lunedì 31 marzo 2014

La mitica Agharta nel libro di Pruneti

tratto da L'Opinone del 13 marzo 2014

di Luca Bagatin

Chi è il Re del Mondo che tutto sa e governa? Esiste davvero la mitica Agharta o Agharti – regno sotterraneo incontaminato dove albergano perfezione, bellezza, pace e amore e dove, appunto, il Re del Mondo vive al riparo da occhi indiscreti? Pressoché tutte le culture, le tradizioni folkloristiche, le correnti gnostiche ed esoteriche ne parlano, anche se con nomi e forme differenti, per quanto solo eruditi studiosi ed esoteristi quali René Guénon, Alexandre Saint-Yves d’Alveydre e Ferdynand Ossendowski, hanno tentato di penetrarne e raccontarne il segreto.
Il professor Luigi Pruneti, docente, saggista, scrittore ed ex Gran Maestro della Massoneria della Gran Loggia d’Italia, nel suo ultimo ed agile saggio edito da “La Gaia Scienza” con prefazione del principe Tiberio Dobrinya, ovvero “Il mistero del Re del mondo e della mitica Agharta”, ci presenta l’ampia letteratura a disposizione relativa a tale figura. Pruneti esordisce con il mito della cosiddetta “Terra Cava”, ovvero l’idea – sviluppatasi in particolare nel corso dell’Ottocento in cenacoli teosofici, occultistici ed esoterici – che la Terra fosse cava e popolata da esseri viventi, talvolta esseri mitologici, talaltra draghi e/o rettili.
In particolare, Pruneti fa riferimento ad opere quali “La razza ventura”, bellissimo romanzo del barone Edward Bulwer-Lytton che racconta del popolo degli Ana, una razza superiore abitante il mondo sotterraneo; oppure alle celebri opere del romanziere d’avventura Jules Verne, quali “Viaggio al centro della terra” e “Le Indie nere”. Come ricorda il professor Pruneti, già alcuni anni fa fu edito dalle Edizioni Mediterranee un ottimo volume dal titolo “Jules Verne e l’Esoterismo”, nel quale l’autore, Michel Lamy, racconta e dimostra come le opere del celebre scrittore francese racchiudano profondi significati esoterici e facciano riferimento a credenze e studi tipici di noti cenacoli esoterici quali, fra gli altri, la Società Teosofica fondata da Madame Blavatsky e la Massoneria.
René Guénon, Saint-Yves d’Alveydre e Ferdynand Ossendowski, dicevamo, sono i maggiori studiosi del mito del Re del Mondo. Nelle loro opere - frutto di fonti orientali, afghane, indiane (d’Alveydre), mongole e tibetane (Ossendowski) - tali studiosi delineano la figura del Re del Mondo quale una sorta di governatore occulto del Mondo, guidato da Dio, abitante di Agharta, una terra somigliante a Lhasa, la dimora del Dalai Lama in Tibet. Terra di saggi e veggenti (Agharta) che volendo sarebbero in grado di curare tutti gli infermi del pianeta e resuscitare i defunti.
Molti uomini, nel corso della Storia, hanno ricercato Agharta e il Re del Mondo. In particolare in Tibet. Fra questi il barone Von Urgern-Sternberg, il quale lottò – ai tempi della guerra civile in Russia – contro l’armata rossa e tentò, invano, di raggiungere Lhasa, purtuttavia non riuscendovi in quanto fu fucilato dai russi prima di poterla raggiungere. Il professor Pruneti nel suo saggio ci fa notare come, di volta in volta, nel corso della storia e delle tradizioni, il Re del Mondo sia stato identificato come il Prete Gianni – sovrano e sacerdote d’Oriente (forse indiano o etiope) – oppure come un discendente dei Re Magi, oppure ancora come un alleato di Gengis Khan.
Il mito rimane e le fonti letterarie, storiche, esoteriche e religiose sono numerosissime e tutte citate dal professor Pruneti, sia nella documentata bibliografia che nelle ampie note a margine. Il mito rimane, dicevamo, al punto da aver influenzato anche la cinematografia e la musica. Il regista Frank Capra, nel 1937, girò “Orizzonte perduto”, tratto dall’omonimo romanzo di James Hilton, ovvero la storia dell’equipaggio di un aereo dirottato in una sperduta valle del Tibet in cui era celata la città di Shangri- La, i cui abitanti, estremamente longevi, vivevano – a differenza del mondo dei mortali – in una condizione di amore e felicità.
Nel 1973 il regista e scrittore Alejandro Jodorowsky girò “La montagna sacra”, film surrealista nel quale un ladro e nove ricchi, con l’aiuto di un alchimista, si mettono alla ricerca del cenacolo dei nove saggi della montagna, bramando il segreto dell’immortalità. Il musicista Franco Battiato, appassionato di esoterismo nonché amico dello stesso Jodorowsky, nel 1979 incise il disco “L’Era del cinghiale bianco”, nel quale è contenuta la canzone “Il Re del Mondo”, dove si incrociano critiche alla società dei consumi ed alla guerra e riferimenti alla tradizione sufi, ovvero la tradizione esoterica dell’Islam.
Evidenti riferimenti, ancora una volta, al mito in questione che, si dice, allorquando l’umanità precipiterà nelle barbarie e nelle violenze più turpi, riporterà Agharta in superficie ed instaurerà una nuova Età dell’Oro in cui la pace e le prosperità trionferanno sull’ignoranza degli uomini. Tutto ciò e molto altro ne “Il mistero del Re del Mondo e della mitica Agharta”. Ancora una volta Luigi Pruneti non delude, dunque, i suoi lettori più raffinati e curiosi.

