venerdì 27 novembre 2015

Divinità, stragi, poesia Aztechi e spagnoli allo scontro di civiltà

tratto da Il Giornale del 24 maggio 2015

Un "Meridiano" raccoglie le testimonianze più importanti sui bellicosi abitanti del Messico e sul loro "incontro" con i conquistadores. Ne esce una narrazione oltre i luoghi comuni

di Matteo Sacchi

Una capitale, Tenochtitlán, con centinaia di migliaia di abitanti. Giganteschi templi, un esercito temibile e organizzato, un'arte orafa raffinatissima. Eppure una scrittura a ideogrammi appena abbozzata, una religione feroce incentrata sui sacrifici umani, armi con punte di ossidiana come nell'età della pietra.


Queste sono solo alcune delle commistioni che stupirono i conquistadores spagnoli, capitanati da Hernán Cortés, quando si confrontarono con gli Aztechi (che chiamavano se stessi Mexica). Quando le vele bianche dei galeoni europei comparvero all'orizzonte come nella scena finale del film di Mel Gibson Apocalypto e la storia del Sud America cambiò per sempre.

Quale sia stato l'esito di questo incontro violento di civiltà, iniziato nel 1519 quando Cortés raggiunse la costa messicana con 11 navi, 100 marinai e 508 soldati, è noto: il 16 agosto 1521, dopo una violentissima resistenza che causò la morte della maggior parte dei suoi abitanti, Tenochtitlán cadde. Come si siano svolti nel dettaglio i fatti e come fosse davvero strutturata la civiltà azteca è meno noto. Per svariati motivi. Il primo è proprio la mancanza di scrittura di una delle due parti. È decisamente prevalente la narrazione dei vincitori, e in questo caso per motivi tecnici: un conto è una narrazione scritta, un conto è un pittogramma. Pittogrammi che del resto i religiosi occidentali, pur essendo attenti a studiare la lingua degli indios , tendevano a distruggere considerandoli demoniaci. Così anche gli autori meticci hanno avuto difficoltà a fornire una versione univoca del passato azteco, che per loro stessi era avvolto nel mito.

Il secondo è che nel narrare i fatti le fonti risultano abbastanza incoerenti e in aperto contrasto anche tra gli autori castigliani. E questo persino per gli anni recenti, quelli della conquista . Per fare un esempio, uno dei primi, e più diffusi, racconti dell'impresa di Cortés e compagni fu quello di Francisco López de Gómara (che di Cortés fu anche il cappellano): la Historia general de las Indias y conquista de México pubblicata nel 1552. Ma appena fu pubblicata a qualcuno dei veterani saltò la mosca al naso, come a Bernal Díaz del Castillo, che rispose con la sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva España . E tra le molte si pone subito la questione dei massacri di indios che Díaz del Castillo nega: «Narra di quelle terribili stragi che, secondo lui, noi avremmo compiuto: noi che eravamo quattrocento soldati in quella guerra... Neanche se gli indios fossero stati legati avremmo potuto causare tante morti e compiere tante crudeltà, quante lui dice che facemmo».

Ecco perché il «Meridiano», appena pubblicato, Civiltà e religione degli Aztechi (Mondadori, pagg. 1326, euro 80, a cura di Luisa Pranzetti e Alessandro Lupo) è uno strumento prezioso per cercare di avvicinare questa cultura «perduta». Dà accesso diretto alle fonti, molte delle quali non erano mai state tradotte in italiano. C'è la testimonianza di Cortés su come decise di mettere in secco le navi per far in modo che i suoi uomini non avessero nessuna possibilità di rifiutarsi di combattere per lui. Ci sono le narrazioni che mettono in luce il ruolo della sua traduttrice-amante Malintzin e quelle che, come la sopracitata di Díaz del Castillo, non risparmiano critiche a Cortés per alcune delle sue scelte militari e politiche. E poi c'è una parte vastissima dedicata alla storia degli aztechi e anche ai loro culti religiosi.


Come ci ha spiegato uno dei curatori, la professoressa Luisa Pranzetti: «Nonostante le testimonianze che ci sono giunte siano quasi tutte di parte, non c'è dubbio che la religione azteca fosse caratterizzata da riti molto violenti. Gli aztechi percepivano il mondo circostante come molto instabile. I loro dèi sono infatti essenzialmente mortali. Muoiono per mantenere in movimento la macchina cosmica. Così avveniva attraverso il sacrificio degli ixitipla (erano le vittime che impersonavano gli dèi nei riti). Per gli ztechi il mondo è un susseguirsi di creazioni imperfette. Avevano un ciclo di cinquantadue anni e alla fine del ciclo, chiamato La legatura degli anni, spegnevano tutti i fuochi e attendevano il passaggio di particolari astri. Solo dopo riaccendevano i fuochi a partire da una fiamma sacra accesa sul petto di una vittima sacrificale».

Il senso profondo di questi riti, come lo scuoiamento in onore del dio Xipe Totec, sfuggiva agli spagnoli che li attribuivano al diavolo. Ma indubbiamente non rendevano gli aztechi dei padroni graditi alle altre popolazioni che pagavano tributi ed erano vittime delle loro guerre di conquista o «fiorite» (fatte per procurarsi prigionieri da sacrificare). Molte si ribellarono e passarono dalla parte di Cortés con relativa facilità. Come i guerrieri tlaxcala che supportarono gli spagnoli e formarono il grosso del loro esercito. Insomma, a far cadere gli aztechi fu sì la differenza tecnologica, ma soprattutto il loro sistema politico e religioso, inadeguato a fronteggiare una forza esterna destabilizzante. Ma nel volume non c'è solo questo, ci sono testi sull'istruzione, sulla geografia, sulle origini mitiche degli aztechi (ancora un mistero per gli studiosi), sulla lingua, il teatro e i pittogrammi, la scienza e la medicina. E in alcune delle poesie e degli inni sacri si può leggere un oscuro presagio di sconfitta e scomparsa: «Mandami al Luogo del mistero:/ il suo comando è disceso/ ed io ho detto al signore dei sinistri prodigi/ che me ne andrò via./ È tempo di lacrime». Di lacrime gli aztechi ne avevano fatte versare molte, molte ne fecero versare gli spagnoli. E come racconta nella sua Historia (del 1581) Diego Durán, ancora di più ne fece versare, senza che nessuno potesse farci nulla, «un'epidemia di vaiolo che venne propagata da un negro appena arrivato al seguito degli spagnoli; e questa epidemia fece strage di un numero infinito di indigeni».

Perché a volte sono forze invisibili a decidere gli esiti degli scontri di civiltà.

giovedì 19 novembre 2015

STORIA DI UNA SPADA

SAN GALGANO E IL FENOMENO DELLA SPADA NELLA ROCCIA


Nonostante il suo utilizzo nei titoli e nelle copertine di molti libri, la Spada nella roccia di San Galgano viene generalmente relegata ad appendice della figura del cavaliere, e non è utilizzata come chiave di lettura capace di produrre verità storiche, quanto piuttosto mitico-leggendarie.
Ma al di là degli aspetti simbolici riteniamo che, analizzando la storia di un oggetto eminentemente reale, sia possibile produrre ipotesi concrete sul suo stesso proprietario, quel Galgano sul quale è stato scritto un po' di tutto basandosi talvolta su premesse sin troppo scontate o, al contrario, sin troppo fantasiose.
Lasciarsi ‘condurre’ dalla Spada, dalla sua storia documentata e dalla sua archeologia, ha prodotto una reinterpretazione dell’intera vicenda di San Galgano, con risultati a tratti sorprendenti.

