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domenica 14 maggio 2023

L’ombra del Gran Maestro

Di Nicoletta C. Travaglini

La maestosa e ieratica abbazia di San Giovanni in Venere sorge nel territorio di Fossacesia, una stupenda cittadina abruzzese vicino al mare. “La tradizione vuole che, ovviamente supportata anche da ritrovamenti archeologici, tale luogo sacro si erga sui ruderi di un preesistente tempio pagano dedicato Venere Conciliatrice, culto risalente IV secolo a.C., fatto rimarcato anche nel toponimo Portus Veneris, che indicava un porto posto alla foce del fiume Sangro durante la dominazione bizantina, vicino ad un nucleo abitato chiamato Vico Veneriis lungo la via Traiana. Un'altra leggenda sostiene che il primo nucleo di questo luogo di culto fosse costituito da piccolo ricovero per frati benedettini, provvisto di una cappella, fatto innalzare da frate Martino intorno 540 dopo aver fatto abbattere il tempio di Venere, che versava in avanzato stato di abbandono per costruirvi una piccola cappella intitolata a San Giovanni e la Vergine Maria. Nel 973 il conte di Teate, Trasmondo I, dispose che il monastero ricevesse delle cospicue rendite tali da trasformarlo, così, da un piccolo ricovero in un potente ed opulento monastero. Con l’avvento del cristianesimo, questo luogo fu abitato da eremiti e uomini pii, e secondo un antica leggenda pare che alcuni monaci greco-ortodossi, durante la guerra iconoclastica nel VII secolo, emigrarono in maniera massiccia fino a giungere sulle coste di Fossacesia; tra loro vi erano anche i monaci basiliani, gli stessi che fondarono la chiesa di San Longino a Lanciano poi divenuta la chiesa del Miracolo Eucaristico, che presero possesso di quello che restava dell’antico tempio di Venere, facendolo diventare un luogo di culto cristiano dedicato alla Madonna. Anche se questo illuminato conte fece in modo che da una semplice e povera “cella”, essa si trasformasse in un monastero, la sua fondazione e come la sua opulenza vanno attribuiti al conte teatino Trasmondo II che agli inizi dell’anno Mille, dopo sostanziose prebende, rese possibile la formazione di un solida struttura religiosa, economica, autonoma governata da abati. Come segno di gratitudine nei confronti del conte i monaci, alla sua morte, sopravvenuta nel 1025, lo seppellirono nella cripta dove tuttora riposa. Se risulta un pochino complicato possedere dati certi sulla sua fondazione e sulla sue prime fasi della sua esistenza, vi sono precisi riferimenti storici relativi alle sue fasi costruttive che vanno dal 973 fino al 1204 circa, dove raggiunse il suo culmine con l’abate Oderisi II il Grande. I secoli tra il X e l’XI furono molto importanti per la crescita religiosa, culturale ed economica dell’abbazia la quale divenne in breve tempo uno dei più fiorenti luoghi di culto centro-meridionali annoverando tra i suoi possedimenti oltre duecento feudi sparsi in diverse zone d’Italia e fuori dal nostro territorio nazionale come ad esempio in Dalmazia.  Nel periodo in cui essa stava consolidando il suo potere e la sua fama, nella seconda metà dell’anno Mille circa, il terzo abate Monastico, Oderisio I, appartenete alla famiglia degli Pagliara, ramo secondario dei Conti dei Marsi, i quali a loro volta rappresentavano un ramo cadetto della più gloriosa e prestigiosa famiglia dei Di Sangro, aveva già fatto allestire una fiorente e ricca biblioteca, una ottima scuola retta dai confratelli; fortificò, attraverso fossati, torri e mura la chiesa, costruì ospedali ed officine, ma soprattutto, fondò la cittadina di Rocca San Giovanni, che  divenne, in
breve tempo il più fiorente ed opulento possedimento della badia ed oggi nella chiesa madre di Rocca San Giovanni vi sono molte reliquie e volumi che facevano parte del ricco tesoro dell’abbazia di San Giovanni in Venere. La famiglia di Sangro a cui apparteneva, come abbiamo detto, anche Oderisio I, discendeva direttamente da Carlo Magno e che annoverò nel loro albero genealogico anche Papi e Santi. Questa potente ed antichissima casata discende dai duchi di Borgogna che a loro volta erano di stirpe carolingia, longobarda e, naturalmente, normanna. Questi nobili, ovviamente, furono legati da vincoli strettissi alla Chiesa e in special modo al potente, ricco e stimato ordine Benedettino. Nel IX secolo essi, vennero in Italia e si stabilirono maggiormente negli Abruzzi, ove riuscirono a conquistare e, quindi, a governare diversi feudi e contee, prendendo il titolo di “Conti dei Marsi”.
