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domenica 8 gennaio 2023

PINOCCHIO, UNA FIABA SENZA TEMPO, INTERVISTA A LUIGI PRUNETI

tratto da L'Opinione del 26 ottobre 2021

di Pierpaola Meledandri

 Il 26 ottobre è l’anniversario della morte di Carlo Collodi, autore di Pinocchio: opera ricca di simboli, archetipi e arcani significati, proposti nella piacevole forma della fiaba. So che è un argomento che ha affrontato a più riprese, vorrei, quindi, che ci parlasse del burattino più famoso del mondo. La prima domanda che le porgo è questa: A cosa è dovuta l’immensa fortuna di Pinocchio?

In effetti, Pinocchio ha avuto una fortuna incredibile, è stato tradotto in 240 lingue e sembra che sia il libro più letto al mondo dopo la Bibbia. Il segreto di questo successo è dovuto a molti fattori. È una fiaba, ma una fiaba particolare, animata non da stereotipi ma da personaggi vivi, da animali e uomini che ricordano a ciascuno figure spesso incontrate nella vita; inoltre il protagonista è un soggetto dinamico che da antimodello, diventa un eroe da imitare. Le sue avventure si configurano, pertanto, come un romanzo di formazione, Il burattino al pari di Renzo Tramaglino, si adegua e comprende ma, a differenza del romanzo di formazione, Pinocchio rimane nella sfera del fantastico.

Le disavventure di Pinocchio sono molteplici, la più clamorosa è la trasformazione in asino che ricorda molto da vicino Le Metamorfosi (L’Asino d’oro), di Apuleio.

Collodi è stato probabilmente ispirato dal capitolo XXXII de L’Asino d’oro di Apuleio, dove Lucius, viene tramutato in asino perché sbaglia ad utilizzare un unguento. Egli, spinto dalla curiositas, si era fatto introdurre dall’amante Fotide, nella casa della sua padrona-strega Panfile.  Pinocchio, si fa convincere, a sua volta, dall’amico Lucignolo a raggiungere il Paese dei Balocchi.

Quali furono le altre fonti o gli autori che ispirarono Collodi?

Sono molte, perché ogni autore trae ispirazione da ciò che ha letto e Collodi leggeva moltissimo. Probabilmente fu ispirato dall’Odissea, dalla Bibbia, dalla Divina Commedia, dalla mitologia dal romanzo picaresco, di cui sono esempi Lazarillo de Tormes e Don Chisciotte della Mancia. Potrei citare poi i Promessi sposi. Ad esempio il passo in cui Pinocchio è convinto dai cattivi compagni a marinare la scuola per andare a vedere il pescecane ricorda il traviamento della Monaca di Monza, mentre il carro che porta i bambini nel Paese dei balocchi rammenta quello dei monatti.

Vi è poi il teatro di cui Carlo Lorenzini era un estimatore, vi sono, infatti, in Pinocchio espressioni che ricordano l’Alfieri e la Francesca da Rimini di Silvio Pellico, Goldoni e Moliere, mentre l’omino di burro canta: “Tutti la notte dormono / E io non dormo mai”, riferimento esplicito alla canzone Te voglio bene assje. Il brano comparve per la prima volta nella festa di Piedigrotta del 1835. Le parole sono di Raffaele Sacco, non si sa chi l’abbia musicata, anche se s’ipotizza che sia stato Donizetti. Voglio infine ricordare che il nome del cane Melampo è ripreso dalla poetessa lucchese Teresa Bandettini (Amarilli Etrusca) che scrisse: “Chi veglia il gregge? Ah che già fu Melampo / terror di lupi e contro i ladri scampo”.

Un’interpretazione che è stata all’opera di Collodi, è addirittura di tipo religioso: Geppetto falegname come Giuseppe e Gesù. La Fatina, Madre salvifica e provvidenziale, la storia del bambino ribelle che lascia la casa paterna un remake della parabola del Figliol prodigo. Troppo azzardata questa lettura?

Secondo me sì, è più che azzardata. Il cardinale Giacomo Biffi, scrisse un bel libro sull’argomento, citando, oltre alla parabola del Figlio prodigo, “l’eterno motivo agostiniano: la scoperta della verità, che non è fuori di noi, ma in noi stessi: in interiore nomine habitat veritas”. Inoltre, quando Pinocchio è impiccato alla Quercia grande, prima di morire, mormora “Oh babbo mio! Se tu fossi qui”. Il punto ricorda Matteo (27, 46): “Padre mio perché mi hai abbandonato”. Infine, la casina nel bosco indica la chiesa e i colori della fatina, il bianco e il turchino, sono quelli della Madonna. Ciò tuttavia non è sufficiente a dare una valenza religiosa a un’opera dove non è presente una chiesa o un sacerdote. Gli unici riferimenti a una religiosità popolare si hanno quando i pescatori, pensando che Geppetto sia affogato, se ne tornano a casa “brontolando sottovoce una preghiera” o quando Pinocchio tirato fuori dall’acqua dopo che era stato gettato in mare, afferma: “Che vergogna fu quella per me! Che Sant’Antonio benedetto non la faccia provare nemmeno a voi!”.

Nella storia di Pinocchio, vi sono molti aspetti di carattere iniziatico: il viaggio, le prove continue, la morte e la rinascita, le trasformazioni e il raggiungimento di uno stato esistenziale superiore. Il capolavoro di Collodi è forse una parabola iniziatica?

Lo è certamente, ma anche la vita di ciascuno di noi è caratterizzata da continue iniziazioni. Le fiabe sono spesso delle raffigurazioni del percorso esistenziale dell’uomo che da una situazione di difficoltà, attraverso il superamento di prove, raggiunge un livello superiore di autocoscienza e il successo. Basti pensare a Biancaneve, a Pollicino, a Hansel e Gretel. Il protagonista parte sempre da uno stato infelice (indigenza estrema, infelicità familiare), nel labirinto della foresta incontra i vari minotauri, conosce la morte iniziatica, riesce ad avere la meglio e risorge a nuova vita.