Mario Pagni, ex Archeologo Direttore presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, ha effettuato numerose campagne di scavo e redatto numerosi progetti per mostre, musei e antiquarium. Ha insegnato alla Scuola di Specializzazione post laurea della Facoltà di Lettere Antiche di Firenze ed è autore di pubblicazioni come l’Atlante di Firenze Archeologica. Lorenzo Pecchioni, di formazione artistica, negli ultimi anni si è dedicato prevalentemente alla realizzazione di documentari e di saggi. È autore tra gli altri del documentario La Spada nella roccia di San Galgano e del libro Zelo Dei Accensus, dedicato all’Ordine di San Girolamo.

Introduzione a cura di
Fabrizio Trallori
storico e direttore del Museo del Figurino Storico


venerdì 13 novembre 2015

Psicologia alchemica di James Hillman

tratto da L'Opinione dell'8 novembre 2015 (http://www.opinione.it/cultura/2015/11/08/talarico_cultura-08-11.aspx)

di Giuseppe Talarico

In un suo famoso saggio, Giuseppe Pontiggia, grande autore, scrisse che nella storia della cultura vi sono stati filosofi geniali che con i loro scritti e libri hanno dimostrato di essere anche grandi scrittori. Rientra in questa categoria di pensatori James Hillman, del quale da poco la casa editrice Adelphi ha pubblicato un libro importante e notevole, il cui titolo è Psicologia Alchemica. In questo saggio, che incanta ed affascina il lettore per la eleganza e la raffinatezza della prosa con cui è stato scritto, Hillman ha con chiarezza esemplare spiegato il rapporto tra L’alchimia e l’opus analitico.


Carl Jung, di cui Hillman è stato un allievo, a questo tema ha dedicato una delle sue opere fondamentali, intitolata Psicologia ed Alchimia. Hillman nella prima parte del suo saggio chiarisce che per la psicanalisi esiste il rischio di usare un linguaggio intriso di letteralismo, incapace di delineare una distinzione tra la parola e la cosa. L’alchimia, intesa ovviamente in senso metaforico, poiché si riferisce ad elementi della materia fissati ed individuati, possiede un grado di concretezza che si rivela utile per superare il letteralismo, che rischia di rendere arido e sterile la terminologia del metodo psicanalitico. Infatti l’alchimia offre espressioni concrete che non sono letterali. In tal modo il linguaggio della psicanalisi subisce un processo di rettificazione, che è necessario per accrescerne la efficacia terapeutica. Nel medioevo e nel rinascimento vi era la convinzione che il metodo alchemico, consentendo la trasformazione della materia, rendesse possibile ricavare l’oro prezioso da metalli di scarso valore. Infatti Hillman nel testo cita il pensiero e le opere di Marsilo Ficino. Alla stessa maniera il terapeuta deve con il metodo psicanalitico sottoporre l’anima umana ad un processo di trasformazione, perché si liberi dal dolore e dalla sofferenza.

Le fasi in cui questo processo di guarigione dell’anima avviene sono sostanzialmente quattro: la Nigredo, che designa la depressione e la sofferenza cupa ed inconsolabile della psiche umana, l’ Albedo, periodo di tristezza in cui si ha la elaborazione del dolore, la citrinitas in cui la mente umana si libera dalla disperazione e il Rubedo, che indica il momento in cui si ha la guarigione. Per segnalare e chiarire la transizione che nella terapia analitica vi è tra questi stadi, Hillman con la bravura del grande scrittore, facendo riferimento al metodo alchemico, ricorda e sottolinea le differenza tra le sostanze fondamentali presenti nella materia, quali piombo, rame, argento ed oro. Si sofferma anche nel descrivere la diversità tra i colori che i nostri sensi possono cogliere e distinguere mediante i sensi, il nero, il bianco, il giallo, il rosso. Mentre segue questa narrazione analogica tra il metodo psicanalitico e quello alchemico, Hillman afferma e sostiene che la nostra mente ha un fondamento poetico. Infatti per Hillman esiste un rapporto inscindibile tra il pensiero e la immaginazione, sicchè la nostra mente ha il potere di creare la realtà mediante la fantasia. Per Hillman è essenziale tenere presente e comprendere i rapporti esistenti tra la psicologia e la letteratura.

Come l’alchimia opera secondo il metodo dissolvi e coaguli, allo stesso modo la terapia psicanalitica deve dissolvere e coagulare i processi psichici perché si arrivi ad avere il predominio nella vita interiore della Unio Mentalis. Hegel scrisse che la follia è il sintomo che rivela come l’anima sia alla ricerca della sua guarigione. Infatti secondo Hillman una coscienza più chiara e in grado di raggiungere la pace interiore deriva sempre da uno stadio di follia. Questo processo di guarigione della psiche, che lotta per liberarsi dalla infelicità e dalla disperazione, avviene attraverso una transizione, che per Hillman da vita ad una conversione dell’anima. Jung a questo proposito nei suoi studi sull’alchimia e la psicanalisi aveva individuato quattro stadi: l’innerimento, l’imbiancamento, l’ingiallimento, l’irrosimento. Questo modo di ragionare di Jung, si spiega con la circostanza che per il grande pensatore l’alchimia, grazie alle sue metafore, permette di comprendere gli oscuri e tenebrosi processi che hanno luogo nella psiche. Per Spinoza la sostanza ha la tendenza natuirale ad opporsi da ogni cambiamento. Lo stesso accade con la psiche umana, che si rivela sovente e in più circostanze riluttante a mutare il suo stato.

Per questo motivo, nel suo saggio Hillman nota che durante la terapia è importante che la transizione tra le varie fasi sia progressiva e lenta, poiché nei casi in cui si abbia un fallimento terapeutico, si produce un fenomeno devastante nell’anima, quello che lui ha definito come il processo dei vetrificazione della psiche. Ad un certo punto nel libro Hillman cita le famose colombe di diana, che per Newton avevano la funzione di mediare tra il mercurio e l’antimonio. Per Hillman le colombe di diana diventano un simbolo che chiarisce in che modo si ha con la guarigione della psiche umana il congiungimento della immaginazione con la natura. Infatti è necessario che alla fine della terapia psicanalitica si abbia una armonia, capace di dare pace e serenità all’anima umana, tra mente, immaginazione e mondo. In un capitolo bellissimo, dove riflette su come il colore azzurro abbia ispirato i pensieri di grandi geni come Proust e Cézanne, Hillman dimostra che non è la mente che si perde nel cielo azzurro, ma è il cielo azzurro che è racchiuso nella mente umana. In tal modo spiega con esemplare chiarezza cosa sia e designi la figura archetipica nella cultura umana.

