martedì 29 maggio 2012

lunedì 28 maggio 2012

Le fate venute dalle stelle

di Nicoletta Camilla Travaglini

Una teoria molto suggestiva  portata avanti da Fieber nella quale sostiene che le fate siano, in realtà, delle creature venute dallo spazio.
L’autore di tale ipotesi dice a questo proposito:
Quando ero bambino, si narra in una raccolta di fiabe  irlandesi, udivo mio nonno parlare del magico popolo che vive sulle colline…
Egli era fermamente convinto che le fate esistessero veramente e non si recò mai nelle paludi a raccogliere la torba, senza essere spiritualmente preparato a incontrarne qualcuna…
Diceva che in cielo c’era stato una guerra fra Dio e gli angeli e che per quaranta giorni e quaranta notti di seguito il Padreterno aveva scacciato angeli dal cielo gettandoli verso la Terra. Alcuni erano rimasti sospesi in aria, altri invece erano arrivati fin quaggiù, chi toccava la terraferma, chi  cadendo in mare. Un giorno udì un uomo dire che se il giorno del Giudizio Universale avessero perduto la speranza di poter rientrare in Cielo avrebbero distrutto la Terra.   

Fieber ci dice anche da dove proverebbero queste magiche creature:
 …Fattosi improvvisamente serio, mi rimproverò, diventando serio di aver conosciuto un decano che non solo aveva visto con i propri occhi questi piccoli esseri, ma aveva anche parlato con loro: gli avrebbero rivelato di essere abitanti della Luna.
L’idea che ci si faceva allora della patria delle fate, degli elfi e dei folletti era però completamente diversa; W. Evans-Wentz la descrive come un mondo invisibile, nel quale il nostro pianeta sarebbe immerso, come un’isola sprofondata in un immenso oceano. Gli abitanti di “quest’altra Terra” erano normalmente immaginati come esseri più piccoli dell’uomo terrestre, ma avevano il potere di trasformarsi anche in giganti. Quelli che mantenevano almeno per metà sembianze umane erano molto amati e preferito agli altri. Usavano a volte i loro poteri per rapire uomini che, dopo avere stordito, tenevano prigionieri. A volte rubavano loro cereali e bestiame ma in altre occasioni potevano anche mostrarsi generosi e disponibili. Nel complesso, però, non esistevano fate, folletti e gnomi che fossero “buoni” in modo assoluto; tutti potevano all’improvviso e senza motivo, diventare cattivi e vendicativi.
… Gli Algonkini si tramontavano una leggenda secondo cui un giorno un cacciatore di questa stirpe scoprì in una radura un cerchio d’erba schiacciata. Si nascose fra i cespugli e di lì a poco vide scendere dal cielo un cesto nel quale sedeva un gruppo di donne meravigliose che, scese dal cesto, si misero  a danzare in cerchio. Il cacciatore attese il momento propizio, poi afferrò una delle donne e la trascinò via con sé. Spaventate, le altre rifugiatesi di nuovo nel cesto, che venne velocemente tirato su e in un attimo sparì fra le nuvole. L’indiano condusse la donna nella sua tenda e, poco tempo che vivevano insieme, lei gli dette un figlio ma, approfittando di un momento in cui non era sorvegliata, fuggì nella radura col il bambino, dove intrecciò un nuovo cesto magico con le sue mani. Appena vi fu salita col il bimbo, volò in cielo a raggiungere le compagne e non tornò mai più.


Note
1)  FIEBAG, Johannes Gli Alieni Contatti con intelligenze extraterrestri Edizioni Mediterranee, Roma 1994, pag.40.
2) FIEBAG, Johannes op. cit., pag. 41, 44, 45.


domenica 20 maggio 2012

"Vampiri" a Trani Metti un masso sul morto iapigio

Tratto dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 3/3/2002

Due tombe, per quattro defunti: furono inumati senza onoranze funebri e in posizione prona, con un macigno addosso.L’inquietante ipotesi degli antropologi: erano reietti che non dovevano assolutamente tornare tra i vivi

"Vampiri" nell’antica Trani. E ciò che hanno sospettato archeologi e antropologi di fronte alle due sconcertanti tombe iapigie emerse a Capo Colonna. Qui qualcosa di unico nella storia degli scavi in Puglia - nonché della ritualità funebre antica - si è parato davanti agli occhi dell’archeologa Ada Riccardi della Sovrintendenza. Nella sepoltura più piccola era deposto un cadavere in posizione prona, inginocchiato, schiacciato da un lastrone piazzatogli sulla spalla; nel secondo sepolcro, invece, tre erano i defunti, anch’essi inumati, ognuno con un proprio masso addosso.
Lo scavo è stato condotto dalla Riccardi nel 2001. Ma la notizia, per evidente cautela, non era trapelata finora.
Durante gli scavi precedenti effettuati negli anni ‘70 a Capo Colonna, la penisoletta di Trani dove sorge il bel Monastero che sarà sede museale, non erano emerse sepolture: si trovarono invece tracce di insediamenti dell’età del Bronzo e anche fondi di capanna dell’età del Ferro, delimitate da un fossato. Furono recuperati reperti tardo-elladici e micenei (secondo la testimonianza dell’archeologo di allora: ma nessuno li ha mai visti, né sembra siano stati mai pubblicati!). Lo scorso anno però si ripresero le indagini in una zona limitrofa e riaffiorarono strutture di ambienti, con un cortile che doveva essere in origine lastricato (lo si deduce dal "vespaio" di ciottoli di mare disseminati, che avrebbero dovuto formare il sottofondo). Le pareti di questo edificio presentavano una originalità. i paramenti esterni dei muri erano costituiti da lastroni infissi verticalmente nel terreno. Una tecnica costruttiva mai attestata per l’antica Peucezia (o per la Daunia, visto che Trani allora sorgeva sul confine tra queste due popolazioni). D’altronde si doveva trattare, quasi certamente di un luogo di culto.
In questi ambienti sono riafforati frammenti di ceramica iapigia (un’olla ed altri cocci di vasi) che rimandano a una decorazione tipicamente daunia. Stravagante è il disegnino di uno dei frammenti, che raffigura un bipede con una voluminosa cresta, nonché una lunga coda da rettile. Il loro "stile" indica con ogni verosimiglianza la datazione dell’intero insediamento e quindi delle tombe. Tutto dunque farebbe pensare alla fine del IX o all’inizio dell’VIII secolo avanti Cristo.
Una fossa circolare fu scavata accanto alla parete dell’edificio maggiore. A che cosa servisse? Resta per ora una domanda senza risposta; e ancora più intrigante è aver constatato che nell’interno del pozzetto fossero stati infisse delle pietre. Certo un rito, di cui ci sfugge il senso.
Tuttavia il culmine del mistero di questo scavo a Capo Colonna non è certo la fossa, quanto le due tombe: che di per sé costituiscono una eccezionalità per questa epoca. Una di esse è all’interno all’edificio, l’altra, più piccola, è esterna, si direbbe nel "cortile".
Come si è detto, in quest’ultima sepoltura fu deposto - ben duemila e ottocento anni fa - un uomo in una posizione ben strana: quasi inginocchiato, prono, con addosso un lastrone. Identica fine fu riservata ai tre defunti ammassati nella tomba più vasta, anch’essi seppelliti con un macigno addosso. Il primo è un adulto maschio - ci dice il prof Vito Scattarella del Dipartimento di Zoologia, sezione Antropologica dell’Università di Bari, che con il dottor Sandro Sublimi Saponetti stanno studiando i resti ossei. Gli altri sono due adulti dai venti ai quarant’anni e un ragazzo di quindici anni. L’indagine prosegue, ma nessun segno traumatico è ancor apparso sulle ossa: il che escluderebbe, per ora, una morte violenta, inflitta loro dalla comunità, che pure volle punire questi morti per l’eternità.
Che si trattasse di sepolture di reietti era emerso da vari indizi: non solo l’imposizione dei massi, ma anche la mancanza di qualsiasi elemento a corredo funebre: neppure un frammentino di ceramica fu adagiato nelle tombe. Eppure i loro corpi non furono lasciati insepolti o gettati in mare. Oltre al sasso, i corpi furono coperti da terreno, e le tumulazioni furono sigillate con un lastrone di pietra. È quasi esplicita in un siffatto rituale la volontà di impedire ai defunti un ritorno tra i vivi. E a un fenomeno di "vampirismo" hanno pensato gli antropologi baresi Scattarella e Sublimi. Le deposizioni di Trani, pur essendo uniche in Italia, hanno dei riscontri con altre scoperte dagli archeologi nel nord della Grecia: fu la studiosa greca Anastasia Tsaliki (ora docente in Inghilterra) a rivelare in alcuni congressi di antropologia la permanenza di rituali funebri di questo genere, dall’età neolitica fino ai giorni nostri. Il masso imposto al defunto doveva impedire che, egli tornasse a portare scompiglio nella comunità dei vivi. Naturalmente quando si parla di "vampirismo" non ci si vuol riferire al mondo dell’orrore, come lo intendiamo oggi. E tuttavia questi trapassati dovevano essere affetti da morbi connessi con la manifestazione del sangue, sostengono gli antropologi: quali la fotofobia, la porfiria, la tubercolosi polmonare, la rabbia ecc...
Su quali fonti letterarie o documentali dell’antichità si basi questa convinzione, non è dato ancora sapere con precisione. Ma certo, l’indagine non finisce qui, e di queste sepolture si continuerà a parlare.
Macigni, ritorni dal mondo dei morti… Un nesso non nuovo: il più immediato riscontro che il mito può fornirci - se vogliamo stare al gioco - è quello di un celebre "revenant": Sisifo. L’astuto fondatore di Corinto, che aveva incatenato la Morte, e una volta defunto aveva ingannato anche gli dèi degli inferi ed era tornato a vivere (uno dei rarissimi casi di "zombi" nel mito) fu punito con un masso da sospingere per l’eternità. Perché aveva osato l’impossibile "ritorno".