domenica 30 marzo 2014

Napoli: misteriosi segni sulla pietra

tratto da "L'Opinone" del 13 marzo 2014


di Achille Della Ragione


 
Il primo a parlare di architettura esoterica, cercando di penetrare la testimonianza misteriosa lasciataci da quelle maestranze attive a Napoli, tra tardo Medioevo e primo Rinascimento, fu Mario Buonoconto nel suo prezioso volumetto sulla “Napoli esoterica”.
Già sotto i Normanni e poi durante i regni di Svevi, Angioini ed Aragonesi, giunsero in città, dal nord Europa prima e poi dalla Francia e dalla Spagna, artigiani organizzati in confraternite sul modello franco templare. Essi erano particolarmente abili nel sagomare il piperno, pietra molto dura, adoperata in genere per la pavimentazione stradale e per ricavare portali e soglie di balconi. Già in epoca tardo romana si erano costituite delle corporazioni di maestri pipernieri che tramandavano i “segreti dell’arte” solo a pochi fidati apprendisti. Nel Rinascimento erano chiamati “maste ‘e prete” e si immaginava che sapessero caricare la pietra di energia positiva. Quando si apprestavano alla costruzione di un edificio importante, oltre a porre nelle fondamenta alcune monete, come obolo per i morti, in ossequio a riti propiziatori in uso presso i Caldei ed i Greci, cercavano, sfruttando una sorta di rabdomanzia, d’identificare i punti di forza del luogo, scegliendo il più adatto per costruire.
Questa breve introduzione è necessaria per affrontare il discorso sui segni presenti sul bugnato della facciata della chiesa del Gesù Nuovo, precedentemente palazzo della nobile famiglia dei Sanseverino, edificato nel Quattrocento e, dopo sfortunate vicende della casata, ceduto all’Ordine del Gesuiti, che lo trasformarono nella splendida chiesa barocca, tra le più note della città. L’architetto Novello da San Lucano si servì di maestranze locali che crearono quella serie di piccole piramidi aggettanti verso l’esterno con il vertice puntato sull’osservatore. Queste facciate a bugnato, relativamente diffuse al nord, sono insolite nel meridione ed a Napoli ve ne son ben pochi esempi. Su quelle in esame sono presenti numerosi e strani segni incisi sulla superficie, un misterioso alfabeto con una sorta d’ideogrammi che si ripetono secondo un ritmo particolare, che fa supporre ad una chiave criptata di lettura, di recente oggetto di una suggestiva interpretazione da parte di uno studioso locale, Vincenzo De Pasquale, che ha ritenuto di identificarvi un pentagramma che si è materializzato in un concerto eseguito nella navata della stessa chiesa del Gesù Nuovo. La lettura fatta da De Pasquale parte dall’ipotesi, smentita da esperti della lingua, che i misteriosi segni non siano tracce lasciate dai cavatori per conteggiare il lavoro svolto, bensì lettere dell’aramaico, la lingua parlata da Gesù. Ad ogni segno corrisponde una nota e la facciata è un pentagramma sul quale l’architetto, Novello da San Lucano, ha scritto la sua opera musicale che, di traccia in traccia, per vie misteriose, sarebbe finita persino in un’opera di Johann Sebastian Bach.
Il concerto, re-intitolato “Enigma”, è stato suonato dall’organista ungherese LorentRez ma sarebbe stato scritto originariamente per strumenti a plettro. Il legame con l’Ungheria non è casuale. Novello da San Lucano andò a vivere nel Paese magiaro e lì morì, dopo aver progettato e costruito diversi edifici e aver lasciato sue tracce nella storia artistica e musicale. Alla ricerca di altri messaggi sulla pietra si è mosso da tempo un appassionato medico di professione, Lucio Paolo Raineri, che ha indagato sulle mura medioevali cittadine, costruite dagli Aragonesi, a partire dal 1484, servendosi di maestranze di Cava de’ Tirreni ed utilizzando piperno proveniente dalle cave di Soccavo. La folgorazione per il riflesso di uno specchio provocato da un’insolita luce estiva gli fece scorgere i frammenti di un misterioso discorso sulle pietre scure della Torre San Michele in via Cesare Rosaroll, una fra le meglio conservate. Ha continuato le sue indagini fotografando altri segni strani su mura e torri che da via Marina arrivano fino a via Foria. Ha così fatto molte altre scoperte, alcune già note agli studiosi della Napoli segreta. “Sono quasi tutti segni lapicidi, marchi di fabbrica dei cavatori, segni di posa, di allestimento”. Per lo più si tratta di lettere dell’alfabeto, numeri o simboli astrologici ed anche una croce uncinata, segno di antica tradizione indiana (molto simili a quelli trovati anche sul bugnato della facciata del Gesù Nuovo). In altri casi, sono segni che richiamano l’alchimia o la massoneria perché le logge segrete originariamente erano composte da fratelli muratori. I segni su Torre San Michele sono stati soltanto il punto di partenza. Armato di taccuino e macchina fotografica, il medico-Indiana Jones s’è fatto tutto il percorso aragonese. “Naso all’aria – racconta – confrontandomi con le supposizioni di chi mi vedeva in giro, cominciai a rivisitare i massi di piperno di altre torri, con i soli limiti di penetrazione del mio sguardo e della loro dislocazione e accessibilità”, perché gran parte della fortificazione è ormai all’interno di palazzi privati o è stata abbattuta o è stata sommersa da superfetazioni architettoniche. L’anamnesi di Raineri è stata scrupolosa e ha partorito una relazione documentatissima nella quale si legge il resoconto delle sue esplorazioni nella metropoli dei segni che avrebbe fatto la felicità di un Roland Barthes in cerca del grado zero della testimonianza operaia.
