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sabato 11 maggio 2019

Fantasma laureato

In  collaborazione con Hesperya

tratto da: https://www.hesperya.net/2017/08/17/fantasma-laureato/

di Roberta Faliva

Lambiti dal quieto mare di Posillipo, a Napoli, si ergono i ruderi di una villa romana che fu di Veio Pollione e della quale rimangono ancora in piedi tre piani. La villa è chiamata Castello o Palazzo degli Spiriti, ma anche Villa di Virgilio: infatti il sommo poeta la predilesse e vi fu spesso ospite.

L’amore per questo luogo ha accompagnato Virgilio oltre la tomba: lo possono attestare i pescatori che nelle notti di luna nuova illuminano con le lampade lo specchio d’acqua antistante.

Mentre sono intenti nella pesca, la loro attenzione è richiamata da un suono melodioso proveniente dalla villa; poi una delle arcate si riempie di una luce velata, al centro della quale prende forma una figura dal capo cinto di alloro, che canta versi accompagnandosi con la cetra. Pescatori analfabeti hanno saputo riportare frammenti di questo canto recitati dal misterioso spirito: sono versi dell’Eneide.

domenica 30 marzo 2014

Napoli: misteriosi segni sulla pietra

tratto da "L'Opinone" del 13 marzo 2014


di Achille Della Ragione


 
Il primo a parlare di architettura esoterica, cercando di penetrare la testimonianza misteriosa lasciataci da quelle maestranze attive a Napoli, tra tardo Medioevo e primo Rinascimento, fu Mario Buonoconto nel suo prezioso volumetto sulla “Napoli esoterica”.
Già sotto i Normanni e poi durante i regni di Svevi, Angioini ed Aragonesi, giunsero in città, dal nord Europa prima e poi dalla Francia e dalla Spagna, artigiani organizzati in confraternite sul modello franco templare. Essi erano particolarmente abili nel sagomare il piperno, pietra molto dura, adoperata in genere per la pavimentazione stradale e per ricavare portali e soglie di balconi. Già in epoca tardo romana si erano costituite delle corporazioni di maestri pipernieri che tramandavano i “segreti dell’arte” solo a pochi fidati apprendisti. Nel Rinascimento erano chiamati “maste ‘e prete” e si immaginava che sapessero caricare la pietra di energia positiva. Quando si apprestavano alla costruzione di un edificio importante, oltre a porre nelle fondamenta alcune monete, come obolo per i morti, in ossequio a riti propiziatori in uso presso i Caldei ed i Greci, cercavano, sfruttando una sorta di rabdomanzia, d’identificare i punti di forza del luogo, scegliendo il più adatto per costruire.
Questa breve introduzione è necessaria per affrontare il discorso sui segni presenti sul bugnato della facciata della chiesa del Gesù Nuovo, precedentemente palazzo della nobile famiglia dei Sanseverino, edificato nel Quattrocento e, dopo sfortunate vicende della casata, ceduto all’Ordine del Gesuiti, che lo trasformarono nella splendida chiesa barocca, tra le più note della città. L’architetto Novello da San Lucano si servì di maestranze locali che crearono quella serie di piccole piramidi aggettanti verso l’esterno con il vertice puntato sull’osservatore. Queste facciate a bugnato, relativamente diffuse al nord, sono insolite nel meridione ed a Napoli ve ne son ben pochi esempi. Su quelle in esame sono presenti numerosi e strani segni incisi sulla superficie, un misterioso alfabeto con una sorta d’ideogrammi che si ripetono secondo un ritmo particolare, che fa supporre ad una chiave criptata di lettura, di recente oggetto di una suggestiva interpretazione da parte di uno studioso locale, Vincenzo De Pasquale, che ha ritenuto di identificarvi un pentagramma che si è materializzato in un concerto eseguito nella navata della stessa chiesa del Gesù Nuovo. La lettura fatta da De Pasquale parte dall’ipotesi, smentita da esperti della lingua, che i misteriosi segni non siano tracce lasciate dai cavatori per conteggiare il lavoro svolto, bensì lettere dell’aramaico, la lingua parlata da Gesù. Ad ogni segno corrisponde una nota e la facciata è un pentagramma sul quale l’architetto, Novello da San Lucano, ha scritto la sua opera musicale che, di traccia in traccia, per vie misteriose, sarebbe finita persino in un’opera di Johann Sebastian Bach.