Molti autori, insistono, però, sulle valenze esoteriche, se non massoniche di Pinocchio.

Pinocchio è una fiaba complessa, pertanto, è stato interpretata in tante chiavi diverse: civile, valoriale, politica, antroposofica, psicoanalitica, magica, alchemica, astrologica, cabalistica, massonica e, come abbiamo, detto cristiana, in realtà Carlo Lorenzini voleva scrivere solo una fiaba “morale” e pedagogica. Basti pensare che nella stesura originale il romanzo terminava con l’impiccagione di Pinocchio. La morale era chiara: chi non ubbidisce ai genitori, chi non rispetta le regole, chi non ascolta i buoni consigli, fa una brutta fine. In seguito, spinto dai lettori e dall'editore proseguì il racconto con un Pinocchio prima pentito e infine redento.Questo non toglie che una storia quando è pubblicata, come scrisse Umberto Eco, appartiene a chi la legge che è libero d’interpretarla come meglio crede.

L’autore di Pinocchio, Collodi, era un Libero Muratore?

Molti lo affermano; Elèmire Zolla, scriveva: “Il Pinocchio di Collodi è un miracolo letterario dalla profondità esoterica quasi intollerabile” e aggiungeva che i valori iniziatici di Pinocchio “provengono dalla cultura di base della cerchia massonica cui Collodi apparteneva”, ove ferveva “una rinascita del pitagorismo antico, culminata poi con Arturo Reghini”. Su posizioni simili sono Coco e Zambrano, Pietro Citati e altri autori. Io la penso come Fulvio Conti: la massoneria del periodo collodiano non ha niente da spartire con Reghini, il martinismo, il neopaganesimo, il neo-pitagorismo. Nell’età di Carlo Lorenzini la massoneria italiana era penetrata da razionalismo e positivismo ed era tutta protesa ad esaltare il mito della scienza e del progresso. I temi più dibattuti erano quelli sociali, dei diritti civili, dell’educazione, della laicità. D’altra parte, dopo la morte dell’autore, il Grande Oriente Italiano non rivendicò l’appartenenza di Collodi. Scrive Conti: “Del resto il suo nome non figura nell’elenco degli affiliati del Grande Oriente d’Italia fra Ottocento e Novecento, che sono emersi dagli scavi archivistici degli ultimi anni. Elenchi certo incompleti, ma che pur tuttavia comprendono alcune decine di migliaia di nomi. Né vi sono riferimenti a Collodi nei numerosi e approfonditi studi sulla massoneria in Toscana che sono apparsi in tempi recenti”. Lo stesso autore, infine, ricorda che “le questioni esoteriche e rituali ebbero per alcuni decenni un peso marginale nella vita del Grande Oriente e delle singole logge”. L’unico indizio a favore dell’appartenenza massonica di Collodi è una lettera indirizzata da Collodi a Pietro Barbera, datata 4 marzo del 1884 che termina così: “In ogni caso mi creda sempre. Il Fratello Collodi”. Per Ferdinando Tempesti, non ci sono dubbi: è la prova dell’appartenenza di Collodi ai “figli della vedova”. Io non ho mai visto l’originale, citato Maria Jole Minicucci negli atti convegno, ma ci andrei piano. Una rondine se rondine è, non fa primavera.

I personaggi e le storie di Pinocchio come il Gatto e la Volpe, il Grillo Parlante, la bambina dai capelli Turchini e ancora scimmioni, pavoni spennati, faine, cani, il paese degli acchiappacitrulli a cosa fanno riferimento?

Pinocchio, pur essendo collocato nella dimensione “metastorica e atemporale propria delle fiabe” è ispirato dalla Toscana post risorgimentale nella quale visse Collodi, che era un uomo deluso dalla politica, dalla meschinità e dalla scarsa attenzione sociale del nuovo stato unitario. Molte situazioni e personaggi presenti in Pinocchio sono perciò desunti dalla società dell’autore.

La città di acchiappacitrulli, per esempio, è Firenze, gabbata dal trasferimento della capitale a Roma e lasciata con 100 milioni di debiti. Le gazze ladre e gli uccellaci da rapina sono gli speculatori del business della Firenze capitale. Gli ideali risorgimentali erano stati traditi, l’Italia nata nel 1859-0 era diventata una terra infelice in mano a corrotti, approfittatori e ladri, posti al di sopra del potere. Il gatto e la volpe sono due imbonitori, il primo ripete ossessivamente quello che l’altro afferma, essi non si avvalgono del ragionamento ma nella “insistenza ossessiva degli enunciati”. Il Grillo Parlante, invece, potrebbe essere stato ispirato da un prete di nome Zipoli col quale Lorenzini convisse per un po’ di tempo, era un uomo tanto colto quanto pedante. L’omino di burro, ricorda i trafficanti di bambini, vera e propria piaga dell’Italia post-unitaria, mentre lo scimmione giudice potrebbe accennare il mal funzionamento della giustizia, asservita al potere e alla corruzione.

Secondo lei quale è la caratteristica di fondo del mondo dove vive e opera Pinocchio?

