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sabato 2 maggio 2020

Atlantide fu distrutta da uno tzunami, ora la cercano in Andalusia

tratto da "Il Giornale" del 28/08/2009

Esperti concordi sull'idea che fu un'onda (molto) anomala a distruggere la civiltà  di cui racconta Platone e che con il suo mito  affascina il mondo occidentale da tre secoli. Ora in Spagna cominciano le ricerche guidate da due scienziati tedeschi

di Vincenzo Pricolo

Per la prima volta nella storia delle ricerche su Atlantide i maggiori esperti sembrano finalmente d'accordo su un punto centrale: la grande civiltà tramandata dagli Egizi e raccontata da Platone fu travolta da un enorme tsunami.
«Le due tesi principali oggi in concorrenza su quale fosse l'Atlantide di Platone sono Santorini, nell'Egeo, e Donana, sulla costa atlantica spagnola, e in entrambi i casi gli esperti sono ormai orientati a credere che venne distrutta da un grande tsunami», dice all'Ansa Rainer Kuehne. Lo studioso tedesco è con le sue ricerche l'ispiratore, insieme a Werner Wickboldt, degli scavi che iniziano sulla costa dell'Andalusia alla ricerca della misteriosa città di Tartessos, forse all'origine del mito di Atlantide.
«Io sono convinto dell'ipotesi Tartessos - dice Kuehne - anche se alcuni argomenti giustificano la tesi, proposta nel 1950 da Spyridon Marinatos, secondo cui la grande eruzione vulcanica che distrusse Santorini sarebbe stata all'origine sia del collasso della civiltà minoica che della leggenda di Atlantide».
Nel racconto di Platone Atlantide era una potenza navale situata oltre le Colonne d'Ercole che dominò parte dell'Europa occidentale e dell'Africa 9mila anni prima del tempo di Solone, che avrebbe appreso della civiltà scomparsa dagli egizi. E furono gli egizi, secondo Platone, a raccontare a Solone che, dopo avere fallito l'invasione di Atene, Atlantide sprofondò «in un giorno e una notte di disgrazia».
Essendo una storia funzionale ai dialoghi di Platone, quella di Atlantide è stata a lungo, almeno fino a tutto il Medioevo, considerata come un mito concepito dal filosofo greco per illustrare le proprie idee politiche.
E fu solo nel corso dell'Ottocento e del Novecento si moltiplicarono le teorie più o meno scientifiche, le rivelazioni di sensitivi, ricostruzioni «fantastoriche» e soprattutto le ipotesi su dove si trovasse la mitica civiltà platonica: dai Caraibi all'Antartide passando per Lemuria, il «continente perduto». E ancora, la stessa America (con le sue civiltà precolombiane), la Sardegna (con le Colonne d'Ercole «spostate» al Canale di Sicilia), il deserto del Sahara, in mezzo all'Oceano Atlantico (e quindi ora sotto il Mar dei Sargassi), Cipro, Rodi, Creta...
Quel che è certo è che il mito di Atlantide affascina l'immaginario letterario e culturale dell'Occidente da almeno tre secoli, da quando cioè all'inizio del Settecento lo studioso svedese Olaus Rudbeck ipotizzò che la civiltà scomparsa fosse fiorita in Scandinavia.
Come osservò lo scrittore americano Lyon Spraugue de Camp: «La ricerca di Atlantide colpisce le corde più profonde del cuore per il senso della malinconica perdita di una cosa meravigliosa, una perfezione felice che un tempo apparteneva al genere umano. E così risveglia quella speranza che quasi tutti noi portiamo dentro: la speranza tante volte accarezzata e tante volte delusa che certamente chissà dove, chissà quando, possa esistere una terra di pace e di abbondanza, di bellezza e di giustizia, dove noi, da quelle povere creature che siamo, potremmo essere felici».