L’anima Mundi, su cui Hillman si sofferma nel libro, dimostra che vi è un rapporto strettissimo tra le cose che esistono, poiché è l’amore universale che costituisce il fondamento su cui poggia il mondo esistente. Infatti Freud parlava della libido oggettuale. Il cielo azzurro designa in modo simbolico L’unus Mondus. Per Hillman è fondamentale seguire il metodo estetico nella psicanalisi, poiché la psicoterapia si basa sull’ascolto della parola di chi è gravemente invischiato nei gorghi oscuri e impenetrabili della sofferenza interiore, provocata dalla depressione, dalla paranoia delirante e dalla depersonalizzazione. Con la modernità l’alchimia, dopo la rivoluzione scientifica e meccanicista di Newton, è stata sostituita dalla chimica. Per Alfred Ader il fine della psicoterapia è la realizzazione della solidarietà umana. Un libro indimenticabile.

mercoledì 11 novembre 2015

Nel castello del Re Pescatore

Nota: articolo trovato in rete senza altre indicazioni

ALLE ORIGINI DEL MITO, L'INIZIAZIONE DI PARSIFAL E L'INCONTRO CON PERSONAGGI ENTRATI A FAR PARTE DEL NOSTRO IMMAGINARIO

Giunto al castello del Re Pescatore, dopo una serie di avventure, Perceval, il "giovane ospite", assiste a questa strana processione: «Mentre parlano di questo e d'altro, un valletto viene da una camera, e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell'asta. Passa tra il fuoco e coloro che sono assisi sul letto. E tutti i presenti vedono la lancia chiara e il ferro bianco. Una goccia di sangue stillava dalla punta di ferro della lancia. Fin sulla mano del valletto colava la goccia di sangue vermiglio. Il giovane ospite vede tale meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. È perché rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che non si deve mai parlare troppo? Porre domande sarebbe villania. Non dice parola. Poi arrivano due valletti, tenendo in mano candelabri d'oro fino lavorato a niello. [...] Una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal. Quando fu entrata nella sala col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero il chiarore, come stelle quando si leva il sole o la luna. Dietro di lei un'altra damigella recava un piatto d'argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell'oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare o in terra...».

CODICE CORTESE

Il Perceval di Chrétien de Troyes, che per la prima volta ne racconta le vicende, è una sorta di "romanzo iniziatico". Vi si narra infatti di come il giovane Perceval il Gallese, «figlio della dama Vedova» e abitante nella «Guasta Foresta» - dov'è cresciuto all'oscuro dei costumi cavallereschi giacché la madre (che a causa della cavalleria ha perduto gli altri suoi cari) ha voluto tenerlo al riparo da tale conoscenza - intraprenda la professione delle armi cortesi giungendo, attraverso differenti insegnamenti, a un alto grado di perfezione spirituale. Un giorno, nella foresta, egli si imbatte in alcuni cavalieri: spaventato e affascinato dalla loro bellezza e potenza, pone alcune petulanti domande e, sulla base delle loro risposte, decide di recarsi alla corte di Artù a Carduel, nel Galles, per ricevere dalle sue mani le armi e la dignità cavalleresca. La madre, pur acconsentendo con molto dolore al suo desiderio, gli impartisce alcuni elementari insegnamenti d'etica cavalleresca.
Seguendo in modo maldestro queste indicazioni, il giovane ingenuo, rozzo e selvatico (un "puro folle") giunge alla corte di Artù, uccide il Cavaliere Vermiglio che ha recato offesa al re e riceve i veri insegnamenti sul modo di combattere e sull'etica cavalleresca dal gentiluomo Gornemant de Goort. Questi, in particolare, gli impone di risparmiare sempre il nemico inerme, di astenersi dal parlar troppo, di assistere i bisognosi, di serbare la fede e pregare.
Forte di tali precetti Perceval arriva nel castello del cosiddetto "Re Pescatore", dove ha luogo la misteriosa processione del graal, che si ripete più volte durante il banchetto.
Un graal «tutto scoperto» passa a ogni portata, e il giovane desidererebbe chiedere che cosa significhi la scena e cosa sia quel graal: ma, ben ricordando gli insegnamenti di discrezione impartitigli da Gornemant, non osa porre alcuna domanda.

LA COLPA DI PARSIFAL

Il mattino seguente, il castello è vuoto. Perceval si ritrova da solo; sconcertato, riparte e dal casuale incontro con una fanciulla nella foresta apprende che il Re Pescatore è gravemente ferito: se egli avesse posto la domanda relativa alla natura e alla funzione del graal quegli sarebbe stato risanato.
L'errore di Perceval deriva da una colpa, quella di aver fatto morire di dolore sua madre quando l'aveva abbandonata per dirigersi alla corte del Re Artù.
Dopo altre avventurose vicende - che si intrecciano con quelle di Galvano, un cavaliere della Tavola Rotonda - il giovane gallese perviene a un eremo nel quale incontra un santo anacoreta. Questi gli rivelerà di essere fratello di sua madre e del re al quale è servito il graal, il cui contenuto è un'ostia: «quest'ostia sostiene e conforta la sua vita, tanto essa è santa, ed egli stesso è sì santo che nulla lo fa vivere se non l'ostia del graal».
Dopo questa rivelazione, Perceval resta presso lo zio eremita e si sottopone a una dura penitenza per espiare i suoi peccati. L'educazione cavalleresca del giovane folle si perfeziona così, grazie all'affinamento dello spirito. Per molte pagine il romanzo prosegue parlando delle avventure di Galvano, per poi restare incompiuto.
I pochi versi relativi all'apparizione del graal nel castello del Re Pescatore e quelli successivi, sull'ostia contenuta nel recipiente e della quale il Re Ferito si ciba, hanno segnato profondamente l'immaginario europeo: da allora quel graal è divenuto il Santo Graal, oggetto d'innumerevoli altri racconti, nonché di studi, di polemiche, di riflessioni artistiche, di improbabili leggende.

INCANTESIMO CELTICO

Tra la fine del XII secolo e la prima metà del successivo si andò formando, in Francia e in tutta Europa, un corpus di testi letterari, tanto in versi quanto in prosa, che continuarono e ampliarono - con innumerevoli varianti - il racconto del Graal. Il fatto che la parola "graal" fosse scarsamente comprensibile fuori dal contesto franco-celtico favorì il passaggio del termine da nome comune a nome proprio.
>Si immaginarono le vicende che avrebbero potuto concludere il Perceval di Chrétien e se ne proposero varie "continuazioni" nelle quali si seguivano sia le avventure del protagonista, sia quelle di Galvano. Ma si volle anche chiarire e risolvere il "mistero" del Graal in chiave pienamente cristiana. Per questo se ne narrarono antefatti e vicende più o meno come si era fatto e si andava facendo per la più celebre e gloriosa reliquia della cristianità: la Santa Croce. Così come esiste, redatta nel corso del XIII secolo, una Legenda Crucis che segue la sorte del legno della croce dal Paradiso terrestre sino al Calvario, abbiamo anche una "Leggenda del Graal", che percorre le vicende del santo recipiente dal momento della sua realizzazione in poi.
Intorno al 1200, il piccardo Robert de Boron - non sappiamo se a conoscenza del testo di Chrétien - scrisse in versi il Roman de I'Estoire du Graal, noto anche sotto il titolo di Joseph d'Arimathie. Con Robert, l'atmosfera di incantesimo celtico - la visita al magico castello del Graal, la misteriosa infermità del Re Pescatore che rende il regno esposto ai pericoli e ai malefici, i recipienti e le armi prodigiose, l'eroe destinato a rompere l'incantesimo - scompariva per dar luogo a un racconto ispirato a scritti evangelici apocrifi come il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull'Eucarestia. Nel racconto di Robert de Boron si narra, infatti, il trasferimento del Sacro Vaso - in cui Gesù aveva celebrato l'Eucarestia nel corso dell'Ultima Cena - da Gerusalemme in Inghilterra, grazie a Giuseppe d'Arimatea.