I nomi dei conti dei Marsi erano Bernardo, Oderigi, Teodino, Trasmondo che si possono incontrare in molti documenti del XI e del XII secolo. In un atto notarile del agosto del 981, conservato a Montecassino, Teodino ed i suoi fratelli Rainaldo e Oderisio risultano i conti di Marsia; si divisero i loro territori nel seguente ordine: Teodino divenne conte di Rieti e Amiterno, Rainaldo conte della Marsia e Oderisio Conte di Valva. Oderisio diede origine a tre grandi rami: una discendenza si stanziò nella zona del Sangro con la linea Borrello, la più grande, che si diffuse in tutto l’Abruzzo Centrale dando vita a Prezza e a Raiano, alle linee separate di Gentile; un secondo ramo si trasferì in quello che oggi è la provincia di Teramo; conosciuti come i conti di Palearia o Pagliara, annoveravano tra i membri della loro famiglia Berardo, vescovo di Teramo e Oderisio di Palearia che alla metà del sec. XIII fu nominato dal Re “Giustiziere d’Abruzzo”. Il terzo ramo si stabilì a Valva vicino Sulmona. Nel 1250 pochi erano i sopravissuti di questa discendenza, così la famiglia d’Ocre vide distrutto il suo antico castello come fu in precedenza per i Barili, i quali insieme ai succitati d’Ocre si rifugiarono all’Aquila. Gli altri rami della famiglia come i Borello e di Sangro si ritirarono in Sicilia. Trasmondo, vescovo di Valva e Abate di San Clemente a Casauria era figlio di Oderisio conte de’Marsi e fratello di Oderisio abate di Montecassino e di Attone, vescovo di Chieti. L’Abbazia di San Giovanni in Venere annovera due membri di questa famiglia, oltreché la permanenza del Vescovo di Teramo Berardo. All’inizio del 1500 essi ottennero il titolo di marchesi, alla fine dello stesso secolo divennero Duchi e pochi anni dopo questo titolo acquisirono, anche, quello di Principi, governando, il loro vastissimo impero in maniera tirannica, dispotica e violenta! Nel loro albero genealogico, vi sono presenti anche figure di spicco come Oderisio, San Bernardo di Chiaravalle fondatore dei Templari, Santa Rosalia, Innocenzo III, Gregorio III, ideatore e iniziatore della Santa Inquisizione, Paolo IV Carafa,  che contrastò in tutte le maniere l’Ufficio della Santa Inquisizione, Benedetto XIII. Sempre della stessa famiglia dei di Sangro, come si è potuto ampiamente vedere, Oderisio II “il Grande”, portò enorme lustro all’abbazia attraverso mezzo secolo circa di conduzione del luogo sacro, incrementando le opere degli abati precedenti ed iniziando i lavori di ampliamento conferendogli la struttura architettonica attuale e per tali meriti sono ricordati in un epigrafe posta sulla facciata principale della badia.” (1)
Questo luogo sacro è custode, secondo alcune leggende, di molti misteri come del Graal ad esempio; però si sussurra che essa custodisca la tomba di un Gran Maestro dei Templari:
“Viene spesso menzionato come l'unico Gran maestro italiano e infatti, sebbene non si abbiano notizie certe sulle sue origini, oltre a ritrovarlo in vari documenti dell'epoca come "Tommaso Berardi", sappiamo che la potente famiglia dei  Berardi, noti come Conti dei Marsi, in quel tempo dominante su gran parte dell'Abruzzo, aveva tra i suoi discendenti un maestro dell'ordine templare, Pietro di Ocre. Tommaso Berardi venne eletto nel 1256 Gran maestro, sotto il pontificato di papa Alessandro IV, succedendo a  Renaud de Vichiers . Esercitò le sue funzioni in circostanze non facili, impelagato da una parte nelle questioni sorte con l'ordine degli  ospitalieri e dall'altra assistendo impotente ai progressi del sultano mamelucco  Baybars al-Bunduqdari, che, poco a poco, obbligò i cristiani della Palestina a ritirarsi tra le mura di San Giovanni d'Acri, ultimo baluardo del Regno di Gerusalemme. In Italia fu attivo nella riorganizzazione dell'ordine successiva al mutare del destino delle crociate e degli ordini cavallereschi sorti con esse.” (2)
Quindi il Gran Maestro Tommaso Berardi faceva parte di una delle famiglie più potenti ed influenti dell’epoca tra cui si annoverano due personaggi molto particolari: Tommaso D’Ocre e Tommaso da Celano, ma chi sono questi due personaggi appartenenti a questa illustre dinastia? “Appartenente alla famiglia nobile degli Ocre, nacque nell'omonima località nel XIII secolo ed entrò a far parte della Congregazione dei celestini, diventando abate di San Giovanni in Piano ad  Apricena . Fu creato cardinale presbitero nel concistoro del 18 settembre 1294, l'unico tenuto da papa Celestino V nel suo breve pontificato, con il titolo di Santa Cecilia; accettò il cardinalato, seppur non desiderandolo. Partecipò poi al conclave del 1294, che elesse papa Bonifacio VIII, e fu camerlengo di Santa Romana Chiesa e cardinale protopresbitero. Nelle bolle pontificie promulgate tra il 21 giugno 1295 e il 27 giugno 1298 si ritrova la sua sottoscrizione. Nel 1296 celebrò i funerali dell'ex pontefice Celestino V nel castello Longhi a  Fumone. Il 23 maggio 1300 scrisse il suo testamento e morì a Napoli pochi giorni dopo, il 29 maggio. Fu sepolto a  Ferentino  nel monastero di Sant'Antonio Abate.” (3)
Il conte Tommaso da Celano invece:
“Tommaso nacque intorno al 1180 da Pietro Berardi, conte di Albe e Celano, e da madre appartenente alla famiglia comitale dei Palearia, di cui non se ne conosce l'identità. Pietro apparteneva alla dinastia dei  Berardi , tra i principali feudatari dell'Italia centrale, stabilitisi inizialmente nella  Marsica, ma con l'ambizione di estendere i propri domini tra la Marca di Ancona e  Civitate  in Puglia, al fine di controllare le vie di comunicazione tra lo Stato Pontificio e i porti sull'Adriatico. In tale prospettiva Pietro cominciò a tessere un'alleanza con Federico II di Svevia, all'epoca re del Regno di Sicilia e protetto dal papa Innocenzo III, sebbene in passato fosse avverso agli Svevi. Con lo stesso obiettivo, nel 1194 Tommaso sposò Giuditta di Molise, figlia di Ruggero, l'ultimo conte normanno di Molise, al fine di allineare i due feudi alle mire regionali di Pietro. Quando nel 1210 il neo imperatore Ottone IV di Brunswick discese in Italia per rivendicare il ducato di Puglia e Calabria da Federico, Pietro rinnegò il recente supporto a Federico e si schierò al fianco di Ottone, ottenendo così la Marca di Ancona e la carica di capitano e maestro giustiziere del Regno. Nel 1212, alla morte del padre, Tommaso ricevette la contea di Albe, mentre il fratello maggiore Riccardo [1]  divenne conte di Celano. Nonostante le volontà paterne, Tommaso non rinunciò a farsi chiamare anche conte di Celano, entrando in contrasto con il fratello Riccardo. Nel 1213 Ruggero di Molise morì e il genero Tommaso venne nominato conte di Molise. Tommaso continuò sulla stessa linea politica avviata dal padre, tuttavia la situazione internazionale non era più favorevole ad Ottone. Scomunicato dal papa nel 1210 per l'aggressione ai domini di Federico II in Italia meridionale, nel 1211 questi era dovuto tornare in Germania per fronteggiare il malcontento dei principi tedeschi sobillati sempre da Innocenzo III; questi inoltre incoronò il giovane Federico come nuovo re di Germania in vece di Ottone. Le fortune di Ottone ebbero fine con la sconfitta nel corso della battaglia di Bouvines del 1214 in cui aveva attaccato il Regno di Francia che sosteneva Federico; Ottone dovette abdicare dal trono imperiale che fu lasciato a Federico II. A causa della caduta del loro protettore, Tommaso perdette la Marca di Ancona che il papa assegnò ad  Aldobrandino I d'Este [2]. Al fine di ricucire i rapporti con il papato, il Celano desistette dal tentativo di riprendere la Marca ma concentrò i propri sforzi nell'ampliare e consolidare i suoi possedimenti nella Marsica e in Molise, dove rafforzò le fortificazioni dei centri più importanti come Celano, Ovindoli, Bojano e Roccamandolfi. In tale contesto tuttavia gli attriti con il fratello Riccardo tennero costantemente impegnato Tommaso. Nonostante questi fosse riuscito a scacciare l'avversario dalla contea di Celano, di cui Riccardo mantenne solo il territorio di Tocco, le scaramucce tra i fratelli cominciarono a preoccupare il papato, dove il nuovo papa Onorio III sollecitò più volte la riappacificazione tra i due, coinvolgendo nella diatriba anche Federico II, al quale suggerì di accettare le proposte di Tommaso. Federico tuttavia guardava con fastidio l'operato di Tommaso, in quanto contrario alla sua politica accentratrice dell'amministrazione del Regno e di riduzione del potere dei feudatari locali, tra i quali Tommaso era il più forte. Inoltre in occasione dell'incoronazione di Federico ad imperatore, avvenuta nel 1220 a Roma nella basilica di San Pietro, Tommaso non presenziò alla cerimonia, mentre Riccardo, a capo di una delegazione di baroni locali, donò costosi cavalli da guerra e portò le sue lagnanze contro il fratello al cospetto dell'imperatore. Federico, preoccupato inoltre del potere di Tommaso in quella vasta e strategica area, decise quindi di contestare al conte i diritti su Albe e Celano; questi inviò il proprio figlio Rao a Roma dall'imperatore per rimediare all'incidente
diplomatico e avanzò delle richieste che Federico gli rifiutò. A questo punto Tommaso, certo dello  scontro con l'impero e forte di 1500 soldati, si ritirò a Roccamandolfi, mentre la moglie Giuditta ed i  figli rimasero a comandare la resistenza presso la rocca di Bojano. Nel frattempo nel 1221 morì Riccardo, il legittimo conte di Celano, e gli successe in modo formale il fratello Tommaso. Il primo ad  attaccare fu Federico che nel 1221 guidò personalmente l'attacco a Bojano. La cittadina si consegnò alle truppe imperiali ma Giuditta resistette nella rocca, certa dell'intervento del marito in suo soccorso. Allo stesso tempo i soldati di Federico con il sostegno di baroni locali a lui fedeli attaccarono tutte le roccaforti di Tommaso, tra le quali soltanto Celano ed Ovindoli si opposero all'imperatore. Il conte con una manovra a sorpresa tornò con le proprie truppe a Bojano dove sorprese i soldati imperiali e li mise in fuga, liberando la moglie ed i figli dall'assedio della rocca. La città di Bojano fu incendiata per punire il tradimento, e Giuditta seguì il marito a Roccamandolfi. Federico, saputo della sorte toccata a Bojano, inviò uno dei suoi migliori capitani, il conte Tommaso I d'Aquino, maestro giustiziere di Puglia e Terra