“Niente scorsi sui massi della piccola Torre Duchesca a vico Santa Maria a Formiello – scrive – né sulla vicina Torre Sant’Anna. Porta Capuana ed il tratto di mura tra Torre Onore e Torre Gloria fu ricchissimo di reperti, visibili ad occhio nudo e ad altezza d’uomo. La stessa scarsezza di risultati l’ebbi per porta Nolana, anche se la grafia di quello che può sembrare un’intera parola sconosciuta, alla base della Torre Fede, mi ha lasciato sconcertato”.
Oltre che sulle torri aragonesi, i segni lapicidi sono presenti in Campania sull’abbazia di San Guglielmo al Goleto e sulla cattedrale di Sant’Antonino a Sant’Angelo dei Lombardi e sull’abbazia di Santa Maria di Realvalle a Scafati. Ma in una metropoli perennemente affollata e costruita su se stessa, ogni angolo racchiude un segreto, un messaggio, una pietra parlante. “L’importante è cominciare a capirne la lingua”, commenta Raineri, che, molto probabilmente, è solo quella del lavoro. Al fianco di scritte pseudocriptiche, ve ne sono altre, perfettamente leggibili, ma delle quali ci sfugge il significato, come quella che s’incontra nel porticato del chiostro dell’ex dimora dei Caracciolo, i cui locali sono stati utilizzati negli ultimi anni dai giudici di pace per i loro uffici. Cogliamo l’occasione per descrivere il mastodontico edificio che ospita la scritta, posto sull’ultimo tratto di via Tribunali, l’unico in stile tardo gotico ed unico che ricorda l’architettura catalana. L’edificio era stato disegnato dal grande architetto dell’arca funebre di re Ladislao a San Giovanni a Carbonara, Andrea Ciccione, e ne sopravvissero, come si vede, l’arco d’ingresso, il pianterreno del primo chiostro e la porta della sala di ricevimento, in origine sacello gentilizio di Sergianni e fino al diciottesimo secolo ricchissima cappella, detta “il tesoro”, dove si nominavano i nuovi magistrati del vicino tribunale. Oggi, ad abitare il complesso, è il Comune di Napoli con i suoi uffici, sezione San Lorenzo, quartiere Forcella. Al primo piano i corridoi con gli infissi in legno e le vetrate mostrano ancora il disegno ospedaliero. Qui erano ricoverate persone fino a pochi decenni fa: gli ultimi anziani pazienti ne sono usciti nel 1970.
Il Lazzaretto, sala maestosa, sgombra dai letti o dai pagliericci che si dovevano usare per appestati, malati di tifo e altri pazienti colpiti da epidemia, è un trionfo di luce. Una separazione architettonica con timpano distingue la corsia dalla sala chirurgica o gabinetto medico. Oggi, al posto dei tavoli anatomici, c’è una piccola sala conferenze su cui troneggia una lapide dedicata a Mariano Semmola. Tutta la sala del Lazzaretto è circondata a mezza altezza da una lunga balconata da cui passare cibo e rimedi ai malati con cui non si poteva entrare in contatto. Qui si curavano, tolte le epidemie, le diffusissime malattie veneree e della pelle (nel 1888 vi fu istituito un reparto dermoceltico). Pochi anni fa in questa sala, infinitamente lunga ed infinitamente alta, sessanta metri, per dieci, per sei, è stata girata una fiction dedicata al medico santo Giuseppe Moscati, interpretato da Beppe Fiorello.
Due anni fa, con la venuta a Napoli, in occasione del Napoli Teatro Festival, del grande regista spagnolo Enrique Vargas, il Lazzaretto diventò spazio teatrale, oscurato ed irriconoscibile, un lungo ventre di balena dove si avveravano visioni felliniane, gomitoli di cotone e ragnatele, morti e voci del passato e feste mobili che avvolgevano lo spettatore in un’esperienza irripetibile: un bell’esorcismo per un luogo del potere diventato luogo di sofferenza e, infine, luogo d’arte. Il bellissimo palazzo, che era stato simbolo del potere di Sergianni Caracciolo su Napoli e sulla regina Giovanna II, sede di feste e intrighi, manifesto della potenza degli uomini nuovi sulle antiche dinastie, acquistato dai frati Ospedalieri nel 1587, si trasformò in ospedale, per necessità. Giaceva in abbandono da un secolo, infiltrato da case private, tanto che le liti fra vicini produssero un morto, come testimonia la lapide minacciosa, ancora oggi presente, voluta da un diffamato, in un lato del cortile: “Dio m’arrassa da invidia canina da mali vicini, et da bugia d’homo dabbene”. Questa frase si presta a varie interpretazioni: potrebbe essere una preghiera o una delle tante invocazioni scaturite dalla filosofia dei napoletani. Viene anche citata dal Chiarini e una leggenda vuole che se i frati dell’ospedale avessero tolto la targa, il possesso della donazione sarebbe passato all’ospedale degli Incurabili.

