sabato 29 ottobre 2016

EL SECRETO DE LOS PLATILLOS VOLANTES

Appena arrivato in Libreria. EL SECRETO DE LOS PLATILLOS VOLANTES, di Juan Antonio De Laiglesia (Madrid, Editorial "Saturnino Calleja", 1952). Uno dei libri spagnoli più rari sui dischi volanti. Si tratta in realtà di un romanzo, ma va a "cavalcare" quel sentimento popolare e quella verve che già aveva attraversato gli Stati Uniti (apprestandosi a coinvolgere l'Europa e il mondo intero) e costituendo un fenomeno che, a distanza di 64 anni, è ben lungi dall'essere spiegato. Sul libro in questione vedere pp. 43-44 del mio "Dischi volanti e mondi perduti" (Macerata, Biblohaus, 2008), sempre che ne troviate ancora una copia...




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mercoledì 26 ottobre 2016

UFO: la visita extraterrestre

I giorni 29 e 30 ottobre si terrà un convegno ufologico nella città di Cinisello Balssamo presso il COsmo Hotel Palace. L'ingresso è libero, ma è preferibile prenotare per verificare la presenza di posti a sedere liberi.



sabato 22 ottobre 2016

La Dottrina vedica del “Silenzio”

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/la-dottrina-vedica-del-silenzio/

di Ananda K. Coomarswamy*

«Soltanto allora lo vedrai, quando non puoi parlarne;

perché la sua conoscenza è profondo silenzio e soppressione dei sensi»[1]



Il significato generale di “silenzio” in connessione con riti, miti e misteri è stato mira­bilmente discusso da René Guénon in Études traditionnelles[2]. Qui ci proponiamo di citare altri, più specifici dettagli dalla tradizione vedica. Va premesso che l’Identità Suprema (tad ekam) non è meramente in se stessa “senza dualità” (advaita), ma quando è considerata da un altro ed esteriore punto di vista è un’identità di molte cose differenti. Con questo non intendiamo soltanto che un primo principio unitario trascende le coppie di opposti (dvandvau) reciproca­mente connesse che possono essere distinte in qualsiasi livello di riferimento come contrari o conosciute come contraddittorie; ma piuttosto che l’Identità Suprema, indeterminata persino come prima assunzione di unità, include nella sua infinità la totalità di ciò che può essere implicato o rappresentato dalle nozioni di infinito e di finito, di cui la prima comprende la seconda, senza reciprocità[3]. D’altra parte, il finito non può essere escluso o isolato da o negato all’infinito, giacché un finito indipendente sarebbe di per sé una limitazione dell’infinito per ipotesi. L’Identità Suprema è, perciò, rappresentata inevitabilmente nel nostro pensiero sotto due aspetti, che sono entrambi essenziali alla formazione di ogni concetto di totalità secundum rem. Così troviamo detto di Mitrāvaruṇau (apara e para Brahman, Dio e Divinità) che da uno stesso seggio essi contemplano «il finito e l’infinito» (aditiṃ ditiṃ ca, RV 1.62.8); dove, natu­ralmente, si deve tener presente che in divinis “vedere” equivale a “conoscere” e a “essere”. O similmente, ma sostituendo la nozione di espirazione con quella di manifestazione, si può dire che «Quell’Uno è ugualmente espirazione e inspirazione» (tad ekam ānīd avātam, RV X.129.2) oppure è allo stesso tempo «Essere e Non-essere» (sa-dasat, RV X.5.7)[4].

Lo stesso concetto, espresso in termini di enunciazione e silenzio, è chiaramente formulato in RV II.43.3, «Oh Uccello, che tu enunci benessere ad alta voce, o sieda silente (tūṣṇīm), pensa a noi con favore»[5]. E analogamente nel rituale, troviamo che riti sono eseguiti con o senza formule enunciate, e che lodi sono offerte vocalmente o silenziosamente; per cui anche i testi forniscono una spiegazione adeguata. Qui si deve premettere che lo scopo primario del Sacrifi­cio Vedico (yajña) è di effettuare una reintegrazione della deità concepita come esaurita e disin­tegrata dall’atto della creazione, e allo stesso tempo quello dello stesso sacrificatore, la cui per­sona, considerata nel suo aspetto individuale, è evidentemente incompleta. La modalità di rein­tegrazione è mediante iniziazione (dīkṣa) e simboli (pratika, ākṛti), siano naturali, costruiti, attuati o vocalizzati; il sacrificante è tenuto a identificarsi con lo stesso sacrificio e così con la deità il cui auto-sacrificio primordiale esso rappresenta, «l’osservanza della regola di questo essendo la stessa com’era alla creazione». Una chiara distinzione è tracciata tra coloro che possono essere solamente “presenti” e quelli che “veramente” partecipano agli atti rituali che vengono eseguiti per loro conto.

Come già detto, ci sono certi atti che sono eseguiti con un accompagnamento vocale e altri silenziosamente. Ad esempio, in ŚB VII.2.2.13-14 e 2.3.3, a proposito della preparazione del­l’altare per il Fuoco, certi solchi sono scavati e certe libagioni fatte con un accompagnamento di parole pronunciate, e altri silenziosamente. «Silenziosamente (tūṣṇīm), poiché ciò che è silente è non dichiarato (aniruktam), e ciò che è non dichiarato è ogni cosa (sarvam) … Questo Agni (Fuoco) è Prajāpati, e Prajāpati è sia dichiarato (niruktaḥ) sia non dichiarato, limitato (parimitaḥ) e illi­mitato. Ora qualunque cosa faccia con formule espresse (yajuṣā), con ciò integra (saṃskaroti) quella sua forma che è dichiarata e limitata; e qualunque cosa faccia silenziosamente, con ciò integra quella sua forma che è non dichiarata e illimitata. In verità, chi come conoscitore di ciò fa così, integra la piena totalità (sarvam kṛtsnam) di Prajāpati; le forme ab extra (bāhyāni rūpāṇi) sono dichiarate, le forme ab intra (antarāṇi rūpāṇi) sono non dichiarate». Un passaggio quasi identico appare in ŚB XIV.1.2.18; e in VI.4.1.6 v’è un altro riferimento all’esecuzione di un rito in silenzio: «Egli distende la pelle d’antilope nera in silenzio, poiché è il Sacrificio, il Sacrificio è Prajāpati, e Prajāpati è non dichiarato».

In TS III.1.9, le prime libagioni sono sorbite silenziosamente (upāṇśu), l’ultima con rumore (upabdim), e «così quello concede alle divinità la gloria che spetta loro, e agli uomini la gloria che spetta loro, e diventa divinamente glorioso fra le divinità e umanamente glorioso tra gli uomini».