di Lavoro, ad assediare le roccaforti di Bojano, che cadde sotto gli attacchi, e Roccamandolfi. Per una seconda volta Tommaso riuscì nottetempo a fuggire da Roccamandolfi e, con l'aiuto di Rinaldo d'Anversa, raccolse nuove forze e sbaragliò le truppe imperiali, spesso in superiorità numerica, in varie aree del contado grazie a veloci scorrerie. I paesi che si erano consegnati a Federico o che gli avevano  dato sostegno vennero saccheggiati, tra questi vi erano Paterno, San Benedetto dei Marsi e l'abitato di  Celano. Quest'ultimo venne raggiunto con una mossa a sorpresa passando per i tratturi del  Macerone e poi quello di  Pescasseroli  che permise a Tommaso di liberare i celanesi rimastigli fedeli che si erano asserragliati nella rocca di Celano sul monte Tino. Le vittorie di Tommaso ebbero breve durata; le truppe imperiali ricevettero nuovi rinforzi da Stefano di Montecassino e da Rainaldo Gentile, arcivescovo di Capua, che riuscirono ad accerchiare il conte.
Anche Giuditta, asserragliata nella rocca di Celano, cominciava a patire il lungo assedio quando i viveri a disposizione degli assediati divennero scarsi. Pressato da simili disordini in Sicilia e desideroso di porre fine alle lotte con Tommaso, Federico in persona cercò di persuadere Giuditta ad indurre il marito alla resa offrendole un salvacondotto: questa accettò l'offerta per lei e la sua gente della rocca di Celano, ma non riuscì a far capitolare il conte. La soluzione all'intricata vicenda arrivò tuttavia poco dopo la dipartita dell'imperatore dalla sua ambasciata con Giuditta, nel 1223. Il 25 aprile i rappresentanti imperiali, tra cui il gran maestro dell'Ordine teutonico Ermanno di Salza, proposero un accordo al Celano che questi accettò e che fu garantito dal papa e dai cardinali che parteciparono alla trattativa. L'accordo prevedeva che Tommaso consegnasse all'imperatore Celano, Serra di Celano, Ovindoli e San Potito, conservando la contea di Molise a beneficio della moglie e dei figli. A Tommaso infatti venne imposto un esilio di tre anni a Roma, mentre l'intero apparato militare del conte venne smantellato. A Tommaso venne conferito il giustizierato nel territorio della contea, ma l'imperatore si riservò il diritto di distruggere i suoi castelli per evitare possibili rivolte. Effettivamente Federico, una volta evacuati gli abitati, distrusse l'abitato di Celano ad esclusione della chiesa di San Giovanni; i celanesi furono esiliati in Sicilia, Calabria e Malta, dove resteranno fino al 1227. Quindi Federico II, per intercessione del papa Onorio III, permise ai celanesi di tornare in patria; il nuovo paese sorse ai piedi del monte Tino e per ordine di Federico II fu battezzata Cesarea; dopo la morte dell'imperatore, avvenuta nel 1250, fu ripristinato l'antico nome. A tutela dell'accordo preso, Tommaso inviò suo figlio assieme al figlio di Rinaldo d'Anversa (anch'esso ambiva al recupero dei territori persi a favore dell'impero) presso Ermanno di Salza; questi avrebbe consegnato i due fanciulli a Federico nel caso il trattato non venisse rispettato.
L'accordo prevedeva anche che Tommaso partecipasse alla crociata che Federico preparava con il re di Gerusalemme Giovanni di Brienne, alla quale però il Celano non prese mai parte. Una volta che Tommaso fu trasferito a Roma al servizio della Santa Sede, Giuditta fece ritorno nel contado di Molise e il suo rango fu restaurato; alcune fonti riportano che Giuditta funse da reggente per conto del figlio Ruggero ancora bambino. Nel 1227 salì al soglio papa Gregorio IX che dimostrò sin da subito la propria avversione nei confronti di Federico II. Già nel 1228 il papa dovette respingere gli attacchi del reggente dell'imperatore impegnato in Terrasanta,  Rainaldo di Spoleto, e chiese a Tommaso di prendere il comando delle forze pontificie. Questi, alla testa di 500 cavalieri, invase la Terra di Lavoro e a sorpresa sbaragliò le difese comandate dal giustiziere della Magna Curia Enrico di Morra davanti a Montecassino, riprendendo possesso in qualche modo dei suoi vecchi territori per qualche tempo. Infatti con il ritorno di Federico dalla crociata nel 1229, le forze imperiali ricacciarono le truppe pontificie e il ruolo di Tommaso venne ridimensionato, nonostante i tentativi successivi del papa di restituirgli i vecchi titoli che vennero suddivisi in nuove baronie e possedimenti. Con la pace di San Germano del 1230 vennero temporaneamente risolti i dissidi tra papato ed impero. Il nome di Tommaso da Celano scomparve dalle cronache dell'epoca ad esclusione di un episodio del 1240, quando Tommaso assunse il comando di 200 cavalieri dello Stato della Chiesa inviati in soccorso del Ducato di Spoleto. Con il declino della fortuna di Federico II, il nuovo papa Innocenzo IV cercò di restituire al Celano i possedimenti perduti, ma mancano notizie precise al riguardo. Tommaso morì tra il 1251 e il 1254, mentre le ultime notizie della moglie Giuditta risalgono al 1247. (4)