LA TESTA SUL PIATTO

All'inizio del XIII secolo appartiene anche il Peredur, un racconto gallese in prosa, che richiama ampiamente il Perceval di Chrétien de Troyes, ma che presenta alcuni elementi distintivi: vi si narra infatti che il Re Pescatore è stato ferito dalle incantatrici di Caer Loyw, che hanno assassinato anche un cugino di Peredur. Il fine delle avventure sembra dunque essere la vendetta di Perceval, con cui infatti si chiude il romanzo.
Il Graal, pur non essendo mai indicato con questo nome, appare al protagonista in modo simile a quanto si è visto per il romanzo di Chrétien; tuttavia, particolare certo non insignificante, esso è presentato come un vassoio nel quale è posta la testa tagliata del cugino di Peredur: «Peredur conversava con lo zio quando vide due uomini attraversare la sala ed entrare in una camera: portavano una lunga lancia dalla cui punta colavano a terra tre rivoli di sangue. [...] Dopo qualche istante di silenzio, entrarono due fanciulle che portavano un grande vassoio sul quale poggiava la testa di un uomo immersa nel sangue...».
Sull'origine del romanzo gallese, il più vicino al Perceval, sono state avanzate diverse ipotesi: derivano entrambi da un'unica fonte scritta comune, poi perduta? Sono varianti di una tradizione orale? Oppure il Peredur non è che una fra le tante rivisitazioni del Perceval?
Tra il 1200 e il 1230 apparvero quattro "continuazioni" in versi del Perceval di Chrétien, tutte d'autore anonimo o d'incerta attribuzione. Della prima abbiamo tre redazioni, diverse l'una dall'altra. Nel testo, ovviamente molto complesso, il protagonista principale non è Perceval, bensì Gauvein. Nella vicenda è presente tanto l'impronta cristiana quanto quella celtico-meravigliosa: probabilmente a causa delle sovrapposizioni verificatesi nel corso di almeno tre decenni.
Nella seconda continuazione - generalmente attribuita a Wauchier de Denain, un autore degli inizi del Duecento che lavorava per i sovrani di Fiandra - il protagonista torna a essere Perceval, ma il Graal è del tutto cristianizzato e viene presentato come il calice che raccoglie il sangue di Cristo. Anche il probabile autore della terza continuazione, Manessier, lavorava presso la Casa di Fiandra; la datazione dell'opera è incerta e va dal 1214 al 1230. Da notare che, proprio nel XIII secolo, il culto della reliquia del Sangue del Cristo era molto forte in Fiandra, specie nelle città di Liegi e di Bruges. È da lì, e da allora, che prese le mosse la festa eucaristica del Corpus Domini. Il testo di Manessier parte dalla seconda continuazione e unisce elementi provenienti da svariati racconti, ma fa emergere anche distintamente il tema della vendetta che domina il Peredur gallese. La quarta continuazione, composta tra il 1226 e 1230, si deve a un certo Gerbert, da alcuni identificato con Gerbert de Montreuil. Come Manassier, anche Gerbert prende lo spunto iniziale dalla seconda continuazione, ma con una impronta più marcatamente cristiana.

GIOIELLO DEL CIELO

Intanto, tra il primo e il secondo decennio del XIII secolo, sul tema interveniva il poeta tedesco-meridionale Wolfram von Eschenbach, il cui Parzival immette nel tessuto simbolico e narrativo impiantato da Chrétien una serie di elementi alternativi che sembrano d'origine orientale, al posto di quelli celtici che la tradizione tedesca riteneva evidentemente estranei. La differenza più evidente risiede nella descrizione stessa del Graal, che viene rappresentato come una pietra preziosa: «Il più bel gioiello del cielo, fonte e meta d'ogni gioia. Questa cosa è detta il Graal, segno d'ogni bene in terra». Per il castello del Graal descritto da Wolfram si sono recentemente proposte identificazioni con una fortezza persiana del Kurdistan o dell'Azerbaigian; ma è ignoto attraverso quale fonte il poeta avrebbe avuto accesso alla descrizione di tali edifici.
Altri romanzi duecenteschi in prosa hanno trattato del Graal. Il franco-settentrionale Perlesvaus è stato datato da alcuni al 1200-1210, da altri al 1230-1240; il testo differisce sostanzialmente rispetto alle altre continuazioni del Perceval e rivela in alcuni tratti un substrato celtico piuttosto marcato.

LA VISIONE DI GALVANO

I personaggi principali del Perlesvaus sono quattro: Perceval (chiamato "Perlesvaus" da Perd-les-vaux, "perde le valli", con riferimento alla perdita dell'eredità e dell'assassinio del padre che innesca la sua volontà di vendetta: tema che dunque lo approssima al Perceval), Lancillotto, Artù e Galvano, al quale spetta la visione del Graal, tema che rivela anche una netta influenza cristiana, nonché una maggior chiarezza rispetto a Chrétien: «D'un tratto, da una cappella uscirono due damigelle: una teneva tra le mani il Santo Graal e l'altra la Lancia dalla cui punta il sangue stillava cadendo nel Santo Vaso. Camminando fianco a fianco entrarono nella sala in cui i cavalieri desinavano con messer Galvano. E l'aroma che si sprigionava dal Sacro Vaso era così soave e santo che essi dimenticarono il mangiare. Galvano osservò il Graal, e gli parve che dentro vi fosse un calice di una foggia rara per quei tempi, e guardando la punta della lancia da cui stillava il sangue vermiglio gli sembrò di vedere due angeli che portavano due candelabri d'oro con i ceri accesi. Le damigelle gli passarono davanti ed entrarono nella cappella. [...] Gli sembra anche che nel Graal vi sia la figura di un bambino. Il capo dei cavalieri gli disse qualcosa, ma Galvano tenne gli occhi fissi davanti a sé e vide che sulla tavola cadevano tre gocce di sangue. [...] Ed ecco che le fanciulle ripassano ancora una volta davanti alla tavola. Ora a messer Galvano sembra che siano tre, e quando solleva lo sguardo gli pare che il Graal sia sospeso in aria e che sopra ci sia un uomo inchiodato a una croce con una lancia conficcata nel costato. Preso da profonda compassione, Galvano non riesce a pensare ad altro che alle tremende sofferenze del Re. Il capo dei cavalieri lo esorta di nuovo a parlare, e gli dice che se non lo farà subito non ne avrà mai più l'occasione, ma Galvano continua a tacere, non lo ascolta e tiene lo sguardo fisso verso l'alto. Allora le damigelle rientrano nella cappella e scompaiono insieme al Santo Graal e alla lancia».