Giacomo Annibaldis

La coincidenza
Qui Davanzati scrisse nel ‘700 il suo trattato "sopra i vampiri" È solo una coincidenza. Ma è stravagante che si parli di "vampirismo" nell’antica Trani, nella città in cui fu "incubato" - duemilacinquecento anni dopo l’inumazione di questi defunti iapigi - il primo trattato completo sui "revenants": quella "Dissertazione sopra i vampiri" scritta nel 1739-40 da Giuseppe Davanzati, che di Trani era in quegli anni arcivescovo e vi mori nel 1755 (era nato a Bari nel 1665). La "Dissertazione" era un’anatomia completa e illuministica non solo del diffuso fenomeno del vampiro, ma di tutto il luna park dell’orrore. Pubblicata postuma nel 1774 dal nipote Forges Davanzati, è stato riproposta nel 1998 da Besa editrice.

giovedì 17 maggio 2012

Il mistero delle Pleiadi

di Nicoletta Travaglini


L’antropomorfismo delle civiltà antiche portò alla personificazione delle montagne o alture nelle quali si credette di ravvisare divinità e personaggi mitologici dall’aspetto umano.

Anche la Majella, massiccio montuoso dell’Abruzzo, divenne, agli occhi dei suoi primi abitanti, una divinità. Il suo nome deriva dalla Magna Mater italica Maja, che significherebbe, secondo alcuni, cresta,montagna; secondo altri grandezza intesa come forza o potenza; infine taluni hanno creduto di ravvisare in esso la radice del nome “Amazzone”.

In molte leggende nate in Abruzzo si parla di gigantesse guerriere chiamate “Majellane”, che indossavano grossi orecchini di forma circolare e collane costituite da enormi sfere sfaccettate.

Maia o Maja era una di queste donne colossali che insieme al suo unico figlio fuggì dalla Frigia per riparare nel porto di Ortona, dove con il ragazzo ferito in battaglia tra le braccia, in groppa a un veloce destriero,  per sfuggire ai suoi nemici, si rifugiò tra gli anfratti, i boschi e le rocciose vette delle montagne abruzzesi dove, malgrado le sue cure, egli morì di lì a poco. Allora, lo seppellì sulla terza vetta del Gran Sasso andando da Oriente verso Occidente.

La disperazione di Maja fu così forte che nel giro di poco tempo morì anche lei e fu seppellita in montagna che in suo onore fu chiamata Majella, il mausoleo della Magna Mater abruzzese.

In un'altra leggenda si racconta che Maja era la più bella delle sette Pleiadi di cui si innamorò Zeus, fu anche la moglie di Vulcano e la madre di Ermes. Sul Monte Pallano, essa cercò le erbe per curare suo figlio, il quale, nel giro di poco tempo, perì.    

         Di fronte all’imponente profilo del massiccio montuoso della Majella, in Abruzzo e più precisamente, nella provincia di Chieti, si staglia il Monte Pallano; un colle sulla cui sommità svetta il simbolo della società moderna e tecnicizzata:  il ripetitore tv e antenne per la telefonia mobile; poche balze più in basso, però, vi sono i ruderi  di un’ antica città, delimitata da una possente cinta muraria, composta da blocchi di pietra calcarea sovrapposti a secco.

Il Monte Pallano è alto all’incirca 1020 metri ed è avvolto da una fitta vegetazione  che va dalle querce fino ai lecci, passando per  i cerri e faggi.

Il suo territorio è diviso tra il comune di Archi, Atessa, Tornareccio e Bomba. La fauna che popola questo primitivo angolo d’Abruzzo è composto da: volpi, tassi, lepri, qualche cinghiale, ovviamente i serpenti, ramarri e uccelli rapaci notturni e diurni.

Questo luogo funge da spartiacque tra la valle del Sangro e quella dell’Osento. Dalla sommità di questo monte lo sguardo si perde sulle cime dell’Appennino Marchigiano fino a immergersi nelle coste della ex Jugoslavia, sostando sul Faro di Puntapenna a Vasto, e sull’antica Abbazia di Santo Stefano ad Riva Maris, potente monastero distrutto dai mori.

L’aspetto peculiare di Monte Pallano è costituito da mura ciclopiche che si ergono per circa 163 metri in prossimità della vetta, raggiungono l’altezza e lo spessore di circa  5 metri; essi risultano leggermente inclinati rispetto al terreno circostante e recingono solo parte del versante di Tornareccio, poiché il resto è difeso dall’asperità del paesaggio come: canaloni, vegetazione intricata, angusti viottoli, rocce etc.

  In passato, vi si accedeva tramite quattro porte molto strette, di cui solo tre sono, al momento, visibili, di cui, una, ancora in fase di recupero, poiché nel 1971, fu distrutta a causa di un allargamento di una strada rurale. La più grande e la meglio conservata viene chiamata “Porta del Piano”, l’altro ingresso più basso è chiamato “Porta del Monte”; queste anguste aperture,  che hanno la trave principale costituita da un monolite unico, servivano per il passaggio di una persona per volta o di un unico cavaliere, così in caso di attacco nemico,  esse potevano essere facilmente sorvegliato.

Il suo toponimo potrebbe derivare dal nome della dea Pale, protettrice dei pastori a cui si tributavano offerte per propiziare fecondità e salute delle greggi.

La dea Pale, che spesso è  rappresentata anche come un dio, ha molte caratteristiche simili a Eracle – Ercole, questo fatto è suffragato anche da ritrovamenti fatti nella zona di Pallano.  Eracle era l’eroe nazionale greco, ma il suo mito si diffuse anche in Oriente, in Europa e ovviamente preso gli Italici. Egli, come le dee Pale, Bona, Maia e in generale le divinità agresti, erano i numi tutelari dell’agricoltura e di tutto ciò che era legato ad esso, inoltre si invocava questo semidio anche per la stipula di contratti, in quanto egli era anche il protettore della “parola data” e “della buona fede”. Veniva, spesso,  rappresentato con la clava e la pelle leonina addosso, con arco e faretra, e presso gli Italici indossava la corazza; aveva quasi sempre la barba ed era nudo con una possente muscolatura.  Egli nutriva dell’astio nei confronti della dea Maia – Bona, la quale si rifiutò di farlo bere alla sua fonte durante le celebrazioni dei riti annuali ad ella dedicati, ai quali erano interdetti gli uomini. Ercole – Eracle stanco ed affaticato per l’ennesima fatica patita, non si era reso conto della situazione e così da quell’episodio disdicevole che nacque il divieto alle donne di partecipare ai riti in onore dell’eroe.

Il sincretismo cristiano assimilò questo eroe mitologico con Sant’Antonio Abate o del deserto, del fuoco o del porcello con connotazioni prettamente agricole; infatti, ancora oggi, è in uso, presso i contadini invocare il Santo per propiziare la fecondità del bestiame. Molte sono le analogie tra questi due personaggi, per esempio come il suo archetipo, Antonio ha la barba, combatte con le entità infernali ed è nato in oriente. Inoltre nella zona pedemontana di Pallano, all’incrocio delle grandi arterie tratturali del passato, e sull’attuale strada a scorrimento veloce Fondo Valle Sangro,  sorge il Ponte di Sant’Antonio dalla vicina chiesa a lui dedicata.

Tuttavia non si può escludere che il toponimo Pallano potrebbe derivare  dal nome della dea della sapienza Pallade ma non vi sono molto elementi a supporto di tale tesi.

Alcune fonti ritengono, invece, che il nome provenga dal termine  osco  “Pala” che significa rotondità o altura.

I megaliti, comunque, non erano costruzioni obsolete, poiché se ne contano più di duecento solo nella zona dell’alto e basso Sangro; questo complesso di recinzioni, si ritiene, che facessero parte di una più ampia rete di elementi difensivi disseminati in punti strategici, che si tenevano in contatto attraverso segnali ottici notturni e diurni.

Il Monte Pallano, doveva, presumibilmente, essere, per la sua particolare conformazione geomorfologia, un punto strategicamente fondamentale e un sicuro baluardo contro la colonizzazione ellenica, in quanto rappresentava l’ultima montagna prima del mare. 

Questa cinta muraria sono le vestigia di antiche civiltà preistoriche la cui origine si perde nella notte dei tempi, giacché, essa, data intorno al IV - VI secolo a. C., sembra essere stata edificata su elementi preesistenti. 

La presenza  umana, in questi luoghi,  si fa  risalire a circa 20000 anni fa e anche se  rara,  essa era basata su gruppi più o meno organizzati. 

Nel millennio che definiamo come Età del Ferro, o meglio la fine dell’Età del Bronzo e  l’inizio dell’Età del Ferro, che viene circoscritta dal 1020 fino al III secolo a.C., la penisola italiana era costituita da un mosaico di popoli con usi e costumi diversi: l’area settentrionale e meridionale era influenzata dalla cultura ellenico-orientale, il centro, invece, era organizzato in confederazioni su modello centroeuropeo.

Una differenza fondamentale tra queste due aree di influenza era il modo di seppellire i morti; quelle popolazioni  affine alla  cultura greco-orientale, bruciavano il loro defunti e ne conservavano i resti in urne bronzee, invece gli altri li tumulavano in fosse che venivano ricoperte da tumuli di terra.