In AB II.31-32, i Deva, incapaci di sconfiggere gli Asura, sono detti aver “visto” la “lode silenziosa” (tūsṇīm śaṇsam apaśyam), e questo gli Asura non potevano capirlo. Questa “lode silenziosa” è identificata con ciò che è chiamato gli «occhi delle pigiature del soma, mediante i quali il Conoscitore raggiunge la Luce del mondo». V’è un riferimento a «questi Occhi del soma, con i quali occhi della contemplazione (dhī) e dell’intelletto (manas) noi contempliamo il Dorato» (hiraṇyam, RV I.139.2, vale a dire, Hiraṇyagarbham, il Sole, la Verità, Prajāpati, come in X.121). Si può osservare a tale proposito che, come il vino di altre tradizioni, il soma condiviso non è il vero elisir (rasa, amṛta) della vita, ma un liquore simbolico. «Di ciò che i Brahmani inten­dono con “soma”, nessuno ne gusta mai, nessun che dimora sulla terra ne gusta» (RV X.85.3-4): è «mediante il sacerdote, l’iniziazione e l’invocazione» che il potere temporale partecipa alla parvenza del potere spirituale (brahmaṇo rūpam), AB VII.31[6]. Qui la distinzione tra il soma realmente condiviso e il soma teoricamente condiviso è analoga a quella tra le parole del rituale pronunciate e ciò che non può essere espresso a parole, e analoga similmente alla distinzione tra la rappresentazione visibile e il «dipinto che non è nei colori» (Laṇkāvatāra Sūtra II,118).

La ben nota orazione in RV X.189, indirizzata alla Regina Serpente (sarparājñī) che è allo stesso tempo l’Alba, la Terra, e la Sposa del Sole, è conosciuta anche come il “canto mentale” (mānasa stotra), evidentemente perché, come spiegato in TS VII.3.1, è “cantato mentalmente” (manasā[7] stuvate), e questo proprio perché è nel potere dell’intelletto (manas) non solamente di comprenderlo (imām, i.e., l’universo finito) in un singolo momento, ma anche di trascenderlo, non solo di contenerlo (paryāptum) ma anche di avvolgerlo (paribhavitum). E in questo modo, mediante ciò che è stato precedentemente enunciato vocalmente (vācā) e ciò che è successiva­mente enunciato mentalmente, «entrambi (i mondi) sono posseduti e ottenuti». Proprio lo stesso è sottinteso in ŚB II.1.4.29, dov’è detto che quanto non è stato ottenuto con i riti precedenti è ora ottenuto mediante i versi del Sarparājñī, recitati, com’è evidentemente dato per scontato, mentalmente e in silenzio; e così il tutto (sarvam) è posseduto. Similmente in KB XIV.1, dove le prime due parti del Ājya sono il “mormorio silenzioso” (tūṣṇiṃ-japaḥ) e la “lode silenziosa” (tūṣṇiṃ–śaṇsa), «Egli recita in modo inudibile, per il raggiungimento di tutti i desideri», va inteso, naturalmente, che il canto vocalizzato attiene solo al conseguimento di beni temporali.

Si può notare, altresì, che la corrispondenza delle parole pronunciate verso l’esterno e quelle non dette verso le forme interne di divinità, sopracitata, è in perfetto accordo con la formula­zione di AB I.27, dove quando il soma è stato acquistato dai Gandharva (tipi di Eros, armati di archi e frecce, che sono i guardiani di Soma, ab intra) al prezzo della Parola (vāc, femm., chiamata qui “la Grande Nuda”, la Dea Nuda, e rappresentata nel rito da una giovenca vergine), è prescritto che il recitativo dev’essere eseguito in silenzio (upāṇśu) fino a che ella non sia stata riscattata da loro, vale a dire, fino a quando ella rimane “dentro”.

In BU III.6, dove c’è un dialogo su Brahman, la posizione viene finalmente raggiunta dove all’interrogante viene detto che Brahman è «una divinità sulla quale altre domande non possono essere poste», e così l’interrogante «possiede la sua pace [della divinità]» (upararāma). Questo, naturalmente, è in perfetto accordo con l’impiego della via remotionis negli stessi testi, dov’è detto che il Brahman è “No, No” (neti, neti), e anche con il testo tradizionale citato da Śaṇkara sui Vedānta Sūtra III.2.17, dove Bāhva, interrogato in merito alla natura di Brahman, rimane in silenzio (tūsṇīm), esclamando solo quando la domanda è ripetuta per la terza volta: «Invero io v’insegno, ma voi non capite: questo Brahman è silenzio». Il rifiuto del Buddha d’analizzare lo stato di nirvāṇa comporta precisamente lo stesso significato. [Cfr. avadyam, “l’impronuncia­bile”, da cui i principi conseguenti sono liberati dalla luce manifestata, RV passim.] In BG X.38, Krishna parla di se stesso come «il silenzio di coloro che son nascosti (mauna guhyāṇām), e la gnosi degli Gnostici (jñanaṃ jñanavataām)»; dove mauna corrisponde al muni familiare, “saggio silente”. Naturalmente, questo non significa che Egli non “parli” anche, ma che il suo parlare è semplicemente la manifestazione, e non un’affezione, del Silenzio; come BU III.5 pure ci ricorda, lo stato supremo è tale da trascendere la distinzione tra enunciazione e silenzio. «Senza rispetto verso enunciazione o silenzio (amaunaṃ ca maunaṃ nirvidya), allora egli è veramente un Brāhman». Quando inoltre è chiesto, «Con quali mezzi si diviene così un Brāhman?» all’in­terrogante è detto, «Con quei mezzi con cui si diviene un Brāhman», che è come dire, per una via che può essere trovata ma non può essere tracciata. Il segreto dell’iniziazione rimane inviolabile per sua stessa natura; non può essere tradito perché non può essere espresso, è inesplicabile (aniruktam), ma l’inesplicabile è ogni cosa, allo stesso tempo tutto ciò che può e tutto ciò che non può essere espresso.

Si vedrà dalle citazioni di cui sopra che i testi dei Brāhmaṇa e i riti cui si riferiscono sono non solo assolutamente coerenti in sé ma in completo accordo con i valori sottintesi nel testo dei RV II.43.3; le spiegazioni sono, infatti, di validità universale, e potrebbero essere applicate anche alle Segrete Orazioni della Messa Cristiana (che è anche un sacrificio) come alla ripe­tizione silente della formula degli Indiani Yajus[8]. La coerenza offre allo stesso tempo un’eccel­lente illustrazione del principio generale che quanto si trova nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad non rappresenta in linea di principio nulla di nuovo, ma solo un’espansione di quanto è dato per scontato e più “eminentemente” enunciato negli stessi testi liturgici “più vecchi”. Coloro che suppongono che nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad siano insegnate dottrine del tutto “nuove” stanno semplicemente ponendo inutili difficoltà sulla via della loro comprensione delle Saṃhitā.