UN ROMANZO FIUME

Il Didot Perceval del cosiddetto Pseudo Robert de Boron è, con il coevo Perlesvaus, il primo romanzo francese in prosa a trattare del Graal. Il testo si presenta come una combinazione tra la queste del Graal e il tema del declino del ciclo arturiano, che l'autore presenta come una trasposizione in prosa del Perceval di Robert de Boron, opera che non ci è mai giunta.
Tra il 1215 e il 1235 furono redatte le anonime Estoire del Saìnt Graal e Queste del Saìnt Graal, entrambe in versi, che finirono con il costituire insieme una specie di "romanzo-fiume" noto come Lancelot-Graal o più semplicemente come «ciclo vulgato» (composto anche dal Merlin, dal Lancelot e dalla Morte Darthur, da cui sarebbero scaturiti fino al Quattrocento continui rifacimenti, fra cui quello toscano della Tavola Rotonda. Nel «ciclo vulgato» il Graal è del tutto cristianizzato alla luce della vicenda di Giuseppe d'Arimatea narrata da Robert de Boron. Nel l'Estoire del Saint Graal è la coppa utilizzata da Gesù nel corso dell'ultima cena; nella Queste la vastità della materia fa sì che l'oggetto appaia in diverse occasioni e sia al centro delle avventure di numerosi personaggi. Ormai, esso sarebbe rimasto definitivamente il calice usato da Gesù nell'Ultima Cena per fondare il rito dell'Eucarestia, poi utilizzato anche dagli angeli per raccogliere il sangue sparso dal Signore durante il suo martirio.

Chi vuol bere a quella coppa?

ALLEGORIA EUCARISTICA, SIMBOLO DI SALVEZZA O DEL POTERE: LA FORZA MAGICA DEL SACRO GRAAL APPARE DENSA DI SIGNIFICATI

Nello sviluppo del ciclo di romanzi del Graal si era dunque evidenziata una graduale prevalenza degli elementi di origine cristiana rispetto a quelli presumibilmente derivati dalla tradizione celtica. L'incompiuto romanzo in versi di Chrétien de Troyes aveva lasciato aperti problemi e interrogativi di ogni genere. Il Peredur, il Perlesvaus e la prima continuazione del Perceval insistevano sul versante celtico; la seconda e la terza continuazione, ma soprattutto il testo di Robert de Boron e la Queste, ci pongono invece dinanzi a un quadro completamente cristianizzato ed eucaristico (sia pure complicato da qualche elemento gnostico); piuttosto defilato il romanzo di Wolfram von Eschenbach, che ambienta il Graal in un contesto orientale. Il significato dei testi del Graal "cristianizzato" del pieno Duecento è sostanzialmente chiaro, mentre più dibattuto è il problema di quale senso dare tanto al corteo del Graal quanto, più in generale, all'intera vicenda che si narra nel Perceval di Chrétien e nelle prime continuazioni.
Alcuni avevano voluto vedere già in questi primi testi un'ispirazione pienamente cristiana: le immagini che compongono il corteo del Graal (in particolare, il Graal stesso e la lancia insanguinata) sarebbero mutuate dall'iconografia cristiana. Il Graal richiamerebbe l'allegoria eucaristica, mentre la lancia sarebbe quella di Longino (il santo leggendario che trafigge il costato del Salvatore, il cui nome deriva forse dal greco longkhè, "lancia"). L'iniziazione di Perceval andrebbe letta come una metafora dell'evoluzione del ceto cavalleresco del tempo: dalla cavalleria mondana della Tavola Rotonda a quella mistica, ascetica e cristiana. L'interpretazione integralmente "cristiana" - che cioè esclude "prestiti" da altri contesti culturali - dei primi testi che parlano del Graal non è tuttavia quella prevalente nella storiografia contemporanea, in quanto appare evidente la presenza di sicuri e abbondanti riferimenti al mondo celtico. Quel che appare, invece, certo è la piena appartenenza degli autori al mondo e allo spirito cristiani: non è credibile l'ipotesi di una sopravvivenza, nella Francia dei secoli XII e XIII, di un culto pagano-celtico, di una persistenza cosciente o di un revival pagano, di un'"Antichiesa" del Graal erede di un qualche sistema mito-cultuale precristiano travestito da leggenda eucaristica.
Gli elementi essenziali che appaiono nella cerimonia del Graal, oltre alla coppa-piatto, sono la lancia e, in un caso, la testa. Vediamo dunque quale può essere il senso complessivo dell'episodio, da una parte, quello dei singoli elementi che lo compongono, dall'altra.

VIAGGIO NELL'ALTRO MONDO

È probabile che la queste del Graal si rifaccia alle avventure nell'aldilà e alla ricerca di oggetti magici di cui la letteratura di derivazione celtica offre frequenti esempi. Secondo l'opinione comune, i Celti che durante il VI-V secolo a.C. occuparono i territori dell'attuale Francia centro-settentrionale, del Belgio, del bacino renano (conosciuti con il nome di "Galli") o delle Isole Britanniche e della Penisola iberica (i Celtiberi), avrebbero lasciato le tracce più evidenti della loro civilizzazione in Irlanda, nel Galles, nella Cornovaglia e nell'Armorica: le aree che meno avevano subito la conquista e l'acculturazione romane. Da queste regioni scaturì un tipo di letteratura in cui emergono diversi tratti culturali di origine celtica; si tratta tuttavia di prodotti tardi, di epoca medievale, che dunque non presentano una tradizione originaria, ma intrecci di tradizioni differenti, in cui gli elementi riconoscibili come "celtici" non sono che uno fra i molti influssi presenti.
La Tavola Rotonda ricalcherebbe una tavola dei festini celtica; a questa "corte" di guerrieri la tradizione celtica ne farebbe corrispondere una parallela nell'aldilà, governata da un re prodigo che dimora in un castello meraviglioso, in cui un calderone magico garantisce universalmente l'abbondanza. Come già detto, l'aventure alla ricerca di oggetti magici (pietre, talismani, coppe meravigliose, armi dotate di straordinari poteri ecc.) nell'Altro Mondo è alla base di molti racconti irlandesi e gallesi, come per esempio quelli detti Mabinogion, composti agli esordi del XIII secolo; l'eroe designato a tale queste deve superare molte difficili prove, in una sorta di iniziazione che gli consentirà l'accesso al misterioso aldilà.