Il concerto, re-intitolato “Enigma”, è stato suonato dall’organista ungherese LorentRez ma sarebbe stato scritto originariamente per strumenti a plettro. Il legame con l’Ungheria non è casuale. Novello da San Lucano andò a vivere nel Paese magiaro e lì morì, dopo aver progettato e costruito diversi edifici e aver lasciato sue tracce nella storia artistica e musicale. Alla ricerca di altri messaggi sulla pietra si è mosso da tempo un appassionato medico di professione, Lucio Paolo Raineri, che ha indagato sulle mura medioevali cittadine, costruite dagli Aragonesi, a partire dal 1484, servendosi di maestranze di Cava de’ Tirreni ed utilizzando piperno proveniente dalle cave di Soccavo. La folgorazione per il riflesso di uno specchio provocato da un’insolita luce estiva gli fece scorgere i frammenti di un misterioso discorso sulle pietre scure della Torre San Michele in via Cesare Rosaroll, una fra le meglio conservate. Ha continuato le sue indagini fotografando altri segni strani su mura e torri che da via Marina arrivano fino a via Foria. Ha così fatto molte altre scoperte, alcune già note agli studiosi della Napoli segreta. “Sono quasi tutti segni lapicidi, marchi di fabbrica dei cavatori, segni di posa, di allestimento”. Per lo più si tratta di lettere dell’alfabeto, numeri o simboli astrologici ed anche una croce uncinata, segno di antica tradizione indiana (molto simili a quelli trovati anche sul bugnato della facciata del Gesù Nuovo). In altri casi, sono segni che richiamano l’alchimia o la massoneria perché le logge segrete originariamente erano composte da fratelli muratori. I segni su Torre San Michele sono stati soltanto il punto di partenza. Armato di taccuino e macchina fotografica, il medico-Indiana Jones s’è fatto tutto il percorso aragonese. “Naso all’aria – racconta – confrontandomi con le supposizioni di chi mi vedeva in giro, cominciai a rivisitare i massi di piperno di altre torri, con i soli limiti di penetrazione del mio sguardo e della loro dislocazione e accessibilità”, perché gran parte della fortificazione è ormai all’interno di palazzi privati o è stata abbattuta o è stata sommersa da superfetazioni architettoniche. L’anamnesi di Raineri è stata scrupolosa e ha partorito una relazione documentatissima nella quale si legge il resoconto delle sue esplorazioni nella metropoli dei segni che avrebbe fatto la felicità di un Roland Barthes in cerca del grado zero della testimonianza operaia.
“Niente scorsi sui massi della piccola Torre Duchesca a vico Santa Maria a Formiello – scrive – né sulla vicina Torre Sant’Anna. Porta Capuana ed il tratto di mura tra Torre Onore e Torre Gloria fu ricchissimo di reperti, visibili ad occhio nudo e ad altezza d’uomo. La stessa scarsezza di risultati l’ebbi per porta Nolana, anche se la grafia di quello che può sembrare un’intera parola sconosciuta, alla base della Torre Fede, mi ha lasciato sconcertato”.