Nel centro Italia, cioè nella Sabina, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata vi erano stanziati i Sabini, Peligni, Marruccini, Marsi Aequi, Vestini, Pretuzi, Frentani, Pentrini, Carracini, Sabelli, Sanniti e Umbri che venivano genericamente definiti, dall’etimo osco, “Safin” . I Frentani, invece, occupavano la fascia costiera del Molise e la parte centrale litorale dell’attuale territorio chietino. Una popolazione affine ad essi occupava la destra del fiume Sangro ed era chiamata Lucani o Lucanati e risultavano culturalmente analoghi agli altri popoli del centro peninsulare definiti, poi, dai romani come Italici.  

Questi popoli erano il risultato dell’unione tra pacifici agricoltori autoctoni e pastori guerrieri cercatori di metalli provenienti dalla zona egeo – anatolica, apportatori di tecniche superiori come la transumanza, praticamente sconosciuta presso i popoli neolitici.

Nel I millennio a. C. con l’affermarsi della cultura agreste tipica dei Piceni, la pastorizia fu relegata solo alle zone montane interne. In seguito con l’avvento dei bellicosi Sabelli si diede un nuovo impulso alla pastorizia, la quale per varie ragioni si praticò solo verticalmente, cioè dai monti alle valli circostanti; per favorire tale tecnica essi edificarono i Vici, villaggi agro pastorali, situati in pianura erano difesi dagli Oppida, borghi costruiti su alture e protette da possenti mura, simili a quelli del Monte Pallano.

Il primo insediamento di cui abbiamo traccia in questa zona di Pallano è quello adiacente all’incavo naturale chiamato Lago Nero, che oggi risulta completamente asciutto, che si ubicava nei pressi della cima del monte. Questo lago, che si riempiva solo in determinate condizioni climatiche, era considerato dall’uomo di Pallano, come una divinità alla quale erano tributati culti magico-misterici correlate, alla presenza o meno delle sue acque.

In questo contesto mistico legato all’acqua, che i Lucanati probabilmente, celebravano anche i riti della Primavera Sacra o Ver Sacrum, durante la quale un capo, in questo caso il Nerf, principe guerriero con poteri assoluti, compreso quello religioso, consacrava, forse al Lago Nero, tutti gli esseri viventi che sarebbero nati nella primavera successiva, i quali una volta adulti, venivano allontanati dal consorzio civile perché appartenete alla deità e con il compito di colonizzare nuove terre lontane. In realtà molto di coloro che venivano offerti come ex voto risultavano poco gradite alla  comunità; questi si riunivano, spesso, in vere e proprie milizie paramilitari fuorilegge che terrorizzavano la zona e non solo.

Questo culto era connesso anche alla dea Maja o Maia, la Grande Madre, chiamata anche Vergiliae per il suo stretto rapporto con la primavera di cui ne era una epifania.

 Il nome Maia, tra i tanti significati che gli sono stati attribuiti, c’è anche quello di accrescimento, sviluppo e fertilità del suolo, nonché essa da il nome al mese di Maggio, cioè, il mese in cui si risveglia Madre Natura ed è anche quello dedicato alla Vergine Maria.

Maia, come abbiamo detto,  era una gigantessa facente parte delle mitiche amazzoni e secondo vox populi, i Megaliti Palatini sono stati costruiti da uomini mastodontici, i quali risiedevano all’interno delle mura e andavano a lavorare in Puglia.

Essi erano, secondo alcuni miti medioevali abruzzesi, i Paladini o Palladini  di Carlo Magno che la fantasia popolare ha associato ad alcuni scheletri enormi ritrovati nella zona. Intorno al 1954 circa, infatti, si stavano ultimando dei lavori per la costruzione di una strada quando venne alla luce uno scheletro di un uomo alto circa tre metri che calzava dei parastinchi, tra lo stupore generale egli venne tolto dallo scavo, ma siccome i lavori dovevano andare avanti ed il più velocemente possibile, lo scheletro gigante fu occultato e di esso non si seppe più niente.

Questa cinta muraria non aveva comunque, solo valenza difensiva, ma era anche un luogo di culto dedicato, presumibilmente, alla Grande Madre, il quale posto su un monte poteva fungere, forse, da osservatorio astronomico orientato verso le stelle chiamate Pleiadi.

Le Pleiadi fanno parte della costellazione del Toro che nonostante il loro scarso splendore, se comparato alle vicine Orione e Aldebaran, hanno, da sempre,suscitato interesse negli astronomi di tutte le epoche, che hanno visto in esse un qualcosa di misterioso e arcano.

Intorno al 2500 a.C. questo gruppo di stelle, acquistano una notevole importanza presso gli abitanti della Mesopotamia, in quanto il loro sorgere corrispondente all’equinozio primaverile, che coincideva con il loro capodanno. 

I greci le intitolarono il grande anno processionale, consistente in circa 26 mila anni solari, che venne chiamato, appunto, “Il grande anno delle Pleiadi”, che, però, nei secoli successivi prese il nome di “anno platonico”.

Nell’antichità ai marinai, la loro apparizione nel cielo primaverile, cioè il 10 maggio, indicava il periodo dell’anno propizio alla navigazione, dopo il riposo invernale, il quale si concludeva l’11 novembre quando esse divenivano invisibili. Questo lasso di tempo era chiamato dai Celti All Hallows Evens, cioè il tempo in cui i vivi potevano incontrare i morti, che il sincretismo cristiano trasformò nella festa di “Ognisanti”.

In passato, queste stelle erano visibili dalla primavera in poi, oggi, a causa della precessione degli equinozio, sono visibili dalla metà di agosto fino alla fine di marzo.

Nell’antica Grecia si narrava che queste sette sorelle, figlie di Pleione e Atlante, prima della loro mutazione in astri, si erano unite a  dei, partorendo altrettante divinità o eroi, Maja la più vecchia e più bella, giacendo con il padre degli dei generò, Ermes, come fecero le sue sorelle con altrettante divinità maschili, la cui stirpe avrebbe fondato città o imperi, solo Merope essendosi unita ad un mortale aveva interrotto la stirpe divina; perciò nel momento in cui fu trasformata in stella, insieme alle altre, vergognandosi della sua scelta affettiva, si celò agli esseri umani.

Parlando dell’Atlantidi perdute, in un’altra narrazione, non si fa riferimento a Merope, bensì a Elettra, la quale, dopo la sconfitta di Troia, fondata da suo figlio Dardano, in preda alla disperazione si rifugiò nel circolo polare Artico da dove torna ciclicamente con i capelli scompigliati in segno di grande dolore, cioè come una stella cometa.

Alcuni miti narrano che queste siano state trasformate in stelle in segno di riconoscenza per la loro saggezza. 

Un’altra versione del mito si dice che esse piansero così tanto per la sorte del loro padre che per questo divennero stelle.

Infine in uno dei tanti racconti popolari nati intorno alle Pleiadi, si dice che un giorno Pleione e le sue figlie erano in Boezia quando furono aggredite da Orione, il grande cacciatore, che voleva abusare di loro esse, riuscirono miracolosamente a fuggire e stettero nascose per cinque anni finché Zeus non le trasformò in astri del firmamento.

Questo gruppo di stelle in realtà è composto da oltre novecento corpi celesti ma solo sei o sette sono visibili ad occhio nudo esse sono: la più scintillante Alcione, tempesta invernale, Taigete, ninfa della montagna, Asterope, Elettra, ombra,  Maja, fertilità, Merope, mortalità, e Celano, oscurità.

Il loro nome deriverebbe dalla parola “navigare” in quanto indicava il periodo dell’anno più adatto alla navigazione,  potrebbe derivare dalla parola “più” poiché ne sono tante, il loro nome greco, invece,  significa “stormo di colombe” perché sembra che prima di divenire stelle fossero colombe inseguite da Orione.  

L’insediamento di Monte Pallano, come si è detto precedentemente era strategicamente ottimo, per questo esso resistette a lungo alla colonizzazione forzata e violenta dei romani, che con tre Guerre Sociali,  assoggettarono  gli Italici.

Questa romanizzazione brutale e inevitabile portò anche all’urbanizzazione di quelle comunità tribali sparse in tutta la valle del Sangro;  le quali si aggregarono in vere e proprie città, come quella che nacque nella zona di Fonte Benedetti quasi alle falde di Monte Pallano.

Questa città, di cui ignoriamo il nome,  che era forse la Palacinum impressa in alcune monete ritrovate sul posto,  doveva essere molto ricca ed operosa dato che batteva moneta e si trovava in una posizione particolarmente favorevole al controllo dei traffici lungo il braccio  tratturale secondario Centurelle-Montesecco, rispetto al più importante tratturo Aquila – Foggia, oggi in parte inglobata nella strada a scorrimento veloce “Fondo Valle Sangro”.

Nonostante queste buone premesse questa comunità non divenne mai “Municipio Romano” e, così, gradatamente ma, inesorabilmente, la presenza antropica dei luoghi divenne sempre più rara e limitata solo ai Tholos, ripari in pietra usata dai pastori e greggi durante la transumanza.

Durante il Medioevo, molte furono le abbazie e luoghi di culto che si concentrarono a ridosso della zona pedemontana del monte in questione. Per una curiosa coincidenza, forse voluta dai suoi costruttori, lungo la strada che congiunge il mare Adriatico al Monte Pallano vi sono ben tre chiese dedicate a Santo Stefano: la prima Santo Stefano erga mare, nel territorio di Vasto, la seconda Santo Stefano rivum maris a Casalbordino, la terza Santo Stefano in Lucania a Tornareccio. A questa enigmatica casualità si aggiunge anche un destino comune che unì la storia di questi tre luoghi.

