domenica 30 luglio 2017

LOS PLATOS VOLADORES Y SUS TRIPULANTES

Per i miei lettori appassionati di UFO, dischi volanti, OVNIS, platos voladores, etc. etc: LOS PLATOS VOLADORES Y SUS TRIPULANTES, di Eduardo A. Tucci e Alberto Giordano (Buenos Aires, GLEM, 1969). Un bel libro argentino.



Segnalatoci da Simone Berni, bibliofilo e cacciatore di libri è ideatore di Bookle.org  nuovo super motore di ricerca per libri rari, nuovi e usati. Se c'è un libro che state cercando senza successo e soprattutto se non avete tempo da dedicarci, Bookle.org è il sito che fa per voi.

domenica 23 luglio 2017

Dee, Fate, Streghe Dall'Abruzzo Intorno al Mondo

Presentiamo il nuovo libro di Nicoletta Travaglini nostra preziosa collaboratrice.

Da sempre gli uomini hanno personificato i fenomeni naturali, considerandoli come prodotto di divinità sovrannaturali a cui tributare doni. Queste divinità, la più importante delle quali sembra essere la Grande Madre, hanno da sempre accompagnato il cammino dell’uomo. La Grande Madre, personificazione della Terra, è stata una presenza costante, ingombrante, comprensiva, amorevole ma, a volte, anche cattiva e ostile, devastando le vite e i destini dei popoli. Nicoletta Camilla Travaglini narra di un viaggio sulle tracce delle grandi Dee-Maghe come Angizia, Medea, Morgana ed altre, nonché dei luoghi sacri a loro dedicati, come Cocullo, Roccacasale, dove dimorano le fate; Montebello sul Sangro, la città abbandonata; il lago di Bomba con il castello delle fate; Pretoro, Roccascalegna, Pennadomo e tanti altri luoghi, ognuno con una sua storia e un suo misterioso fascino.

mercoledì 19 luglio 2017

Discorsi del discernimento

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/discorsi-del-discernimento/

Meister Eckhart

5. Considera che cosa rende buona la natura e il fondo dell’uomo

La ragione per cui la natura e il fondo dell’uomo, dai quali traggono la loro bontà le opere dell’uomo, sono del tutto buoni, è che lo spirito dell’uomo è completamente rivolto a Dio. Impegna ogni tuo sforzo perché Dio divenga grande per te, sì che tutta la tua attenzione e il tuo impegno siano per lui in ogni tuo agire. In verità, più fai così, migliori sono le tue opere, quali che siano. Se tu ti stringi a Dio, lui ti coprirà di ogni suo bene. Cerca Dio, e troverai Dio e ogni bene. Sì, in verità, se in tale disposizione d’animo tu inciampi in una pietra, ciò è opera più divina che fare la comunione pensando anzitutto a se stessi e con minor distacco della mente. A chi si stringe a Dio, Dio stesso e tutte le virtù si stringono. E ciò che prima cercavi, ora cerca te, e ciò che prima inseguivi, ora insegue te, e ciò che prima fuggivi, ora fugge te. Infatti, a chi si stringe intensamente a Dio, tutte le cose divine si stringono, mentre tutto ciò che è lontano e dissimile da Dio da costui fugge.



6. Del distacco e del possesso di Dio

Mi è stata posta la seguente questione: alcuni vorrebbero separarsi completamente dagli altri e stare soli – e in ciò troverebbero la pace, e nello stare in chiesa: è questa la cosa migliore? Io ho risposto di no, ed ecco perché. Chi è come deve essere, in verità, si trova bene in ogni luogo e con chiunque, ma chi non è come deve essere non si trova bene in nessun luogo con nessuno. Colui che è come deve essere, ha Dio vicino a sé in verità, e chi possiede Dio in verità, lo possiede ovunque: per la strada e accanto a qualsiasi persona, così come in chiesa, in solitudine o nella cella. Se un uomo siffatto lo possiede veramente, e possiede lui soltanto, nessuno gli può essere di ostacolo.

Perché?

Perché egli ha Dio solo e a Dio solo va la sua intenzione, e tutte le cose divengono per lui Dio solo. Un tale uomo porta Dio in tutte le sue opere e in ogni luogo, ed è Dio soltanto a compiere tutte le opere di un tale uomo. Infatti l’opera appartiene più propriamente a colui che ne è la causa che non a chi la realizza: se dunque la nostra intenzione è soltanto e unicamente Dio, allora sarà lui a compiere le nostre opere, e nulla può impedirgli di operare, né il luogo né le persone. Perciò nessuno può essere di ostacolo a questo uomo, giacché egli non considera, non cerca e non gode null’altro che Dio, il quale si unisce a lui in ogni sua intenzione. E come il molteplice non può distrarre Dio, nello stesso modo nulla può distrarre e disperdere quest’uo­mo: egli è uno in quell’Uno, in cui tutto il molteplice è Uno e non più molteplice.

L’uomo deve cogliere Dio in ogni cosa, e abituare il proprio spirito ad aver Dio sempre presente in sé, nella propria intenzione e nel proprio amore[1]. Considera dunque in che modo sei rivolto a Dio quando sei in chiesa o nella tua cella, e mantieni un’identica disposizione dello spirito anche in mezzo alla folla, nel tumulto, fra le cose disuguali. Come ho detto altre volte, quando si parla di “uguaglianza” non si intende dire che tutte le opere, i luoghi o le persone vadano considerati uguali: ciò sarebbe completamente falso, giacché pregare è opera migliore che filare, e la chiesa un luogo più nobile della strada. Occorre però avere in tutte le opere una stessa disposizione dello spirito, una stessa confidenza e uno stesso amore per Dio, e una medesima serietà. Invero, se tu fossi così di identico animo, nessuno potrebbe impedirti la presenza di Dio.