Ma in realtà chi erano i Beraradi tra cui si annoverano anche alcuni custodi della Coppa Sacra, il Graal:
“I Berardi arrivarono nella  Marsica  nel 920 con Berardo, soprannominato "il Francisco" a causa della sua origine franca, e nel volgere di alcuni decenni si affermarono come una delle potenze regionali più influenti. La famiglia discendeva dalla stirpe dei  Carolingi: infatti il fondatore Berardo "il Francisco" Berardi era il pronipote diretto dell'Imperatore Carlo Magno… La casata annoverò tra i suoi membri, spesso identificati con la dicitura "dei Marsi" o "Marsicano", un totale di almeno sei santi e tredici cardinali, numerosi vescovi e innumerevoli possessori di titoli nobiliari e cariche militari e statali. La zona del loro Stato feudale comprendeva il Fucino e i territori di Celano, abbracciando gran parte del dominio degli antichi  Peligni . Nell'XI secolo erano a loro soggette alcune terre poste sulla  Val di Sangro  e altre della Sabina. I loro feudi furono soggetti al Ducato di Spoleto fino all'850, quando divennero di fatto indipendenti fino al 1143, anno della conquista normanna dei loro territori. Successivamente gli Orsini e i Colonna si espansero nella Sabina e detronizzarono i Conti dei Marsi; ciononostante, i Berardi riuscirono a mantenere il predominio nella Marsica resistendo ancora per qualche tempo, periodo in cui diedero man forte alla lotta contro i Saraceni che avevano invaso i territori dell'Abruzzo, spingendosi fino all'interno. Fatto sta che i Saraceni non occuparono mai più i territori dei Conti dei Marsi . Durante la decadenza della contea dei Marsi, i Normanni, approfittando delle rivalità insite nei vari rami della famiglia dei Berardi, riuscirono a conquistarli nel 1143 facendoli lottare l'uno contro l'altro, per poi costringerli alla sottomissione e alla perdita dei loro feudi. I rami principali si estinsero e rimasero così solo i conti di Albe e Celano. Nel 1212 morì il conte di Albe e Celano Pietro Berardi, che in vita aveva saputo riunire gran parte dei possedimenti della contea dei Marsi, destreggiandosi abilmente nel periodo tra la fine dei Normanni e la minore età del futuro Federico II di Svevia. Egli riuscì in questa fase di vuoto di potere a tornare ad essere un potente feudatario del centro Italia, temuto e rispettato sia dal Papa che dai sovrani tedeschi. Quando morì, gli successero a Celano il figlio Riccardo e ad Albe il figlio Tommaso. Quest'ultimo avrebbe voluto avere da subito il potere su Celano, ma la presenza del fratello maggiore impedì il suo piano. In questo frangente si sposò con Giuditta di Molise, diventando così anche conte del Molise e riuscendo ad acquisire un enorme potere. Nel 1221 morì Riccardo e Tommaso ereditò anche la contea di Celano. Da questo momento, tenendo testa al nuovo Imperatore Federico II di Svevia, tentò di restaurare la vecchia contea dei Marsi. Ma la forza e la tenacia di Federico II impedirono il progetto. Federico II combatté in più occasioni Tommaso, ora conte di Celano, che temette in quanto feudatario più potente del Regno di Sicilia, e alla fine di un sanguinoso scontro lo sconfisse, ottenendo la sua resa nel 1223. Tommaso Berardi infatti firmò l'atto di concordia con Federico II nel 1223, decretando il graduale declino della famiglia.
Dalla casata dei Berardi discesero le famiglie Agnone, Albe, Anversa, Avezzano, Balvano, Barile, Borrello, Camponeschi,  Celano, Collepietro, Collimento, DePonte, DiSangro, Dragoni, Fossa, Malanotte, Ma reri, Ocre, Pagliara, Pietrabbondante, Rivera e Valva, le quali presero tutte il nome
dai feudi posseduti. La famiglia Celano si estinse nella linea maschile nel 1422 con Pietro III, mentre per via femminile nella seconda metà dello stesso secolo con Jacovella , andata in sposa nel 1440 a Lionello Accrocciamuro. Governarono, con alterne vicende, la contea di Celano per diversi secoli dal 1143 al 1461 . Gli abitanti di  Amiterno  e  Forcona  si rivoltarono contro di loro, uccidendone la maggior parte, i restanti furono costretti a ripiegare verso L'Aquila e a rinunciare ai loro possedimenti. La famiglia Ocre vide la distruzione del castello eponimo, così come successo ai Barile. Altre due famiglie, Borrello e Di Sangro, si rifugiarono rispettivamente in Sicilia e in Puglia, mentre altre ancora preferirono stabilirsi a Rieti e Roma” (5)