sabato 25 aprile 2020

ATLANTIDE Il posto delle favole

tratto da "il Giornale" del 31/12/2006

di Idolina Landolfi

È il Platone del dialogo «atlantico» Crizia (ma anche del Timeo, sebbene in minor misura), ad avere innescato nel IV secolo a.C. uno dei dibattiti più durevoli che si conoscano, che attraversa tutto il mondo antico, quello latino, il medievale, il secolo dei Lumi e l'Ottocento romantico, fino ai nostri giorni, in cui non pare placato - sebbene ridotto, ormai, a qualche voce isolata e per lo più bislacca. È mai esistita la mitica Atlantide, il continente sommerso dai flutti per volere di Zeus, una volta accortosi che la nobile schiatta dei suoi abitanti «stava degenerando verso uno stato miserevole», quello di ogni cupidigia ed eccesso?
Platone lo propone nel Timeo come «un discorso certamente singolare, ma tutto vero», stando almeno a come lo raccontò un giorno Solone, riferendo eventi anteriori di novemila anni. (Discorso soprattutto di natura politica: l'Atene preistorica, «la migliore in guerra e \ governata da ottime leggi» sconfigge con il suo valoroso esercito la potenza marinara.) E se è esistita, dov'era esattamente collocata? Ancora la tradizione platonica resta in tal senso la più autorevole: oltre le colonne d'Ercole (lo stretto di Gibilterra), in pieno oceano, ed era più grande della Libia e dell'Asia messe insieme: un'isola meravigliosa, regno di una perpetua età dell'oro; ma fattasi in seguito bellicosa, tanto da attaccare vari imperi del Mediterraneo e la stessa Atene. La quale, come dicevamo, riesce a contrastare l'aggressione.
Era quella, però, un'epoca di continui rivolgimenti ambientali, in un pianeta ancora magmatico e non ben raffermato nei suoi confini: le distruzioni «per acqua» erano le più frequenti, diluvi e maremoti scompigliavano le linee del mondo e annegavano il genere umano, metodo evidentemente tra i più pratici per la divinità, quando riteneva giunto il momento di punire quel «coso con due gambe» (per dirla con Gozzano) se alzava un po' troppo la cresta - salvo risparmiarne sempre, chissà perché, due esemplari, una coppia che in maniere più o meno fortunose (Deucalione e Pirra, per citarne una, dai cui sassi gettati sulla Grande Madre Terra rinascono gli uomini e le donne) perpetua il genere umano. Così, per Atlantide, e per la stessa Atene, il destino è segnato: «Dopo che in seguito, però, avvennero violenti terremoti e diluvi, nello spazio di un sol giorno e di una sola notte funesti, tutta la nostra flotta fu inghiottita d'un sol colpo sottoterra e l'isola Atlantide s'inabissò allo stesso modo nel mare».
La ricerca di Atlantide - intellettuale, per pura sete di conoscenza, e materiale, per via dei tesori che essa celava - sarà da allora in poi inesausta; di fantasie atlantidee abbonda la letteratura di ogni epoca, e anche di spedizioni più o meno disastrose negli abissi oceanici - comunque a tutt'oggi fallimentari. Del resto Platone la descrive nel Crizia in maniera straordinariamente allettante: proprietà di Poseidone al momento della pacifica spartizione del mondo tra gli dèi olimpî, egli la rende un vero paradiso in onore della fanciulla Clito, che fa sua sposa e con la quale genera le cinque coppie di maschi, primo fra tutti Atlante, futuri sovrani del regno, origine della stirpe (e non si sa come, data la mancanza di femmine - ma certi eccessi del vecchio filosofo sono noti: nella gerarchia delle incarnazioni sostiene che le peggiori siano quelle di donna e di animale, ultimi i pesci). La terra spontaneamente ferace, le fonti di acqua calda e fredda, i preziosi metalli che vi abbondano (tra cui il leggendario oricalco «dai riflessi di fuoco», che rivestiva statue e palazzi), gli animali di ogni specie, domestici e selvaggi, elefante compreso, «il più grosso e il più vorace»; e ancora le opere che Poseidone compie, «da dio par suo», le plurime cinte murarie, il sistema di canali e il porto, crocevia di popoli dove giungevano le merci più disparate e preziose, e i templi d'oro e d'avorio e d'argento...