giovedì 20 marzo 2014

LA GRANDE PIRAMIDE DI CHEOPE

Tre riflessioni sulla costruzione della grande piramide



Un'opera "colossale" come  L’Anphytheatrum Flavium, fu realizzata in circa 8 anni (72 d.C – 80 d.C.) con tecnologie di oltre 2500 anni più avanzate di quella Egizia all’epoca della costruzione della grande piramide (i Romani conoscevano la ruota, la carrucola, il ferro ed altri leveraggi combinati) e con il massimo sforzo dell’ingegneria Romana, per realizzarla nel più breve tempo possibile.

Sotto, due foto satellitari nelle giuste proporzioni di scala, che mettono a confronto le due opere:




Sotto, due disegni (sezioni mezzeria) per confrontare l’altezza:

In pratica la grande piramide potrebbe quasi inglobare al suo interno l’intero Colosseo:

 

Infatti con la sua altezza di circa 57m, il Colosseo è solo ad 1/3 dell'altezza della Piramide di Cheope. Col suo lato più lungo di 188m è ben lontano dai 230m di Cheope.

Impressionante è il confronto sul peso: 7 milioni di tonnellate per la piramide, contro 0,25 milioni di tonnellate del Colosseo (considerando un peso specifico di 2,5 tonnellate a m3 per il travertino). I Romani si guardarono bene dal sollevare in quota blocchi dal peso di 2, 3, 10 fino a 70 tonnellate. Piuttosto si limitarono ad applicare il sistema "arco" alla perfezione movimentando in quota blocchi sempre al di sotto della tonnellata.

Sotto un disegno di una gru di epoca romana, sconosciuta agli Egizi e comunque inadeguata al sollevamento in quota dei blocchi di granito da 70 tonnellate della cosiddetta “camera del re”:


Il confronto sul volume di roccia impiegata è altrettanto impressionante: 0,1 milioni di m3 per il Colosseo, contro i 2,3 milioni di m3 della Piramide: ovvero la piramide ha un volume costruito di circa 23 volte superiore al Colosseo.  Anche per il fattore tempo, il confronto è interessante, considerando che il faraone Cheope avrebbe regnato dal 2620-2597 a. C., ovvero circa 23 anni per alcune fonti, mentre dal 2589-2566 a.C per altre fonti, comunque circa 23 anni in tutto e che la costruzione della piramide sia avvenuta in circa 20 anni.