Sarà vantaggioso anche considerare la derivazione e la forma della parola tūṣṇīm. Questa forma indeclinabile, generalmente avverbiale (“silenziosamente”) ma talvolta da rendere in mo­do aggettivale o come un sostantivo, è in realtà l’accusativo di tūṣṇa, femm. tūṣṇī, presumibil­mente andato perso, corrispondente al significato del greco σιγή, e derivato da Vtuṣ, che significa essere soddisfatto, contento e a riposo, nel senso che il movimento s’arresta nel raggiungimento del suo oggetto, e proprio come il discorso s’arresta nel silenzio quando tutto ciò che si poteva dire è stato detto. La parola tūṣṇīm si presenta come un vero accusativo (W. Caland, «tūṣṇīm è uguale a vācaṃyamaḥ») [poiché parlare di “contemplare silenziosamente” comporterebbe una tautologia] in PB VII.6.1, dove Prajāpati, desiderando procedere dallo stato di unità a quello di molteplicità (bahu syām), si espresse con le parole «Possa io nascere» (prajāyeya), e «avendo con l’intelletto contemplato il silenzio» (tūṣṇīm manasā dhyāyat), con ciò “vide” (ādīdhīt) che il Germe (garbham, vale a dire, Agni o Indra, che come il Bṛhat diventa il “primogenito”) era na­scosto dentro di sé (antarhitam), e così si prefisse di farlo nascere per mezzo della Parola (vāc). [Cfr. TS II.5.11.5, yad-dhi manasā dhyāyati, dove yad è equivalente a “parola non detta”, “concetto inespresso”.] Tūsṇīm manasā dhyāyat poi corrisponde al più usuale manasā vācam akrata (RV X.71.2) o manasāivā vācaṃ mithunaṃ samabhavat (ŚB VI.1.2.9), con riferimento a «l’atto della fecondazione latente nell’eternità», così[9] «Egli (Prajāpati) rimase gravido (garbhin)[10] e manifestò (asṛjata) i Singoli Angeli». La nascita del Figlio è, a rigore, non solo un concepimento dai principi congiunti, nel senso di un’operazione vitale, ma allo stesso tempo un concepimento intellettuale, per verbum in intellectu conceptum, corrispondente alla designazione del Germe (garbham, vale a dire, Hiraṇyagarbha) come un concetto (dīdhitim) in tal senso, RV III.31.1.

Il Pañcaviṃśa Brāhmaṇa, sopracitato, continua a spiegare con riferimento all’intenzione di «portare alla nascita per mezzo della Parola» (vācā prajanayā) che Prajāpati «emise la Parola»[11] (vācam vyaṣarjata, in altre parole, effettuò la separazione di Cielo e Terra), ed Ella discese come Rathantara (vāg rathantaram avapadyata, dove avapad è letteralmente “discendere”) … e di lì nacque il Bṛhat … che era rimasto così a lungo all’interno “(jyog antar abhūt); cfr. RV X.124.1, «Tu giacesti abbastanza a lungo nella vasta oscurità» (jyog eva dīrghaṃ tama āśayiṣṭhāh)[12]. Vale a dire che Aditi, Magna Mater, Notte, diventa Aditi, Madre Terra, e Alba, per essere rappresentata nel rituale presso l’altare (vedi), che è il luogo di nascita (yoni) di Agni: si fa distinzione tra la Parola che «era presso Dio ed era Dio» e la Parola come Madre Terra, o in altre parole tra “Maria spirituale” e “Maria incarnata”[13]. Poiché, come sappiamo da TS III.1.7 e JB I.145-146, il Bṛhat (il Padre portato alla nascita) corrisponde al Cielo[14], il futuro (bhaviṣyat), l’illimitato (aparimitam), e all’espirazione (apāna); il Rathantara (la natura separata del Padre) corrisponde alla Terra, il passato (bhūtāt), il limitato (parimitam), e all’inspirazione (prāna)[15]. Gli stessi assunti si trovano in JU I.53 sgg., sostituendo Sāman e Ṛc a Bṛhat e Rathantara: il Sāman (masch.) rappresentante l’intelletto (manas) e l’espirazione (apāna), la Ṛc (femm.) la Parola (vāc) e l’inspirazione (prāṇa). Il Sāman è anche in se ipso «sia lei (sā) sia lui (ama)», ed è come una singola potenza luminosa (virāj)[16] che i principi congiunti generano il Sole, e poi immediata­mente si separano l’uno dall’altro, questa divisione dell’essenza dalla natura, del Cielo dalla Terra, o della Notte dal Giorno essendo l’inevitabile condizione di tutta la manifestazione; è in­variabilmente la venuta della luce che separa nel tempo i Genitori che sono riuniti nell’eternità. Ora sāman è sempre in rapporto con la musica, ṛc con l’articolata formulazione delle incanta­zioni (ṛc, mantra, brahma), così che quando le parole sono cantate con musica misurata questa rappresenta un’analisi e un rendere in natura una musica celestiale che in sé è una, e imper­cettibile all’orecchio umano[17]. Possiamo dire, di conseguenza, che il nome di “Grande Liturgia” (bṛhad ukthaḥ, dove ukthaḥ viene da vāc, “parlare”) applicato ad Agni, e.g., in RV V.19.3, rappresenta il Figlio come Parola parlata, e Logos manifestato[18]; e allo stesso modo Indra è «la più eccellente incantazione» (jyeṣṭhaś ca mantraḥ, RV X.50.4).

La Parola parlata è un’armonia. In KB XXIV.2 e XXIV.1 «Prajāpati è colui il cui nome non è menzionato[19]; questo è il simbolo di Prajāpati … “A voce alta” in “Canta a voce alta, Oh tu dall’ampio splendore” (Agni) è un simbolo del Bṛhat». In ŚB VI.1.1.15, il Giubilo trionfante della Parola parlata è descritto come segue: «Lei (la Terra, bhūmi, essendo pṛthivī, “distesa”), sentendosi del tutto completa (sarvā kṛtsnā), cantò (agāyat); e poiché “cantò”, lei è Gāyatrī. Dicono anche che “Fu Agni, invero, sulla sua schiena (pṛṣṭhe)[20] che, sentendosi del tutto completo, cantò; e dacché cantò, pertanto egli è Gāyatra”. E quindi chiunque si senta del tutto completo, o canta o si diletta nel canto».

Abbiamo così brevemente discusso la natività divina da certi punti di vista al fine di far emer­gere le corrispondenze dei riferimenti vedici e gnostici al Silenzio. In entrambe le tradizioni le potenze autentiche e integrali a ogni livello di riferimento sono sizigie di principi congiunti, maschile e femminile; riassumendo la dottrina gnostica degli Eoni (vedico amṛtāsaḥ=devāḥ) possiamo dire che ab intra e informalmente vi sono ßνθóς e σιγή, “Abisso” e “Silenzio”, e ab extra, formalmente, νoûς e ἔvvoια o Sofia, “Intelletto”, e “Saggezza”, e senza entrare in ulteriori dettagli, che σιγή corrisponde al vedico tuṣṇī e νoûς a manas, σιγή e Sofia rispettivamente agli aspetti nascosti e manifesti di Aditi-Vāc; e anche che la “caduta” della Parola (vāg … avapadyata, sopracitata), e la sua purificazione come Ṛc, Apālā, Sūryā (JU I,53 sgg., RV VIII.91 e X.85) corrisponde alla caduta e redenzione di Sofia e della Shekinah nelle tradizioni gnostica e cabalistica, rispettivamente. In quelle che sono forme di Cristianesimo in realtà più accademiche che “ortodosse”, i due aspetti della Voce, interiore ed esteriore, sono quelli di «quella natura con cui il Padre genera» e «quella natura che recede dalla somiglianza a Dio, e tuttavia mantiene una certa somiglianza con l’essere divino» (Summa Theologiæ I.41.5c e I.14.11 ad 3), il Theotokoi eterno e temporale, rispettivamente.

In conclusione ripetiamo che l’Identità Suprema non è meramente silente né solo vocale, ma letteralmente una non-cosa che è allo stesso tempo indefinibile e parzialmente definita, una Parola tacita e parlata.



Ananda K. Coomaraswamy

* Ananda K. Coomaraswamy, The Vedic Doctrine of “Silence”, in Indian Culture, n. 4, vol. III, Princeton University Press, 1937 (cfr. Coomaraswamy. 2: Selected Papers. Metaphysics, Princeton University Press, 1987).