Oltre che sulle torri aragonesi, i segni lapicidi sono presenti in Campania sull’abbazia di San Guglielmo al Goleto e sulla cattedrale di Sant’Antonino a Sant’Angelo dei Lombardi e sull’abbazia di Santa Maria di Realvalle a Scafati. Ma in una metropoli perennemente affollata e costruita su se stessa, ogni angolo racchiude un segreto, un messaggio, una pietra parlante. “L’importante è cominciare a capirne la lingua”, commenta Raineri, che, molto probabilmente, è solo quella del lavoro. Al fianco di scritte pseudocriptiche, ve ne sono altre, perfettamente leggibili, ma delle quali ci sfugge il significato, come quella che s’incontra nel porticato del chiostro dell’ex dimora dei Caracciolo, i cui locali sono stati utilizzati negli ultimi anni dai giudici di pace per i loro uffici. Cogliamo l’occasione per descrivere il mastodontico edificio che ospita la scritta, posto sull’ultimo tratto di via Tribunali, l’unico in stile tardo gotico ed unico che ricorda l’architettura catalana. L’edificio era stato disegnato dal grande architetto dell’arca funebre di re Ladislao a San Giovanni a Carbonara, Andrea Ciccione, e ne sopravvissero, come si vede, l’arco d’ingresso, il pianterreno del primo chiostro e la porta della sala di ricevimento, in origine sacello gentilizio di Sergianni e fino al diciottesimo secolo ricchissima cappella, detta “il tesoro”, dove si nominavano i nuovi magistrati del vicino tribunale. Oggi, ad abitare il complesso, è il Comune di Napoli con i suoi uffici, sezione San Lorenzo, quartiere Forcella. Al primo piano i corridoi con gli infissi in legno e le vetrate mostrano ancora il disegno ospedaliero. Qui erano ricoverate persone fino a pochi decenni fa: gli ultimi anziani pazienti ne sono usciti nel 1970.
Il Lazzaretto, sala maestosa, sgombra dai letti o dai pagliericci che si dovevano usare per appestati, malati di tifo e altri pazienti colpiti da epidemia, è un trionfo di luce. Una separazione architettonica con timpano distingue la corsia dalla sala chirurgica o gabinetto medico. Oggi, al posto dei tavoli anatomici, c’è una piccola sala conferenze su cui troneggia una lapide dedicata a Mariano Semmola. Tutta la sala del Lazzaretto è circondata a mezza altezza da una lunga balconata da cui passare cibo e rimedi ai malati con cui non si poteva entrare in contatto. Qui si curavano, tolte le epidemie, le diffusissime malattie veneree e della pelle (nel 1888 vi fu istituito un reparto dermoceltico). Pochi anni fa in questa sala, infinitamente lunga ed infinitamente alta, sessanta metri, per dieci, per sei, è stata girata una fiction dedicata al medico santo Giuseppe Moscati, interpretato da Beppe Fiorello.
Due anni fa, con la venuta a Napoli, in occasione del Napoli Teatro Festival, del grande regista spagnolo Enrique Vargas, il Lazzaretto diventò spazio teatrale, oscurato ed irriconoscibile, un lungo ventre di balena dove si avveravano visioni felliniane, gomitoli di cotone e ragnatele, morti e voci del passato e feste mobili che avvolgevano lo spettatore in un’esperienza irripetibile: un bell’esorcismo per un luogo del potere diventato luogo di sofferenza e, infine, luogo d’arte. Il bellissimo palazzo, che era stato simbolo del potere di Sergianni Caracciolo su Napoli e sulla regina Giovanna II, sede di feste e intrighi, manifesto della potenza degli uomini nuovi sulle antiche dinastie, acquistato dai frati Ospedalieri nel 1587, si trasformò in ospedale, per necessità. Giaceva in abbandono da un secolo, infiltrato da case private, tanto che le liti fra vicini produssero un morto, come testimonia la lapide minacciosa, ancora oggi presente, voluta da un diffamato, in un lato del cortile: “Dio m’arrassa da invidia canina da mali vicini, et da bugia d’homo dabbene”. Questa frase si presta a varie interpretazioni: potrebbe essere una preghiera o una delle tante invocazioni scaturite dalla filosofia dei napoletani. Viene anche citata dal Chiarini e una leggenda vuole che se i frati dell’ospedale avessero tolto la targa, il possesso della donazione sarebbe passato all’ospedale degli Incurabili.