Riassumiamo:
 1)    Hcolosseo = 57m; Hpiramide = 150m
2)    Lcolosseo = 188m; Lpiramide = 230m
3)    Pcolosseo = 0,25*106 ton; Ppiramide = 7*106 ton; (Ppiramide/Pcolosseo)=28
4)    Vcolosseo = 0,1*106 m3; Vpiramide = 2,3*106 m3; (Vpiramide /Vcolosseo)=23
5)    Tcolosseo = 8 anni; Tpiramide = 20 anni; (Tpiramide/Tcolosseo)=2,5



Altezza (m)
Lunghezza (m)
Peso (ton.)
Volume (m3)
Tempo (anni)
G. Piramide
150
230
7*106
2,3*106
20
Colosseo
57
188
0,25*106
0,1*106
8
Rapporto
2,6
1,22
28
23
2,5

Dai dati sopra riportati si evince che la Piramide rispetto al Colosseo ha un peso circa 28 volte maggiore, ed ha un volume circa 23 volte maggiore, ma è stata costruita in soli 20 anni, quindi impiegando solo 2,5 volte il tempo che i Romani impiegarono per costruire il Colosseo 2500 anni dopo, utilizzando tecnologie sconosciute agli Egizi all’epoca della costruzione della piramide, quali la ruota, la carrucola e le travi in ferro.

La differenza è di circa un ordine di grandezza tra Peso-Volume e Tempo, elemento questo che deve indurre a riflettere poiché nell’analisi scientifica uno scarto simile è indice di un errore nella teoria o nell’esperimento: in questo caso essendo certo il metodo ed il tempo impiegato dai Romani per costruire il Colosseo, è immediato pensare ad una rivalutazione della teoria sulla costruzione della grande piramide.

Volendo forzare un confronto, se consideriamo un fattore di proporzione medio tra i rapporti Peso e Volume, abbiamo un valore di 25 volte: applicandolo al fattore tempo, significa che se i Romani avessero voluto realizzare un Colosseo a “grandezza piramide di Cheope”, avrebbero dovuto impiegare circa 200 anni (25x8=200).

O, viceversa, se i Romani avessero avuto le stessa bravura degli Egizi, avrebbero dovuto realizzare il Colosseo in meno di 4 mesi (8x12/25=3,84).

Quale superiorità viene attribuita oggi alla civiltà Egizia del 2500 a.C. per credere che abbia realizzato un’opera immensa in soli 20 anni, ridicolizzando lo sforzo ingegneristico della civiltà Romana che oltre 2500 anni dopo avrebbe impiegato 200 anni per realizzare un’opera paragonabile?

Questi semplici confronti, senza alcuna pretesa di precisione scientifica da laboratorio, riescono indubbiamente a dare indicazioni importanti sugli ordini di grandezza in gioco: i dati su peso,volume e tempo possono non essere precisi, ma il loro ordine di grandezza è inconfutabile.
Ed il confronto sugli ordini di grandezza mostra che stiamo attribuendo agli Egizi una capacità ingegneristica, tecnica e costruttiva di gran lunga superiore a quella Romana, sebbene quest’ultima padroneggiasse mezzi e tecnologie più avanzate.

Nel 2570 a.C. (data in cui si ritiene costruita la piramide) è dimostrato che gli Egizi non conoscessero la ruota, né di conseguenza la carrucola. Non conoscevano inoltre nemmeno il ferro, ma solo il rame.

Oggi, nel 2014, è tecnicamente impossibile movimentare blocchi di granito da 70 tonnellate senza l’ausilio di mezzi meccanici-idraulici speciali.
Ipotizziamo che la cava dalla quale furono estratti i blocchi di roccia calcarea si trovasse su una collina posta a circa 1 km dalla grande piramide (dott. Diego Baratono,2007): estrarre, lavorare, ruotare, capovolgere, spostare sulle slitte, trasportare verso la piramide, poi affrontare la rampa inclinata, arrivare alla quota prevista, posizionare con precisione millimetrica blocchi dal peso dai 1 tonnellata fino a 4 tonnellate, il tutto senza l’ausilio nemmeno della più rudimentale carrucola, diventa un’operazione da sottoporre ad un’attento studio di fattibilità. Avessero almeno avuto la gru romana (fig.1), avremmo potuto farci un’idea di come avvenissero le operazioni suddette, ma è dimostrato che al massimo gli Egizi hanno usato leve in legno o rame.
Se poi passiamo ai blocchi da 40 fino a 70 tonnellate della “camera del re” allora le suddette operazioni appaiono ai limiti delle spiegazioni fisiche.
A titolo di esempio, si riporta un disegno dove si evincono le proporzioni dei blocchi:
 


Proviamo ad illustrare brevemente la difficoltà di movimentazione di un blocco monolitico da 50 tonnellate appena estratto:

     1) Per ruotare o ribaltare il blocco, oggi si usano macchinari in acciaio come questi:

 2) Per spostare i blocchi, si usano gru come queste:


I macchinari suddetti (Eurosollevatori Pellegrini, modello Derrek) hanno comunque una capacità massima di carico limitata a 50 tonnellate: non sarebbero adatte per la movimentazione e la lavorazione dei monoliti da 70 tonnellate che sono presenti all’interno della “camera del re”.