Ma l’uomo in cui Dio non abita veramente, e che deve cercare Dio all’esterno, in questa cosa e in quell’altra, e che cerca Dio in modi disuguali: nelle opere o nelle persone o nei diversi luoghi, non possiede Dio. Un tale uomo incontra facilmente degli ostacoli, giacché egli non possiede Dio, e non cerca lui solo, né lui solo ama o ha nella mente; perciò gli sono di ostacolo non soltanto le cattive compagnie, ma anche quelle buone, e non soltanto la strada, ma anche la chiesa, e non soltanto le parole e le opere cattive, ma anche quelle buone: l’ostacolo intatti è in lui, perché Dio non è divenuto tutto per lui. Se invece così fosse, egli si sentirebbe a proprio agio dovunque e con chiunque, giacche avrebbe Dio, e nessuno glielo potrebbe togliere, o impedirgli di compiere l’opera sua.

In che cosa consiste dunque questo vero possesso di Dio, in virtù del quale veramente lo si possiede?

Questo vero possesso di Dio risiede nello spirito, in una profonda tensione verso Dio e nell’avere lui nella mente e non in un pensiero continuo e sempre identico – ciò è impossibile, o assai difficile, alla natura, e non sarebbe neppure la cosa migliore. L’uomo non si deve accon­tentare di un Dio pensato, perché così, quando il pensiero ci abbandona, anche Dio ci abban­dona. Si deve invece possedere Dio nella sua essenza, che è molto al di sopra del pensiero del­l’uomo e di ogni creatura. Così Dio non ci abbandona mai, a meno che l’uomo non si distolga volontariamente da lui.

Chi possiede Dio nella sua essenza, coglie Dio nella sua divinità; per quest’uomo Dio risplende in tutte le cose: per lui infatti tutte le cose sanno di Dio e in esse egli vede la sua immagine. In lui Dio risplende in ogni tempo, in lui si compiono distacco e abbandono e in lui si imprime l’immagine del Dio tanto amato e presente. In egual modo, chi ha una grande sete può anche fare cose diverse e avere pensieri diversi dal bere, eppure, qualsiasi cosa faccia e con chiunque sia, qualunque sia il suo pensiero o la sua occupazione, l’immagine della bevanda non lo abbandona fin tanto che dura la sua sete, e, più la sete è grande, più vivida è l’immagine della bevanda – più presente, continua, interiore. O ancora: chi ama con tutte le sue forze una cosa, in modo da non provare gioia in nessun’altra, desidera soltanto quella e null’altro, e il suo amore non vien meno in lui dovunque sia, per diverse che siano le sue compagnie o le sue occupazioni: in ogni cosa trova l’immagine di ciò che ama, e tanto più presente quanto più forte diviene il suo amore. Quest’uomo non cerca la quiete, giacché nessuna inquietudine lo turba.

Quest’uomo è particolarmente gradito a Dio, poiché egli sente tutte le cose come divine e su­periori a quanto siano in sé. In verità, occorre zelo, amore, giusta considerazione dell’interiorità dell’uomo e una conoscenza viva, meditata, effettiva dell’intenzione dello spirito in mezzo alle cose e alle persone. L’uomo non può apprendere questo cercando la fuga, fuggendo dalle cose e rifugiandosi esteriormente nella solitudine: bisogna piuttosto che egli apprenda la solitudine in­teriore, dovunque e con chiunque sia. Bisogna imparare a passare attraverso tutte le cose, a co­gliere in esse Dio, imprimendolo fortemente in noi secondo la sua essenza. Nello stesso modo in cui chi vuole imparare a scrivere deve, per apprendere quest’arte, esercitarsi molto e spesso a farlo, per quanto duro e faticoso sia; e, anche se in un primo momento può sembrargli impos­sibile, imparerà quest’arte applicandosi spesso e con impegno. In verità, costui deve anzitutto rivolgere i suoi pensieri a ciascuna lettera e imprimerla fortemente in sé; quando poi si è impa­dronito di quest’arte, si affranca completamente dall’immagine e dal pensiero e scrive con faci­lità e senza sforzo. Lo stesso avviene per il suono di una viola o per qualsiasi altra opera che richieda abilità: è necessario soltanto volerla praticare, e, anche se non se ne è sempre coscienti, si compie l’atto grazie all’abilità acquisita, qualunque sia il pensiero.

Così l’uomo deve essere pervaso dalla presenza divina, plasmato nella forma di Dio amatis­simo, e mutato nella sua essenza, in modo che la sua presenza lo illumini senza alcuno sforzo ed egli possa distaccarsi da tutte le cose, rimanendo pienamente svincolato da esse. All’inizio occorrono però una riflessione e un’attenzione continua, come per colui che intenda apprendere un’arte.

[1] Quest’attitudine ricorda l’Ihsan nella tradizione islamica che, secondo un hadîth, «consiste nel ser­vire Allah come se lo vedessi: perché se tu non lo vedi, Egli ti vede» (Muslim, Sahîh, 1, 1).

sabato 15 luglio 2017

Oltre un secolo a fantasticare sulle fotografie degli Ufo

tratto da il Giornale del 23 giugno 2017

di Gianfranco de Turris

Le uniche "prove" dell'esistenza di creature aliene sono gli scatti: in un volume tutti gli avvistamenti dal 1883

C'è un famoso racconto di fantascienza di Katherine MacLean che Fruttero e Lucentini inserirono nella loro storica antologia Le meraviglie del possibile (1959) intitolato Le immagini non mentono e che racconta di come i terrestri cadono in un equivoco durante il primo contatto con gli alieni nel rispondere alla loro richiesta di aiuto dopo il loro atterraggio.

Le loro immagini inviate, infatti, erano vere ma loro non lo avevano capito.