Sicuramente la miseria e la fame che Collodi aveva provato da bambino. Geppetto, dice all’inizio del racconto: “Lo voglio chiamar Pinocchio. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina”. Nel capitolo XII Pinocchio dice a Mangiafoco che il suo babbo fa per mestiere il povero e che guadagna “quanto ci vuole per non avere mai un centesimo in tasca”. Il termine fame compare in Pinocchio ben 44 volte. Scrive Giovanni Spadolini: “Collodi avrà viva come pochi la coscienza della povertà, anzi della miseria delle classi popolari del suo tempo. Strenuo difensore della proprietà privata, invocherà una più equa ripartizione delle risorse senza mai cedere al socialismo né tanto meno al comunismo”, definito “Tanto per uno nulla a nessuno”.

giovedì 15 dicembre 2022

ALLA SCOPERTA DEI MISTERI DI ROMA: IL LABORATORIO ALCHEMICO

tratto da "L'Opinione" del 16 settembre 2021

di Pierpaola Meledandri

Il Museo storico nazionale dell’arte sanitaria, noto comunemente come il Laboratorio alchemico, venne inaugurato nel 1933 e si trova all’interno del complesso ospedaliero di Santo Spirito in Sassia. Siffatta raccolta museale non è molto conosciuta perché ha un’ubicazione particolare ed è visitabile solo per appuntamento in alcuni giorni della settimana. Questa scarsa fruibilità rappresenta un limite notevole perché il museo costituisce un’importante testimonianza sulla storia della medicina. L’ospedale di Santo Spirito ha origini lontane; venne fondato, infatti, dal Papa Innocenzo III nel 1198 non solo con lo scopo di ricoverare e curare i malati ma anche come centro d’insegnamento dell’ars medica. Il museo si articola in diverse sale, la prima è la Sala Alessandrina che conserva una vasta biblioteca, alle pareti sono esposte 19 tavole anatomiche a stampa, colorate a mano, risalenti ai primi dell’Ottocento, raffiguranti le “viscere”, il sistema muscolare, l’arterioso, il venoso, il linfatico, l’apparato osseo, il cervello e il fegato. In fondo alla Sala campeggia una statua in gesso su un piedistallo in marmo, raffigura Esculapio l’antico dio greco della medicina.

Nella Sala Flajani vi è una raccolta di preparazioni anatomo-patologiche e di modelli in cera di organi, risalenti alla fine del XVIII secolo; rappresentano, soprattutto, alterazioni dei tessuti dovute a patologie come la sifilide e deformazioni prenatali. Nella Sala Capparoni, invece, vi è una collezione di Ex voto che vanno dal periodo etrusco-romano ad anni abbastanza recenti, oltre a suppellettili di farmacia del XVI-XVII secolo. Tra le curiosità presenti nella sala, una piccola Venere anatomica in avorio, con torace e ventre apribili per mostrare la posizione del feto. Particolarmente interessante è poi la Sala Carbonelli con un’esposizione di strumenti chirurgici (trapani per il cranio, seghe ortopediche, lancette da salasso) e di altri per l’oculistica e l’ostetricia, oltre a rari e preziosi microscopi del passato. Fra gli strumenti più singolari ricordiamo la “Siringa di Mauriceau”: un tubicino di gomma che si applicava a una siringa per introdurre acqua benedetta nella cavità uterina, per battezzare i feti che correvano il pericolo di soccombere durante il travaglio. In un’alta vetrina sono conservati due sistemi di conservazione veramente spettacolari: i preparati a secco del sistema nervoso centrale e periferico eseguiti da Luigi Raimondi nel 1844.

Infine, il Museo storico nazionale dell’arte sanitaria, espone un’antica Farmacia con pezzi provenienti dalle spezierie degli ospedali di Santo Spirito, di San Giacomo e di Santa Maria della Consolazione e il Laboratorio alchemico. Quest’ultimo è, sicuramente, la parte più intrigante del museo, anche per l’alone di mistero che vi grava. Dal soffitto pende, come se fosse un lampadario, un coccodrillo impagliato, mentre tra storte, alambicchi, mortai il visitatore avverte quasi l’ombra degli antichi alchimisti. A completare il quadro magico dell’ambiente, si staglia il calco della famosa porta ermetica voluta dal Marchese di Palombara, il cui l’originale si trova nei giardini di piazza Vittorio a Roma. I simboli alchemici, cabalistici e magici incisi sulla porta, dovrebbero rappresentare, secondo consolidate narrazioni, la formula per giungere alla realizzazione della pietra filosofale, atta a trasformare i vili metalli in oro. Quanto succintamente descritto, non è un caso isolato; in Italia, anche a San Leo, celebre per la rocca ove morì Cagliostro, vi è un interessante Museo con vari padiglioni, tra cui uno dedicato all’alchimia.

A Firenze, nel Museo della Specola e in altre celebri collezioni di stato sono esposti animali impagliati e cere anatomiche, oltre a una drammatica rappresentazione, sempre in cera, di un’epidemia di peste. È, nel suo genere, un capolavoro, dovuto allo Zumbo, che contende la palma dell’horror ai pezzi anatomici, “pietrificati”, con una tecnica rimasta segreta, da Girolamo Segato (1792-1836). Questi fu un cartografo, naturalista e egittologo, che partecipò a delle spedizioni nella terra delle Piramidi, dove avrebbe appreso le tecniche d’imbalsamazione. Avendo il Gran Duca di Toscana rifiutato di finanziare le sue ricerche, bruciò i propri appunti, portandosi nella tomba ogni segreto dei suoi studi. Le sue spoglie giacciono ora nella basilica di Santa Croce e una lapide commenta così la sua figura: “Qui giace disfatto Girolamo Segato, che vedrebbesi intero pietrificato, se l’arte sua non periva con lui. Fu gloria insolita dell’umana sapienza, esempio d’infelicità non insolito”.

Il Museo storico nazionale dell’arte sanitaria, tuttavia, rappresenta una realtà singolare e interessante che permette per valutare l’evoluzione storica all’ars medica, che per secoli e secoli, abbinò alla ricerca scientifica, precetti religiosi e considerazioni tratte da scenari che niente avevano da spartire con la medicina moderna.