Per dare idea del peso di cui si sta trattando, si riporta il disegno seguente:

 Un autobus a 3 assi, a pieno carico (quindi 55 persone + bagagli + pieno di carburante) pesa circa 25 tonnellate: sovrapponiamone 3, ed otteniamo circa il peso del blocco di granito da movimentare per km ed infine trascinare lungo la rampa inclinata per portarlo alla quota di 50m dove è posizionato (ovviamente senza ruote!).
Quando si fanno ipotesi sulla movimentazione di blocchi di questa portata, si dovrebbero avere ben presenti queste valutazioni per capire di che ordine di grandezza stiamo parlando.
Senza quindi i macchinari sopra descritti, come hanno fatto gli Egizi a :
1)    squadrare i blocchi di granito senza ruotarli o ribaltarli (o se li hanno ruotati e ribaltati, con quali leve)
2)    posizionarli sulle slitte per il trasporto verso le imbarcazioni poste sul Nilo;
3)    affrontare curve, salite e discese con la slitta carica di 70 tonnellate;
4)    arrivati sul Nilo, spostare l blocchi dalla slitta all’imbarcazione;
5)    arrivati alla piana di Giza, spostare i blocchi dall’imbarcazione alla slitta;
6)    arrivati ai piedi della Piramide, sposare i blocchi sulle rampe a spirale (interne o esterne che siano);
7)    arrivati alla quota prevista, posizionare il blocco con precisione millimetrica
Questi quesiti impongono una riflessione seria, libera da pregiudizi e tesi accademiche da preservare.

Affrontiamo ora proprio il problema del posizionamento in quota del bei blocchi da 70 tonnellate: a titolo di esempio si riporta una foto di un’auto-gru per il sollevamento di blocchi da 70 tonnellate e da 500 tonnellate, ma con sbraccio inferiore ai 3m:


Siccome i blocchi da 70 tonnellate si trovano a circa 50m di altezza ed a una distanza di circa 115m dai lati della piramide, oggi è tecnicamente impossibile posizionare tale blocco con una gru mobile, bisogna costruirne una dedicata per il cantiere.

Si riporta il diagramma di carico di una auto-gru da 500 tonnellate:


Avremmo bisogno di gru da porto come questa:
 Le immagini sopra riportate servono solo a dare al lettore “il polso” della situazione sui carichi in gioco; è ovvio che gli Egizi non sollevassero i blocchi ma li trascinassero, ma teniamo presente che quando parliamo della “Camera del Re” ci riferiamo a blocchi da 70 tonnellate e che le macchine per la movimentazione di tali blocchi sono imponenti e non sono sostituibili da funi, buoi e braccia umane in numero indefinito.
Ci sono delle operazioni tecniche che non possono essere realizzate senza le attrezzature giuste: è un problema fisico che non può essere risolto aumentando il numero di operai e le ore lavorative dedicate all’operazione.
Con questo stratagemma, l’archeologia usa una leva fragile per sostenere la tesi sulla costruzione della grande piramide, anche se di fronte a semplici considerazioni come quelle sopra esposte, la ragione sarebbe pronta a spezzare tale leva.

Lo studio più accurato che oggi esiste sull’argomento è rappresentato dal libro “Nel Cantiere della Grande Piramide” scritto dall’arch. M.V. Fiorini: ho avuto l’onore di conoscere e confrontarmi con l’arch. Fiorini e devo ammettere che il suo studio e le sue ipotesi sono molto convincenti.
Restano queste perplessità, che elenco:
1)    Treggia: la treggia in legno per i blocchi da 70 tonnellate.
Bisogna impostare una verifica di resistenza della treggia, magari indicando quale spessore devono avere i binari e le traversine per sostenere uno sforzo del genere. Da tenere presente che oltre a sostenere il peso del blocco, la treggia deve resistere alle sollecitazioni legate agli sforzi di traino degli operai+buoi.