È passato da un bel pezzo il tempo in cui si riteneva che foto e filmati fossero più veritieri delle testimonianze oculari: foto e film sono oggettivi, quel che si vede a occhio nudo è soggettivo e quindi equivocabile. Non è vero. Sin dagli inizi della storia della fotografia e del cinematografo è possibile truccare, l'importante è che il trucco non si veda e si creda tutto vero. Nei pionieristici film di Georges Méliès il trucco era palese, ne Il Signore degli Anelli o nei film dei supereroi e affini il trucco sembra vero, tanto per fare un confronto. Oggi è facilissimo, con i mezzi della moderna tecnologia elettronica, con appositi programmi come Photoshop, ad esempio, creare clamorosi falsi ritenuti veritieri, quasi più veri del vero, e difficili da scoprire: si pensi solo a quelli apparsi, però subito smascherati, dopo l'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001.

E il «fenomeno Ufo» è un fenomeno eminentemente visivo. Certo, innumerevoli testimonianze, un certo numero di tracce e di reperti attribuibili, ma soprattutto un numero sterminato di fotografie e filmati, e non disponendo di un Ufo integro o a pezzi a disposizione, o di loro piloti vivi o morti, le immagini sono la «prova regina». Sicché, partendo da questo presupposto venne in mente a me e a Sebastiano Fusco di mettere su un libro che presentasse in sequenza logico-cronologica e con relativo commento critico le più note, famose e controverse fotografie su questo enigma dei tempi moderni. Si intitolava Obiettivo sugli Ufo: Fotostoria dei dischi volanti, lo pubblicò le Edizioni Mediterranee nel 1975, con una seconda edizione riveduta e ampliata nel 1978: fu il primo libro in Italia e il secondo al mondo di questo genere (cinque anni prima era apparso un libro spagnolo ma di assai più limitata prospettiva, Platillos volantes ante la camara di Antonio Ribera), nonché il primo che pubblicammo a doppia firma, ormai reperto storico e introvabile, tanto che nemmeno il sottoscritto è riuscito a rintracciare la propria copia! L'introduzione era dell'amico Roberto Pinotti, uno dei fondatori del Cun, il Centro ufologico nazionale, e già allora uno dei maggiori esperti italiani.

Dopo 42 anni le parti s'invertono. Roberto è oggi il massimo esperto italiano e internazionale di Ufo con alle spalle un numero non calcolabile di libri, noi abbiamo preso strade diverse e ci siamo occupati di molti altri argomenti, tutti comunque eterodossi (qualcuno direbbe stravaganti), letterari o saggistici, ma lui mi ha richiamato in servizio per questa sua ultima fatica, Ufo tra occhio e obiettivo. E non potevo certo esimermi dal farlo, memore dei nostri antichi interessi e della vecchia amicizia. In fondo, quando 50 anni fa il Cun nacque e decise di indire il primo congresso ufologico in Italia, il 24 e 25 giugno 1967 a Riccione, fra i giornalisti presenti all'evento c'ero anch'io, insieme al compianto amico Cesare Falessi.

Obiettivo sugli Ufo conteneva 282 immagini. In seguito, fra il 1976 e il 1998, sono apparsi soltanto tre altri volumi fotografici, e tutti tedeschi (uno è stato pubblicato anche in italiano, Il segreto degli Ufo di Adolf Schneider e Hubert Malthaner, mentre i due di Michael Hesemann, Geheimsache Ufo e Die Kontakte sono inediti nel nostro Paese), con circa 150 immagini ognuno. Rispetto al nostro, questo libro di Roberto Pinotti ne contiene quasi il doppio, più di 500. Nel nostro libro prendevamo in considerazione un periodo di 93 anni, dal 1883 al 1976, questo si riferisce a 134 anni, dal 1883 al 2017.


In Ufo tra occhio e obiettivo Roberto Pinotti si districa in questo ginepraio basandosi sulla propria esperienza ed acume critico e con il suo catalogo dimostra come questo fenomeno persista dal 1947 (l'avvistamento Arnold) e continua ad essere regolarmente documentato da 70 anni. E da storico del fenomeno offre a chi ci crede e a chi non ci crede materiale visivo a iosa su cui ragionare, discutere, speculare e, perché no?, anche fantasticare, aspetto ancora non proibito dalle Autorità Costituite. Con l'aria che tira potrebbe anche succedere che la Commissione europea decida di classificare gli Ufo come balla, bufale, disinformazione bella e buona, una di quelle fake news dei giornalisti e dei politici conformisti e ignoranti insomma; e quindi di proibirne la diffusione di notizie e immagini in Rete...

E infatti c'è chi crede che gli Ufo giungano dallo spazio e chi magari dal centro della Terra, o che siano più banalmente armi segrete americane o russe o di un IV Reich in attesa di rivincita. V'è chi crede che provengano da altre dimensioni accanto alla nostra o da un tempo diverso, passato o futuro.

Ma basterebbe che una sola di queste 500 foto presentate da Roberto Pinotti (così come una sola delle 282 di 42 anni fa) fosse incontrovertibilmente vera e non raffigurasse un evento astronomico o un pallone sonda o simili che gli «oggetti volanti non identificati» diverrebbero realtà, ancorché per adesso ancora inspiegabile e soprattutto sempre visiva.

Insomma, siamo tuttora a confrontarci con quelle «cose che si vedono in cielo» come diceva Carl Gustav Jung nel 1958, quel «mito moderno» che abbiamo collocato sopra le nostre teste. E che fotografiamo...

domenica 9 luglio 2017

Le dodici fatiche d’Eracle

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/le-dodici-fatiche-deracle/

Apollodoro


Eracle (chiamato dai latini Hercules, Ercole) è un personaggio della mitologia greca conosciuto per la straordinaria forza, sulle cui origini vi sono tradizioni differenti. Secondo la versione più diffusa del mito (che si riassume nelle tradizioni tebane), Eracle era figlio di Zeus e di Alcmena, posseduta dal dio nell’aspetto del marito Anfitrione, e venne educato a Tebe in ogni disciplina da uno specialista mitico: da Eurito nell’arco, da Autolico nella lotta, nelle armi da Castore. L’episo­dio in cui Eracle uccise Lino, suo insegnante di scrittura e musica, lascia intravedere l’aspetto selvaggio insito della sua natura e come questo eroe rappresenti l’uomo combattuto tra virtù e vizio. Mandato per punizione sul Citerone a custodire le greggi, diede a 18 anni prova della sua forza uccidendo un leone che terrorizzava il paese governato da Tespio, padre di 50 figlie, con le quali Eracle giacque, generando un figlio da ciascuna.