E’ notorio che questo protomartire morì lapidato per il suo eccessivo zelo nella diffusione del “Verbo” cristiano. Il suo culto dilagò prepotentemente, dall’oriente fino ad arrivare anche in Abruzzo, poiché esso si intrecciò indissolubilmente con l’agiografia di Santo Stefano in Lucania, parroco della zona Frentana, attuale Lanciano e dintorni, che fu ammazzato barbaramente insieme ai suoi figli dai mori di  Pallonio, despota saraceno che viveva nel castello di Monte Pallano, di cui oggi non si è trovata nessuna traccia se non nei toponimi. I resti del Santo e dei suoi figli furono trovati diversi secoli dopo grazie a un sogno premonitore e in quel luogo fu edificata la chiesa che porta il suo nome. In un'altra versione si dice che Pallonio, da qui, forse, il nome Pallano, avesse imprigionato i cristiani all’interno dei megaliti affinché abiurassero il loro credo, e quelli che non lo fecero furono trucidati.

Queste leggende nacquero in seguito alle scorrerie dei mori che terrorizzavano la costa adriatica e intorno alla prima metà dell’anno Mille, questa chiesa come le altre tre  dedicate al protomartire furono profanate, saccheggiate e distrutte dai saraceni, come in una sorta di invisibile e comune destino che associò questi luoghi di culto.

Santo Stefano in Lucania risorse molto lentamente e faticosamente, Santo Stefano ad rivum maris, invece ebbe un più rapida ripresa ma fu profanato per ben tre volte e  quando nel 1566 Pialy Pascià, mise a ferro e fuoco tutta la riviera adriatica, da Pescara a Termoli, distrusse definitivamente questo luogo sacro, nato su edifici romani preesistenti Egli, dopo aver preso prigionieri i monaci, li sevizio e impiccò sui ruderi della chiesa;  così si compì il tragico destino  della potente abbazia di Santo Stefano ad rivum maris.      

  Sempre durante l’Evo medio si svilupparono molti miti intorno a questa costruzione atipica, che venne chiamata anche con l’appellativo di “ Mura del Diavolo” , perché in alcune leggende si sosteneva che nelle viscere del monte vi fossero seppelliti ingenti tesori, tutti custoditi da demoni, imprigionati in quei luoghi da malefici; questa credenza popolare ricorda quella degli indiani d’America che costruivano le loro “ Ruote della Medicina”, una sorta di cerchi magici che si dipanavano a raggiera lungo i pendii delle alture, al cui interno vi erano rinchiusi entità malvagie. Il tesoro più cospicuo è composto da una gallina tutta d’oro e dai suoi pulcini, che razzolano nei vari cunicoli di Pallano.

Questa leggenda avvalorerebbe la tesi che queste mura megalitiche sarebbero in realtà osservatori astronomici orientati verso le Pleiadi in quanto, esse, erano conosciute dai nostri avi dediti all’agricoltura,  come le “Gallinelle”con le quali si misurava il tempo, così, quando esse sorgevano su Montepallano all’alba, erano circa le quattro di mattina, quando erano visibile sul far della sera erano foriere di pioggia. I francesi chiamano la gallina Alcione e,le sorelle, i pulcini.

Secondo alcune leggende queste mura megalitiche sono state costruite dalle fate; infatti, in molte tradizioni, queste costruzioni sono conosciute come “pietra delle fate”.



Di

Nicoletta  Camilla Travaglini

Fonti:

A.A.V.V., L’enciclopedia dei misteri, Arnaldo Mondadori Editori S.p.A. Milano  1993.

CATTABIANI, Alfredo, Planetario, Simbolo, miti e misteri di astri, pianeti e costellazioni, Arnaldo Mondadori Editori S.p.A. Milano  Marzo 2003.

CHEVALIER, Jean; GHEERBRANDT Alain; Dizionario dei Simboli, Biblioteca Universale Rizzoli, quarta edizione, luglio 2001.

GARDNER, Laurence: “ Il regno dei signori degli anelli mito e magia del Santo Graal” 2001 Newton & Compton editori s.r.l.

MERCATANTE, Antony S., Dizionario Universale dei miti e delle leggende, Newton & Compton Editori S.r.L, Roma 2001.

PANSA, Giovanni, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, Arnaldo Forni Editore Sulmona 1924.

PANSA, Giovanni, S.Domenico di Cocullo e il culto dei Serpari della Marsica, Adelmo Polla Editore, Dicembre 1992.

TRAVAGLINI, Nicoletta in  Mystero la Rivista del Possibile anno II n. 16 ed. Mondo Ignoto srl. Roma.

TRAVAGLINI, Nicoletta, La Magna Mater, in Graal n. 7 Gennaio/Febbraio 2004.

PERILLI, Vinicio, PERILLI, Enrico Da Freud a Jung a Hillman  edizione Samizar 2003

mercoledì 16 maggio 2012

La scienza nascosta

È appena uscito il libro del dottor Roberto Volterri…



Oltre all’onnipresente e genialissimo Nikola Tesla, in questo libro  troverete qualche altro “spirito irriverente” – irriverente verso la   Conoscenza consolidata, universalmente accettata, accademica. Certamente è considerato  “irriverente” pensare che la Grande Piramide di Giza, anziché rappresentare – almeno per l’archeologia di stretta    osservanza – un gigantesco monumento che dovrebbe  ricordare le gesta di Cheope, di Chefren o di chissà chi, fosse in realtà una  mastodontica ”Pila a combustibile” Eppure un misconosciuto agronomo del nostro imprevedibile Bel Paese così ipotizza…E non è da considerarsi “scienziato pazzo” – nella più benevola accezione del termine! – chi ipotizza che con le “sottilissime     energie” la nostra mente sarebbe in grado di produrre, i misteriosi “crop circles”?  Ma l’universo delle “energie sottili” è vastissimo, quasi infinito. Così, nel libro incontrerete anche il dottor Reichenbach e il suo “OD” e il dottor Blondot per esaminare da vicino i suoi (molto) evanescenti “Raggi N”. Ma alcune scoperte scientifiche vanno nascoste e ostacolate. Su questa linea si inserisce la vicenda delle geniali e stranissime   teorie di quell’altro “scienziato pazzo” – il governo USA così lo  definì per… toglierselo poco elegantemente di torno – Wilhelm Reich con le sue “Camere Orgoniche” e i suoi strani “Cloud busters” in grado di agire sul tempo atmosferico!Nel libro si parlerà di laboratori dove altri “scienziati pazzi” studiano  la possibilità di vedere senza l’uso degli occhi, di generare   energie di incommensurabile potenza partendo…dal “nulla” e qualche altro divertente ed istruttivo girovagare tra i misteri della medicina antica, dell’esoterismo “diabolico”, dell’astrologia un po’ più “scientifica” e di  qualche criptico messaggio celato in un indecrittabile “quadrato magico”.

lunedì 14 maggio 2012

IL SEPRIO, I LONGOBARDI, IL MEDIOEVO


tratto da L'indipenza del 10 gennaio 2012

 
di REDAZIONE

Questo libro ripercorre la storia dell’antico Comitatus – prima ancora Iudiciaria – del Seprio nel Medioevo, quando quest’area, oggi appartenente alla Provincia di Varese, rivestiva un ruolo politico, strategico, militare ed economico-commerciale di primaria importanza.
I saggi qui raccolti forniscono un quadro completo sulle vicende del Seprio e del suo centro eponimo, Castrum Sibrium, oggi parco archeologico ma un tempo fortezza-cardine del sistema difensivo subalpino, distrutta nel 1287 da Ottone Visconti e mai più riedificata. Protagonista è anche la cittadina di Morazzone, che nell’aprile 2010 ha ospitato il convegno di cui questo volume rappresenta gli Atti: oltre a uno studio delle sue vicende storiche, è infatti presentato per la prima volta il resoconto dettagliato sugli scavi svolti nella chiesetta della Maddalena.
Completa il testo una disamina del Sistema museale archeologico della Provincia di Varese, fondamentale in vista dell’ormai prossima entrata di Castelseprio e Torba – come parte integrante del progetto Italia Langobardorum, L’Italia dei Longobardi – nella World Heritage List dell’Unesco.
Elena Percivaldi, l’autrice, è nata a Milano e vive a Monza. Laureata in Lettere Moderne – Storia, medievale, sposata, due bimbi, sono medievista, scrittrice e giornalista, critico d’arte e musicale.
All’attività di saggista, storico e critico affianca la curatela di mostre, la conduzione di programmi radio, la partecipazione in trasmissioni tv e radio a tema e a conferenze, convegni e seminari di studio in tutta Italia.