LE FONTI DEL POTERE

Nel Perceval di Chrétien de Troyes uno degli oggetti magici, la lancia - che sanguina per il colpo inferto - ferisce il Re Pescatore, il cui nome potrebbe derivare dall'associazione fra questi e alcune divinità legate all'acqua, come Nuadi e Bran. La ferita rende il re, e specularmente le sue terre, sterili. La "cerca" del Graal, cioè del calderone dell'abbondanza, da parte di un eroe giovane e puro consente il ripristino dell'integrità del sovrano e del regno. La lancia e la coppa sono i segni della regalità: se Perceval avesse chiesto il significato di questi oggetti, avrebbe svelato le fonti del potere regale, ripristinandolo. Inoltre, il Peredur e il Perlesvaus presentano forse alcuni elementi arcaici, vivi nella tradizione orale, ma non ripresi da Chrétien: la testa tagliata sul piatto e la vendetta di sangue che guida l'aventure del protagonista ne sarebbero le prove più evidenti.
L'incertezza nella decifrazione del mito del Graal deriva essenzialmente dalla presenza in culture anche geograficamente lontane tra loro di simboli formalmente molto simili. A metà del IX secolo, al tramonto dell'impero carolingio, il vescovo Audrado di Sens, autore di scritti profetici frutto di visioni, compose un poemetto, il De fonte vitae, dedicatario del quale era lncmaro di Reims, il grande studioso ed ecclesiastico del quale Audrado si sentiva evidentemente debitore. In questo poemetto si narra di un viaggio verso «il luogo più bello del mondo», nel quale scaturisce il Fonte della Vita alla quale si puà attingere solo se si è in possesso di uno speciale vaso.
Nel contesto del poema di Audrado, i simboli sono chiari: la sorgente è il Cristo "Fonte di Vita"; l'Acqua è il Divino Sangue, sprizzato nella Passione, che rivive attraverso il mistero eucaristico; il Vaso è Io Spirito che consente di attingere al Fonte e di bere, entrando in piena comunione, materiale e spirituale, con il Cristo.
Le fonti cui Audrado si ispira sono anzitutto bibliche ed evangeliche - dal Cantico di Salomone all'Apocalisse - ma anche classiche. Attraverso la cultura classica - mediata da autori come Boezio, Venanzio Fortunato e Alcuino - giungevano ad Audrado echi della tradizione greca e di quelle orientali, che erano peraltro presenti anche negli stessi testi vetero e neotestamentari.
Il calice e la coppa, insomma, sono dei veri e propri grandi archetipi, densi di significato presso tutte le culture del mondo eurasiatico-mediterraneo.
Nei Salmi biblici il cantore offre a Dio la coppa della salvezza e riceve da lui quella delle benedizioni o del castigo; il Vangelo parla del calice del dolore; al contrario, la coppa che trabocca è simbolo di gioia e di abbondanza (proprio come nella tradizione celtica). Nell'Apocalisse, infine, sono menzionate le coppe ricolme dell'ira divina.

FINESTRA SULL'UNIVERSO

Ma la coppa è centrale anche nei riti vedici e nelle liturgie brahmanico-induiste; mentre nella tradizione islamo-persiana. Il mitico re Gemshid possiede una coppa nella quale si può vedere l'intero universo: coppe e bacili sono infatti strumenti abituali per i riti divinatori come per l'elaborazione di potenti filtri. Quest'idea della coppa come sede di potenza e di sapienza si ritrova nella tradizione islamca della mistica sufi, allorché a una coppa è paragonato il cuore dell'arif (cioè il saggio, l'iniziato) Spieghiamoci meglio: nell'Avesta, il libro sacro deillo zoroastrismo, il segno visibile della regalità solare, lo xvarenah, da cui hanno origine le tre funzioni sociali - studiate da Georges Dumèz per gli indoeuropei e da Georges Duby nel Medioevo occidentale -, cioè i sacerdoti, i guerrieri e i produttori, è detenuto dal sovrano primordiale Yimi Xshaàta. Questo sovrano è identificato nella tradizione islamica, nella quale, con la conquista della Persia, molti miti iranici sono confluiti con l'eroe civilizzatore Gemshid, che altri non sarebbe se non il Salomone biblico, il fondatore del Tempio sulla roccia del monte Moriah. E a Gemshid-Salomone apparterrebbe appunto l'oggetto magico e regale della prodigiosa coppa "che mostra il mondo".
Ritroviamo coppe e bacili come simbolo di potere o come oggetti magici anche nella tradizione greca. Ma è nel mondo germanico che la coppa ha certamente un significato di trasmissione della sovranità. Per esempio, si conserva nel tesoro del duomo di Monza il calice che la regina Teodolinda avrebbe offerto ad Agilulfo, da lei prescelto nel 590 alla successione del defunto marito Autari, come simbolo del passaggio del potere regale.

LANCIA DI FUOCO

Allo stesso modo, nel sistema mitico-simbolico celtico la coppa emblema di regalità e il bacile-calderone dell'abbondanza e della conoscenza, appartenente al dio Dagda, si sovrappongono; le leggende testimoniano come la coppa colma di idromele o di vino offerta da una ragazza - ricordiamo che nel Perceval di Chrétien è una donna a portare il Graal - a un candidato al trono sia il segno della sua elezione e la coppa più bella e preziosa sia l'offerta atta a celebrare l'eroe, il più valoroso fra i guerrieri. Si può dunque ipotizzare che la coppa come simbolo al contempo di regalità e di abbondanza sia un archetipo delle culture indoeuropee.
Al pari della coppa, anche la lancia è un intenso e diffuso simbolo. Una coppa e una lancia (quella di Longino) sono entrambi simboli della Passione, ed è la loro presenza associata a suggerire che la "processione del Graal", descritta da Chrétien de Troyes nel Perceval, abbia un significato anzitutto eucaristico.
Ma la lancia è a sua volta simbolo di sovranità. Da essa deriva lo scettro, e in greco il termine sképtron (verga, lancia, scettro) si associa al concetto di "fulmine" e ha valore magico quale strumento al tempo stesso di salvezza e di perdizione: come la lancia di Achille che - non diversamente dalla clava del dio celtico Dagda - poteva al contempo ferire e guarire. Conosciamo, per i Longobardi, un chiaro uso della lancia come simbolo supremo di regalità: il gesto di afferrare la lancia, nel corso della saga longobarda, è il simbolo del passaggio del potere quando i legami di sangue nella successione regale vengono a mancare, secondo il modello esemplato dalla vicenda del mitico re Lamissione, distintosi già nell'infanzia per aver afferrato la lancia protesa verso di lui dal sovrano Agilmundo.
Nella mitologia celtica la lancia è attributo del dio Lug, che la prende dalle mitiche "Isole del mondo": è una lancia di fuoco che infligge colpi mortali, dunque è prossima al fulmine. La stessa arma compare nelle mani di molti fra i guerrieri mitici della tradizione celtica, come Cuchulainn e suo fratello Conall.