Per ricompensa della guerra vinta, Eracle ottenne in moglie da Creonte re di Tebe la figlia Megara, dalla quale ebbe tre figli (o più secondo altre versioni). Quando Euristeo re di Tirinto (o Micene) lo chiamò al suo servizio, Eracle uccise i propri figli in un accesso d’ira causatogli dalla dea Era, sposa gelosa di Zeus.

Le dodici fatiche, compiute da Eracle al servizio d’Euristeo per la durata di dodici anni, gli furono imposte dall’oracolo di Delfi come espiazione per l’uccisione dei propri figli e ottenere l’immor­talità. Le fatiche rappresentano le prove dell’anima che si libera progressivamente dai vizi, vince il destino e conquista l’eternità con la forza della virtù. Eracle è quindi simbolo della forza virile che va messa in atto in una via di purificazione per sopraffare i vizi e far trionfare la virtù[1].

Di seguito proponiamo il celebre racconto d’Apollodoro delle dodici fatiche d’Eracle.



Dopo avere udito queste parole Eracle si recò a Tirinto per sottoporsi ai comandi di Euri­steo. Come prima impresa costui gli ordinò di portargli la pelle del leone nemeo, che era una belva invulnerabile figlia di Tifone. Partito alla volta del leone, giunse a Cleonea, dove venne ospitato da un pover uomo chiamato Molorco. Il giorno seguente, quando il suo ospite volle of­frire un sacrificio, Eracle gli raccomandò di attendere trenta giorni: allora, se fosse ritornato salvo dalla caccia, si sarebbe fatto un sacrificio a Zeus Salvatore, mentre se fosse morto avrebbe dovuto versargli libagioni come si fa con un eroe.
Giunto a Nemea andò alla ricerca del leone e dapprima gli scagliò una freccia; quando però comprese che era invulnerabile afferrò la clava e iniziò a incalzarlo. Il leone si rifugiò in una spelonca a due uscite; allora Eracle ne sbarrò una e attraverso l’altra raggiunse l’animale: gli circondò il collo con un braccio e strinse fino a soffocarlo. Poi lo caricò sulle spalle e lo portò a Cleonea, dove trovò Molorco che nell’ultimo dei giorni stabiliti stava per offrirgli libagioni come se fosse morto; così, dopo avere sacrificato a Zeus Salvatore, portò il leone a Micene.

Euristeo rimase sbigottito dal suo valore e per il futuro gli vietò di entrare in città, imponen­dogli di esibire il frutto delle sue imprese dall’esterno delle mura. Dicono anche che, terroriz­zato, avesse fatto costruire una giara di bronzo per nascondersi sotto terra e avesse imposto ad Eracle le fatiche attraverso l’araldo Copreo, figlio di Pelope di Elide, il quale si era rifugiato a Micene per avere ucciso Ifito e aveva preso dimora in quel luogo dopo essere stato purificato da Euristeo.

La seconda fatica che il re gli impose fu di uccidere l’Idra di Lerna; questo mostro era cre­sciuto nella palude di Lerna e si aggirava per la pianura massacrando le mandrie e devastando la regione. L’Idra aveva un corpo immenso e nove teste: otto erano mortali, quella di mezzo im-mortale. Ebbene, Eracle salì sul carro (Iolao ne teneva le redini) e giunse a Lerna; scovò l’Idra sopra una collinetta nei pressi delle Sorgenti di Amimone, dove essa aveva la tana. Bersagliandola con frecce infuocate la snidò, e mentre quella usciva la ghermì e la tenne stretta; l’Idra però si avvinghiò a uno dei suoi piedi. Eracle la percuoteva sulle teste con la clava ma non riusciva ad averne la meglio, perché ogni volta che una testa veniva frantumata ne crescevano due; inoltre in aiuto all’Idra era accorso un enorme granchio che gli aveva attanagliato un piede. Perciò Eracle lo uccise e a sua volta chiamò in soccorso Iolao: questi appiccò il fuoco a una par­te della selva vicina e, bruciando con torce le teste a mano a mano che crescevano, impedì che rinascessero. In questo modo Eracle riuscì a eliminare le teste che rispuntavano; infine tagliò la testa immortale, la seppellì e vi pose sopra un pesante macigno, lungo la strada che attraverso Lerna porta a Eleunte. Poi squarciò il corpo dell’Idra e immerse le frecce nella sua bile. Tuttavia Euristeo rifiutò di includere questa prova tra le dieci perché Eracle non aveva sopraffatto l’Idra da solo ma con l’aiuto di Iolao.

La terza fatica che il re gli impose fu di condurre a Micene, ancora viva, la cerva di Cerinea. Questa cerva si trovava a Enoe, aveva corna d’oro ed era consacrata ad Artemide. Poiché Eracle non voleva né abbatterla né ferirla, la inseguì per un intero anno; quando infine l’animale, spos­sato dalla caccia, si rifugiò sul monte chiamato Artemisio e lì, presso il fiume Ladone, Eracle lo ferì con una freccia nel momento in cui stava per guadare il corso d’acqua; così lo catturò, se lo caricò in spalla e attraversò l’Arcadia. Ma Artemide e Apollo gli sbarrarono il passo, e la dea cercò di togliergli la cerva rimproverandolo perché aveva abbattuto il suo animale sacro: ma Eracle rispose che aveva agito per necessità e attribuì la colpa a Euristeo. In tal modo placò l’ira della dea e portò l’animale ancora vivente a Euristeo.