TITOLO: . Longobardi nella Lombardia settentrionale. Autore Libro: PERCIVALDI E. (a c.), Collana GLI ARCHI, illustrato, pagine 128, editore IL CERCHIO

domenica 13 maggio 2012

LE NOTTI DI SAMHAIN

Un Viaggio nelle Tradizioni Popolari alla ricerca di antichi Culti Pagani

di Andrea Romanazzi

Ancora una volta, come ogni anno, ci stiamo apprestando ad esser bombardati da pubblicità, magazine, network che parlano di Halloween, il "carnevale" novembrino vera e propria festa del consumistico mondo occidentale. Per molti la ricorrenza è estranea alla nostra cultura italiana, un chiaro esempio dell’effetto della globalizzazione e dell’assorbimento di usi e costumi del mondo anglosassone. In realtà, celate da maschere e vetrine scintillanti ecco trasparire antichi ricordi di tradizioni mai del tutto scomparse e ancora insite nel folklore popolare che contraddistingue la nostra nazione.
Sarà così seguendo gli indizi nascosti nelle pieghe del tempo che arriveremo ad un culto molto antico, il culto della Dea Madre, regina di questa mistica notte ove ancora oggi il velo della reminescenza è così leggero da permetterci di guardar attraverso.
Secondo il Dizionario McBeain di Lingua Gaelica Samhain (pronunciato "sow-in"), forse la più importante tra le festività celtiche, deriverebbe da "samhuinn" e significherebbe "summer’s End", la fine dell’estate e l’inizio della stagione invernale. In realtà i festeggiamenti non duravano una sola giornata ma iniziavano una settimana prima e si concludevano una settimana dopo, così è molto più probabile che il giorno più importante dei festeggiamenti non fosse il primo del mese di Novembre, bensì l’11, data coincidente con quella che oggi viene definita estate di San Martino. Successivamente, nei paesi di origine anglosassone, Samhain fu trasformata in All Hallow’Eve, ove "Eve" sta per "vigilia" o ancora Halloween.
Questa data coincideva con l’inizio dell’anno celtico, il momento in cui la natura inizia il suo riposo e il primitivo, spaurito dalla morte della propria "mater", già preparava la sua rinascita. Da qui il collegamento di Samhain come festa dei morti, ma in realtà essa non è una festività legata ai defunti, esattamente il contrario, è legata alla vita, alla grande dea che muore per poter rinascere.
Ai primordi infatti la divinità è immaginata come la sovrana dei boschi e della natura selvaggia, essa da sostentamento agli uomini ma ne può causare anche la morte, successivamente il passaggio dal nomadismo all’agricoltura impone al selvaggio un più attento esame delle stagioni e dei cicli naturali, egli si accorge che la terra non è sempre fertile, la dea, resasi immanente nei campi, nelle piante di grano e di orzo muore per poter rinascere nuovamente e così assicurare, con i suoi eterni cicli, la novella vita. Il concetto di morte e resurrezione ha così da sempre permeato le credenze e i miti degli uomini, nel mondo greco ad esempio essa è ben descritta dalla storia di Demetra e Persefone, la leggenda narra che un giorno la bella Presefone, figlia di Demetra, mentre raccoglieva dei fiori con delle amiche, si allontanò nel bosco e così Ade, la divinità dell’oltretomba, da tempo perdutamente innamorato della fanciulla, decise di rapirla con il beneplacito di Zeus. La Dea Madre accortasi della scomparsa della figlia iniziò a cercarla ma, vedendo vani i suoi tentativi, decise che fin quando non le sarebbe stata restituita la terra non avrebbe prodotto più i suoi frutti. Zeus ordinò così ad Ade di lasciar libera la fanciulla ma il dio, con un sotterfugio, costrinse la stessa a ritornare ogni sei mesi nel suo regno. Demetra allora infuriata decise che nel periodo in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, sul mondo sarebbe calato l’inverno e la terra non avrebbe prodotto i suoi magnifici frutti, una metaforica morte in attesa del risveglio. E’ in questa ottica che la festa di Halloween assume un nuovo significato, esso diventa il giorno in cui il velo che separa il mondo dei vivi da quello del soprannaturale si fa molto sottile, tanto da poter facilmente trapassarlo, nasce così l’idea che le anime dei morti proprio in questo giorno riescon più facilmente a raggiungere e far visita ai loro cari ancora in vita. Da questa credenza nasce l’usanza di lasciare frutti o latte sugli usci delle porte, in modo che gli spiriti, durante le loro visite potessero ristorarsi o ancora accendere torce e fiaccole per segnalare il cammino e agevolare loro il ritorno.
Con l’avvento del Cristianesimo, la Chiesa cercò di appropriarsi della festività troppo radicata nella cultura popolare per esser cancellata e così il 1° Novembre diventava la festa di Ognissanti, le figure fatate e gli spiriti della tradizione celtica, a loro volta immagine di un oltremodo di morte e rigenerazione, furono demonizzati, le stesse donne il cui ruolo nei rituali di fertilità era fondamentale furono trasformate in streghe e i falò di "gioia" tradotti in roghi. Anche le lanterne e le luci giuda subirono una ugual sorte, quelle che all’inizio avevano proprio il compito di indicare ai propri defunti la "via di casa" divennero "lanterne scaccia streghe" con un uso completamente differente.


LA ZUCCA COME SIMBOLO DELLA DEA MADRE

La tradizione vuole che solo verso il 1700 iniziò a sorgere l’usanza di intagliare strani e spaventosi volti nelle rape e di inserire nel loro interno delle candele illuminate proprio per far allontanare gli spiriti maligni, nel 1845 però, una spaventosa carestia in Irlanda obbligò moltissime persone a immigrare in America portando con loro anche queste tradizioni. La difficoltà di reperire rape nel nuovo continente fece si che il tubero fosse sostituito dalle molto più diffuse zucche gialle che ancor oggi sono uno dei simboli più ricorrenti di Samhain. Se così ci racconta la storia non possiamo far a meno di soffermarci sulla scelta del frutto-simbolo della festa, trovando molte altre antiche tradizioni che riportano alla zucca. Essa è infatti da sempre legata a rituali di morte e rigenerazione che contraddistinguono il culto della dea, infatti il fiore, chiamato giglio, era legato di solito ai morti, il suo colore giallo pallido ricordava appunto il colore delle ossa dei defunti, mentre il frutto, appunto la zucca, era associato alla procreazione e alla fertilità.
Se così immaginiamo che la lanterna di Halloween abbia origini moderne basta sfogliare il Corpus Hippocraticum del 400-300 a.C. per leggere che


"…se la donna ha la stanguria tagliare la testa e il fondo di una zucca, metterci sotto del carbone, gettare sul fuoco della mierra triturata, la donna si sieda sulla zucca e faccia entrare quanto più possibile i suoi organi genitali, affinché le parti genitali ricevano più vapore possibile…"


Ai nostri occhi la descrizione sempre perfettamente coincidere con la lanterna cacciastreghe simbolo della festività. La zucca è così lo strumento per assicurare la procreazione, essa è il priapos primordiale, l’elemento ingravidatore che nasce dalla stessa terra e assicura, nel periodo più oscuro e buio la vita. Del resto la zucca era anche associata al dio Priapo, divinità di origine greca poi successivamente "adottata" dai romani. Il dio, spesso rappresentato con un volto umano e le orecchie di una capra, tiene in mano un bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro. Sua caratteristica più evidente è l’enorme o addirittura il doppio fallo, simbolo proprio della sua natura feconda, aspetto per il quale era anche rappresentato da un pilastrino verticale con sopra scolpita la sua testa e il suo fallo eretto, simbolo appunto della fecondazione.
Ebbene il dio era anche strettamente collegato alla zucca come possiamo leggere dai Carme Priapei


"…io sono invocato come custode ligneio delle zucche…"


E ancora il ricordo della zucca come frutto legato ai rituali di fertilità lo ritroviamo in molti autori latini che la associano al parto e alla gravidanza


" …intortus cucumis praegnansque cucurbita serpit… "


o ancora in Propezio che scrive


" ...caerules cucumis tumidoque cucurbita ventre... "


Così la zucca è simbolo fallico ma al tempo stesso essa stessa "madre", portando nel suo ventre fruttifero i semi, come la donna e la dea essa assicura la vita per la sua specie e il sostentamento per gli uomini.


La Processione dei Morti dal mondo celtico alle tradizioni Italiane

Altra interessante tradizione è legata al famoso Trick or Treak, la mascherata di bambini che attraversano le vie della città cercando dolciumi e regalini. In realtà per scoprire cosa si cela dietro questa usanza dovremo attraversare i sentieri del folklore italiano alla ricerca delle "processioni dei morti" fino ad imbatterci nel mitico Artù, espressione dell’Ankou bretone, ma anche e soprattutto della "morte birichina" delle tradizioni popolari italiane.

L’Ankou e il culto dei morti in Bretagna

Dal XI secolo moltissimi sono i racconti popolari e i testi letterari in Europa che parlano dell’apparizione dell’"esercito furioso", nome con il quale è conosciuto, nell’area centro europea, una strana processione di misteriose creature fantastiche, poi evolutesi nel loro aspetto, in streghe e stregoni pronti al viaggio verso il sabba.
Questa schiera di esseri, composta indifferentemente da uomini e donne, spesso a cavallo di animali in qualche modo legati ai culti totemici pagani, come capre, cavalli o strani rapaci, era di solito guidata da un essere mitico, una antica divinità pagana autoctona come ad esempio Wotan o Odino dell’area nordica o da strane creature, spesso dalle fattezze femminili, che trasportavano, non di rado, un carro rituale.
Una interessante area da esaminare, proprio perché ancora oggi è visibile nel folklore locale lo strano rapporto tra viventi e defunti, è la Bretagna, luogo ove alla religione ufficiale si mescolano vorticosamente antiche tradizioni pagane mai cancellate.
Un esempio ancora ben visibile nelle leggende e nei racconti popolari, è ad esempio quello dell’Ankou. Si tratta di una figura locale raffigurata come la "morte", sotto forma di scheletro con la falce che però non è semplice espressione della stessa, in realtà si tratta solo di un suo messaggero, una strana figura che giunge ad avvisare le persone, e spesso a consigliare di portare subito a termine faccende personali in sospeso prima del loro trapasso.
Questo però non è l’unico esempio, altra interessante informazione sul mondo bretone dei trapassati può esser desunta, poi, dal racconto di Procopio di Cesarea nella sua Guerra Gotica. Parlando della Brittia ci racconta che "…giunto a questo punto della storia mi sembra inevitabile raccontare un fatto che ha piuttosto attinenza con la superstizione…". Ecco così che lo storico narra delle strane abitudini di alcuni abitanti di borghi di pescatori situati dall’altra parte del mare, in quell’area che oggi è appunto nota come la Bretagna. Alcuni di questi individui avevano un compito strano, quello di traghettare le anime dei morti nella "…A tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta e odono una voce soffocata che li chiama all’opera. Senza esitazione saltano giù dal letto e si recano sulla riva del mare…sulla riva trovano barche speciali, vuote. Ma quando vi salgono sopra le barche affondano fin quasi al pelo dell’acqua come se fossero cariche…dopo aver lasciato i passeggeri ripartono con le navi leggere…".
Se questo racconto sembra incredibile basta giungere ancora oggi in Bretagna per ritrovare, arenate nelle sacche di sabbia dovute alla marea, vecchie barche oramai in disuso. Nessuno però si azzarda a spostarle o portarle via, ancora oggi queste sono le barche che traghettano i morti.
E’ questa l’espressione della comunicazione locale con un aldilà mai visto come luogo tenebroso come dimostrerebbero i numerosi cimiteri mai isolati dai luoghi abitati.
Del resto è già dai tempi di Claudiano, V secolo, che l’area bretone era nota come il luogo dei morti, era qui, infatti, che si identificava il luogo ove Ulisse aveva incontrato i morti e ove "i contadini vedono vagare le ombre pallide dei morti", una affermazione che ritroveremo in seguito proprio legata al territorio italiano. Ma questo non basta, oramai è ben dimostrato come alcuni viaggi compiuti da cavalieri delle saghe bretoni, come Parsifal o Lancillotto, in terre desolate o verso castelli misteriosi altro non sono che viaggi nel mondo dei defunti come poi testimonierebbero toponimi come Limors o il Schastel le mort.
Lo stesso Artù, in varie raffigurazioni, altro non sarebbe che il traghettatore delle processioni dei morti, come nel mosaico pavimentale di Otranto, ove il sovrano è raffigurato con uno scettro in mano in groppa ad un caprone, seguito da una schiera di uomini.