IL SACRIFICIO DI BRAN

Un motivo di origine celtica è quasi sicuramente la testa tagliata e recata nel piatto-Graal che appare nel Peredur, anche se tale immagine in ambito cristiano non poteva non ricordare la decollazione di San Giovanni Battista. Troncare la testa ai nemici era abitudine comune per i guerrieri celti; l'atto aveva un significato rituale e cultuale, oltre che semplicemente guerriero. Lo si deduce, per esempio, dall'episodio del Mabinogion noto come Branwen, figlio di Llyr: il protagonista, Bran il Benedetto, ferito, ordina ai suoi uomini in difficoltà di mozzargli la testa che li accompagnerà e li guiderà nel corso di un lungo viaggio; quando infine viene sepolta essa è talmente potente da allontanare ogni calamità dalla terra in cui giace. Il costume sopravvisse fino ai primi secoli della cristianizzazione: nella Vita del vescovo - e poi santo - Germano di Auxerre si racconta, ad esempio, che prima di abbracciare il cristianesimo egli fosse solito sospendere, secondo l'antico costume pagano, le teste degli animali cacciati ai rami di un albero sacro; l'impiccagione rituale, d'altronde, era costume dei Germani e degli Scandinavi, che sacrificavano così al dio Wotan/Odino. Il tema della testa tagliata e del valore della testa (e del cranio scarnificato) sul piano magico è ben noto in molte culture, soprattutto - ma non soltanto - indoeuropee e uraloaltaiche. Il fatto che in area eurasiatica si ricavassero coppe dai crani dei nemici uccisi (come nel noto episodio di Alboino e del re dei Gepidi narrato da Paolo Diacono) collega il tema del sacrificio con quello della regalità, del potere e dell'abbondanza: i temi del Graal.
Possiamo dunque affermare che il duplice significato dell'abbondanza e del potere-regalità connota con una certa costanza gli oggetti che compongono la cerimonia del Graal. La leggenda graalica potrebbe dunque esser letta come la versione medievale, pervenuta attraverso un'eredità celtica reinterpretata in termini cristiani, del racconto archetipico dell'iniziazione di un giovane re-guerriero destinato a ristabilire la prosperità del suo regno, minacciata dalla vecchiaia, dalla malattia e dall'impotenza di un Re Ferito. Un racconto che, con molte variabili, i folcloristi hanno individuato e analizzato nel patrimonio mitico di molte civiltà.
Tuttavia, la scomposizione di un mito e l'analisi dei suoi elementi di base può condurre a una comprensione solo parziale del medesimo in quanto, come si è visto, miti e simboli finiscono per somigliarsi in tutte le civiltà del mondo: all'analisi delle forme sarà dunque opportuno affiancare alcune considerazioni sul contesto più propriamente storico-sociale in cui la leggenda del Graal nacque e si sviluppò.

Il segreto dei Templari

DAL QUATTROCENTO NON SI SENTE PIU' PARLARE DI SANTO CALICE. MA, TRE SECOLI DOPO, LA RICERCA RIPRENDE. FINO AI GIORNI NOSTRI.

Il XII secolo conobbe la grande espansione di sovrani angiomo-plantageneti. Pur regnando in Inghilterra, essi avevano vasti feudi in Bretagna, in Normandia e nell'Anjou; il che li rendeva vassalli dei re Luigi VII di Francia. Il matrimonio tra Enrico II ed Eleonora d'Aquitania, nel 1152, schiudeva nuove possibilità egemoniche. Il regno di Luigi VII di Francia - che di Eleonora era stato il primo marito - era ormai molto meno esteso di quello di Enrico. A bloccare per il momento le mire della monarchia angioino-plantageneta vi era tuttavia la poca stabilità dell'Inghilterra, dove i Normanni si erano violentemente sovrapposti agli Anglosassoni relativamente da poco.

ATTESTATO DI SACRALITÀ

È in questo contesto che la dinastia angio-francese elaborò il progetto di rintracciare o, se necessario, di inventare elementi di coesione fra le etnie in radici mitiche che fossero in grado di risultare accettabili per i Celti insulari, per gli Anglosassoni, per i Normanni. D'altro canto, le dinastie di Francia e di Germania avevano i loro antenati che infondevano sacralità alle stirpi. La monarchia francese aveva i suoi centri sacrali in Reims, dove si conservava la Sacra Ampolla dell'olio recato dagli angeli con cui si ungevano i sovrani, e nell'abbazia di Saint-Denis, che custodiva l'Orifiamma, il vessillo direttamente concesso da Dio a Carlomagno; l'impero romano-germanico traeva invece la sua sacralità dalla Cappella Palatina di Aquisgrana, dove riposavano le reliquie di Carlomagno, per il quale nel 1165 Federico Barbarossa avrebbe ottenuto la canonizzazione. Occorreva dunque qualcosa in grado di competere con tanta nobiltà: i sovrani celti cristianizzati avrebbero coperto questo ruolo.
Già nell'VIII-IX secolo, l'Historia Brittonum di Nennio aveva nominato un "Arturus Rex" - chiamato in soccorso dal re dei Bretoni Vortiger per contrastare l'invasione dei Sassoni - tra le cui azioni in battaglia si ricorda l'uccisione di 960 nemici. Oggi si tende a ritenere che il suo nome potrebbe venire dal latino Artorios, il che lo farebbe identificare con un funzionario romano - Lucius Artorius - la cui esistenza storica è documentata da un'iscrizione funeraria bretone; il nome era comunque ampiamente attestato in quell'area intorno ai il secolo d.C. Nella seconda metà del X secolo, gli Annales Cambrìae parlavano di una vittoria riportata dai Britanni contro i Sassoni nei 516 o 518, durante la quale un "rex Arturus" avrebbe portato sulle spalle per tre giorni consecutivi la croce dei Cristo.

NELLA VALLE DI AVALON

Le tradizioni arturiane vennero raccolte, ampliate e ordinate verso il 1135 dalla Hìstorìa regum Britannìae di Goffredo di Monmouth, alla quale s'ispirò Guglielmo di Malmesbury per la seconda edizione di un suo scritto, il De antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, redatto tra il 1135 e il 1137 e nel quale la leggenda arturiana appare nella sua sostanziale completezza.
L'opera di Goffredo fu ben presto tradotta dal latino nella lingua d'oil per guadagnare rapida circolazione tanto nei mondo angio-normanno quanto in quello francese: a essa s'ispirava nel 1155 il Roman de Brut di Robert Wace, dedicato a Eleonora d'Aquitania, nel quale si descriveva la Tavola Rotonda, intorno alla quale i cavalieri prendevano posto. Essi avevano alla Tavola un seggio, ciascuno identico agli altri e venivano serviti alla stessa maniera in segno di uguaglianza di condizione. Per Artù si inventò anche un centro sacrale, l'abbazia di Glastonbury nel Somerset, da contrapporre ad Aquisgrana e a Saint-Denis: nel 1191, nel corso della terza crociata, fu addirittura annunciato il rinvenimento delle tombe del Re Artù e della regina Ginevra e, di conseguenza, Glastonbury fu identificata con la leggendaria terra di Avalon.
Entro la metà del Duecento, quindi, la "cerca" del Graal era un tema letterario ormai noto e ricco di varianti: suo oggetto, la ricerca del misterioso e prodigioso vaso da parte dei cavalieri della Tavola Rotonda. A essa l'autore anonimo della Queste - forse influenzato dalla mistica cistercense - aveva fornito un esito mistico, eucaristico e cristologico. Il puro eroe della Queste, Galahad - figlio di Perceval e della principessa del Graal - è in effetti un typus Christi. Con l'aiuto anche dei testi evangelici apocrifi, si era andato così tessendo un "romanzo del Sacro Calice", che coinvolgeva le leggende relative a Pilato, all'imperatore Vespasiano, alla reliquia romana dell'immagine del volto di Gesù (la "Veronica"), e dove soprattutto si narrava come Giuseppe d'Arimatea, ereditato il Graal, lo avesse affidato a compagni sicuri ed esso fosse finito in «una terra verso Occidente [...] ancora tutta selvaggia», nella valle di Avalon. Dalla generazione di Bron, cognato di Giuseppe di Arimatea, sarebbero discesi i "Re Pescatori", detti così perché avrebbero pescato quel pesce - un richiamo simbolico all'ICHTYS: il Cristo-Salvatore - necessario al rito del Graal.
Attraverso il "romanzo" di Giuseppe d'Arimatea, la Terrasanta e la terra di Avalon, identificata con l'Inghilterra angionormanna, si collegavano strettamente fra loro. D'altro canto, lo stesso stava avvenendo sul piano della realtà storica proprio a partire dalla seconda metà del XII secolo, quando i sovrani d'Inghilterra e molti loro vassalli continentali - fra cui i Lusignano, pretendenti alla corona di Gerusalemme - cercavano di porsi alla guida della crociata. Le avventure crociate in Terrasanta, a loro volta, avrebbero rinforzato in Occidente proprio nei secoli XII-XIII il culto eucaristico - così importante nella formazione della leggenda dei Graal - legato a miracoli come quello del Santo Sangue di Bolsena (che dette luogo alla fondazione della cattedrale di Orvieto) e alle importazioni di reliquie illustri provenienti dalla Terrasanta e dal saccheggio crociato di Costantinopoli del 1204: tra le molte, vanno ricordate almeno le reliquie della Passione per ospitare le quali Luigi IX fece edificare a Parigi la Sainte-Chapelle.