Legenda: RV: Ṛg Veda Saṃhitā; TS: Taittirīya Saṃhitā; AV: Atharva Veda; PB: Pañcavimśa Brāhmaṇa; ŚB: Śatapatha Brāhmaṇa; AB: Aitareya Brāhmaṇa; KB: Kauṣītaki Brāhmaṇa; JB: Jaiminīya Brāhmaṇa; JU: Jaiminlya Upaniyad; GB: Gopatha Brāhmaṇa; AĀ: Aitareya Āraṇyaka; BU: Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad; MU: Muṇḍaka Upaniṣad; BG: Bhagavad Gita; KU: Kauṣītaki Upaniṣad.

Cfr. R. Guénon, Études Traditionnelles, no 214, octobre 1937, Les Revues, ripreso in Études sur l’Hindouisme, Éditions Traditionnelles, Paris, 1968, Compte-rendu d’articles de revues, Année 1937: «In Indian Culture (Vol. III, no 4), il sig. Ananda Coomaraswamy studia La dottrina vedica del “silenzio”, ch’egli ricollega a quanto abbiamo qui esposto a proposito del “segreto iniziatico”, così come dei “miti” e dei “misteri” intesi nel loro senso originario. Si tratta dunque essenzialmente dell’inesprimibile, che è il “supremo” (para), mentre la “parola” espressa si riferisce necessariamente al “non-supremo” (apara), i due aspetti apparendo d’altronde come inseparabilmente associati in numerosi testi, così come nel rituale, a costituire insieme la concezione totale del Principio».

[1] Ermete, Libro X, 5.

[2] René Guénon, Organisations initiatiques et sociétés secrètes e Du Secret initiatique, in Le Voile d’Isis (1934), pp. 349 e 429; Mythes, mystères et symbols, in Le Voile d’Isis (1935), p. 385. Dal 1936 Le Voile d’Isis è stato pubblicato come Études traditionelles.

[3] «L’Infinito (aditiḥ) è Madre, Padre e Figlio, di tutto ciò che è nato, e il principio di nascita, ecc.» (RV I.89.10); «Nulla è cambiato nell’Infinito inamovibile (ananta) dall’emanazione o riassorbimento dei mondi» (Bhāskara, Bījagaṇita [Benares, 1927], ripetendo il pensiero di AV X.8.29 e BU V.I, che «No­nostante plenum (lat.) (pūraṇam) sia sottratto da plenum, plenum ancora rimane»). L’inclusione del finito nell’Infinito è espressamente formulata in AĀ II.3.8, «A è Brahman, l’ego (aham) è al suo interno». Sulla relazione tra unità e molteplicità vedi Coomarswamy, Vedic Exemplarism, in Harvard Journal of Asiatic Studies, 1936.

[4] Le “operazioni distinte” (vivrata), interne ed esterne (tira o guhya, e āvis), dell’Identità Suprema sono rappresentate da molte altre coppie, e.g., ordine e disordine (cosmo e caos), vita e morte, luce e tenebre, vista e cecità, veglia e sonno, potenza e impotenza, movimento e riposo, tempo ed eternità, ecc. Si può osser­vare che tutti i termini negativi rappresentano privazioni o mali se considerati empiricamente, ma assenza di limite, e bene, quando considerati anagogicamente, il concetto negativo includendo il positivo, come la causa include l’effetto. [Questo è ulteriormente illustrato dalle due nature, niruktānirukta, mortale e immortale, come Mitrāvaruṇau in RV I.164.38, i due Brahmani in BU II.3.1, Prajāpati in ŚB X.1.3.2.]

[5] Cfr. RV X.27.21, «Oltre ciò che è udito qui, v’è un altro suono» (śrava id ena paro anyad asti); I.164.10, «Dietro all’immensità del Cielo gli dei incantano una parola onnisciente senza effetti verso l’esterno» (mantrayante … viśvavidaṃ vācam aviśminvam); JU III,7-9, dove si dice che l’iniziato (dìkṣitaḥ, considerato come un morto per il mondo) pronunci una parola “non umana” (amānuṣiṃ vācam) o “brahmadictum” (brahmavādyam). Nient’altro che un’eco della vera Parola può essere udito o compreso da orecchie umane.

[6] AĀ II.3.7, «Mediante la forma dell’Unico si ha l’essere in questo mondo» (amuno rūpeṇêmaṃ lokam ābhavati); l’opposto, «mediante questa forma (umana) si è interamente rinati in quel mondo» è asserito qui, e anche in II.3.2 dove una “persona” (puruṣa) si distingue dall’animale (paśu) dacché «dal mortale cerca l’immortale, che è la sua perfezione». Ad esempio, in AB VII.31, sopracitato, è mediante i colpi della nyagrodha che il rappresentante del potere temporale condivide metafisicamente il soma (parokṣeṇa). Questa dottrina di “transustanziazione” è enunciata similmente in ŚB XII.7.3.11, «Per fede fa sì che il surā sia soma», cfr. ŚB XII.8.1.5 e XII.8.2.2. Vedi anche Coomaraswamy, Angel e Titan: An Essay in Vedic Ontology, Journal of the American Oriental Society, n. 12, 1935, p. 382.

[7] Da qui Manasā Devī, la moderna denominazione bengalese della Dea Serpente.

[8] Si può aggiungere che mentre, da un punto di vista religioso, silenzio e digiuno e altri atti d’asten­sione sono atti di penitenza, da un punto di vista metafisico il loro significato non ha più a che fare con il mero miglioramento dell’individuo come tale, ma con la realizzazione di condizioni sovra-individuali. La vita contemplativa come tale è superiore alla vita attiva come tale. Non ne consegue, tuttavia, che lo stato del Conoscitore o persino quello del Viaggiatore dovrebbe essere d’inazione totale; questa sarebbe un’i­mitazione imperfetta dell’Identità Suprema, dove eterno riposo ed eterno lavoro sono una e stessa cosa. V’è una imitazione adeguata solo quando inazione e azione sono identificate, come inteso dalla Bhagavad Gitā e nel wu wei Taoista; l’azione non implica più limitazione quando non è più determinata da necessità o imposta da fini da raggiungere, bensì diviene una semplice manifestazione. In tal caso, ad esempio, l’enunciazione non esclude, ma piuttosto rappresenta il silenzio [«È solo dal suono che il non suono è rivelato», MU VI.22]; ed è proprio in questo modo che un mito o altro simbolo adeguato, sebbene sia invero un’”espressione”, rimane essenzialmente un “mistero”. Allo stesso modo, di ogni funzione natu­rale, quando riferita al principio che rappresenta, si può propriamente dire che vi si è rinunciato anche quando è compiuta.

[9] “Così”, i.e., come esprime sant’Agostino: avendo così «fatto Se stesso madre di chi deve nascere» (Epiphanius contra quinque hæreses, 5). [Vedi A Coptic Gnostic Treatise Contained in the Codex Bru­cianus Ms. 96, trad. Charlotte Baynes (Cambridge, 1933), XII.10 (p. 48), per Source and Silence.]

[10] Cfr. Epiphanius contra quinque hæreses XXXIV.4, «Il Padre era in travaglio», e nel folklore, la “covata”.