La Processione dei morti nella tradizione italiana

Anche il folklore italico però, come si potrebbe pensare, non è estraneo al mondo dei trapassati, come mi sono occupato in un altro mio lavoro proprio sul culto dei morti.
La tradizione della Processione dei defunti e la visione degli stessi da parte della gente contadina non è però patrimonio esclusivamente bretone, anche se ancora oggi in quelle terre tale tradizione resiste fortemente, ma in tutta Europa sono fortemente diffusi racconti popolari di gente che periodicamente assisteva a tali apparizioni.
In realtà questo "spettacolo" non era riservato a tutti, ma solo a persone dai particolari poteri o nati in ben precisi giorni.
Così, ad esempio, in Friuli, il Ginzburg parla dei Beneandanti, uomini dai particolari "poteri", nati con la "camicia", un parte della placenta che, proprio per questa loro "stranezza" saranno poi gli attori, in particolari periodi dell’anno, di una lotta contro le forze maligne per assicurare fertilità ai campi.
Sono loro che possono aver rapporto con i defunti dato che "chi vede i morti, cioè va con loro, è un Benandante".
Moltissimi poi sono i racconti popolari di incredibili incontri nelle campagne con schiere di defunti. Sempre in Friuli interessante è l’avventura capitata ad un povero monaco nel 1091. Mentre questi camminava lungo un sentiero di campagna viene attratto da strani lamenti e così scorge una processione tra la quale riconosce alcuni uomini suoi conoscenti morti da poco tempo. Se però potremmo pensare che simili visioni sono relegate ad un lontano passato ecco presenti numerose testimonianze di donne lucane che durante il secolo scorso si imbatterono in quella che è la "messa dei morti". Così lungo le buie vie che conducono le contadine del sud nei campi da lavoro, capita spesso di vedere una chiesa aperta e illuminata e all’interno anime dannate che allontanano subito le viandante o le comunicano un messaggio per il mondo dei vivi.
"…una volta un forese [abitante del paese di Forenza, in Lucania N.d.A] commise con il suo padrone di andar ad attingere acqua ad una fontana lontano dal paese…il forese si mise in cammino ma giunto nei pressi della fontana di Tromacchio vide quattro persone che portavano a spalla una bara…decise di andare alla fontana di spando ma anche qui il cammino era sbarrato dai quattro…allora gli venne incontro un sacerdote morto da qualche tempo che lo prese per mano e gli disse "queste scommesse non le devi fare"…"
La strana fila tanto ricorda quelle raffigurazioni rinascimentali, chiamate "Danze Macabre", che iniziano ad apparire attorno al 1400, interpretate successivamente con il motivo della morte "livellatrice". Sicuramente queste attingerebbero da ben più antichi ricordi, come testimonierebbe la primitiva guida delle fila.
Sempre nella regione lucana, fortemente legata al mondo contadino, pullulano storie di donne che, mentre raccoglievano l’acqua, nel riflesso del catino, scorgevano strane processioni tra le quali individuavano alcuni loro defunti, tradizione presente anche nel Sud Italia. Anche in questo caso le "visioni" sono accomunate da un particolare: avvengono solo in particolari momenti della vita dell’individuo o in particolari periodi dell’anno, spesso coincidenti con festività agrarie, come ad esempio la Festa di Onnissanti o la notte di San Giovanni.

Dolcetto o Scherzetto? I Prolegomeni del cibo del mondo Ctonio
Allo stesso modo si innesta la tradizione del cibo dei defunti, trasformato poi nelle leccornie e dolciumi per i giovani bambini.
Da sempre l’uomo ha avuto timore del ritorno del defunto, l’untore che può portare morte tra i vivi. Secondo così il principio della magia simpatica, ponendo del cibo nelle tombe si sarebbe placata la fame del trapassato impedendogli così di ritornare sul mondo terreno. Che il cibo reale fosse davvero utilizzato nei sepolcri è dimostrato da diversi testi come il "De Masticazione Mortuorum in Tumulis" di Michel Raufft o la "Dissertatio Historico-Philosophica de Masticatione Mortorum" di Philip Rohr. Qui si descriveva come il morto, le cui scorte alimentari erano insufficienti, iniziava a nutrirsi masticando il sudario e le sue stesse carni. Anche il cannibalismo diventa un modo per assicurare la seconda morte al defunto, infatti lo stomaco diventa suo definitivo sepolcro e sarebbe da questa interpretazione che deriverebbero diverse espressioni popolari Italiane come "bere i morti" o "mangiare i morti"(E. De Martino, 1959) e l’usanza del banchetto funebre. Ecco così che nel giorno dei morti, quasi riproponendo il tema della necrofagia, in molti paesi della Penisola vengono preparati strani dolcetti a forma di ossa chiamati appunto "ossa dei morti"(A. Romanazzi, 2003) che vengono poi regalati ai fanciulli.
Cibo rituale sono le fave e i ceci, da sempre presenti nei convivi funebri e nelle "merende" che si tenevano tra i parenti del defunto immediatamente dopo il funerale. La motivazione potrebbe essere che la fava è stata da sempre considerata come il mezzo per comunicare con l’Aldilà, esse erano presenti nelle cerimonie funebri nell’antico Egitto ed in Grecia mentre a Roma erano il simbolo della resurrezione dalla morte.
Cicerone ci informa dell’uso ateniese di spargere granaglie sulle tombe, e legumi cotti in enormi pentole venivano offerti ad Hermes Ctonio. Ancora fino al secolo scorso in vari paesi grandi bigonci erano posti agli angoli delle strade in modo che le anime vaganti, ma anche i poveri, potessero rifocillarsi.
Il seme, poi, nasconde anche un’altra motivazione, esso è alimento molto gradito ai defunti perché, secondo l’immaginario popolare, deriverebbe proprio da quello stesso mondo conio al quale il trapassato apparterrebbe. Non solo però, il seme è simbolo del continuo ciclo di morte e rinascita, esso infatti viene mietuto proprio per poter ricrescere e non dobbiamo dimenticare che etimologicamente la dea Cerere sembrerebbe provenire proprio da "Madre del grano" identificata spesso con l’ultimo covone della raccolta e destinato a rituali di fertilità, infatti era riservato alle vacche gravide proprio per assicurare loro fertilità o alle stesse donne che si dovevano garantire un parto felice.
Il seme diventa così anche simbolo della rinascita, una novella speranza per il defunto, dunque.
Non dobbiamo poi dimenticarci della tradizione del melograno come altro alimento importante, esso è un frutto di speranza, ricco di semi e da sempre albero di fertilità.
Così, ad esempio, è sulla tomba di Osiride che germoglia un melograno dopo che esso viene ricomposto da Iside, o ancora raffigurazioni del frutto le troviamo sulle pareti tombali di varie tombe etrusche o romane.

Ecco così che le numerose tradizioni legate alle schiere dei morti propongono una nuova ed interessante interpretazione delle schiere di ragazzini, mascherati da esseri demoniaci o semplicemente da strane creature animalesche, che girano per le città al grido di "trick or treak". Guidati da un mitico "traghettatore", conosciuto ad esempio nel mondo celtico come "cenmad y meirew", ma la cui figura come abbiamo visto non è estranea al patrimonio folklorico italiano, questi bambini, vestiti a maschera come i vetusti sciamani altro non sarebbero che i defunti che tornano tra i vivi e chiedendo loro in offerta cibo rituale destinato in cambio di tranquillità: solo una volta sazio il defunto potrà ritrovare la pace dell’aldilà.

giovedì 10 maggio 2012

IL GRANDE LIBRO DEI MISTERI




Dalla mitica Atlantide al calendario Maya: i più sconvolgenti e dibattuti enigmi della storia umana in attesa di una soddisfacente soluzione.


I megaliti di Stonehenge, la Piramide di Giza, le linee di Nazca: che cosa volevano dirci gli antichi?

Rennes le Chateau e la Cappella Rosslyn: i Templari e il Santo Graal.