Una sorta, insomma, di paese fuori dal tempo e dallo spazio, che sarebbe facile riferire - come è stato ampiamente fatto - all'opera di una razza non terrestre. Ben a ragione, fra le tante altre cose interessanti, scrive Pierre Vidal-Naquet, nel suo ultimo saggio Atlantide. Breve storia di un mito (Einaudi, pagg. 141, euro 18, traduzione di Riccardo Di Donato), a proposito del racconto di Atlantide e della guerra contro Atene, che Platone «ha inventato un genere letterario che resta ancora in vita, \ la fantascienza. Di tutti i miti che ha creato, è in qualche modo il solo che abbia attecchito».
Dalle prime ipotesi di localizzazione, quelle greche (l'isola di Creta, e Santorini, Thera per gli antichi, sconvolte entrambe da un'eruzione vulcanica), lo studioso francese segue le tracce del mito nelle varie epoche: dalla letteratura ellenistica, Diodoro Siculo, attraverso Plinio il Vecchio, Ammiano Marcellino, fino, in era cristiana, ai vari tentativi di conciliare la tradizione biblica con la classica greca (individuando talvolta il continente perduto nella Palestina). Alcuni, come Origene, si concentrano sul conflitto Atlantide-Atene, metafora dello scontro di forze entrambe demoniache. Altri, come Proclo, vi vedono l'opposizione cosmica tra «il mondo dell'Uno e quello della Diade, tra lo Stesso e l'Altro». Per l'umanista Marsilio Ficino Atlantide era e resta un luogo della mente (ma non per questo meno veridico); quindi, con la scoperta dell'America, nasce tutto un filone di ricerca atto ad identificare Atlantide col Nuovo Mondo, nonché a giustificare storicamente, a vario titolo, i diritti accampati su di esso dal regno di Spagna (operazione nazionalistica ripresa dalla Germania nazista e dai suoi ideologi, Himmler in testa, che riconoscerà in Atlantide la patria favolosa della superiore razza ariana).
Eredità di Atlantide ritroviamo nell'isola di Bensalem di Francesco Bacone, governata da sapienti e abitata da una popolazione casta; mentre ancora nel XVII secolo la bizzarra mente di uno svedese, Olaüs Rudbeck, la ravvisa nella Svezia, e con sussidio di ponderosi volumi tende a dimostrare che la Scandinavia, con i suoi gloriosi abitatori, è appunto culla di ogni civiltà occidentale. L'ubicazione nelle Canarie o nelle Azzorre è più volte ripresa, a distanza di secoli; per Voltaire è l'isola di Madera. Il padre dell'occultismo francese, Fabre d'Olivet, fonde tradizione biblica e racconto platonico, col risultato di uno stupefacente pastiche. E, per rimanere in ambito esoterico, ecco William Blake, che complica il succitato pastiche con la tradizione americana e celtica, e il suo Albione, antenato dei Bretoni, altri non era se non il «patriarca del continente atlantico».
Approdando alla Francia ottocentesca, chi non conosce il viaggio tra le rovine di Atlantide del capitano Nemo e del professor Arronax in Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne? Meno noto da noi, ma egualmente significativo, il romanzo Atlantide di Pierre Benoit, che la colloca nell'Hoggar, altipiano sahariano, e le attribuisce una società governata da donne, la cui regina, Antinea, si serve degli uomini e poi li uccide, esponendoli, ben imbalsamati, nella «sala di marmo rosso». Vedete un po' come e quanto può ribaltarsi la misoginia platonica.