[11] È interessante notare il rituale parallelo in ŚB IV.6.9.23-24 dove, dopo essersi seduti senza parlare (vācaṃyamaḥ), i sacrificatori devono «formulare la loro richiesta» (vācam visṛjetan) secondo i loro desideri, e.g., «Possa esserci concessa abbondante prole». [Nota tūsṇīm śansaṃ tira iva vai retāṃsi vikryante, AB II.39; cfr. particolarmente JB III.16.]

[12] Dīrghatamas, “Vasta Oscurità”, uno dei “profeti” ciechi (ṛṣī) del Ṛg Veda, è, di conseguenza, la desi­gnazione di una ab intra, nascosta forma di Agni, la cui relazione con suo fratello minore Dīrghaśravas, “Grido Lontano”, è come quella di Varuna con il fratello minore Mitra o Agni, o, in altre parole, come quella della Morte (mṛtyu) con la Vita (āyus). Di Dīrghaśravas è anche detto che era «rimasto a lungo in stato di privazione e mancanza di cibo» (jyog aparuddhó śayānaḥ, PB XV.3.25), e tutte queste espressio­ni corrispondono a quanto si dice di Vṛtra in RV I-32.10, cioè, che «il nemico di Indra giaceva nella vasta oscurità (dīrgham tama aśayat) sotto le Acque»; l’aspetto ab intra della divinità è quello del Drago o del Serpente (vṛtra, ahi), la processione di Prajapati un «trascinarsi fuori dalla cieca oscurità» (andhe tamasi prāsarpat, PB XVI.1.1), e quella dei Serpenti generalmente uno «strisciare avanti» (ati sarpana), per cui essi diventano i Soli (PB XXV.15.4). Su questa processione serpentina vedi Coomaraswamy, Angel and Titan, in Journal of the American Oriental Society, 1935. La processione di Dīrghatamas richiede una più lunga discussione.

[13] Diversamente rappresentato miticamente come il ratto della Parola (RV I.130.9, dove Indra “ruba la Parola,” vācam … muṣāyati), o come un’analisi della Parola (RV VII.103.6, X.71.3 e 125.3), o ancora come una misura o la nascita di Māyā da Māyā (AV VIII.9.5, «Māyā naque da Māyā», seguito dal Lalita Vistara XXVII.12, «Dacché come lei, i.e., la madre del Buddha, la sembianza fu modellata secondo quella di Māyā, Māyā fu chiamata».).

[14] Agni, sebbene il Figlio, è lo stesso Padre rinato, e immediatamente ascende; inoltre, «Agni è acceso da Agni» (RV I.12.6). Di conseguenza, si può dire di lui non solo che «Essendo il Padre, divenne il Figlio» (AV XIX.53.4) e che Egli è insieme «il Padre degli dei e il loro Figlio» (RV I.69.1, vedi ŚB VI.1.2.26), ma anche che «Colui che un tempo era il proprio Figlio ora diventa il proprio Padre» (ŚB II.3.3.5), che egli è «Padre di suo padre» (RV VI.16.35), a un tempo Figlio e Fratello di Varuṇa (RV IV.1.2 e X.51.6), e “Proprio-figlio” (tanūnapat, passim), quest’ultima espressione corrisponde esattamente allo Gnostico “αῦτoγεvης”. Quindi, è facile vedere come Agni, sebbene Figlio di nascita ctonia [ctonio dal gr. χϑόνιος, der. di χϑών -ονός “terra”, letter. sotterraneo (N.d.T.)], può nella sua identità con il Sole essere considerato anche come l’Amante della Madre Terra; la sigizia [dal gr. σύζυγος, lett. aggiogato insieme; in astronomia, dicesi sigizia una configurazione in linea retta di tre corpi celesti (N.d.T.)] Agni-Prithvī essendo quindi un aspetto dei genitori Cielo e Terra, Savitṛ-Sāvitṛī, e più alla lontana Mitrāvaruṇau (GB I.32 e JUB IV.27, ecc.).

[15] Cfr. in AĀ II.3.6 la distinzione dello spirito (prāna) dal corpo (śarīra), di cui il primo è nascosto (tira) e il secondo evidente (āvis), come “a” intrinseca e “a” espressa: ŚB X.4.3.9, «Nessuno diventa immortale mediante il corpo, ma che si tratti di gnosi o di lavoro, solo dopo aver abbandonato il corpo».

[16] Virāj, da cui tutte le cose “suggono” la loro specifica virtù o carattere, è comunemente una designa­zione della Magna Mater, ma anche quando così considerato è una sigizia, «Chi conosce la sua dualità progenitiva?» AV VIII.9.10. I termini virāj e aditi, benché entrambi di solito femminili, possono anche avere un senso maschile con riferimento simile al primo principio. Sostenere, invero, che qualsiasi potere creativo considerato nel suo aspetto creativo possa essere definito come esclusivamente “maschio” o esclu­sivamente “femmina” implica una contraddizione in termini, essendo qualunque creazione una co-gnizione e una con-cezione; persino nel Cristianesimo, la generazione del Figlio è «un’operazione vitale da un principio congiunto» (a principio conjuncto, Summa Theologiæ I.27.2), i.e., un principio che è sia un’es­senza sia una natura, «Quella natura onde la quale il Padre genera». E solo quando ci si è resi conto una volta per tutte che il potere creativo a qualsiasi livello di riferimento, che sia ad esempio come Dio o Uomo, è sempre un’unità di principi congiunti, vale a dire, una sigizia e mithunatva, che può essere vista l’adeguatezza di espressioni come «Egli (Agni) nacque dal grembo di Titan (asurasya jaṭharāt ajāyata)», RV III.29.14; «Mitra versa il seme in Varuṇa (retaḥ varuṇo siñcati)», PB XXV.10.10; «Il mio grembo è il Grande Brahman, in esso depongo il Germe», BG XIV.3, e molti riferimenti simili alla maternità di una divinità attribuiti con nomi grammaticalmente maschili o neutri.

[17] Proprio come in Plotino, Enneadi I.6.3, «Armonie non udite nel suono creano le armonie che udiamo e risvegliano l’anima alla sola essenza in un’altra natura»; e V.9.11, «Una rappresentazione terrena della musica che c’è nel ritmo (Skr. chandāṇsi) del mondo ideale». È precisamente in tal senso che la musica rituale, come ogni altra parte del Sacrificio, è un’imitazione di «ciò che fu fatto dalle Divinità al principio» (ŚB VII.2.1.4 e passim), che vale non meno per la Messa o il Sacrificio Cristiano.