Come quarta fatica il re gli impose di portargli vivo il cinghiale di Erimanto. Questa belva devastava Psofi scendendo dal monte che chiamano Erimanto. Ebbene, mentre Eracle stava attraversando Foloe fu ospitato dal centauro Folo, figlio di Sileno e di una ninfa melia. Costui offrì a Eracle carni cotte, mentre lui stesso le divorava crude; quando poi Eracle gli chiese del vino, rispose che temeva di aprire la giara che possedeva in comune con gli altri Centauri. Eracle gli fece coraggio e così Folo la dissigillò, ma poco dopo, attirati dall’odore, presso la grotta Folo accorsero i Centauri armati di pietre e bastoni. Eracle volse in fuga, bersagliandoli con delle torce, i primi che osarono penetrarvi, Anchio e Agrio, e inseguì gli altri a colpi di freccia sino al Malea.

Di lì essi si rifugiarono presso Chirone, che era stato scacciato dai Lapiti, e dal monte Pelio si era trasferito presso il Malea. Mentre i Centauri erano raggruppati attorno a lui, Eracle scagliò contro di loro una freccia, che dopo avere trapassato il braccio di Elato si conficcò nel ginocchio di Chirone. Eracle addolorato si precipitò a estrarre il dardo e applicò sulla ferita un farmaco che gli aveva porto Chirone. Ma la piaga era inguaribile: allora Chirone si ritirò nel suo antro dove fu preso dal desiderio di morire, ma non poteva poiché era immortale. Prometeo allora offrì a Zeus di scambiare il suo destino con quello di Chirone, che cedendo a lui la propria immortalità poté finalmente morire.

Gli altri Centauri fuggirono disperdendosi: alcuni giunsero al monte Malea; Eurizione a Foloe; Nesso al fiume Eveno. Poseidone diede asilo agli altri celandoli in una montagna presso Eleusi. Quanto a Folo, dopo avere estratto una freccia dal corpo di un morto, si meravigliò che un oggetto così piccolo avesse ucciso tali nemici: ma essa, sfuggitagli di mano, lo punse a un piede e lo uccise all’istante. Quando Eracle fece ritorno a Foloe e vide Folo morto, lo seppellì e partì alla ricerca del cinghiale; gridando lo stanò da una macchia e lo inseguì sino a sfinirlo nella neve alta, lo intrappolò e lo condusse a Micene.

La quinta fatica che Euristeo gli impose fu di rimuovere in un solo giorno il fimo delle man­drie di Augia. Augia era il re di Elide, figlio secondo alcuni di Elio, secondo altri di Poseidone, oppure (secondo altri ancora) di Forbo, e possedeva una grande quantità di bestiame. Eracle si recò presso di lui e, senza nulla rivelargli degli ordini di Euristeo, si offrì di rimuovere il fimo in un solo giorno purché il re gli donasse la decima parte delle mandrie. Augia, pur essendo incre­dulo, accettò; allora Eracle prese come testimone Fileo, figlio di Augia, quindi aprì una breccia nelle fondamenta della stalla e vi fece scorrere le acque mescolate dei fiumi Alfeo e Peneo, dei quali aveva deviato il corso, avendo prima creato un’altra apertura perché l’acqua vi defluisse. Quando Augia venne a sapere che quest’impresa era stata compiuta per ordine di Euristeo, ri­fiutò di pagare la ricompensa e aggiunse inoltre di non avere mai promesso alcun premio, di­chiarandosi anzi pronto ad affrontare un processo su questo argomento. Quando i giudici si fu­rono riuniti, Fileo venne convocato da Eracle e testimoniò contro suo padre, ammettendo che aveva promesso una ricompensa; allora, prima che la sentenza fosse emessa, Augia adirato bandì Eracle e Fileo dall’Elide.

Fileo si trasferì a Dulichio, dove prese dimora; Eracle invece andò a Oleno presso Dessa­meno e lo trovò in procinto di concedere in moglie, contro la propria volontà, la figlia Mnesi­mache al centauro Eurizione. Chiamato in soccorso dall’amico, Eracle, quando Eurizione si pre­sentò per condurre via la sposa, lo uccise. Euristeo però non volle computare tra le dieci fatiche neppure questa, accampando il pretesto che era stata compiuta dietro compenso.

Come sesta fatica gli impose di scacciare gli uccelli stinfalidi. Presso Stinfalo, una città del­l’Arcadia, si apriva infatti un lago chiamato Stinfalo, ombreggiato da una fitta selva. Presso questo lago si era rifugiato un numero sterminato di uccelli, che temevano di diventare preda dei lupi. Eracle non sapeva come fare per scacciare gli uccelli da quel bosco, quand’ecco che Atena gli donò dei crotali di bronzo che aveva ricevuto da Efesto. Percuotendoli dalla cima di un monte che sovrastava il lago spaventò gli uccelli, i quali non riuscendo a sopportare il frastuono volarono via terrorizzati e in questo modo Eracle poté abbatterli con l’arco.

La settima fatica che Euristeo gli impose fu di portargli il toro di Creta, che (secondo Acusi-lao) era lo stesso che aveva trasportato per mare Europa a Zeus; altri invece sostengono che si trattava di quello che Poseidone aveva fatto uscire dalle acque quando Minosse aveva promesso di sacrificargli ciò che fosse apparso dal mare: ma si dice che davanti alla bellezza del toro lo mandò libero tra le mandrie e a Poseidone offrì un altro sacrificio; perciò il dio si adirò e rese selvatico il toro. Quando Eracle giunse a Creta per catturarlo, Minosse rispose alla sua richiesta di aiuto dicendo che avrebbe dovuto affrontarlo e domarlo da solo; allora Eracle lo catturò e lo condusse da Euristeo, e, dopo averglielo mostrato, lo lasciò libero. E il toro, dopo avere vagato per Sparta e per tutta l’Arcadia, attraversò l’Istmo e giunse sino a Maratona, in Attica, dove tor­mentava gli abitanti.