1) https://www.luoghimisteriosi.it/abruzzo/fossacesia.html
2) https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_B%C3%A9rard
3) https://it.wikipedia.org/wiki/Tommaso_di_Ocre
4) https://it.wikipedia.org/wiki/Tommaso_da_Celano_(conte)
5) https://it.wikipedia.org/wiki/Berardi_(famiglia)

venerdì 27 marzo 2020

Sulle tracce del Sacro Graal

UNA DELLE LEGGENDE PIU' AFFASCINANTI LEGATE AL FOLKLORE MEDIEVALE EUROPEO

La mitica coppa che raccolse il sangue del Cristo morente sarebbe stata ritrovata un paio di anni fa da uno studioso inglese nel suo Paese, dove sarebbe giunta per metterla in salvo all'epoca in cui i Visigoti assediavano Roma. Ma che cos 'è realmente il Graal e che cosa si sa sul suo conto? Vediamo quali sono le ipotesi sulla sua vera natura e sui nascondigli che lo avrebbero celato per secoli.

di Marco Fornari

    Nel mese di agosto del 1995 si e ufficialmente conclusa la millenaria ricerca del Santo Graal. Questo, in breve, e il sunto dei vari comunicati stampa che hanno fatto il giro del mondo dopo le dichiarazioni dello studioso inglese Graham Phillips, secondo il quale la mitica coppa sarebbe di proprietà di una sua connazionale, la disegnatrice pubblicitaria Victoria Palmer, residente a Rugby poco distante da Coventry. Phillips, sulle tracce del Graal da parecchio tempo, sostiene di aver condotto i suoi studi senza mai uscire dal paese in cui vive e basandosi sulle numerose tradizioni che vorrebbero il sacro calice nascosto in qualche parte della Gran Bretagna. Ma procediamo con ordine. Che cos'è, innanzi tutto, il Sacro Graal e come è nata la sua leggenda?