Si può osservare che nell’operazione dei principi congiunti necessariamente ne concepiamo uno come attivo, l’altro come passivo, e diciamo che uno è agente e l’altro mezzo, o che uno dà e l’altro riceve. L’apparente conflitto con la dottrina Cristiana, che nega una “potenza passiva” in Dio (Summa Theologiæ I.41.4 ad 2), è irreale. Lo stesso San Tommaso osserva che «in ogni generazione v’è un principio attivo e uno passivo» (Summa Theologiæ I.98.2c). Il fatto è che una distinzione di questo tipo è determinata dalla necessità di parlare in termini di tempo e spazio; mentre in divinis l’azione è immediata, e non v’è una di­stinzione reale, ma soltanto logica tra agente e mezzo. Savitṛ e Sāvitṛī sono entrambi ugualmente “grembi” (yonī, JU IV.27). Se «Una delle perfezioni agisce (kartā), l’altra favorisce (ṛndhan)», RV III.31.2, ed entrambe le cose sono operazioni attive; non significa che “agire” o “favorire” rappresentino possibilità che potrebbero o meno essere state realizzate, ma solamente si riferisce alla co-operazione dei principi congiunti, intenzione e potenza. Non v’è distinzione fra potenzialità e atto. È solo quando la creazione è avvenuta, e i concetti di tempo e spazio sono quindi coinvolti, che possiamo pensare a un “puro atto” come separato dalla “potenza” dalla misura dell’intero universo (Dante, Paradiso XXIX.31-36), pensare al Cielo e alla Terra “in atto di separarsi” (te vyadravatām, JU I,54), o alla «Natura che si allontana dalla somiglianza con Dio» (Summa Theologiæ I.14.11). Questa separazione (viyoga) è l’occasione della sofferenza cosmica (traiśoka, il dolore dei Tre Mondi che un tempo erano stati uno, PB VIII.1.9, loka-duḥkha, Weltschmerz, KU V.II), e non v’è da meravigliarsi che «Quando la coppia congiunta fu divisa, i Deva gemettero, e dissero, “Lasciate che s’uniscano ancora”» (RV X.24.5); tuttavia, è solo «all’incontro delle vie», «alla fine dei mondi», che il Cielo e la Terra «s’abbracciano» (JU 1.5, ecc.), solo «nel cuore» che il matrimonio di Indra e Indrāṇī è davvero consumato (ŚB X.5.2.11), vale a dire, in un silenzio e oscurità che sono gli stessi come nella «Notte che nasconde l’oscurità della coppia congiunta» in RV I.123.7, il Śatapatha Brāhmaṇa interpreta questa condizione di cognizione inconscia (saṃvit), beatitudine perfetta (para-mānanda), e sonno (svapna) come un «entrare all’interno, o essere posseduto da, ciò che è il proprio Sè» (svāpyaya). [Cfr. Māṇḍ. Up. II, apīti.]

[18] Il Sacrificio nel suo aspetto liturgico è un «portare alla nascita mediante la Parola»: si «canta la Sāman su un Ṛc», e questo è un accoppiamento procreativo (mithunam), identico a quello tra Intelletto e Parola (manas e vāc), Sacrificio e Ricompensa (yajña, dakṣinā, i.e., Prajāpati e Alba), e letteralmente una in-form-azione della Natura, «se non fosse per l’Intelletto, la Parola sarebbe incoerente» (ŚB III.2.4.11), mentre è in realtà il «luogo di nascita dell’Ordine». La Rathantara, ad esempio, è un «mezzo di procrea­zione» (prajananam, PB VII.7.16, corrispondente a prajananam in quanto “amante” viśpatnī, la “madre” di Agni in RV III.29.1); Sāvitrī in tal senso è identificato con i misuratori (chandāṇsi) e chiamata la “Madre dei Veda” (Gopatha Brāhmana I.33 e 38), i quali “misuratori” sono comunemente considerati come il mezzo per eccellenza di reintegrazione (saṃskaraṇa, AB VI.27, ŚB VI.5.4.7, ecc.), e nella sua unione con Savitṛ presenta un’analogia con l’Ecclesia Gnostica (“Chiesa Madre”) e Gnosi come costituenti una sigizia con l’Uomo (άνθρωπος=Prajāpati, Agni, Manu). Anche in questo nesso andrebbe notata la stretta relazione delle parole mātrā, mātṛ, e māyā, “metro”, “madre”, e “mezzi magici” o “matrice”; mā “misurare” e nir-mā “delimitare” essendo costantemente impiegati non solo nel senso di dare forma e definizione, ma nel senso strettamente correlato di creare o dare alla luce, segnatamente in RV III.38.3, III.53.15, X.5.3, X.125.8, AV VIII.9.5, e nella ben nota espressione nirmāṇa-kāya, che denota precisa­mente il presunto ed effettivamente manifestato e nato “corpo” del Buddha.

Sacrificio e nascita sono concetti inseparabili; il Śatapatha Brāhmaṇa, invero, propone la hermeneia, «yajña, perché “yañ jayate”». Il Sacrificio crea divisione, uno “spezzare del pane”; il risultato è articolato e chiaro. Il Sacrificio è un distendersi, un fare un tessuto o rete della Verità (satyam tanavāmahā, ŚB IX.5.1.18), una metafora comunemente impiegata altrove in relazione all’irraggiare della luce fontale, che forma la trama dei mondi. Proprio come l’accensione di Agni è il rendere percepibile ed evidente una luce nascosta, così l’enunciazione dei canti è il rendere percepibile un silente principio del suono. La Parola parlata è una rivelazione del Silenzio, che misura la traccia di ciò che è di per sé incommensurabile.

[19] [Prajāpati sceglie aniruktaṃ sāmno … svargyam, la «(parte) indistinta del sāman che appartiene al Cielo», JU I.52.6; cfr. manasā “in silenzio”, opposto a vācā, come nel JU I.58.6; vedi ŚB IV.6.9.17 e la nota di Eggeling su manasā stotra, anche JU I.40.4.]

[20] Pṛṣṭhe, i.e., (1) con riferimento ad Agni seduto sull’altare della terra (vedi), che è il luogo della sua nascita (yoni), e/o (2) con riferimento ad Agni sostenuto da Pṛṣṭhhastotra, del cui inno la Gāyatrī è la madre per mezzo di Prajāpati, PB VII.8.8.

mercoledì 19 ottobre 2016

Il castello di Tures e la stanza degli spettri

In collaborazione con Hesperya

tratto da: http://www.hesperya.net/2016/09/01/il-castello-di-tures-e-la-stanza-degli-spettri/

di Roberta Faliva

Il castello di Tures risale ai primi del XIII secolo e sorge in una posizione strategica che permetteva di controllare un attacco nemico e consentiva, ai signori del castello, di esigere un pagamento per il passaggio nelle loro terre.

All’interno del castello c’è una stanza degna di nota, la cosiddetta “Stanza degli Spettri”. Questo luogo deve il suo singolare nome alla leggenda di Margherita e alla sua triste sorte. Margherita von Taufers voleva sposarsi con un giovane di basso lignaggio, probabilmente il capitano delle guardie del castello. La cosa non fu apprezzata in famiglia e qualcuno, forse il padre stesso, ingaggiò un sicario per eliminare il futuro marito, che venne ucciso da una freccia il giorno delle nozze, proprio sull’altare. La leggenda vuole che Margherita disperata si rinchiuse nella sua camera dove pianse ininterrottamente per sette anni per poi gettarsi dalla finestra. Secondo alcuni racconti locali, in alcune particolari notti dell’anno è ancora possibile sentire lo spettro della giovane gemere e piangere.
Un fatto particolare è legato alla storia misteriosa di questo luogo: durante le riprese del film del 1972 di Ettore Scola, “La più bella serata della mia vita”, che si effettuarono nel castello, fu proprio Alberto Sordi a riferire di aver udito i gemiti e i lamenti di Margherita. In molti sostengono che il suo fantasma ancora si aggiri senza pace nelle sale del castello di Tures.