REVIVAL ROMANTICO

Nel 1485, Thomas Malory, cavaliere e avventuriero inglese, pubblicava la Morte Darthur, un romanzo-fiume in cui si riassumeva e si elaborava ancora una volta la materia del ciclo di Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda e del Graal. Da allora, il mito che tanto aveva dato alla poesia medievale sarebbe tramontato per circa tre secoli.
Fino ai Romanticismo, infatti, il Santo Graal sarebbe scomparso. La letteratura cavalleresca, che pure conobbe revivals e rielaborazioni, seguì altri percorsi. Il mito carolingio era tenuto in vita dall'impero asburgico e dalla monarchia francese che se ne contendevano l'eredità morale e spirituale; e le gesta dei paladini di Carlo in lotta contro i musulmani sembravano rinverdite dalla lotta contro i Turchi ottomani. Al contrario, la letteratura arturiana e graalica segnava il passo: troppo "sospetta" tanto per il cattolicesimo della Controriforma, quanto per l'austerità dei mondo protestante, entrambi preoccupati dalle molte ambiguità di stampo celtico e cortese.
Bisognò aspettare il tardo Settecento perché il Medioevo tornasse in auge, insieme alle fonti celtiche e germaniche, alle atmosfere gotiche di Ossian, alle radici della cultura europea. Nell 777, Christof Martin Wieland aveva elaborato una rinnovata versione della storia del mago Merlino; nella Parigi napoleonica del 1803-1804, Friedrich Schlegel teneva un ciclo di lezioni dedicate all'antica letteratura francese, mentre a Lipsia usciva appunto l'opera del Wieland edita da lui e dalla moglie Dorothea Mendelssohn.
Nel 1792, Walter Scott studiava e annotava il romanzo di Malory, mentre nel 1808 introduceva citazioni dal «ciclo vulgato» nel primo "canto" del suo Marmion. Non casualmente, quell'Inghilterra che più aveva promosso la letteratura arturiana riscopriva interesse per questa materia. Nella prima metà dell'Ottocento vi furono molte riedizioni e riduzioni dei poemi arturiani, mentre veniva riscoperta anche la raccolta dei Mabinogion celtici. È dell'842 la prima apparizione a stampa del Sir Launcelot and Queen Guinevere, della Morte d'Arthur e del Sir Galahad di Alfred Tennyson, mentre fra 1849 e 1862 gli affreschi di William Dyce nel palazzo di Westminster illustravano anche, tra le altre cose, la visione di Galahad.

DA WAGNER ALLA NEW AGE
La cultura romantica britannica, e in particolare la produzione preraffaellita, si configurava quindi come profondamente segnata dai sogni cavallereschi, nei quali il Graal assumeva ora una connotazione mistico-religiosa, ora invece una etico-misterica, con accenti erotici purificati in termini spirituali, secondo i dettami - sia pur trasfigurati - della cultura cortese. Tra 1857 e 1858, la Oxford Union venne decorata da pitture di argomento arturiano eseguite da Dante Gabriel Rossetti, da Edward Burne-Jones, da William Morris.
Tutte queste tendenze parvero aggregarsi ed esaltarsi nell'opera di Richard Wagner, che più di ogni altra consegnò il mito del Graal al Novecento attraverso il Lohengrin e soprattutto il Parsifal, ispirato da Wolfram von Eschenbach, che fu rappresentato per la prima volta nel 1882 a Bayreuth. Non c'è dubbio che Tennyson, Scott, i preraffaelliti e Wagner abbiano accostato il pubblico moderno al Graal: non certo i romanzi medievali, che sono restati una lettura familiare solo agli specialisti.
Nel corso del Novecento si è verificato un caratteristico intrecciarsi e sovrapporsi fra le istanze della ricerca scientifica attorno al mito del Graal e l'interesse suscitato dal tema negli ambienti occultistici e mistico-esoterici. Nella Parigi fin de siècle, invasa dall'entusiasmo per l'occultismo, si agitavano numerosi gruppi che pretendevano di rifarsi ai Templari e ai Rosa-croce e che erano in contatto con ambienti massonici, senza tuttavia sovrapporsi mai del tutto con essi. Un elemento catalizzatore di queste tendenze fu un artista, Joséphin Péladan, che nel 1890 - dopo un viaggio a Gerusalemme - guidato da un impulso mistico, fondò un "Ordine Cattolico della Rosacroce, del Tempio e del Graal", dal quale nacque il "Salon de la Rose-Croix"; un gruppo che si poneva, sia pur in modo defilato, all'interno del movimento simbolista. Frattanto il folclorista inglese Alfred Nutt e, soprattutto, la sua allieva Jessie Ledley Weston interpretavano la leggenda del Graal come il disvelamento di una "Chiesa del Graal", alternativa a quella ufficiale e di essa più autentica e propriamente cristiana, sul modello dell'etica templare. Forzando un po' il testo di Wolfram von Eschenbach, si sosteneva che egli avesse affidato ai Templari il ruolo di "guardiani del Graal". Alla base della dottrina templare vi sarebbe stata, quindi, la conoscenza del "segreto del Graal", riconducibile, attraverso la tradizione gnostica, ai miti e ai riti connessi con la fertilità e la morte e rinascita della vegetazione; quindi ai culti di antiche divinità quali Attis, Adone e Mitra. È a causa di questi studi che leggenda templare e mito del Graal si sono presentati inestricabilmente uniti sino ai nostri giorni, in una visione d'insieme, ricca di variabili e non priva di aspetti tra il ridicolo e il fantastico, ma che nel corso del secolo ha influenzato l'arte, la letteratura esoterico-occultista, ambigue frange politiche e sette pseudo e parareligiose. Oggi, ambienti vicini alla New Age sembrano aver ripreso ed elaborato i cascami moderni di queste leggende, sforzandosi di legittimare una loro pretesa antichità.