei in tale direzione. Lo chiarisce egli stesso in Oriente e Occidente (Luni 1993): "Si tratta non di imporre all' Occidente una tradizione orientale, con forme che non corrispondono alla sua mentalità, ma di restaurare una tradizione occidentale con l' aiuto dell' Oriente". Concluderemo dicendo che il metafisico, considerato un pensatore di destra, non si occupò mai di politica, essendo la scienza sacra svincolata da implicazioni di tale natura.

Nell' ultimo capitolo di Autorità spirituale e potere temporale (Luni 1995), egli ebbe a scrivere: "Gli insegnamenti di tutte le dottrine tradizionali sono unanimi nell' affermare la supremazia dello spirituale nei confronti del temporale, e nel considerare normale e legittima soltanto l' organizzazione sociale in cui tale supremazia sia riconosciuta". Da questa dichiarazione, possiamo capire in quale senso egli fu antimoderno, così come comprendiamo che non avversò il cristianesimo. Guénon, a differenza dei suoi contemporanei, fornì una prospettiva sovrastorica, metafisica, alla decadenza dell' Occidente.

La sua disinteressata preoccupazione, fu quella di far comprendere che la tradizione non si apprende solo dai libri: lo studio è il primo passo su una strada assai lunga. Di chiarire che la metafisica costituisce il vero esoterismo, il quale non ha nulla a che vedere con quella congerie di stramberie cui alcuni alludono. Con Guénon, comprendiamo che l' uomo non ha in sé la sua ragion sufficiente, e che ogni civiltà "normale" si fonda su "principi intellettuali, o "spirituali", superiori al "divenire" e di origine tradizionale". Chi legge le sue opere, intuisce cos' è la tradizione primordiale. Chi ancora non le ha lette, può per lo meno meditare su una sua dolorosa riflessione: "La Somma teologica di San Tommaso d' Aquino era, al suo tempo, un manuale a uso degli studenti; dove sono oggi gli studenti in grado di approfondirla e di assimilarla?".


Pietro Nutrizio e altri, "René Guénon e l' Occidente", Luni Editrice, Milano-Trento 1999, pagg. 446, L. 42.000.
 

mercoledì 5 settembre 2012

IL LUPO MANNARO COME SIMBOLO DELLA NATURA UMANA

di Vito Foschi

La caratteristica saliente del lupo mannaro è la sua doppia natura umana e bestiale che convivono nello stesso essere. Normalmente prevale la natura umana, ma nelle notti di luna piena prevale la bestia. Quale migliore sintesi per rappresentare la natura umana capace del supremo sacrificio per un altro essere umano, ma anche capace delle peggiori efferatezze?




Il cane è il primo animale ad essere addomesticato. Prima di essere cane era lupo e, come tale un potenziale pericolo per l’uomo. Il cane è il miglior amico dell’uomo, ma dopo millenni di addomesticamento ogni tanto il lupo torna nella sua natura e attacca l’uomo. Il cane conserva questa natura ambivalente, come il lupo mannaro oscilla fra l’uomo e la bestia.
L’uomo primitivo si trovava ad essere in contatto col cane che fisicamente era ancora simile al lupo e il lupo selvaggio. La fusione dei due elementi, era una buona rappresentazione della natura umana. Generalmente buona, ma quando soggetta all’ira, capace delle peggiori azioni contro i suoi simili. Esattamente come il lupo mannaro, normalmente inoffensivo, ma un pericolo nelle notti di luna piena.
Il mito sarà nato dall’abitudine dell’uomo primitivo di indossare pelli d’animali per acquisirne le sue caratteristiche di forza e di agilità. Nel caso della pelle di lupo, poteva rappresentare una maggiore ferocia in battaglia. In qualche caso l’esaltazione dei guerrieri che indossavano simili pelli può aver causato atti di cannibalismo durante la lotta. È la nascita del mito.



Si può esaminare la storia dei Berserker(1), i mitici guerrieri orso del nord, che combattevano indossando pelli di orso e assumendo droghe sotto forma di funghi per non aver paura e pietà dei nemici.
Qualcosa di simile può essere avvenuto per il lupo. In fondo i Berserker erano uomini normali anche se guerrieri, e la loro spietatezza in battaglia era occasionale proprio come la bestia che fuoriesce dall’uomo nelle notti di luna piena.
Il lupo mannaro rappresenta un’ottima sintesi. È da notare che in lingua inglese esiste l’espressione "to go berserk" col significato di infuriarsi, dare fuori di matto, derivante proprio dal nome dei mitici guerrieri del nord.
Il lupo mannaro non rappresenta, però, in un’ottica dualista le opposte forze del bene e del male, perché l’uomo può scegliere fra le due, mentre il lupo no, è maledetto ed è condannato ad una vita doppia senza possibilità di scelta. Per questo non può rappresentare il libero arbitrio che dovrebbe avere l’essere umano per scegliere fra il bene e il male.
Rappresenta invece la collera, la perdita di controllo che trasforma l’uomo per un tempo breve in un altro, in un animale incapace di frenarsi. Dopotutto nella Bibbia c’è scritto:" Guardati dall’ira dei miti", quasi a voler sottolineare l’assunto qui esposto. Una persona normalmente calma, per un motivo scatenante tira fuori la bestia che è in ognuno di noi.
Una rappresentazione visiva che mette in luce il carattere da lupo mannaro dell’uomo è una scena del film "Tutti a casa" con Alberto Sordi, che racconta dell’otto settembre del 1943. In una parte del film il protagonista per tornare a casa si presta a fare da autista per un autocarro pieno di farina da portare al mercato nero. La sfortuna vuole che venga scoperta la natura del carico e un gruppo di uomini resi ciechi dalle privazioni della guerra lo saccheggia in maniera selvaggia. La scena viene resa di una violenza inaudita dalla presenza di una bambina, che sopraffatta dalla follia di uomini grandi e grossi, si mette, piangendo, a raccattare la farina caduta nel fango. È da notare la coincidenza fra il bianco della farina che fa scattare la cieca violenza nel film e il bianco della luna piena che tramuta l’uomo in lupo mannaro. D’altronde questa scena riprende il ben più famoso episodio dell’assalto ai forni ne "I promessi sposi". Anche lì è il bianco della farina in contrasto con il nero del pane misturato a rendere cieca la folla. (Da notare l’assonanza fra folla, folle e follia, quasi ad indicare che un assembramento di persone genera automaticamente una sorta di coscienza collettiva portata a ragionare ed agire in maniera sconsiderata.)
Il bianco della luna piena e il nero delle notti senza luna. Alcune assonanze sono davvero incredibili.
Ripensando anche a questi racconti non si può non pensare che il lupo mannaro sia un ottimo simbolo per rappresentare la natura umana oscillante fra i due opposti di una generale calma e di una violenza incontrollata circoscritta a brevi periodi e scatenata da eventi esterni.




Note
1) Nelle tradizioni vichinghe esistono tre gruppi di guerrieri caratterizzati da nomi di altrettanti animale:
I Berserker che utilizzavano pelli di orso, e combattevano in gruppo. La parola scandinava Bar/Ber indica l’orso;
Gli Ulfedhnar, che vestivano pelli di lupo combattevano soli e soprattutto di notte utilizzando prevalentemente la lancia e l’ascia. La parola Ulf significa lupo ed è simile al wolf inglese e tedesco;
Gli Svinfylking, uomini cinghiali, abili nei travestimenti combattevano con una particolare formazione a cuneo chiamata a "Testa di Cinghiale", col compito di aprire il fronte nemico.