domenica 16 ottobre 2016

Dal Caos all’Ordine: Biocentrismo e Meccanica Quantistica

Sabato 29 Ottobre 2016 e.v. alle ore 21,15 presso i locali del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 - Via Don Minzoni 39, Bellinzago Novarese (NO) - nell’ambito delle serate dedicate agli “Incontri con l’Autore”, la nostra Associazione ha il piacere di invitarvi ad un’interessantissima serata in compagnia di IOANNIS TSIOURAS che parlerà sul tema:
“Dal Caos all’Ordine: Biocentrismo e Meccanica Quantistica”





La conferenza, che fa da sfondo alla presentazione del libro di Ioannis Tsiouras “E come stella in cielo il ver si vide” – Edizioni Giuseppe Laterza/ Ebook edizione Youcanprint – ha l’intento di diffondere contenuti di stampo saggistico-divulgativo di tipo esoterico, filosofico, scientifico e teologico.
Si tratta di un viaggio nella conoscenza. L’intento del libro, e di questa conferenza, è quello di indurre a riflettere e a seminare dubbi. Nel corso della serata verranno presentate specifiche curiosità che avranno lo scopo di stimolare l’uditorio a proseguire e ad approfondire gli argomenti trattati. In questa presentazione l’autore non intende quindi rivelare alcuna verità, ma semplicemente fornirà a chi sarà presente quegli elementi che possono risultare utili ed essenziali alla ricerca della verità stessa.
L’argomento centrale che permea e fa da filo conduttore lungo tutta l’opera è il motto esoterico: Ordo ab Chao (Ordine dal Caos)! Ogni trasformazione ha una causa; all’origine della catena di cause-effetti doveva esserci una causa “prima” priva di causa, ovvero una fonte originaria del moto priva di moto. A questa causa, che rappresenta la causa ultima del divenire dell’universo, Aristotele ha dato il nome di “motore immobile” o “primo motore” (in greco πρῶτον κινοῦν ἀκίνητον). Il motore primo aristotelico doveva essere una sostanza “sovrasensibile”, eterna, immobile, incorporea, priva di grandezza e di parti e sempre in atto. Esso avrebbe mosso direttamente il primo cielo, non per contatto (poiché è immateriale), ma “come oggetto d’amore”, ossia come causa finale: l’amore che move il sole e l’altre stelle di Dante.
Gli scienziati nel loro modello termodinamico dell’universo hanno individuato due tendenze segnate da due frecce che hanno una direzione opposta all’altra: la freccia pessimistica e la freccia ottimistica.
La caratteristica principale della termodinamica è il tempo e il tempo è percepito dall’uomo attraverso il mutamento che nella scienza si chiama entropia trattata dal 2° principio della termodinamica. Secondo questo principio, dunque, l’entropia esprime il grado di disordine in un sistema e che aumenti con il trascorrere del tempo, mentre la sua energia disponibile e utilizzabile, diminuisce continuamente. Questo fino a quando l’energia ordinata, cioè quella utilizzabile, venga esaurita e l’universo avrà la Morte Termica (massimo disordine, massima entropia ed energia da utilizzare pari a zero).
La freccia pessimistica del tempo è segnata dall’entropia e porta verso la distruzione e verso la degradazione e la morte. La freccia ottimistica del tempo è segnata dalla neghentropia (entropia negativa) che spinge verso l’aumento dell’ordine e verso la vita.
Vivere è conoscere, apprendere, comunicare e sapere. La cognizione coincide con il processo stesso della vita. Lo spontaneo emergere di un nuovo ordine nel percorso evolutivo, che costituisce la base stessa della creatività vitale, ha donato all’Homo sapiens diverse proprietà emergenti. I processi vitali sono associati alla dimensione cognitiva della vita, e l’emergere, attraverso gli stati di maggiore complessità e organizzazione, di un nuovo ordine ha portato allo sviluppo del linguaggio e dell’autocoscienza, che conferisce alla mente umana la facoltà del libero arbitrio, secondo la quale ogni persona è libera di fare le proprie scelte e di prendere decisioni in base alla volontà.
È incredibile come l’uomo sia riuscito a partorire la sua esistenza nel tempo e nello spazio. Di punto in bianco ha avuto consapevolezza di essere un vivo osservatore estraneo al grande e meraviglioso spettacolo della terra. Per Newton lo spazio e il tempo erano due entità assolute e immutabili e l’universo era un ambiente rigido e inalterabile. La fisica classica newtoniana concorde perfettamente con l’esperienza di tutti i giorni, ma non è più valida per le velocità che si avvicinano alla velocità della luce del mondo subatomico e intergalattico dove il tempo non scorre con la stessa velocità. Queste scoperte hanno scatenato una vera rivoluzione, che ha comportato una revisione delle leggi della fisica newtoniana.
La meccanica quantistica ha messo in discussione il fondamento stesso della concezione meccanicistica del mondo, cioè il concetto di realtà della materia. Mentre la fisica classica che esprime l’intuizione umana descrive una realtà in cui le cose sono sempre in un certo modo, la meccanica quantistica descrive il mondo in uno stato confuso, indeterminato, apparentemente incoerente, nel quale le cose sono in parte in un modo e in parte in un altro e si lavora con la probabilità. Le cose diventano certe solo quando un’osservazione o una misurazione adeguata le costringe ad abbandonare le possibilità quantistiche e a scegliere una tra le alternative. L’osservazione o la misurazione rileva la realtà e in quel momento la “funzione d’onda collassa”.
La meccanica quantistica rivela una fondamentale unità dell’universo: mostra che non possiamo scomporre il mondo in unità minime dotate di esistenza indipendente. Più entriamo in profondità nella materia, più ci accorgiamo che non esiste nessun mattone fondamentale isolato come gli atomi così come avevano pensato gli atomisti, ma sveliamo una rete di relazioni dinamiche tra le varie parti del tutto.
La meccanica quantistica ha cambiato i riferimenti facendo salire l’uomo sul palcoscenico trasformandolo nel protagonista di questo meraviglioso spettacolo che è la vita! Siamo noi, gli attori-spettatori, a creare lo spettacolo; ognuno per conto proprio contribuisce ed è responsabile della sua realtà.
La scienza, dunque, ha cambiato nel tempo l’idea sulla realtà: la fisica Galileiana, Newtoniana e la relatività di Einstein, avevano considerato l’uomo come un semplice osservatore della realtà. Con l’avvento della meccanica quantistica la scienza ha rivalutato l’uomo e da semplice spettatore lo ha fatto diventare protagonista facendolo salire sul palcoscenico della realtà della vita.
I tentativi di riunire tutte le forze per produrre una struttura unica e comune, la Teoria del Tutto (il LOGOS di Eraclito), come il modello delle stringhe e la teoria M, richiedono l’ipotesi di almeno otto dimensioni spaziali e una temporale, nessuna delle quali ha una vaga reminiscenza nell’esperienza umana, né tanto meno può essere verificata sperimentalmente in alcun modo, ma soprattutto non coinvolgono la coscienza.
La scienza moderna non riesce ancora a dare una risposta soddisfacente a questa domanda: qual è la natura di questa cosa che chiamiamo realtà, dell’universo nel suo complesso? Questo perché nelle equazioni della Teoria del Tutto, manca un elemento cruciale del cosmo. Questo elemento è la coscienza. La nuova Teoria del Tutto dovrebbe considerare che gli elementi fondamentali della realtà siano fatti di coscienza.
Il nuovo paradigma della realtà, dunque, sviluppato da R. Lanza, si chiama Biocentrismo.
Secondo il Biocentrismo è l’osservatore vivente che crea la realtà. Ciò che noi percepiamo come reale è un processo che coinvolge la nostra coscienza. Non può essere percepito nulla che non abbia interagito con la nostra coscienza, quindi il mondo esterno deve essere correlato alla coscienza. Il mondo esterno e la coscienza sono correlati.
Secondo il Biocentrismo di Lanza, non esiste alcun universo fisico al di fuori della vita e della coscienza. Nulla è reale prima di essere percepito. Non c’è mai stato un tempo in cui sia esistito un universo esterno, silente, dal quale sia sbocciata la vita casualmente in un tempo successivo. Spazio e tempo esistono solo come costruzioni mentali, come strumenti per la percezione. Gli esperimenti in cui l’osservatore condiziona i risultati sono facilmente spiegabili dall’intercorrelazione tra coscienza e universo fisico. La natura e la mente non sono irreali, sono correlate. Non viene assunta alcuna posizione riguardante Dio. … … come pensava Parmenide e come noi sappiamo, il tempo non esiste eccetto come idea dell’Ora. Perciò, “passato” e “futuro” sono illusioni. E con questo, ogni nozione che dipende dal tempo, compreso il fatto che noi che esistiamo come consapevolezza, non cesseremo mai di essere.
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Quanti veli la scienza dovrà ancora levare per vedere la “vera” realtà? E questa realtà esiste davvero?
E se esiste perché esiste cosi? E perché avviene tutto questo?
I veli che abbiamo davanti ai nostri occhi sono “forse “molteplici. Quello che noi percepiamo è la realtà o è un’illusione? Le reti neurali dei nostri sensi e del cervello creano e perpetuano l’illusione che si ha quando si osserva il triangolo di Kanitza con i suoi falsi lati e l’interno chiaro.