Come ottava fatica il re gli comandò di portare a Micene le cavalle del tracio Diomede: co-stui, che era figlio di Ares e Cirene, regnava in Tracia sul bellicosissimo popolo dei Bistoni e possedeva cavalle antropofaghe. Ebbene, dopo avere raggiunto per nave quella regione assieme a un gruppo di volontari, Eracle sopraffece i guardiani che custodivano i recinti delle cavalle e le condusse sino al mare. Quando i Bistoni accorsero in armi, egli consegnò le cavalle ad Abdero perché le custodisse; costui, un figlio di Ermes nato a Oponte in Locride, era il giovane amante di Eracle: ma le cavalle lo uccisero facendolo a brani.

Eracle affrontò i Bistoni e uccise Diomede, costringendo gli altri alla fuga; poi fondò la città di Abdera presso la tomba del defunto Abdero, condusse le cavalle da Euristeo e gliele conse­gnò. Ma Euristeo le lasciò libere ed esse arrivarono sino al monte chiamato Olimpo, dove fu­rono sbranate dalle bestie feroci.

La nona fatica che Euristeo impose a Eracle fu di portargli la cintura di Ippolita, la regina delle Amazzoni che abitavano presso il fiume Termodonte: un popolo possente in guerra. Esse erano dedite ad attività guerriere e se mai si univano a un uomo e davano alla luce un figlio alle­vavano solo le femmine, alle quali comprimevano il seno destro perché non fossero impacciate nel lanciare il giavellotto, mentre lasciavano crescere quello sinistro per l’allattamento. Ippolita, dunque, possedeva la cintura di Ares, emblema del potere che esercitava su tutte.

Eracle fu inviato alla conquista di questa cintura perché la figlia di Euristeo, Admeta, deside­rava possederla; così egli, dopo avere arruolato dei volontari, con una sola nave si mise in mare. Giunse quindi all’isola di Paro, in cui avevano dimora i figli di Minosse: Eurimedonte, Crise, Nefalione e Filolao. Accadde però che due dei naviganti, che erano sbarcati, fossero assassinati dai figli di Minosse. Eracle, sdegnato da questo, subito li uccise; poi cinse d’assedio gli altri iso­lani finché essi gli inviarono ambasciatori con la proposta che in cambio dei morti egli condu­cesse con sé due persone a sua scelta. Allora Eracle rinunciò all’assedio e dopo avere scelto Alceo e Stenelo, i due figli di Androgeo, figlio di Minosse, giunse in Misia presso Lico, figlio di Dascilo, dal quale fu ospitato. Quando Lico fu assalito dal re dei Bebrici, Eracle venne in suo aiuto e uccise molti nemici, tra i quali anche il re Migdone, fratello di Amico; così, dopo avere confiscato una larga parte del territorio dei Bebrici, la consegnò a Lico, che chiamò tutta quella regione Eraclea.

Infine approdò nel porto di Temiscira, dove ricevette la visita di Ippolita, che gli chiese la ragione del suo arrivo e promise di consegnargli la cintura. Ma Era assunse l’aspetto di un’a­mazzone e si diede a circolare tra la folla dicendo che gli stranieri che erano arrivati stavano rapendo la regina. Allora esse presero le armi e corsero alla nave sui loro cavalli. Quando Eracle le vide giungere armate, credette si trattasse di un tradimento: perciò uccise Ippolita e la spogliò della cintura; poi tenne a bada le altre e salpò alla volta di Troia.

In quell’epoca accadeva che la città soffrisse a causa dell’ira di Apollo. Infatti Apollo e Po­seidone, che volevano mettere alla prova l’arroganza di Laomedonte, avevano assunto sem­bianze umane e promesso di edificare le mura di Pergamo in cambio di un compenso; quando però ebbero completato l’opera il re rifiutò di pagarli. Per questo motivo Apollo inviò una pesti­lenza e Poseidone un mostro marino che usciva dal riflusso della marea e rapiva gli uomini nella pianura. Gli oracoli vaticinarono che le sciagure avrebbero avuto termine se Laomedonte avesse offerto in pasto al mostro la figlia Esione; perciò egli la espose, legata alle rocce che sorgevano sulla riva del mare. Vedendola così esposta Eracle promise di salvarla, a condizione che Laome­donte gli cedesse i cavalli che aveva ricevuto in dono da Zeus come risarcimento per il ratto di Ganimede. Laomedonte promise e così Eracle uccise il mostro e salvò Esione; ma il re rifiutò di consegnare il compenso pattuito e pertanto Eracle salpò minacciando di muovere guerra contro Troia.

Poi raggiunse Eno, dove fu ospitato da Poltide. Mentre stava partendo, sulla costa di Eno uccise con un colpo di freccia Sarpedone, figlio di Poseidone e fratello di Poltide, che era un uomo violento. Giunto a Taso, soggiogò i Traci che la popolavano e consegnò l’isola ai figli di Androgeo perché la abitassero. Partito da Taso raggiunse Torone, dove uccise in una gara di lot­ta Poligono e Telegono, figli di Proteo che era figlio di Poseidone, i quali l’avevano sfidato. Poi portò la cintura a Micene e la consegnò a Euristeo.

Come decima fatica gli fu imposto di portare da Erizia le mandrie di Gerione. Erizia era un’i­sola presso l’Oceano che ora è chiamata Gades; in essa abitava Gerione, figlio di Crisaore e di Calliroe, figlia di Oceano. Egli aveva un corpo triplice: sino all’altezza del ventre era unico, ma a partire dai fianchi e dalle cosce si suddivideva in tre busti di uomo. Gerione possedeva delle giovenche rosse, di cui era mandriano Eurizione, custodite dal cane Orto, che aveva due teste ed era nato da Echidna e Tifone.