IL CALICE DELL'ULTIMA CENA

    Il Sacro Graal è, secondo la tradizione, il calice in cui Gesù bevve durante l'Ultima Cena. Ed è anche lo stesso calice Arimatea (forse uno zio di Gesù), recuperò l'oggetto e io conservò come un prezioso e potente talismano portandolo con sé in viaggio fin nella lontana Britannia. Altre fonti narrano invece che il calice, recuperato da Maria Maddalena, fu posto nel Santo Sepolcro dove, nel 327 d.C. fu rinvenuto dall'imperatrice Elena, madre di Costantino il Grande. Per impedire che cadesse in mano ai Visigoti che assediavano Roma, la sacra reliquia venne in seguito portata in Britannia e lì nascosta. Indagando su alcune leggende inglesi riguardanti Maria Maddalena, Graham Phillips ha ristretto l'area delle sue ricerche alla contea dello Shropshire nel cuore dell'Inghilterra.
Seguendo questa traccia, Phillips scoprì che a metà dell'Ottocento lo storico Thomas Wright recuperò la coppa e la nascose a sua volta nel parco di Hawkstone, vicino a Coventrv, disseminando in un poema di sua creazione gli indizi per poter giungere al nascondiglio. Questi indizi sono stati decifrati da Phillips che, giunto in una grotta di Hawkstone Park, ha trovato ai piedi di una statua la teca che avrebbe dovuto contenere il Graal. Della sacra coppa però nessuna traccia. Cos'era accaduto? Phillips era stato semplicemente "preceduto" da un discendente di Wright che, giunto alle sue stesse conclusioni nel 1920, si era impadronito della coppa lasciandola poi in custodia alla sua famiglia. La nipote, Victoria Palmer, disegnatrice di professione, aveva ricevuto l'oggetto in eredità senza sapere di cosa si trattava e la mitica coppa era andata quindi a finire in soffitta tra i cimeli di famiglia.
A guardarlo, il presunto Graal lascia un po' delusi. L'oggetto scoperto da Graham Phillips non è altro che un vasetto d'onice talmente piccolo da stare nel palmo di una mano. Tuttavia, secondo gli esperti del British Museum, si tratta effettivamente di una coppa del I secolo d. C. proveniente dalla Palestina allora occupata dai Romani.
Inoltre Phillips afferma che il suo Graal corrisponde alle prime descrizioni fatte della reliquia recuperata nel 327 all'interno del Santo Sepolcro. E' quindi possibile che il calice ritrovato dallo studioso inglese sia lo stesso che l'imperatrice Elena portò a Roma convinta che fosse il Graal. Ma lo era realmente?

    A contestare decisamente le affermazioni di Graham Phillips è Rocco Zingaro, conte di San Ferdinando e Gran Precettore dell'Ordine dei Cavalieri Templari. L'Ordine, infatt,i sarebbe in possesso della sacra reliquia fin dal 1972, da quando cioè il professor Antonio Ambrosini, archeologo e professore emerito all'Università di Roma, ne fece dono a Zingaro in persona in occasione delle sue nozze, affermando di aver trovato la reliquia in un monastero copto egiziano. L'oggetto, non molto dissimile da quello rinvenuto da Phillips, è un piccolo vaso di opalina azzurra alto nove centimetri e largo alla base sette. Purtroppo non c'è nessuna prova che si tratti effettivamente del Graal, anche se legami tra la mitica reliquia e i cavalieri Templari sono sempre stati molto stretti.

MOLTE VERSIONI DI UN MITO

    Fin qui siamo partiti dal presupposto che il Graal sia in effetti la coppa in cui venne raccolto il sangue di Cristo (il termine Graal deriva dal latino "gradalis", parola che indica un vaso, un calice o una tazza). E difatti questa è la versione tradizionale della storia, quella più conosciuta e anche quella che ha acceso la fantasia di poeti, ricercatori, storici. Si tratta di una versione che affonda le sue radici nel folklore medievale e che trova riscontro in numerosi poemi cavallereschi, in particolare quelli appartenenti al ciclo arturiano (costituito dai romanzi della Tavola Rotonda e da altri scritti incentrati sulla figura dei cavalieri di Re Artù). In particolare l'idea che oggi noi abbiamo del Graal e delle vicende ad esso legate è quella che uno scrittore del XV secolo, Sir Thomas Mallory, ci ha tramandato nella sua versione delle leggende arturiane. Mallory però aveva lavorato su fonti antiche di origine francese. Prima fra tutte l'opera "Perceval, ou le comte du Graal", scritta dal francese Chretiene de Troyes, risalente al XII secolo, in cui viene citato per la prima volta l'oggetto sacro. In realtà Chretiene non specifica il fatto che si tratti di una coppa ma precisa solo che il Graal è d'oro e incastonato di pietre preziose. Un'altra fonte di Mallory fu lo scrittore Robert de Boron, che menziona la reliquia nel suo Joseph d'Arimathiae, Le Roman de l'Istoire du Graal, definendola "il calice dell'Ultima Cena" recuperato da Giuseppe di Arimatea dopo la crocifissione di Gesù e successivamente trasportato in Britannia.

    Ma vi è un'altra versione della storia del Graal, totalmente diversa, narrata questa volta da uno scrittore bavarese, Wolfram con Eschenbach, agli inizi del XIII secolo. L'opera si intitola Parzifal e in essa il Graal è descritto come una pietra  "di un genere più puro", uno smeraldo caduto dalla testa di Lucifero durante la discesa agli inferi degli angeli ribelli. Inoltre la pietra-Graal di Von Eschenbach è ammantata di una spiritualità profonda e la sua ricerca equivale al conseguimento della rivelazione divina. Un oggetto, dunque, sia materiale che spirituale. La stessa ambivalenza la possiamo riscontrare in altre versioni e addirittura in un'opera anonima del XIII secolo, Le Grand Graal, secondo la quale la reliquia è in realtà un libro scritto da Gesù stesso che contiene segreti e conoscenze inimmaginabili. A questo punto è chiaro che districarsi nella Materia di Bretagna (con questo nome si è soliti designare il complesso di tradizioni e leggende del ciclo arturiano), è alquanto complicato e definire la reale natura del Graal diventa una vera impresa, un rompicapo per pochi eletti.

