Visualizzazione post con etichetta Davide Brullo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Davide Brullo. Mostra tutti i post

domenica 13 gennaio 2019

Quando la caccia era una lotta alla pari tra l'uomo e gli dèi

tratto da "Il Giornale" del 17/07/2018

Il libro per l'estate. Eccolo. Non è la bordata di un dandy sfregiato dalla calura: d'estate si vendono i «gialli», i libri del Papa in attesa di conversioni meridiane e i romanzetti sociologici e patetici degli scrittori nostrani, sociopatici

di Davide Brullo

Il libro per l'estate. Eccolo. Non è la bordata di un dandy sfregiato dalla calura: d'estate si vendono i «gialli», i libri del Papa in attesa di conversioni meridiane e i romanzetti sociologici e patetici degli scrittori nostrani, sociopatici.

Roba da ronfare sotto l'ombrellone. Qui, invece, c'è tutto l'eccitabile, narrativamente parlando. Spazi incontaminati, come si dice, lotta, sangue, spiriti, fughe nell'oltretomba, mito, pietà e violenza. Qualcosa che sta tra il bagliore omerico e l'epopea cavalleresca. Credete. Se fate un piccolo sforzo di prospettiva romanzesca (ma chi ci crede a uno che ti racconta l'ennesima storia senza avere nulla da dirti, da darti?) I riti di caccia dei popoli siberiani (Adelphi, pagg. 230, euro 30; con un saggio di Claudio Rugafiori) è il libro adatto per non soccombere alla noia vacanziera. Il tomo, evviva, non è il solito romanzo, ma lo studio più famoso di una antropologa francese, Éveline Lot-Falck (1918-74), una con gli attributi (fa la resistenza presso il Musée de l'Homme e assiste all'uccisione di alcuni colleghi, «fucilati dai tedeschi il 23 febbraio 1942») e con la testa (Claude Lévi-Strauss crea per lei la «cattedra di Religioni dell'Eurasia»), riconosciuta come la massima esperta di sciamanesimo siberiano.


Il libro sui Riti di caccia dei popoli siberiani una pietra miliare, uscito in origine nel 1953, così ci tocca sfogliare una bibliografia pressoché inutile, con testi del 1914, del 1924, del 1905, del 1909... una precedente traduzione italiana è del 1961, per il Saggiatore ci porta in luoghi atavici, dove «il cacciatore considera l'animale almeno come un suo pari», anzi, «l'animale è superiore all'uomo sotto uno o più aspetti: per forza fisica, agilità, finezza dell'udito e dell'olfatto», dove la caratteristica del dio supremo «sembra essere la passività, l'indifferenza», ma tutto, al Nord, dove la natura troneggia e l'uomo è un accidente, ha uno spirito di cui occorre conoscere i nomi, la struttura grammaticale, per così dire. Oltre al paesaggio visibile, bisogna conoscere quello invisibile, fatto da «spiriti erranti, spesso pericolosi», oppure da «defunti divinizzati», in una visione labirintica dell'al di là, dove «strette relazioni uniscono i morti e i vivi». La caccia, così, richiede un rito preparatorio molto lungo («È essenziale che il cacciatore, al momento della partenza, si trovi in stato di grazia, che sia stato purificato da ogni macchia, da ogni contatto con ciò che si lascia alle spalle»), costellato da amuleti, invocazioni, per entrare in sintonia con l'animale da uccidere.