giovedì 7 marzo 2013

Nicolò e la leggenda del coccodrillo


di Achille della Ragione

Teatto da "L'Opinione" del 26 febbraio 2013

http://www.opinione.it/cultura/2013/02/26/2013/02/25/2013/02/26/dellaragione_26-02.asp

 Le leggende napoletane sono numerose e molte sono legate al mare, come quella del “Pesce Nicolò”, nota da tempo immemorabile, della quale si rischia di perdere il ricordo perché non vi è più traccia, in Via Mezzocannone, del bassorilievo di epoca classica rappresentante Orione, venuto alla luce durante gli scavi per le fondamenta del Sedile di Porto, murato nel settecento, ricordato poi da una lapide.Il bassorilievo, cui accenna anche Benedetto Croce, raffigura un uomo coperto da un vello con in mano un coltello. Il nome del protagonista è “Cola Pesce” o “Pesce Nicolò”. La storia prende spunto da un'antica leggenda siceliota in cui si parla di un ragazzo, maledetto dalla madre, che, a furia di nascondersi tuffandosi nel mare ed a vivere tra i flutti, assume le sembianze di un vero e proprio pesce che, per lunghi spostamenti, si serve del corpo di grossi “Collegni”, dai quali si fa inghiottire per poi tagliarne il ventre, una volta giunto a destinazione.Da questo illustre progenitore prese origine una confraternita di sommozzatori, che venivano iniziati ad un culto marino in onore di Poseidone, con lo scopo di prendere possesso delle ricchezze poste nelle grotte più profonde del golfo. Essi adoperavano delle alghe che, trattate con una formula segreta, erano in grado di aumentare considerevolmente il tempo di resistenza in apnea, pari o superiore ai sommozzatori dotati di bombole.Taluni di questi si accoppiavano con dei rarissimi sirenoidi, oggi scomparsi dal golfo di Napoli ed è bello pensare che le rare foche monache, che ancora si scorgono al largo di Capri, siano gli antichi discendenti di questi accoppiamenti ibridi. Sembrerebbe che uno degli ultimi di questi soggetti sia stato utilizzato dagli Alleati, in assoluta segretezza, per ricerche sottomarine nel golfo di Napoli.La leggenda di Colapesce si diffuse per tutto il Regno ed in Sicilia si racconta che uno di questi esseri, sceso nelle acque più profonde, resosi conto che uno dei tre pilastri  che reggevano l'Isola stava cedendo, si sacrificò per sostituirsi nell'opera di sostegno. Gli ultimi discendenti di questi mitici personaggi possono essere considerati quei ragazzini che ancora oggi, tutti nudi sempre abbronzati d'estate e d'inverno, si tuffano per raccogliere con la bocca le monete gettate a mare da turisti ammirati  e, nello stesso tempo, preoccupati per la lunga apnea di quegli esili corpicini, più volte immortalati dal grande scultore Vincenzo Gemito.Un'altra leggenda famosa è quella di un famelico coccodrillo che, forse, al seguito di qualche nave, dopo aver percorso tutto il Mediterraneo, trovò alloggio nei sotterranei del Maschio Angioino, dove i castellani, accortisi della sua presenza, pensarono di utilizzarlo per sopprimere sbrigativamente i condannati a morte. Sebbene poco credibile, la storiella trovò accoglienza dai napoletani a tal punto che a lungo un coccodrillo impagliato fu appeso all'ingresso del Maschio Angioino.E qui si innesta una seconda leggenda secondo la quale i suoi pasti più sostanziosi erano costituiti dai numerosi amanti che la regina Giovanna, dopo l'amplesso, faceva precipitare giù, attraverso una botola, fino all'alloggio del famigerato coccodrillo. Ma, dobbiamo chiederci, questa assatanata regina Giovanna è mai esistita? Gli storici conoscono due sole regine: Giovanna D'Angiò e Giovanna di Durazzo, entrambe dai costumi sessuali alquanto disinibiti.A risolvere la querelle fu Benedetto Croce, secondo il quale la Giovanna della leggenda va ricercata nella sovrapposizione delle due Giovanne realmente esistite e miscelate, aumentando i difetti dell'una e dell'altra, fino a creare un terzo orripilante personaggio.