    Se consideriamo poi che il Graal potrebbe non essere affatto "qualcosa" ma piuttosto un simbolo, un archetipo spirituale o peggio un'invenzione letteraria frutto dell'elaborazione in chiave cristiana di temi squisitamente pagani, verrebbe quasi da pensare che la sua realtà oggettiva non potrà mai essere dimostrata. Del resto la simbologia legata al Graal è quasi sicuramente di derivazione pagana e risale con ogni probabilità al culto della Grande Madre Terra, il ventre fecondo da cui ha origine la vita. Nella mitologia troviamo infatti numerosi riferimenti agli straordinari poteri di vasi e contenitori magici. Pensiamo alla "coppa della vita" dei Celti o alla cornucopia dei Greci, oggetti dispensatori di ricchezza e conoscenza.

L'ARCA DELL'ALLEANZA

    Tuttavia Graham Hancock, giornalista e scrittore inglese, autore di libri quali "Impronte degli Dei" e "Custode della Genesi", ha provato a partire da presupposti diversi ed è giunto a una interessante conclusione. Nel suo libro The Sign and the Seal, il Segno e il Sigillo (Il Mistero del Graal, Piemme 1995), Hancock accomuna la leggenda del Graal a quella di un altro famoso contenitore perduto, ovvero la biblica Arca dell'Alleanza. Ad accomunare i due oggetti sarebbe nientemeno che la Vergine Maria. In effetti nella Litania di Loreto, antica preghiera dedicata a Maria, quest'ultima viene definita Archa Foederis (in latino Arca dell'Alleanza). La stessa cosa accade in alcuni scritti di San Bernardo da Chiaravalle e in altre fonti della tradizione cristiana. Ma la Madonna può anche essere associata al Graal. Infatti, sempre nella Litania di Loreto, la Vergine è definita Vas Spirituale, Vas Honorabile, Vas insigne devotionis, cioè Vaso spirituale, Vaso onorabile, Vaso unico di devozione. li grembo di Maria sarebbe in definitiva il contenitore-Graal da cui e scaturita la divinità sotto forma del Cristo.
Dunque se la figura della Vergine racchiude in se, sia pure allegoricamente, i due oggetti sacri, secondo Hancock è lecito pensare che essi siano la stessa cosa. E lo scrittore inglese avrebbe anche individuato l'ubicazione dell'Arca-Graal. L'oggetto si troverebbe in Etiopia, nella città di Axum. All'interno del Sancra Santorum della chiesa di Santa Maria di Sion, ben protetto canonici locali che non permettono a nessuno l'ingresso nella parte del tempio in cui è custodita la reliquia.

IL GRAAL E IL SANGUE REALE

    Ancora più curiosa l'interpretazione della vera natura del Graal fatta da Michael Baigent, Richard Leigh e Heny Lincoln, tre scrittori autori del libro "Il Santo Graal" (Mondadori 1987). Secondo i tre il mistero del Graal e in realtà un clamoroso equivoco linguistico. L'etimologia del termine Graal sarebbe infatti incompleta senza l'attributo ricorrente "San". San Graal dunque, e non semplicemente Graal. E San Graal sarebbe a sua volta una trascrizione errata, dovendosi leggere in effetti Sang Real ovvero "sangue reale". Ma il sangue reaie di chi? Secondo li trio Baigent-Leigh-Lincoln "sangue" sta per "dinastia" o "stirpe". Dopo anni di ricerche i tre scrittori hanno ricostruito la loro versione giungendo alla seguente conclusione: Gesù scampò al supplizio della croce e si rifugiò in Francia presso una comunità ebraica. In seguito sposò Maria Maddalena dalla quale ebbe dei figli. I suoi discendenti regnarono con il nome di Merovingi creando in seguito il Sacro Romano Impero.

    Qual è la verità? E quasi impossibile districarsi tra i pezzi sparsi di questo gigantesco puzzle. Se anche ci fosse stata una realtà oggettiva nella leggenda del Graal, il suo significato ormai trascende l'aspetto materiale della questione. Graal è ormai sinonimo di iniziazione, di esoterismo, di storia dell'occulto, di simbolismo e di quant'altro possa essere associato al mistero. Quel che è certo è che questo nome, qualunque cosa rappresenti, ha il potere di stimolare l'intelletto umano oltre ogni misura e in questo senso riveste un'importanza fondamentale. Ma ancora più importante del Graal è la Ricerca del Graal, non dell'oggetto in sé ma di quello che rappresenta: la Conoscenza, forse la perfezione.

    In questo senso si può affermare che l'eterna ricerca è tutt'altro che conclusa.