Quando si uccide, bisogna guardare in faccia la bestia, sfidarla senza malizia «Se si attacca l'orso nella sua tana, prima di colpirlo bisogna svegliarlo. Lealtà, purché reciproca: l'orso a sua volta non ucciderà il cacciatore nel sonno» e un'attenzione particolare è dedicata alle armi, sempre le stesse («Un forte legame di simpatia unisce l'arma al suo possessore. L'arma assiste l'uomo come un essere vivente, non lo abbandona mai, annuncia a volte ai parenti la morte del loro congiunto»), tramandate, come in una Iliade artica. L'innovazione tecnica, infatti, facilita la caccia ma distrae dal rito, fino a disintegrarlo. «Col passare del tempo, le tradizioni antiche e moderne si trovano fianco a fianco, il giavellotto coesiste col fucile. Poi si produce una rottura dell'equilibrio. L'uomo abbandona le armi primitive per quelle perfezionate offerte dalla cultura moderna. La tecnica si svuota del suo contenuto magico-religioso, l'uomo perde il contatto con l'altro mondo». La tecnica rende ogni cosa equivalente: una bestia è uguale a un'altra, dalla foresta gli spiriti sono in fuga, la preghiera è un vezzo superstizioso, il mondo sta zitto, è da sfruttare, il cielo è uno sbadiglio che inquieta.

Il cuore dell'uomo, ora, è un groviglio di enigmi. Così la Siberia diventa una magione dell'Occidente, una terra senza nomi.

venerdì 21 agosto 2015

Le guerre stellari dell’induismo

tratto da "Il Giornale" del 21 giugno 2010

di Davide Brullo

Gli antichissimi poemi del profondo Oriente hanno ispirato legioni di scrittori italiani e anticipato perfino le saghe fantascientifiche. Nei Meridiani una raccolta con novità