sabato 21 gennaio 2017

La caccia e il mito nel libro di Calasso

tratto da "L'Opinione" del 27 novembre 2016

di Giuseppe Talarico

Per cogliere il momento aurorale della civiltà umana, quando migliaia di anni fa l’uomo si separò dal mondo animale, è utile e fondamentale leggere l’ultimo libro di Roberto Calasso intitolato “Il cacciatore celeste” (Adelphi).


In questo libro, in cui l’autore con la sua cultura sconfinata spazia dall’antropologia alla storia, dalla letteratura alla filosofia, Calasso mostra come all’inizio non vi fosse nessuna distinzione tra gli uomini, gli animali, gli dèi, la natura. In virtù di due eventi capitali, che avvennero nel Paleolitico, la pratica della caccia e il passaggio alla dieta carnea da parte dell’homo sapiens, si ebbe la separazione tra mondo umano e mondo animale. Vi è, secondo Calasso, un’evidente e innegabile relazione tra la pratica della caccia e l’elaborazione di una sequenza di pratiche rituali. Infatti, per separarsi dal branco animale, l’homo sapiens dovette ricorrere al travestimento e all’uso della maschera. Imitando gli animali predatori, l’homo sapiens divenne a sua volta cacciatore.

Tra la figura dello sciamano, che con il tamburo rivestito dalla pelle di animali evocava il mondo invisibile, attirando a sé gli animali, e l’uomo cacciatore, che mirava ad ucciderli, vi è una somiglianza sorprendente. L’invisibile, a cui i riti sacrificali fanno costante riferimento, è il luogo in cui si trovano gli dèi, i morti, gli antenati, il passato intero della civiltà umana.

Analizzando le opere di Esiodo e Apollonio Rodio, Roberto Calasso descrive l’età degli Eroi, quando il divino scorreva tra gli esseri umani, perché Zeus o Poseidone o Afrodite si erano mescolati nell’Eros con i mortali. I peccati capitali di fronte agli dèi commessi dagli uomini furono l’imitazione dei predatori e la loro separazione dal mondo animale. Fu necessaria l’incubazione di cinquantamila anni affinché l’homo sapiens scoprisse la tecnica legata all’agricoltura e sperimentasse la vita domestica.

Secondo Teofrasto il sacrificio cruento, di cui vi è testimonianza in diverse civiltà del passato, da quella dei Veda a quella egizia e greca, si basava su tre elementi fondamentali: reverenza, utilità, riconoscenza. Il sangue, ricavato dal rito sacrificale, doveva purificare l’uomo della sua colpa originaria, dovuta alla sua attività di predatore e cacciatore. Proprio un paleoantropologo nel 1995 ha rinvenuto a Göbekli Tepe (Turchia) un sito archeologico nel quale sono state riportate alla luce enormi pietre in cui sono rappresentati gli animali che si mostrano ostili verso l’uomo. Ovidio nella suo poema i “Fasti” ha descritto i riti sacrificali che avvenivano nella Roma antica, alcuni dei quali sono avvolti dal più fitto mistero come i Lupercalia. I romani celebravano i riti sacrificali senza essere consapevoli del loro significato spirituale, perché la città si fondava sui riti. Nel libro XV delle “Metamorfosi” di Ovidio, che racchiude il racconto della mitologia classica, Pitagora con tono ispirato dal divino definisce la dieta carnea come la colpa irredimibile dell’uomo. Numa, suo allievo, osserva che la pratica rituale costituisce il primo stadio della civilizzazione avvenuta a Roma, fin dalla sua fondazione.

Nel libro vi è un capitolo dedicato alla interpretazione del dialogo di Platone “Le Leggi”. In questo dialogo l’ateniese, che personifica Platone, conversando con due suoi amici, si pone l’interrogativo filosofico decisivo e ineludibile per capire se le vicende umane siano governate dal caso oppure da Dio, chiedendosi quale importanza debba essere attribuita alla fortuna. Per gli uomini il riferimento al mondo degli dèi e al divino è stato sempre imprescindibile e fondamentale per vagheggiare la città giusta e la costituzione della Polis, giusta ed esente da imperfezioni. Il capitolo dedicato alle “Enneidi” di Plotino, che a distanza di sette secoli commentò nella sua opera i testi di Platone, è nel libro di Calasso bello e indimenticabile. Per Plotino la creazione coincide con la contemplazione, in virtù della quale dall’Uno, che è eterno e immobile, ha avuto origine la Mente, da cui ha preso forma l’anima universale e quella individuale di ogni persona. L’Uno è all’origine del mondo, del bene e del bello. Per mostrare quanto fosse importante la relazione tra l’umano e il divino, Calasso nel libro racconta l’episodio della notte delle Ermocopidi, quando le Erme vennero ad Atene devastate e sfigurate. Le Erme, che simboleggiavano il Divino, erano visibili di fronte ai templi e ai santuari, ma sovente si trovavano collocate dinanzi alle case di privati. Per questo crimine vennero condannate a morte venti persone. I misteri di Eleusi, una città che si trovava a venti chilometri di Atene, distrutta in seguito ad una guerra dagli ateniesi, contemplavano il compimento di una serie di miti, osservati per undici secoli. Per svelare il mistero che circonda questi riti, Calasso offre al lettore una descrizione assai coinvolgente delle diverse interpretazioni avanzate dagli studiosi lungo i secoli. In un punto di questo libro, Calasso cita un frammento tratto dal Tieste: “Non vi è nulla per gli umani senza gli dèi”.