 

martedì 6 settembre 2022

INTERVISTA AL PROFESSOR LUIGI PRUNETI SUL CONTE DI CAGLIOSTRO

tratto da "L'Opinione" del 26 agosto 2021

di Pierpaola Meledandri

“Giuseppe Balsamo fu un figlio del suo tempo, un’età straordinaria, durante la quale nacquero e si svilupparono tendenze e personaggi opposti: De Sade e Beccaria, razionalismo e irrazionalismo, privilegio nobiliare e istanze rivoluzionarie. Nelle logge di quel secolo si mischiarono scienziati e sedicenti maghi, empiristi e occultisti, chimici e alchimisti. Cagliostro recitò la sua commedia umana su quel palcoscenico”. Luigi Pruneti, scrittore, giornalista pubblicista e ricercatore, parla dell’affascinante ed enigmatica figura del Conte di Cagliostro.

Oggi ricorre l’anniversario della morte del Conte di Cagliostro, deceduto il 26 agosto 1795. Fu veramente un personaggio così straordinario da divenire “leggenda”?


Senza dubbio, fu sicuramente un personaggio eccezionale per le vicende della sua vita, per la fama che lo circondò, per il mistero che aleggiò intorno a lui, per la sua tragica fine. Non a caso Cagliostro è stato l’oggetto di infiniti saggi, di numerosi romanzi, di tanti racconti e film.

Chi era in realtà il Conte di Cagliostro: uno studioso, un alchimista, un mago un taumaturgo, il palermitano Giuseppe Balsamo, uno scaltro truffatore?


L’uno e l’altro. Alcuni dicono che fosse un portoghese di nobili origini, addirittura il figlio del re Giovanni V, in realtà nacque a Palermo, il 2 giugno del 1743, da Felicia Bracconieri e da Pietro Balsamo, commerciante di stoffe. Fu uno dei numerosi avventurieri del XVIII secolo, come Giacomo Casanova o Barry Lyndon, il protagonista del celebre film di Kubrick, tratto dall’opera William Makepeace Thackeray. Giuseppe Balsamo fu, pertanto, un figlio del suo tempo, un’età straordinaria, durante la quale nacquero e si svilupparono tendenze e personaggi opposti: De Sade e Beccaria, razionalismo e irrazionalismo, privilegio nobiliare e istanze rivoluzionarie. Nelle logge di quel secolo si mischiarono scienziati e sedicenti maghi, empiristi e occultisti, chimici e alchimisti. Cagliostro recitò la sua commedia umana su quel palcoscenico. Generoso e affascinante, curioso e approssimativo, lestofante e iniziato, millantatore e innovativo. Sicuramente imbrogliò qualche potente, distribuì improbabili panacee e scroccò soldi a nobili desiderosi di pietre filosofali o d’improbabili ringiovanimenti. Fu, comunque, un anticonformista, un libertario dai tratti picareschi e un martire, condannato a una terribile agonia, nel “pozzo” di san Leo.

Quanto devono le discipline latomistiche e la massoneria alle esperienze e alle pratiche del Conte?


Le discipline latomistiche furono debitrici di Cagliostro almeno per due aspetti. Il primo è costituito dalla funzione del “Gran Cofto” di corriere di esperienze massoniche diverse, il secondo è rappresentato dal primato che egli ebbe di aver diffuso l’idea di una massoneria egiziana. Badi bene, fu il diffusore, non il creatore, perché l’idea di una siffatta corrente massonica nacque con il “Sethos” dell’abate Terrasson e l’Ordine degli Architetti Africani.

Il processo a Cagliostro rientra nella storia della Santa Inquisizione? Ci può narrare come si svolse e l’epilogo della vicenda?


Nella primavera del 1789 Cagliostro si recò a Roma, nella bocca del leone, convinto che la protezione del vescovo-conte di Trento fosse sufficiente a salvaguardarlo. Nell’Urbe fu imprudente e in più venne tradito da parenti acquisiti e dalla stessa consorte, la celebre Serafina. Pertanto, il 27 dicembre di quell’anno fu arrestato e imprigionato nelle segrete di Castel Sant’Angelo. A quel punto la Santa Inquisizione decise di usare il processo di Cagliostro come atto mediatico, per colpire la massoneria e dimostrare come i “fatti di Francia” fossero un complotto dovuto alla setta della squadra e del compasso. I suoi libri e oggetti rituali furono arsi, con somma teatralità, in Pazza Sopra Minerva; egli fu condannato a morte, pena che fu poi derubricata in carcere perpetuo nella Fortezza di San Leo, dove era difficile sopravvivere più di qualche anno. Infine, la Reverendissima Camera Apostolica Romana pubblicò il “Compendio della vita e delle gesta di Giuseppe Balsamo, denominato Conte di Cagliostro …”, in cinque capitoli, di cui uno dedicato alla sua vita e quattro ai “misfatti” della massoneria.

San Leo si erge su uno strapiombo nei pressi di San Marino. Nella suggestiva fortezza fu imprigionato e terminò i proprio giorni, in un’angusta cella, uno dei più enigmatici protagonisti dell’età dei Lumi. La sua storia continua ad attirare la curiosità e l’attenzione di molti. A San Leo si tengono sempre eventi che ricordano il Conte di Cagliostro?


Non glielo so dire. Un tempo si teneva, in corrispondenza del 26 agosto, una manifestazione, patrocinata dal comune di San Leo, denominata “Alchimia Alchimie”. Era una bella iniziativa che prevedeva una sorta di fiera, conferenze, spettacoli; io facevo parte del Comitato tecnico-scientifico. Poi le cose cambiarono, anche perché quella formula non era apprezzata da tutti. Da allora me ne sono disinteressato, non so se si tenga ancora qualcosa. Forse sì, ma non ne conosco gli eventuali termini.