Il primo è stato Arthur Schopenhauer. La memorabile chiusura del Mondo come volontà e rappresentazione, teatrale e perfino shakespeariana («per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla»), è condita con gli odori dell’India. È lo stesso Re Arthur a dircelo: oltre ai visionari dei paesi suoi, Angelo Silesio («mistico mirabile di eccezionale profondità») e Meister Eckhart («mistico ancora più grande» e dagli «scritti meravigliosi»), adopera e s’imbeve dei Veda («frutto della più alta dottrina e della più profonda saggezza umana») e delle Upanishad («il dono più prezioso»). Da filosofo tragico Schopenhauer fatica ad attraversare il deserto della Bibbia, adora smarrirsi nei ghirigori metafisici, nei labirintici laboratori della mente indù. Schopenhauer apre l’agenzia viaggi per l’India che sarà presa d’assalto nel Sessantotto: tutto l’Occidente si precipita laggiù a scoprire la via, la verità e la vita. C’è poco da stupirsi, anche Lev Tolstòj riteneva che i Vangeli trovassero compimento grazie a una risciacquatura nel profondo Oriente, riscritti da Confucio e da Krishna.
Signori, risparmiate il biglietto aereo per l’India, non la conquisterete mai. Tanto per mettere le cose in chiaro, «in nessun caso - stando almeno alla più comune e ortodossa delle formulazioni - si può diventare hindu, perché l’appartenenza allo hinduismo dipende innanzitutto da un fattore etnico» (Francesco Sferra). Di conseguenza, evitate di farvi traviare da un guru di passaggio, scansate i ristoranti tipici, scavalcate i paladini della New Age. Invece, risparmiate i vostri santi soldini e spendeteli per lo straordinario Meridiano Mondadori dedicato all’Hinduismo antico (pagg. CCXXXI+1636, euro 55) curato da Francesco Sferra, aiutato da una équipe di superesperti come Carlo Della Casa, Raniero Gnoli, Stefano Piano e molti altri. Evito di raccontarvi la storiella sull’hinduismo: l’introduzione di Sferra ci mette sul chi va là scansando ogni forma di semplificazione, mostrandoci che i rivoli del pensiero indiano sono poliedrici e polimorfici, a volte perfino contraddittori. Ci sono però alcuni punti primordiali specificati nelle Upanishad (la stordente raccolta di testi filosofici, che pur tuttavia, composti dal VII secolo a.C. fino ad oggi, «testimoniano filoni di pensiero anche contrastanti»), ad esempio che «la vita, di per sé, non costituisce un bene ma è anzi radicalmente male» e che l’uomo, dacché «la nascita in forma umana è reputata un’occasione pressoché unica al fine d’incamminarsi lungo il cammino della liberazione dal fenomenico», attraverso la conoscenza, l’esilio dai desideri e dalle illusioni, la retta azione e il retto pensiero, deve sganciarsi dal ciclo delle rinascite. Il punto è sottrarsi alla fatale legge del karma, per cui ogni azione, indimenticabile, ha i suoi effetti in eterno - e viene scontata nelle successive, concatenate nascite, infatti «per chi abbia attinto la cosiddetta “liberazione in vita”, le azioni che verranno a svolgersi nel tempo che resta da vivere prima della morte fisica son dette non produrre più alcun frutto o “seme” karmico: è come uno “scrivere sull’acqua” che non lascia traccia». Rispetto al cristianesimo, che anela alla resurrezione dei corpi, essendo la vita umana unica e irripetibile, l’hinduismo trascende ogni traccia corporea; se il cristianesimo vuole salvare il mondo, la vita e l’uomo, l’hinduismo vuole salvarsi dal mondo, dalla vita e dall’uomo. Per questo nelle mirabolanti testimonianze letterarie dell’hinduismo, fitte di mondi, cosmi, ere intricate e catastrofici versetti, l’uomo non c’è, svanisce nell’alveo della sua meschinità.
In fondo, disarcionati da ogni possibilità religiosa, l’importanza memorabile del Meridiano (che è il primo di due volumi) sta nella sua siderale altezza letteraria: al di là di alcune Upanishad, dei magnifici inni vedici («di una tale antichità possediamo solo la porzione antica dell’Avesta iranico e alcuni testi ittiti») e della indispensabile Bhagavadgita (nella versione di Raniero Gnoli), tutti disponibili in altre traduzioni ed edizioni, sono raccolti finalmente alcuni densi passaggi del Mahabarata, l’oceanico poema epico che narra la guerra definitiva tra Kaurava e Pandava per la conquista del mondo, che ha lo struggente clangore dell’Iliade e la sapienza di Platone, che prevede Blade Runner e Star Wars e assembla in sé ogni possibile parola, verso, concetto (contempla perfino Shakespeare, leggete qui: «Hai tu forse stipulato un patto con il Tempo,/ che alato pone termine a ogni cosa,/ infinito e incommensurabile, torrente/ che trascina via tutto con sé?»). Davvero il Mahabarata è «l’opera più importante dell’India brahmanica» che «si è rivelata capace di comunicare dei valori e una visione del mondo e della vita che si può dire a ragione appartengano all'intera umanità» (così Stefano Piano ne Le letterature dell’India, Utet, coordinato con Giuliano Boccali e Saverio Sani, un valido strumento per approfondire).
I mastodontici testi indù hanno sedotto orde d’intellettuali italici, da Giorgio Manganelli e Pier Paolo Pasolini, fino a Mario Luzi (entusiasta lettore di Sri Aurobindo all’epoca della svolta di Nel magma) e ad Alessandro Ceni (la cui opera più importante, Mattoni per l’altare del fuoco, Jaca Book, nasce sotto l’egida della Upanishad), e c’insegnano una cosa scandalosa: la grande letteratura è sempre «sacra», comunque religiosa. I grandi libri vanno letti come testi salvifici, assoluti, estremi. La prospettiva la derubo ad Harold Bloom, dal suo saggio Rovinare le sacre verità (Garzanti), dove molto ci dice che Franz Kafka, ad esempio, «esercita un’autorità spirituale unica» e che il cosmo edificato da Samuel Beckett «assomiglia alla creazione del Demiurgo nello gnosticismo antico». Pochissimi scrittori assurgono all’altezza di un testo sacro: si chiamano Dante e Shakespeare, John Milton e Leopardi, qualcosa di Tolstòj, qualcosa di Melville e poco altro. Non si tratta d’intuire la tragedia dietro l’angolo o ripetere in versi o in una prosa inimitabile il già noto, ma squarciare vie ignote dello spirito.