Un libro imperdibile.

venerdì 3 luglio 2015

Atlantide e altri non-luoghi Alla ricerca del mito perduto

tratto da Il Giornale del 22 febbraio 2010

di Gianfranco de Turris

Il 26 dicembre 2004 sul fondo dell’Oceano indiano, a 200 km a Ovest di Sumatra, la Placca indiana all’improvviso scivolava rapidamente sotto la Placca birmana spingendola verso l’alto di cinque metri e spostando l’isola indonesiana verso Est di una ventina di metri. Il risultato di questo terremoto sottomarino di magnitudo 9,3 e di 8,5 gradi della Scala Richter e del successivo spostamento della massa d’acqua superiore, era un’onda anomala che si propagava alla velocità di 850 chilometri l’ora per tutto l’Oceano Indiano raggiungendo con uno tsunami dai dieci ai trenta metri di altezza a oriente le coste di Indonesia, Malaysia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh, e ad occidente quelle di Sri Lanka, India e Maldive, sommergendo tutte le piccole isole che si trovava davanti. Coste devastate, isole sommerse, intere popolazioni scomparse su quelle più piccole, danni incalcolabili. I morti e i dispersi accertati hanno superato i trecentomila, anche se una cifra esatta non si saprà mai. Il maggior disastro dell’epoca moderna.
Se tutto questo è avvenuto nel XXI secolo, perché non potrebbe essere avvenuto anche 9mila anni prima di Platone che ci racconta nel Timeo e nel Crizia come nel corso di «una notte tremenda» terremoti e maremoti sommersero l’isola di Atlantide che sprofondò nell’oceano? Questo solo per dire che dal punto di vista «scientifico» la storia che ci racconta il filosofo greco può non essere considerata una fandonia agli occhi dei «moderni». Il fatto è che, esistito o meno nella realtà il regno di Atlantide, esso servì a Platone per lanciare nel tempo il suo mythos, la sua fabula, che contiene degli insegnamenti in positivo e in negativo: al tempo stesso la sua «utopia» e la sua «antiutopia», descrivendoci una società perfetta di discendenza divina che diventa arrogante ed «empia» nel momento in cui dimentica o perde, appunto, quella «scintilla divina» che aveva dentro di sé.
Un mito così affascinante che nell’arco di due millenni e mezzo è giunto sino a noi, un mito a cui molti hanno creduto e che si è andato arricchendo e ampliando a seconda del periodo storico in cui venne accolto. Di tutta questa affascinante storia ci parla Davide Bigalli, che insegna storia della filosofia all’Università di Milano ne Il mito della terra perduta (Bevivino, pagg. 226, euro 20) che segue passo passo il tema dalle origini ai nostri giorni.
Il professor Bigalli scrive dunque che Atlantide «appartiene al mondo del pensiero», è «un consapevole mythos, volto a delineare, in una remota antichità, modelli di civiltà, dove le costruzioni politiche, a misura che si distaccano dall’immagine ideale, corrono a catastrofe divenendo esemplari di una contro utopia». Nello stesso tempo, l’autore fa notare, credo per primo, come questo mito, quando su quella ideale/filosofica/simbolica prevale la parte della narrazione, del racconto, della elaborazione fantastica (del resto il termine greco mythos proprio questo vuol dire) «diventa una esemplare non-luogo, il regno di una alterità che non può rinchiudersi né venire raggiunta per entro i termini di realismo geografico. Diventa un altro mondo».
Ecco perché nel corso dei secoli ha appassionato anche esploratori, avventurieri, geografi, personaggi folli e bizzarri che ne sono andati concretamente alla ricerca tentando di localizzare Atlantide qui e la, in quasi tutte le parti del mondo. E perché il suo archetipo abbia dato vita ad altre «terre perdute» di cui sempre parla Bigalli: Mu e Lemuria, ad esempio, ma anche Agartha e Shamballah, forse anche l’Eldorado, e addirittura la fantastica teoria ottocentesca della Terra Cava.
Un libro denso, zeppo di riferimenti e di citazioni tratte dai testi più singolari e sconosciuti che ci dimostra come anche di miti viva il genere umano, ancorché sempre più dotto e scettico. È sufficiente che questo mito da pura idea filosofica esemplare sia trasformato in riferimento storico-geografico, come in effetti è avvenuto.