All’interno del complesso fortificato di San Leo, vi è un piccolo museo dedicato a Cagliostro, con qualche targa e cimelio. La cella del Conte è visitabile; ho visto il suo piccolo letto, omaggiato da alloro e mazzi di fiori. Quali sono stati i suoi meriti e quali, a oggi, i frutti della sua avventurosa esistenza?


In parte le ho già risposto. Il principale merito è stato quello di diventare un mito e un’icona di un aspetto particolare della sua epoca. La leggenda di Cagliostro ha, a sua volta, ispirato storie più o meno fantastiche e opere letterarie come un romanzo di Alexandre Dumas. Non è poco.

Tra le varie leggende, una, in particolare, narra che alla sua presunta morte, il corpo non venne mai ritrovato, quasi a testimoniare le capacità magiche di quest’uomo. Quali sono, in realtà, le risultanze storiche documentate sul punto?


Cagliostro morì il 26 agosto del 1795 verso le 22,30. I suoi carcerieri lo seppellirono come eretico impenitente, in terra sconsacrata, in un punto imprecisato a ovest della rupe di San Leo. Il suo corpo non è mai stato rinvenuto. Ciò ha fatto sorgere altre leggende e storie fantastiche. Collin De Plancy, nel suo “Dizionario infernale” afferma che si sarebbe strangolato da solo. Altri spergiurano che non sarebbe morto lì, altri ancora ipotizzano che a San Leo se ne andò all’altro mondo un suo sosia... insomma, anche con la morte Cagliostro alimentò il mito.

L’attrazione per il mondo egizio, compresi gli insegnamenti occultisti e teurgici, hanno ispirato studi e rituali massonici. So che Lei ha analizzato l’argomento e scritto su questo tema un testo in collaborazione con altri autori. Cosa può raccontare a riguardo?


Mi sono occupato di Cagliostro già tanto tempo fa, nel 1996, quando scritti un saggio: “Cagliostro la Massoneria e il Rito egiziano” che fu pubblicato nella collettanea “Processo a Cagliostro a duecento anni dalla sua scomparsa”. Sono ritornato sull’argomento quasi venticinque anni dopo, pubblicando insieme ad Antonio Donato, traduttore dei rituali del Palermitano, il libro “Rituale Egizio di Cagliostro, con saggi storici e biografici” (l’Arco e la Corte, Bari 2020). L’argomento mi piacque, tanto che, questa primavera, sempre insieme ad Antonio Donato, ho dato alle stampe i “Rituali della Massoneria Egizia di Cagliostro” (L’Arco e la Corte, Bari 2021). Quest’ultimo volume è un’opera completa, che riporta i testi latomistici del Nostro. Pertanto, anch’io sono rimasto affascinato e avvinto, dal “Gran Cofto”, una sorta di Ulisse del Settecento che odora un po’ di zolfo...

venerdì 21 gennaio 2022

ISIDE LA MAGA: IL LIBRO DI MARIA CONCETTA NICOLAI

tratto da L'Opinione del 02 settembre 2021

di Pierpaola Meledandri


Nell’immaginario collettivo la figura di Iside apre le porte di mondi esotici, fantastici, misteriosi, occulti. Cercare di scoprire e di ripercorrere le tracce di quanto, nel corso dei secoli, ha tratto ispirazione dall’antico nume egizio, è un sentiero complesso e affascinante che si articola nel labirinto della mitologia, della storia dell’antropologia.

Maria Concetta Nicolai, l’autrice del presente volume, è una studiosa di livello internazionale; collaboratrice di importanti periodici, scrittrice affermata e ricercatrice attenta e puntuale. Ha dato alle stampe un numero impressionante di opere, alcune delle quali rivestono un’importanza fondamentale. In “Iside la Maga” conduce una ricerca a tutto campo, esaminando le fonti più disparate che vanno dal “Libro dei Morti” e i “Testi delle Piramidi” fino ai volumi pubblicati da Bricault, Cumont, Del Corno, Mila, Neuman e, in questo lungo itinerario, si sofferma spesso su altri autori come Erodoto, Platone, Tito Livio, Ovidio, Clemente Alessandrino, Goethe, Verga, Yourcenar.

“Iside Mater”, “Iside Dea”, “Iside Maga” sono solo alcuni dei tanti volti attribuiti alla divinità nilotica che, di volta in volta, ha catturato l’attenzione di autori come Plutarco e Apuleio, tanto che quest’ultimo scrive “L’Asino d’oro”, una sorta di manifesto, sotto forma di metafora della teologia isiaca. Il protagonista del romanzo, perché di un romanzo si tratta, è Lucius, un giovane e un po’ scapestrato studente, in cerca di avventure e animato da una pericolosa “curiositas”. La sua specialità è quella di mettersi nei guai e alla fine, operando da apprendista stregone, ottiene il massimo: è trasformato in ciuco. Solo alla fine riuscirà a riacquistare la sua forma umana, vivendo in forma asinina, un percorso iniziatico, complesso e doloroso che ricorda la storia di Osiride e il mito di Ra, che ogni notte deve affrontare Apopis, il demone serpente che vuole inghiottirlo.

Apuleio era un seguace dei Misteri di Iside, uno dei tanti potremo dire, perché il culto della dea si diffuse in tutto l’Impero Romano, specie in Italia dove gli Isei, i luoghi di devozione a lei dedicati sorsero un po’ ovunque, a Roma, a Ostia, a Tivoli, a Pompei, nei Campi Flegrei, a Verona, a Fiesole, a Firenze, Luni e Benevento.

Maria Concetta Nicolai procede comunque oltre il mondo classico, individuando tracce di Iside nella Regina della Notte, figura centrale del “Flauto Magico”, il capolavoro di Mozart o cogliendole nelle ricorrenze religiose cristiane. Ed ecco che Iside emerge nella festa catanese di Sant’Agata, nel mito delle Janare di Benevento, nel culto mariano della Theotokos che ha ispirato preghiere, litanie e altre forme di devozione.