Eracle dunque attraversò l’Europa alla volta delle mandrie di Gerione, uccidendo molti ani­mali selvaggi, e s’inoltrò in Libia; giunto a Tartesso innalzò come segno del suo passaggio due colonne, una di fronte all’altra, ai confini tra Europa e Libia. Lungo il percorso fu arso dai raggi di Elio e tese l’arco contro il dio: questi allora, ammirato per il suo valore, gli diede una coppa d’oro sulla quale Eracle attraversò l’Oceano. Giunto a Erizia si accampò sopra il monte Abante. Il cane si avvide di lui e lo assalì, ma Eracle lo abbatté con la clava e uccise poi anche il bovaro Eurizione che era accorso in aiuto al cane. Allora Menete, che pascolava in quel luogo le man­drie di Ade, riferì l’accaduto a Gerione, il quale raggiunse Eracle mentre stava traghettando i buoi presso il fiume Antemo e venne a battaglia con lui, ma morì trafitto da una freccia. Eracle imbarcò la mandria sulla coppa e dopo la traversata sino a Tartesso la restituì a Elio.

Dopo avere percorso l’Abderia, giunse in Liguria, dove Ialebione e Dercino, figli di Poseidone, cercarono di rubargli la mandria, ma Eracle li uccise e proseguì il suo viaggio attra­verso la Tirrenia[2]. A Reggio un toro imbizzarrito si gettò in mare e giunse a nuoto fino in Sicilia; dopo avere attraversato la regione vicina [che da lui fu chiamata Italia (i Tirreni infatti chiamano ίταλόζ il toro)], arrivò alla pianura di Erice, un figlio di Poseidone che regnava sugli Elimi. Costui aggregò il toro alle proprie mandrie. Allora Eracle affidò gli altri buoi a Efesto e si pose alla sua ricerca; quando infine lo trovò tra le mandrie di Erice, questi affermò che non l’avrebbe restituito se non fosse stato sconfitto nella lotta: così l’eroe lo atterrò tre volte fino a ucciderlo e dopo avere unito il toro al resto della mandria la condusse sulle rive del mare Ionio. Ma quando Eracle giunse all’insenatura di quel mare, Era aizzò un tafano contro i buoi cosicché le bestie si dispersero tra le falde dei monti di Tracia; Eracle le inseguì e riuscì a catturarne alcune, che condusse fino all’Ellesponto, mentre le altre, lasciate libere, s’inselvatichirono. Dopo avere ra­dunato il bestiame con grande fatica, Eracle incolpò dell’accaduto il fiume Strimone e riempì di pietre il suo letto tanto da renderlo inaccessibile alle imbarcazioni, mentre prima era navigabile; infine consegnò le bestie a Euristeo che le sacrificò a Era.

Le fatiche furono compiute nello spazio di otto anni e un mese; tuttavia Euristeo non volle riconoscere quelle del bestiame di Augia e dell’Idra e gli impose come undicesima fatica di por­targli i pomi d’oro delle Esperidi. Essi non si trovavano (come alcuni hanno detto) in Libia, ma sull’Atlante tra gli Iperborei, ed erano i doni che Gea aveva fatto a Zeus quando aveva sposato Era: li custodiva un drago immortale, figlio di Tifone ed Echidna, che aveva cento teste e sapeva parlare con voci svariate. Assieme a lui custodivano i pomi le Esperidi: Egle, Erizia, Esperia e Aretusa. Eracle dunque lungo il suo cammino giunse al fiume Echedoro, dove Cicno, figlio di Ares e Pirene, lo sfidò a duello: fu Ares, che lo difendeva, a sollecitare la sfida, ma un fulmine caduto fra i combattenti fece cessare lo scontro.

Poi Eracle percorse a piedi l’Illiria e si affrettò a raggiungere presso il fiume Eridano le ninfe figlie di Zeus e Temi, le quali gli rivelarono il nascondiglio di Nereo; così Eracle lo sorprese addormentato e lo legò benché quello assumesse forme diverse, e si rifiutò di liberarlo prima che gli rivelasse dove si trovavano i pomi e le Esperidi. Seguendo le sue informazioni percorse la Libia, dove allora regnava Anteo, figlio di Poseidone, che costringeva gli stranieri a lottare con lui e li uccideva. Anche Eracle fu obbligato a misurarsi con lui e avendolo sollevato a mezz’aria stretto fra le braccia lo stritolò e lo uccise: accadeva infatti che Anteo diventasse più forte ogni volta che toccava terra, e questo è il motivo per cui alcuni lo dissero figlio di Gea.

Dopo la Libia attraversò l’Egitto, dove regnava Busiride, che era nato da Poseidone e Lisia­nassa, figlia di Epafo. Egli aveva l’abitudine di sacrificare gli stranieri sopra l’altare di Zeus in obbedienza a un oracolo: infatti quando una carestia novennale s’abbatté sull’Egitto, giunse da Cipro Frasio, un esperto indovino, il quale disse che la carestia sarebbe cessata se ogni anno essi avessero sacrificato a Zeus uno straniero. Per primo Busiride sacrificò l’indovino; poi continuò con gli stranieri che sopraggiungevano. Eracle dunque fu catturato e trascinato presso l’altare, ma spezzò i legami e uccise Busiride insieme a suo figlio Anfidamante.

Attraversando l’Asia giunse poi a Termidre, il porto di Lindo. Qui sciolse dal carro di un bovaro uno dei due tori, lo sacrificò e si mise a banchettare. Il bovaro non era in grado di difendersi; perciò si rifugiò sulla cima di un monte e lo maledisse. Ecco il motivo per cui anche oggi i Lindi, quando sacrificano a Eracle, lo fanno con maledizioni.

Attraversando l’Arabia uccise Emazione, figlio di Titono; poi lungo il percorso tra la Libia e il mare esterno ricevette da Elio la coppa. Dopo essere passato nel continente antistante, sul Caucaso trafisse l’aquila, figlia di Echidna e Tifone, che rodeva il fegato di Prometeo. Così libe­rò Prometeo e scelse come propria catena una corona d’olivo mentre a Zeus offrì come risar­cimento Chirone, che accettò di morire benché fosse immortale.