Da Tunguska agli odierni avvistamenti Ufo: misteriosi segnali dal cielo.

Fantasmi, telepatia, medianità ed esperienze di pre morte: la scienza si interroga sul paranormale.

Un viaggio lungo un sentiero nel quale si muovono non soltanto le teorie di confine ma anche le ipotesi scientifiche, in un serrato confronto dal quale si auspica possano un giorno nascere risposte certe. Un libro affascinante che permette al lettore di immergersi in una realtà parallela ma non per questo del tutto irreale, alla scoperta di luoghi, fatti, personaggi e storie spesso difficilmente reperibili nella letteratura del mistero.

IL GRANDE LIBRO DEI MISTERI
Roberto La Paglia
Prefazione di Paola Giovetti
Edizioni Xenia

martedì 8 maggio 2012

Il Cavaliere Vermiglio

di Vito Foschi

La scelta del colore vermiglio per le armi di Perceval sembra non causale, data la ricchezza simbolica del colore rosso “Ogni elemento ha un suo colore: la terra è azzurra, l’acqua è verde, l’aria gialla, il fuoco rosso; poi vi sono altri colori casuali e commisti, appena riconoscibili. Ma tu bada con cura al colore elementare che predomina, e giudica secondo quello” Paracelso Introduzione In questo articolo ci proponiamo di offrire un’interpretazione simbolica di uno dei primi episodi del Perceval di Chrétien de Troyes, in cui il giovane eroe uccide il Cavaliere Vermiglio e ne prende le armi assumendone il nome. Il racconto Perceval abbandonata la Guasta Foresta dove ha vissuto la sua infanzia si dirige verso la corte di Re Artù con l’intento di diventare cavaliere. Arrivato alla corte di Re Artù ne vede venire fuori il Cavaliere Vermiglio con in mano una coppa d’oro rubata al re. Il cavaliere cerca di parlare a Perceval, ma questi inebriato dell’idea di diventare cavaliere non lo ascolta e procede nel castello presentandosi nella sala del banchetto in sella al cavallo. Non ha ancora imparato le regole minime del vivere civile. Qui chiede brutalmente di essere fatto cavaliere e Keu, il siniscalco, lo apostrofa dicendogli che se vuole le armi le andasse a chiedere al Cavaliere Vermiglio. Lo sciocco mette in atto la folle idea e si reca dal cavaliere con cui ha una colluttazione, non un vero e proprio duello, e lo ammazza con un giavellotto. Ne indossa le armi e per il resto del racconto di Chrétien, sarà il Cavaliere Vermiglio. La regalità Il colore Vermiglio non è casuale, il rosso o meglio il colore porpora, è sempre stato legato alla dignità regale e ne è simbolo. Non a caso i cardinali indossano una tunica di colore rosso, che non solo ricorda il sangue dei martiri della chiesa, ma anche la loro regalità, tant’è vero che vengono chiamati principi della chiesa. In passato lo stesso Papa indossava abiti di colore rosso, poi abbandonati per il bianco a cominciare da Papa San Pio V, che provenendo dall’ordine domenicano volle indossare la bianca divisa dell’ordine anche da papa, uso poi conservato dai suoi successori. Il Cavaliere Vermiglio che si allontana dalla corte di Re Artù ha in mano un coppa d’oro altro elemento che rimanda alla regalità: l’oro è altro simbolo di re. La coppa ha un suo simbolismo politico perché era uso nell’antica Grecia nel rituale del simposio bere per sigillare gli accordi, usanza presente anche nelle popolazioni germaniche che invasero l’Impero Romano. Il cavaliere ha rubato la coppa al re rovesciandone il contenuto addosso alla regina rivendicando delle terre e sfidando il re a difendere il suo diritto. Il Cavaliere Vermiglio ha la figura dell’usurpatore e rivendica una regalità sfidando Re Artù. Perceval lo sfida e lo uccide assumendone l’identità. Perceval non conosce le regole della cavalleria e ammazza il Cavaliere Vermiglio con un giavellotto in maniera non proprio canonica per un cavaliere. È ancora il ragazzo impetuoso totalmente ignorante delle regole comunitarie. Il fatto di riuscire comunque ad ammazzare il cavaliere in un certo qual modo ne individua una sorta di predestinazione a quel ruolo. Perceval vendica l’affronto fatto al re e indossa le armi dell’usurpatore legittimamente: ha ancora molte cose da imparare, ma da questo punto del racconto in poi sarà l’unico Cavaliere Vermiglio. Perceval tramite un cavaliere della corte restituisce la coppa d’oro al re, ovvero, simbolicamente, restituisce la regalità ad Artù ripristinando l’ordine delle cose. Proseguendo il suo itinerare incontra un gentiluomo che indossa una “veste porporina” e che “per contegno teneva in mano una bacchetta” e con accanto due valletti. Dalla descrizione capiamo che ci troviamo di fronte ad una persona di alto lignaggio. La bacchetta sta a posto dello scettro, altro simbolo regale che qui troviamo associata alla veste porpora ad ulteriore testimonianza del significato regale del colore rosso. Dal gentiluomo, Gorneman di Gorhaut, Perceval riceve gli insegnamenti della cavalleria e della cortesia ed infine viene investito cavaliere con la cerimonia dello sperone. Il simbolismo del colore rosso Il rosso è il colore per eccellenza e si oppone sia al bianco che al nero che sono considerati nella loro accezione di luce e tenebra e con cui ha formato una triade simbolica nel medioevo. Il simbolo del colore rosso come tutti i simboli ha valenze sia positive che negative. Da un lato il rosso è il colore dell’amore, sia terreno che spirituale, basti pensare al Sacro Cuore di Gesù, della passione, dell’attività, delle emozioni, del sentimento, dell’espansività, della vivacità, del sangue inteso come vita, dall’altro è il colore dell’ira, della violenza, dell’aggressività, dello spargimento di sangue. Nelle avventure di Perceval si hanno tutti questi aspetti, però con un preciso ordine che va dal negativo al positivo. All’inizio il giovane è impetuoso, coraggioso non conosce le regole né della cavalleria né della cortesia o comunque del vivere civile e quindi possiede i caratteri negativi del colore rosso. Uccide il Cavaliere Vermiglio in modo, come già detto, non ortodossa. Quando, invece, ha appreso le regole della cavalleria da Gorneman i suoi duelli saranno meno cruenti, e spesso risparmierà la vita degli sconfitti e soprattutto i duelli avranno lo scopo di sanare le ingiustizie. Lo spargimento di sangue si è trasformato nel sangue della vita. Il rosso è il colore dell’amore e Perceval dimostra di possederlo sia nell’amore filiale che lo lega alla madre, nonostante l’avventatezza della sua partenza quando vedendola cadere non la soccorre e va via, sia come amante appassionato della bella Biancofiore che libera dai suoi nemici riportando la pace nel regno. Anche in questa occasione si evidenzia la funzione di ripristinare l’ordine, tipica dell’eroe. Verso la fine del racconto Perceval incontra lo zio Eremita che lo inizia alla cavalleria celeste e qui l’eroe subisce un’ulteriore evoluzione e l’amore terreno che ha provato per Biancofiore si sublima nell’Amore celeste per Dio. Anche qui il simbolismo del colore rosso subisce un’evoluzione dagli aspetti più terreni a quelli più spirituali: dal rosso dell’amore terreno al rosso dell’Amore divino. La guerra Altri significati che assume il colore rosso sono quelli legati al fatto di essere il colore del fuoco e quindi può rappresentare il fuoco, il calore, l’energia e la luce. E visto che durante la luce del giorno si svolge l’azione umana va a rappresentare anche l’azione in genere. Il bianco è il colore che rappresenta per eccellenza la luce, ma non va a simboleggiare l’azione, perché legato all’idea della luce naturale del sole non controllata dall’uomo, al contrario della luce del fuoco che quindi meglio rappresenta la volontà dell’uomo ad agire. È curioso notare che nell’immagine del Sacro Cuore di Gesù ritroviamo i simboli dei raggi per suggerire la luce e le fiamme per suggerire il calore, significati del colore rosso con cui è colorato il cuore. Il colore rosso simboleggia l’azione dell’attacco e della conquista ed è complementare al verde che rappresenta il colore della conservazione e della difesa. Perceval oltre ad avere funzione regale ha anche una funzione di conquista o meglio di riconquistare uno stato edenico per il regno di Artù. L’affronto del Cavaliere Vermiglio originario nei confronti di re Artù va inteso nel senso di un indebolimento dell’autorità, ben diversa dal potere, del re, situazione che Perceval deve sanare. Il dio Marte La simbologia del rosso nel suo aspetto negativo, come già detto, è legata alla violenza e allo spargimento di sangue legandola al mito di Marte, il dio della guerra. La scelta di identificare il pianeta Marte con l’omonimo dio è dettato dal colore prevalente del pianeta che è il rosso dovuto agli ossidi di ferro prevalenti sulla sua superficie. Un altro motivo che lega il rosso alla guerra è il rosso fuoco del metallo nella fornace. Un simbolo del dio Marte è il giavellotto, arma usata da Perceval nella sua infanzia nella Guasta Foresta per cacciare e poi utilizzata per uccidere il Cavaliere Vermiglio di cui assume nome e funzioni. In questa ottica Perceval può essere considerato un eroe solare con le funzioni tipiche dell’eroe di sanare le ingiustizie instaurando una nuova era di pace, come meglio spiegato nel nostro lavoro “Perceval re sacerdote”. Simbolismo alchemico e conclusioni Un breve cenno lo dedichiamo al simbolismo alchemico. Il colore rosso oltre a costituire una delle fasi del processo alchemico, la rubedo, rappresenta lo zolfo, e insieme al colore bianco, che simboleggia il mercurio, forma una coppia di opposti la cui unione viene denominata nozze alchemiche. Perceval, il Cavaliere Vermiglio, si unisce a Biancofiore: rosso e bianco, i due opposti che si uniscono. Il testo di Chrétien de Troyes nella sua apparente linearità, presenta in realtà una ricca e variegata simbologia che svelata apre scenari complessi ed inediti.

domenica 6 maggio 2012

Il simbolismo apocalittico del film 300

di Vito Foschi


Il film 300 è stato tacciato di essere un film violento e “testosteronico”, qualunque cosa voglia dire questo termine; una subitanea interpretazione politica-sociologica l’ha trasformato nel conflitto fra oriente ed occidente, ma al di là degli aspetti più spettacolari, 300 nasconde un simbolismo molto chiaro e se vogliamo anche semplice. Diciamolo subito il film è stato caricato di una simbologia apocalittica piuttosto evidente e sia la battaglia delle Termopili che il fumetto di Miller sono solo un pretesto per parlare dell’eterna lotta del bene e del male, sempre presente. Chi ha visto il film e letto il fumetto si sarà reso conto che esistono solo piccole differenze fra i due tipi di narrazione, ma queste differenze non sembrano casuali. Il disegnatore Miller si è ispirato alla battaglia per farne un’opera di profondo impatto visivo, ma chi ha messo mano al film ci ha aggiunto alcuni particolari per trasformarlo in un’opera simbolica.