Vi è infine un’altra Iside, quella cooptata da tanto esoterismo e dalla massoneria. Nel XVIII secolo, infatti, i liberi muratori, subendo le fascinazioni del Cavaliere di Ramsay si erano profusi nell’inventare e sperimentare nuovi riti: templari, rosacroce, cabalisti, alchimisti entrarono nel loro immaginario mitologico e ben presto, non resistendo al fascino della  terra dei faraoni, inserirono nel loro capiente calderone, anche un fantasioso Egitto, tanto che inventarono il complicato “Ordine di Architetti africani” suddivisi in sette gradi culminanti con la figura sublime di “Profeta”.

Anche gli Arcani Maggiori dei Tarocchi vennero considerati retaggio del misterioso e inesistente “Libro di Thoth”, legato alla cosmologia del pantheon egizio. Così Oswald Wirth, autore di un notissimo testo sui Tarocchi e sulla relativa simbologia, associò la figura di Iside al secondo Arcano Maggiore, la Papessa, Sacerdotessa del mistero e della notte.

Leggendo “Iside la Maga”, opera interessantissima e innovativa per la propria interdisciplinarità, si può affermare che Iside non è mai scomparsa, giacché fra tutte le divinità antiche è quella che meglio rappresenta sotto ogni aspetto l’eterno femminino, pertanto si può affermare con il prefatore dell’opera, Luigi Pruneti, che “Iside vive sempre laddove vi siano donne orgogliose di esserlo”.  


(*) Maria Concetta Nicolai, “Iside la Maga”, prefazione di Luigi Pruneti, Ianieri Edizioni, 2020, pagine 214, 18 euro



domenica 5 dicembre 2021

LE SEPHIROTH E LA CABALA/2

tratto da "L'Opinione" del 27 luglio 2021

di Pierpaola Meledandri

Il nostro breve viaggio nel mondo della Cabala prosegue, con qualche altro concetto. Il primo capitolo della Genesi viene chiamato col nome di “Berechit”, che in italiano si traduce in “Inizio, principio”. Ma in ebraico, la denominazione Berechit, ha le sue radici in “be”, che significa “per” l’azione di, ed in “rechit”, che può tradursi per “verbo o vibrazione”. Pertanto, il primo momento della creazione sembra essere indicato come una prima vibrazione. Quando appare per la prima volta la formula AT, è nel primo versetto del primo capitolo della Genesi, che in italiano si potrebbe dire: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra”, ma, che nell’ebraico originale, pur usando i nostri caratteri, suonerebbe così: “Berechit bara Elohim AT Hashmaim vet herez”. Per i traduttori della Bibbia non è passato inosservato il numero di volte che appare detta particella e il suo valore simbolico, ma non è stata data la giusta importanza alla formula AT.

Coloro che studiano lo Zohar, scopriranno innumerevoli riferimenti a detta particella, dalla quale potranno estrapolare ricchi significati. Le lettere ebraiche formano una sorta di sfera dalla quale non sfugge nulla. Non bisogna immaginare una sfera nella quale sono state inserite delle lettere, ma dette lettere la formano e costituiscono. Una lettera combinata con un’altra forma una voce nuova, in modo che aleph può associarsi al resto delle ventuno lettere. Bet, la lettera seguente, può anche accordarsi con tutte le altre, e così via. Quindi potranno combinarsi due col resto, tre col resto. Ogni combinazione produce una nuova idea. Pertanto, l’interno di quella sfera è interconnesso con queste combinazioni Si dice che ci siano circa 705.432 combinazioni creative, tutte rinchiuse tra aleph e tau, questa cifra rappresenta solamente il risultato di una delle infinite possibilità.

Le Sephiroth per i cabalisti rappresentano dieci forze operative; l’energia di ciascuna si rivolge verso l’alto attraverso la pietas cabalistica positiva e verso il basso per la forza negativa del peccato. Questa è la linea di fondo della dottrina segreta. Per denominare e descrivere le stesse vengono utilizzati i termini allegorici, simbolici, della tradizione rabbinica. L’intera Bibbia ebraica non è più letta come narrazione storica, bensì viene interpretata – decifrata, se così si può dire – come velata esposizione del processo dinamico delle Sephiroth. Nel mondo, che è immagine e somiglianza di a Dio, le Sephiroth costituiscono una costellazione che ripercorre la forma umana. Al di sotto vi è il mondo degli esseri singoli, il mondo degli angeli e degli spiriti, poi il piano degli esseri materiali. Il processo della emanazione conduce, dunque, dall’unità al molteplice.

Il senso e lo scopo della meditazione e della prassi cabalistica è appunto la risalita fino all’unità ripercorrendo i vari gradi dell’emanazione. Il pensiero mistico arricchisce di senso la via della Cabala come visione della luce che si diffonde nel cosmo che anzi costituisce il cosmo, piuttosto, la stessa può dare l’intuizione meravigliosa dell’armonia del cosmo. In questa lettura, ci si rende conto dell’esistenza degli angeli, dell’esistenza delle gerarchie divine, se vogliamo, delle Sephiroth, si ritrova la controparte celeste dell’uomo. La Cabala fondamentalmente è uno strumento per giungere al perfezionamento, un strumento per sentire e vivere nel Creato e con il Creatore, durante vita (Fine).

domenica 28 novembre 2021

LA CABALA, UNA MATERIA IMMENSA E AFFASCINANTE/1

tratto da "L'Opinione" del 26 luglio 2021

di Pierpaola Meledandri

La materia trattata è immensa, complessa e quanto mai affascinante. La Cabala è un insegnamento rivelato che ci aiuta a comprendere verità universali, partendo dalla tradizione esoterica della mistica ebraica. Anche la Bibbia dedica una buona parte al racconto della Creazione e come la Cabala entra in relazione con il Creatore, con l’uomo e la natura, nel linguaggio simbolico, linguaggio molto distante dalla quello della cultura occidentale.