Prometeo aveva ammonito Eracle di non cogliere lui stesso i pomi ma di inviare in sua vece Atlante, dopo avere preso sulle proprie spalle il peso della sfera celeste; ed Eracle, quando giun­se presso Atlante nella terra degli Iperborei, seguì il consiglio e scambiò il ruolo con Atlante. Questi allora colse dalle Esperidi tre pomi e ritornò da Eracle, ma non era più disposto a rias­sumere sulle spalle il cielo e disse che avrebbe portato lui stesso i pomi a Euristeo e pretese che Eracle reggesse la volta celeste al posto suo. Eracle promise di farlo, ma la restituì ad Atlante con un’astuzia. Seguendo il suggerimento di Prometeo, pregò Atlante di sostenere il finché si fosse avvolto una benda attorno al capo. A queste parole Atlante depose a terra le mele e riprese sulle spalle la sfera celeste: così Eracle le raccolse e se ne andò. Altri tuttavia dicono che Eracle non ebbe i pomi da Atlante, ma che li colse egli stesso dopo avere ucciso il serpente che li cu­stodiva. In tal modo portò le mele a Euristeo e gliele consegnò: ma questi, dopo averle avute, le donò a Eracle, dal quale le ebbe poi Atena, che le riportò indietro: non era lecito, infatti, che esse stessero altrove.

Come dodicesima fatica gli fu comandato di portare Cerbero dall’Ade. Questi aveva tre teste di cane, una coda di drago e sul dorso teste di serpenti di tutte le specie. Mentre dunque era sulla via per andarlo a prendere, Eracle si recò a Eleusi presso Eumolpo con l’intenzione di essere ini­ziato ai misteri. In quell’epoca però non era consentito che uno straniero venisse iniziato; allora egli cercò di avere accesso al rito facendosi adottare da Pilio, ma non poteva ancora assistere ai misteri in quanto non era stato purificato per l’uccisione dei Centauri; perciò fu purificato da Eumolpo e allora venne iniziato. Giunto quindi al Tenaro, in Laconia, dove si trova l’imbocca­tura dell’Ade, vi entrò.

Quando le ombre dei morti lo videro si diedero alla fuga, ad eccezione di Meleagro e della gorgone Medusa; contro la Gorgone come se fosse viva Eracle snudò la spada, ma da Ermes apprese che si trattava soltanto di un vano fantasma. Arrivato accanto alle porte dell’Ade incon­trò Teseo e Piritoo, che aveva osato corteggiare Persefone e per questo era stato incatenato. Ve­dendo Eracle essi gli tesero le mani sperando di essere restituiti alla vita grazie alla sua forza. Egli afferrò Teseo per le mani e lo fece alzare, ma mentre cercava di sollevare Piritoo la terra tremò, cosicché dovette lasciarlo; poi fece rotolare via anche la pietra di Ascalafo. E poiché vo­leva procurare alle anime del sangue sgozzò una delle giovenche di Ade; allora Menete, custode delle mandrie e figlio di Ceutonimo, sfidò Eracle nella lotta, ma l’eroe lo afferrò per la vita e gli stritolò i fianchi, fino a che, per richiesta di Persefone, lo lasciò libero. Eracle allora chiese Cer­bero a Plutone, e Plutone volle che se ne impadronisse senza usare le armi che portava; egli, di­feso solo dalla corazza e dalla pelle di leone, lo scovò presso le porte dell’Acheronte, lo afferrò con le mani attorno alla testa e non smise di stringerlo e di soffocarlo finché l’ebbe domato[3], benché fosse morso dal drago che quello aveva per coda. Poi lo prese e se ne andò risalendo da Trezene; quanto ad Ascalafo, Demetra lo trasformò in allocco. Eracle, dopo avere mostrato Cer­bero a Euristeo, lo ricondusse nell’Ade.

[1] Via di purificazione come quella massonica, dove Ercole presiede al seggio del primo sorvegliante e dove «D’altra parte, è detto che, “nella Loggia di san Giovanni, si elevano templi alla virtù e si scavano prigioni per il vizio”; queste due idee d’“elevare” e di “scavare” si riferiscono alle due “dimensioni” verti­cali, altezza e profondità, calcolate secondo le due metà di uno stesso asse che va “dallo Zenith al Nadir”, prese in senso inverso l’una all’altra; queste due direzioni opposte corrispondono rispettivamente a sattwa e a tamas (l’espansione delle due “dimensioni” orizzontali corrisponde a rajas), cioè alle due tendenze dell’essere verso i Cieli (il tempio) e verso gli Inferi (la prigione), tendenze che sono qui “allegorizzate”, piuttosto che simboleggiate, propriamente parlando, dalle nozioni di “virtù” e di “vizio” esattamente come nel mito d’Ercole sopra menzionato» (R. Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Gallimard, Paris, 1962, cap. XXXVII: Le symbolisme solsticial de Janus).

[2] Un’altra allusione al furto del toro di Gerione si trova nell’Inferno della Divina Commedia, canto XXV, 31-33, dove lo stesso viene attribuito a Caco, un centauro mostruoso ucciso a mazzate da Ercole:

«onde cessar le sue opere biece | sotto la mazza d’Ercule, che forse | gliene diè cento, e non sentì le diece.»

[3] Di questa lotta si parla nell’Inferno della Divina Commedia, canto IX, 98-100, citando Cerbero come esempio di chi s’oppone inutilmente e a sue spese al volere divino:

«Che giova ne le fata dar di cozzo? | Cerbero vostro, se ben vi ricorda, | ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo.»

domenica 2 luglio 2017

Tolkien e l'Italia

Nel maggio del 1955 JRR TOLKIEN, l'Autore de Lo Hobbit e del Signore degli Anelli, assieme alla figlia Priscilla, con in mano le bozze dell'ultimo Libro de Il Signore degli Anelli compì un importante viaggio in Italia, che rimase impresso a fondo nelle sue opere narrative. Dalle acque di Venezia alla spiritualità di San Francesco in Assisi, questo Diario inedito illumina le radici culturali e spirituali di un grande successo letterario e cinematografico.