2)    Grasso animale: in un’ottica di programmazione lavori e crono-programma cantiere, bisogna capire quante tonnellate di grasso animale sono necessarie nei 25 anni, per calcolare poi la quantità kg/giorno e di conseguenza il numero di animali da uccidere per sostenere lo sforzo produttivo di grasso. Potrebbe risultare necessario un quantitativo inverosimile.

3)    Catamarano: trasporto sul Nilo dei blocchi da 70 tonnellate per circa 850 km.
Considerando che il fiume Po’ nella sua intera lunghezza (dalla fonte di Crissolo alla foce) è circa di 650 km, ci rendiamo conto di quale distanza stiamo parlando. Inoltre le ipotesi che accreditano lo spostamento su fiume come possibile all’epoca, includono tutte la necessità di sfruttare la piena del Nilo: quindi si trattava di percorrere 850 km su un catamarano in legno (tenuto insieme solo da funi di canapa e chiodi di legno, perché non esistevano viti o chiodi di metallo) vincendo le correnti di piena, i salti, i vortici, le curve, etc.
Credo sia obbligatoria una verifica ingegneristica del “catamarano” da parte di un esperto di costruzioni navali (meglio se esperto di costruzioni in legno e ancora meglio se esperto di imbarcazioni antiche) sia per sostenere il carico, sia per permettere la navigazione su un fiume in piena, aggravata dai massi di rallentamento (le ancore di trascinamento ritrovate nel letto del Nilo).
Così come credo sia obbligatorio uno studio sul percorso fluviale (almeno a grandi linee) da percorrere per quasi 800 km. Una distanza enorme, al limite del possibile con un carico da 70 tonnellate.
Se infatti dall’analisi emergessero perplessità strutturali e forti possibilità di affondamento e perdita del carico, dovremmo poter trovare una serie di monoliti e catamarani affondati nel letto del Nilo nelle stratigrafie corrispondenti al 2500 a.c.

4)    La Rampa a scendere: bisogna progettare anche questa rampa e dare più informazioni sulle dimensioni di base, sul volume totale e quindi sul tempo impiegato per costruirla. Magari considerando anche la spinta del vento e soprattutto la sollecitazione provocata dal passaggio dei monoliti da 70 tonnellate.

5)    Sicurezza: sia sulla rampa a scendere, sia sui modiglioni.
La rampa a scendere avrà un’altezza di oltre 40m alla fine della sua costruzione ed una larghezza di soli 5-6m, senza opere di sicurezza laterali: quanti operai saranno caduti per il solo trasporto dei monoliti in granito? La sezione era sufficiente per il passaggio dei buoi e degli operai in fase di tiro?
Analogamente per i modiglioni: lavorare a 130m da terra senza alcuna imbracatura, tirando in quota massi da 800kg, statisticamente dovrebbe causare un bel po’ di morti.
Potrebbe essere interessante consultare un esperto di sicurezza sul lavoro per confrontare le statistiche di caduta dall’alto nel cantieri edili e per analogia ricavare il numero di morti possibili sul cantiere della Grande Piramide.

Ultima riflessione sull’argomento: per il “Colosseo” potremmo oggi provare a ricostruire l’opera utilizzando le tecniche costruttive e le tecnologie a disposizione degli ingegneri romani, magari impiegandoci molti più anni, ma con ogni probabilità riusciremmo nell’impresa; per quanto riguarda la grande piramide, non potremmo fare a meno di utilizzare delle strutture “megametalliche” come quelle sopra illustrate se vogliamo raggiungere lo scopo. Ciò significa che noi oggi non abbiamo la capacità tecnica e la necessaria abilità per costruire la Piramide con le tecniche che attribuiamo agli Egizi e soprattutto nei 20 anni stimati.
E’ quindi logico, razionale e scientificamente corretto  continuare a ritenere che la civiltà Egizia del 2500 a.C. con funi, legni, buoi e manodopera, fosse tanto più abile della civiltà Romana del primo secolo e della civiltà contemporanea del ventunesimo secolo?
Il trasloco del tempio di Abu Simbel nel 1965:  il tempio di Abu Simbel è stato smontato pezzo per pezzo e ricostruito 180 metri più nell'entroterra dopo aver innalzato il terreno di 65 metri rispetto al livello precedente. I lavori richiesero cinque anni, oltre duemila uomini, tonnellate di materiali e uno sforzo tecnologico senza precedenti nella storia dell'archeologia.

I blocchi numerati (oltre 1000 blocchi) per ridar loro l'esatta posizione, furono riassemblati, e l'intero tempio fu ricostruito mantenendo persino l'originario orientamento rispetto agli astri e al nuovo corso del Nilo determinato dallo sbarramento di Assuan.