Si stabilisce anche la relazione tra Dio, l’uomo e l’universo, che consta di una serie di simboli che si sviluppano in trentadue “sentieri”, i quali partono dalle dieci emanazioni o Sfere, che si trovano anche nella rappresentazione dell’Albero della Vita. Ognuno di questi sentieri viene nominato con una delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. Quando parliamo del Creatore, dell’uomo e della natura stiamo utilizzando tre nomi che portano alla nostra mente tre entità distinte. Attraverso la gematrìa, uno dei mezzi della Cabala, sommando e riducendo le lettere-numeri ebraiche, vediamo che il numero risultante da Dio, uomo e natura porta allo stesso valore: quindi le tre entità, apparentemente distinte, sono la stessa cosa.

A differenza del nostro alfabeto, quello ebraico si legge da destra a sinistra e consta di 22 lettere. Come abbiamo accennato, le 10 Sfere, dette sephiroth, producono i 32 sentieri, la forma articolata richiama una struttura triangolare. In una punta del triangolo collochiamo aspetti riferiti alla Bibbia, che sono necessari per comprendere aneddoti da un punto di vista storico ed occulto.

La tradizione cabalistica è stata sviluppata dal popolo ebraico; arrivando ad Occidente è giunta avvolta da molti misteri, benché la maggior parte di essi abbiano prodotto una grande divisione fra quella che è una lingua simbolica e le lingue occidentali. La differente forma mentis aggiunge il resto.

La costruzione della Cabala, come metodo mistico per raggiungere l’idea di Unità per una nuova reintegrazione nell’Assoluto, è ricca di enigmi, affinché si sviluppi l’intelletto attraverso lo studio e la speculazione. Nella Cabala l’alfabeto ebraico, con le sue ventidue lettere-numeri consonanti, è quello che serve da base simbolica per esprimere un buon numero di idee: infatti, un simbolo racchiude una forma di eloquenza superiore al linguaggio. Ogni lettera ebraica è un simbolo, la combinazione di lettere formano una parola, la somma di queste, frasi. Ogni lettera e parola ha un senso fonetico, un valore numerico, un mistero nascosto dietro la sua stessa forma. Pertanto, l’alfabeto ebraico, l’albero della vita, il suo design triadico, i pilastri ed altre disposizioni, sono rappresentazioni sintetiche di verità universali. La fonte o schema triangolare è una forma per allargare la creazione delle cose ignorate fino alle cose più vicine a noi.

Un triangolo è uguale a due aspetti frontali, un terzo che li equilibra. Questa triade è molto evidente nella sua mistica la cui base poggia oltre che nella Bibbia, nel Sefer Yetzirah (Libro della Formazione) e nel Sepher ha-Zohar (Libro dello Splendore). Esistono varie disposizioni simboliche della trinità, una di esse si presenta come i piatti di una bilancia e l’ago che media tra essi. Su ogni piatto si pone una lettera madre ebraica: la shin alla destra, la mem alla sinistra e l’alef mediando tra esse. L’ago della bilancia si riferisce alla lingua, perché questa è quella che registra e formula la parola, asse della creazione tanto nella Genesi, come nel Sepher Yetzirah.

La rappresentazione più frequente dell’idea trinitaria è il disegno dell’albero della vita o sephirotico rappresentato da tre colonne, una a sinistra, una a destra, una terza che funge da forza equilibratrice. Si aggiungono di seguito le tre lettere madri sull’Albero rappresentato in colonne. Tra l’aleph e la tau, prima e ultima lettera in tutto il capitolo della Genesi ebraica, c’è una particella che non si può tradurre, perdendo così il suo significato, il quale è stato compreso come uno dei primi enigmi della Creazione.

Ci stiamo riferendo alla formula, chiave o particella accusativa, che normalmente si scrive At o Et e che fa riferimento alla prima ed ultima lettera dell’alfabeto ebraico: aleph-tau. Ogni atto creativo, generatore, compreso di senso contrario, è sostenuto da detta particella. Niente esiste dentro il racconto della creazione nella quale non appaia questa formula. Nei primi cinque capitoli della Genesi appare cinquantasei volte e dal sesto al decimo quarantadue, in totali novantotto volte in soli dieci capitoli.

La Genesi è scritta in modo che possa leggersi su tre diversi livelli: letterale, simbolico e sacro-occulto. Per arrivare al senso sacro, bisognerebbe conoscerne il valore simbolico. Le lettere ebraiche e le parole che esse costruiscono, rappresentano sempre una figura visibile, un senso letterale ed una forma nascosta nel suo valore numerico. Per comprendere meglio questo concetto, dobbiamo capire che mentre la nostra cultura usa segni per il nostro alfabeto ed altri segni per la numerazione, in modo che possiamo dire “a-b-c” o “1-2-3”, nella lingua ebraica non esistono due serie differenti per lettere e numeri, ma lo stesso segno rappresenta sia la lettera che il numero.