Nella scena iniziale lo spartano Delios narra di come il giovane Leonida ammazza un feroce lupo nero dalle dimensioni mostruose e subito dopo paragona il re Serse ad una belva feroce. Il lupo ha significati positivi, come nel caso della Lupa di Roma, ma anche negativi simboleggiando la ferocia e la violenza. Il lupo nero, in particolare, è simbolo del demonio e l’accostamento e il conseguente significato sono chiari.

Lo spartano definisce l’esercito di Serse un esercito di schiavi e ciò a grandi linee è storico, perché l’impero persiano era multinazionale e le varie nazioni gli tributavano truppe che chiaramente non avevano molto interesse ad immolarsi per un re straniero che aveva conquistato i loro territori.

Al di là della storicità della battuta è lapalissiana l’idea dello scontro fra l’esercito dei greci formato da uomini liberi e l’esercito di schiavi di Serse.

La figura di Serse non ha nulla di storico, la sua figura da transessuale con piercing è totalmente inventata, ma è proprio l’ambiguità a risultare interessante. Nel film e nel fumetto Serse si proclama Dio Re e anche questo è totalmente inventato. L’ambiguità è caratteristica dell’anticristo, ed uno dei titoli con cui si presenta è quello di re di questo mondo. Beninteso, re di questo mondo e non Re del Mondo. Essere il re di questo mondo significa essere signore del mondo materiale, mentre Re del Mondo ha il preciso significato di signore della creazione in tutti i suoi aspetti anche non materiali. Gesù è Re del Mondo, perché ne comprende tutti i suoi aspetti, mentre Satana può essere signore solo della materia ed infatti tenta Cristo con regni e ricchezze, non con doni che vanno oltre il dominio della materia. Serse tenta Leonida con l’offerta del governo dell’intera Grecia. Un altro particolare interessante del film è il carro d’oro su cui viaggia Serse decorato con arieti chiaro simbolo di Satana.

Punto centrale del film è il discorso incentrato sulla ragione: “La sola speranza che ha il mondo di giustizia e ragione” grida lo spartano Delios ai suoi compagni.

La scena in cui Efialte, lo spartano deforme, va da Serse a tradire costituisce la summa di tutto il film. Serse dice di sé che lui è buono che può dare tutto, donne e potere, è sufficiente piegarsi al contrario di Leonida che aveva chiesto allo storpio di alzare lo scudo, ovvero aveva chiesto di essere uomo. E' la proposta tipica dell'Anticristo che si presenta come buono e accondiscendente e in cambio vuole solo...l'anima.

Il fanatismo degli spartani che si immolano è paragonabile a quello dei cristiani che si facevano

sbranare dai leoni. Anche la morte di Leonida ha qualcosa di cristiano. La scena finale vede il re spartano trafitto da frecce come S. Sebastiano e a braccia aperte come se fosse in croce. Probabilmente l'autore del film si è ispirato a qualche rappresentazione classica e potrebbe darsi trattarsi di un caso, ma una semplice coincidenza? Alla fine sembra che l'autore abbia considerato gli spartani alla stregua dei martiri cristiani. Ed in un certo qual modo la fede c'entra. I cristiani si immolavano per la fede in Cristo, gli spartani per la loro fede nella libertà e nella ragione. Sono interessanti i continui rimandi alla ragione, che poi è il lascito culturale dei greci a noi occidentali che i cristiani hanno pensato bene di includere nel loro sistema di pensiero. Efialte, il traditore invita Leonida ad essere ragionevole e a sottomettersi a Serse, cosa ovviamente ragionevole visto la sproporzione di forze. Ma è alla stessa ragione che si appella Leonida, ma ad una ragione sorretta dalla fede, una fede che porta a sperare che infine la ragione trionfi nella libertà e nella giustizia.

La fede nella libertà porta gli spartani a morire da uomini liberi che vivere da schiavi. Speranza e fede non ricordano qualcosa?

“.. hanno dato la vita, non solo per Sparta, ma per tutta la Grecia e per la speranza difesa da questa nazione [..]. Quest'oggi noi riscattiamo il mondo dal misticismo e dalla tirannia e lo accompagniamo in un futuro più radioso di quanto si possa immaginare”

martedì 1 maggio 2012

Le spade nella roccia

di Vito Foschi


La spada nella roccia può sembrare solo una bella favola, ma in realtà esistono almeno due spade infisse nella roccia circondate da un alone di mistero. Una di queste si trova in Italia a Monte Siepi presso Siena ed è la spada appartenuta a San Galgano, l’altra si trova in Francia a Rocamadour e sarebbe appartenuta al paladino Orlando.

Il santo nasce a Chiusdino nel 1148 da una famiglia della piccola nobiltà e la sua infanzia è segnata dalla morte del padre. La sua vita è per certi versi simile a quella di San Francesco che dopo una giovinezza dissoluta si converte e vive santamente.

La sua vita è sconvolta da due visioni di San Michele: nella prima il santo lo richiede alla vita militare, mentre nella seconda gli richiede di abbandonare tutto e di recarsi a Monte Siepi a vivere in eremitaggio. L’arcangelo Michele quale generale delle schiere angeliche è stato sempre protettore di eserciti e invocato dai combattenti e per questo Monte Sant’Angelo sul Gargano divenne santuario nazionale dei Longobardi. Le visioni di Galgano sembrano quasi inserirsi in questo solco a giustificare l’attività del cavaliere, classe sociale che nel 1100 stava formando le sue regole e codici tra cui la solenne investitura che nei secoli precedente era una semplice consegna delle armi; non dimenticando che erano gli anni delle crociate e della nascita dell’ordine Templare che presentava una novità assoluta per quell’epoca: il monaco guerriero.

Galgano quando riceve la seconda visione cerca di raccogliere i fondi per costruire una chiesa a Monte Siepi ma senza successo. Un giorno il cavallo si blocca e rifiuta di proseguire il suo percorso ed il cavaliere è costretto a lasciare sciolte le briglie al cavallo che si rimette in cammino e lo conduce al monte indicatogli da San Michele. Qui, Galgano, smonta da cavallo estrae la sua spada e la infigge nella dura roccia per farne una rozza croce su cui pregare. Ed è la stessa che è ancora possibile vedere nei resti della cappella costruita sopra la roccia. Abbandonata la sua vita d’arme inizia su Monte Siepi la sua vita da eremita affrontando secondo la leggenda anche un demone che era venuto a tentarlo ed allontanandosi dal suo eremo solo una volta per recarsi a Roma dal Papa. Muore a 33 anni e viene subito fatto santo ed esiste un documento che riporta gli atti del processo di canonizzazione.

L’altra spada nella roccia la si trova a Rocamadour, suggestivo borgo medievale arroccato su un dirupo nei Pirenei francesi tappa intermedia verso il santuario di Santiago di Compostela in Spagna e a sua volta meta di pellegrinaggi per la sua Vergine Nera. Il paese è costruito su più livelli collegati da lunghe scalinate e conseguentemente è visitabile sola a piedi. Ha origine nell’alto medioevo per opera di alcuni eremiti tra cui secondo la leggenda un certo Amadour, poi fatto santo, da cui poi Rocamadour ovvero roccia (roc) di Amadour. Nel 1100 inizia la venerazione della Madonna Nera a causa di un curioso miracolo: sopra la statua della Madonna esisteva una campana miracolosa d’epoca carolingia che suonava da sola quando nelle vicinanze avveniva un miracolo. Da quel momento il paese diventa meta di pellegrinaggi e si amplia notevolmente. Altra attrattiva di Rocamadour è Durlindana, la spada di Orlando, infissa in una parete rocciosa all’entrata del santuario sulla tomba di San Amadour. Secondo la leggenda, Orlando prima di morire nella famosa battaglia di Roncisvalle, cercò di spezzare la sua spada per non farla cadere in mani musulmane ma non riuscendovi invocò San Michele affinché  gli desse la forza per scagliarla lontano e così avvenne che Durlindana raggiunse Rocamadour infiggendosi nella parete rocciosa. Orlando lanciando la spada avrebbe profetizzato che dove sarebbe caduta la spada lì sarebbe sorta Rocamadour, costituendo il mito fondatore del piccolo borgo francese.

tratto da Il Genio Quotidiano del 14 dicembre 2011