Ecco alcune immagini significative dell’operazione:

Questa operazione fu di livello internazionale con la partecipazione delle massime competenze del ventesimo secolo: per spostare circa 1000 blocchi di roccia (peso massimo del blocco spostato di 20 tonnellate) dove si lavorava 24h su 24h (quindi anche di notte) con grù, camion, seghe a filo, trapani, putrelle d'acciaio, mezzi meccanici pesanti, sollevatori idraulici, etc. in una lotta contro il tempo per evitare che lo sbarramento della diga provocasse l’inondamento del sito archeologico.

E’ interessante notare che l’umanità dopo circa 4500 anni dalla costruzione della grande piramide, abbia unito gli sforzi ed utilizzato il top della tecnologia per riuscire a spostare 1000 blocchi in circa 5 anni. Inoltre c’è da aggiungere che gli Egizi non potevano lavorare di notte, mentre nel 1965 si è lavorato 24h su 24h grazie all’impiego di enormi lampade ad arco, quindi se avessero lavorato solo di giorno, avrebbero verosimilmente impiegato il doppio del tempo, ovvero circa 10 anni.

Il confronto tra le due opere è scientificamente improponibile per ovvi motivi, ma è importante per avere indicazioni, ancora una volta, sull’ordine di grandezza.

Cerchiamo di dare maggiore valore a questo confronto su due opere così diverse, affiancando le operazioni che hanno caratterizzato per sommi capi le due imprese:
COSTRUZIONE GRANDE PIRAMIDE
SPOSTAMENTO TEMPI ABU-SIMBEL
Estrazione blocchi calcarei/granitici
Taglio in blocchi delle opere esistenti
Lavorazione dei blocchi nella forma desiderata: nella quasi totalità dei blocchi, forma cubica.
Saldatura, serraggio e bloccaggio dei blocchi per consentirne lo spostamento verso il camion
Trasporto dei blocchi verso la piramide con slitte  e con zattere per i blocchi provenienti dalle cave di Assuan
Trasporto su gomma verso il nuovo sito
Movimentazione e posizionamento millimetrico  in quota dei blocchi
Riassemblaggio millimetrico dei blocchi nella giusta sequenza
Allestimento delle varie camere e gallerie interne con i blocchi di granito da decine di tonnellate
Ricostruzione del tempio, parte esterna e parte interna, rispettando orientamenti ed inclinazioni
Finitura in lastre di calcare bianchissimo
Finitura con malte cementizie per nascondere le linee di contatto tra i vari blocchi
  Le principali operazioni, seppur con le dovute cautele, possono però trovare una corrispondenza nella difficoltà di esecuzione, tenendo presente anche le differenti tecnologie a disposizione.
Restano però due dati impressionanti, che rendono il confronto impari, perché sono stati posizionati:

1)    1000 blocchi in 10 anni per il tempio di Abu-Simbel;
2)    2.300.000 blocchi in 20 anni per la Grande Piramide.

Il rapporto tra le due operazioni è quindi sbalorditivo: gli Egizi hanno posizionato 2.299.000 blocchi in più.
Volendo forzare una rapporto a parità di tempo, avremo che in 10 anni gli Egizi avrebbero posizionato 1.150.000 blocchi: ovvero 1.149.000 blocchi in più.
Significa che per ogni blocco tagliato, trasportato e posizionato nel nuovo tempio da parte della civiltà contemporanea, la civiltà Egizia riusciva a posizionarne 1500.
Il rapporto è 1500 a 1 a favore degli Egizi.
E’ quindi logico, razionale e scientificamente corretto  continuare a ritenere che la civiltà Egizia del 2500 a.C. sarebbe capace ancora oggi di ridicolizzare gli sforzi tecnici ed ingegneristici dell’intera umanità dopo 4500 anni?

Le tre considerazione sopra riportate, non hanno alcuna valenza di prova, ma sono indicazioni importanti verso una riflessione possibile: la grande piramide potrebbe non essere stata costruita dagli Egizi all’epoca del Faraone Cheope perché non vi erano le condizioni tecniche e tecnologiche per costruire un’opera colossale di quel tipo in soli 20 anni.

O, se si vuole continuare a sostenere la tesi che la Grande Piramide è stata costruita dagli Egizi, allora bisogna almeno ammettere che non è stata costruita in 20 anni e rivedere comunque la cronologia storica dell’Impero Egizio.

Come il sistema geocentrico e la concezione Tolemaica del cosmo hanno bloccato le scoperte astronomiche per quasi 2000 anni, potremmo oggi essere vittime dello stesso “tappo cognitivo” sullo studio delle opere Megalitiche che riempiono la Terra e delle quali la Grande Piramide è l’esempio più significativo.


Pinerolo 06/03/2014                                                                                                                   Simone Scotto di Carlo


Fonti
http://www.focus.it/