Quando sostantivi o frasi distinte sono ridotte a numero e sommati attraverso un metodo conosciuto in alcuni circoli come “riduzione teosofica”, benché letteralmente si leggano in modo diverso, il loro senso nascosto è lo stesso. Questo metodo di somma e riduzione si conosce nella Cabala con la denominazione di gematrìa, parola che proviene da geometria e che indica il valore numerico delle lettere, delle parole dei testi ebraici. Nella creazione sarebbero state usate tutte le lettere, ad eccezione di ci quel che costituisce simbolicamente “il peccato” (Continua).

martedì 31 agosto 2021

L’ESOTERICO GIOCO DELL’OCA

tratto da L'Opinione del 23 giugno 2021

di Pierpaola Meledandri


I giochi tradizionali rappresentano un mezzo d’insegnamento e ludicamente instillano nei partecipanti importanti concetti legati all’esistenza. L’esperienza del gioco apre molte riflessioni sul significato della sua funzione e sul perché individui adulti sentano il bisogno, oggi forse più che in passato, di prolungare il tempo da dedicare alla fase ludica.

Il gioco può essere considerato un residuo evolutivo che garantisce l’affinamento delle abilità necessarie a sopravvivere nel proprio habitat, un modo per esprimere capacità personali, una trasposizione simbolica dell’esperienza e dei contenuti emotivi, un modo originale per apprendere come dominare la realtà. È interessante notare come alcuni giochi, densi di asperità da affrontare, somigliano a un rituale d’iniziazione, alla perenne lotta fra il bene e il male, tra la luce e le tenebre: percorso durante il quale solo il superamento di prove fa giungere alla meta.


Immagine tratta da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Gioco_dell%27oca#/media/File:El_juego_de_la_Oca_-_Juan_Francisco_Piferrer_-_Barcelona.jpg

Di sicuro interesse simbolico è il Gioco dell’oca, costituito da un tabellone con da 63 caselle, che si snodano a spirale, con un disegno circolare o ellittico; la casella numero 64 rappresenta uno spazio più grande: l’edenico Giardino dell’oca. La sua immagine richiama la figura del labirinto. Sono le tredici caselle dove è raffigurata un’oca a essere considerate fauste: si avanza di una casella e si ha diritto ad un altro tiro di dadi. Altre caselle sono invece considerate infauste, così la numero 6, il ponte, dove si deve pagare una posta. Poi si può raddoppiare arrivando alla casella numero 12 mentre alla numero 19, la locanda, si paga l’ospitalità, rimanendo fermi per tre giri e poi la numero 31, il pozzo: si staziona fino a quando un altro giocatore vi cade, liberando il precedente prigioniero e venendo a sua volta trattenuto.

Chi ha la sfortuna di giungere alla casella numero 52, definita la prigione, subisce la stessa sorte della casella numero 31. La numero 42, il labirinto, fa indietreggiare il giocatore sino alla casella 39, dove resta fermo un giro, mentre la numero 58, detta la morte, fa pagare un pegno amaro poiché si deve iniziare il gioco da capo. Non solo: chi supera indenne la morte gioca con un solo dado, perché deve entrare nel giardino dell’oca con un solo tiro esatto e i punti eccedenti si percorrono all’indietro.

Il Gioco dell’oca, presente sin dall’antichità riapparve nel Medioevo col nome di Gioco nobile. Si crede che a ripristinarlo siano stati i costruttori delle Cattedrali, che vollero così lasciare una mappa simbolica del cammino spirituale da seguire per giungere, dopo la Morte, al seno della Magna Mater, la Grande Oca, nel Regno dei Beati. Ebbe poi una grande diffusione nel Cinquecento.

È celebre uno splendido tavoliere che, nel 1580, Francesco de’ Medici regalò a Filippo II di Spagna. La valenza di percorso iniziatico è enfatizzata dalla figura che in molti tavolieri si trova prima della casella iniziale: uno gnomo, un mago, un pellegrino, oppure un’oca.

Oche e cigni per i Gaelici rappresentavano i portatori di una saggezza superiore; nell’antico Egitto l’oca raffigura l’anima del Faraone e il Sole nascente. I Cinesi la consideravano messaggera celeste, mentre gli sciamani dell’Altai pensavano di raggiungere l’aldilà a cavalcioni di un’oca selvaggia. A Roma le oche capitoline avevano il dono della profezia e custodivano il tempio della Dea Giunone. Altre interessanti fonti sul valore simbolico dell’oca sono apportati dai Cavalieri del Cigno di Lohengrin o dalla fata Melusina dai piedi a forma di zampa d’oca che nessun mortale poteva vedere.

I Maestri costruttori adoperavano l’oca come proprio emblema, in quanto rappresentava l’immagine del trionfo dello spirito sulla materia, utilizzando la zampa d’oca come appropriato segno distintivo. Parimenti, la zampa d’oca, una forcella a tre punte, intesa come una rappresentazione della mano di Dio, è spesso raffigurata dai costruttori nelle pietre delle Chiese medievali, sulle lapidi tombali, nei cimiteri, lungo il cammino per Santiago.

Nel Nord-Ovest della Spagna, sui Pirenei, nel paese di Puente la Reina, dove si uniscono alcune importanti strade di Francia che portano a Santiago, vi è una Chiesa romanica: lì è conservato un Crocifisso, appartenuto ai Templari. Il Salvatore è immolato su una Croce che raffigura schematicamente l’immagine della zampa del volatile. Inoltre, molti simboli del gioco dell’oca richiamano aspetti del pellegrinaggio: la locanda, il labirinto, il ponte, il pozzo, la prigione e anche i dadi che stanno ad indicare la pietra angolare, la pietra cubica, sintesi delle misure armoniche dell’Universo, del numero aureo dell’angolo sacro ai Maestri Scalpellini.

Infine, il gioco dell’oca si può esaminare anche cabalisticamente a partire dal numero 64 che, per riduzione, dà luogo a uno, all’alef, al Principio, allo spirito del Signore. Oppure, ad esempio, al numero 5, la casella dove si trova la prima oca che rappresenta la V Sefirot, indicativa di severità e rigore.

Tanti significati, storie e simboli non fanno che ricordare, tramite un apparente svago per bambini, il viaggio della vita, con le sue gioie e i suoi dolori.