Anche in questa occasione il nostro Centro si pregia di invitarvi ad un evento di grande interesse a cui, naturalmente, non dovete assolutamente mancare!

La partecipazione a questa serata è soggetta a Tesseramento A.S.I. ed è obbligatoria la prenotazione da effettuarsi chiamando il numero 3803149775 o scrivendo a: cta102@cta102.it

Si precisa inoltre che la sola adesione all’evento effettuata su Facebook non è considerata una prenotazione valida.

Per i nostri Associati che volessero seguire la conferenza a distanza sarà naturalmente disponibile il collegamento in streaming video.

giovedì 13 ottobre 2016

"SEGRETI, NEMICI, GENIALITA' DEI TEMPLARI"

CSA Petrarca Onlus in collaborazione con Viriditas Energia verde vitale. - Fondazione per Leggere - Comune di Morimondo

invita alla Conferenza

"SEGRETI, NEMICI, GENIALITA' DEI TEMPLARI"
"Cavaliere è l'uomo in cammino per un fine superiore. Non è importnate la meta, ma il cammino"

SABATO 15 OTTOBRE 2016
ORE 15:30

Abbazia di Morimondo - Via Fratelli Attilio
Sala conferenza Pro Loco

Sarà un tema poliedrico tra storia e mito.
INTERVENGONO:

- Lucia Zemiti "Segreti e bugie della cappella di Rosslyn"
Studiosa di storia medievale, in particolare dell’ordine monastico Cistercense e di quello Templare, nella sua relazione parlerà della cappella di Rosslyn, diventata nel tempo un'icona Templare. Tra i tanti miti e dubbi, due certezze alimentano il fascino di questa splendida collegiata scozzese.

- Roberto Gariboldi "I nemici dell'Ordine del Tempio: Filippo il Bello e Clemente V"
Archivista, saggista storico e vice presidente del CSA Petrarca Onlus, nel suo intervento descriverà il complotto ordito dai maggiori responsabili della distruzione dell'Ordine templare, re Filippo il Bello e papa Clemente V e le conseguenze negli equilibri tra Cristianesimo e Islam.

- Massimo de Rigo "Lo scrigno della sapienza templare"
Studioso di esegesi storica del territorio e presidente del CSA Petrarca Onlus, nella relazione analizzerà alcuni aspetti dell'Ordine del Tempio non militari, ma legati alla conoscenza appresa nei due secoli in Terrasanta: dall'imponenza delle cattedrali gotiche alla tutela delle reliquie più preziose della Cristianità, alle innovazioni tecnologiche con riflessi anche sul territorio milanese.


INFORMAZIONI:
CSA Petrarca Onlus Massimo de Rigo cell.339 4448574 mail.derigomassimo@gmail.com
Viriditas Energia verde vitale. Lucia Zémiti cell.328 9272193 mail.pirula8@yahoo.com

mercoledì 12 ottobre 2016

Thug: i mitici strangolatori indiani

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleone.it/thug-i-mitici-strangolatori-indiani/

Tra religione e criminalità, nota sui Thug.

 

Le sette sono spesso dipinte come un’entità fortemente chiusa, avvolta intorno ad alcuni segreti fondamentali per il mantenimento del gruppo, spesso focalizzano i propri intenti nella figura del leader, considerato un riferimento fondamentale al quale obbedire ciecamente.

La storia delle religioni e della cultura è ricca di esperienze di gruppi esoterici che possono essere definiti sette: quasi sempre il loro operato e i loro riti sono indicati come pratiche in forte contrasto con la legge della religione dominante e quella degli uomini.

Ad esempio, chi ha letto i romanzi di Emilio Salgari, ricorderà le violente lotte contro i Thug nelle foreste indiane. Ma si tratta solo di finzione letteraria, un prodotto della fantasia di un grande narratore o dell’eco di una setta realmente esistita?

Salgari probabilmente attinse alla cronaca degli esploratori: le vicende dei Thug (questa parola deriverebbe dal vocabolo indiano tradimento) che ritroviamo nel romanzo I misteri della Giungla Nera (1887), erano la trasposizione letteraria della lotta da parte dei colonizzatori inglesi alla setta chiamata Phansigar (che significa strangolatori) o Thug, che tra mito e storia sono stati parte integrante della tradizione indiana. Questa descrizione ricorda e porta ad associare i Thug al gruppo dei Sagartii citati da Erodoto che narra come gli aderenti di questo gruppo avessero l’abitudine di usare come arma, accanto al pugnale, anche un laccio di cuoio abilmente utilizzato per strangolare i nemici. Al posto del laccio di cuoio si attribuisce ai Thug l’utilizzo del rumal un fazzoletto di seta che gli stessi assassini portavano a modo di sciarpa o turbante, per poi utilizzarlo al momento giusto come strumento di morte. Ma perché lo strangolamento? I miti e le leggende narrano di come Kālī bevesse, durante il combattimento, ogni goccia del sangue del demone Asura Raktavìja, poiché se queste avessero toccato terra ogni goccia avrebbe generato un nuovo demone. Quindi il non spargimento di sangue potrebbe derivare dal non permettere al “male” di propagarsi. I miti Thug vogliono che essi stessi siano nati dal sudore delle braccia della dea:

    "Un demone aveva distrutto l’umanità divorando gli uomini via via che venivano creati. Era così grande che il mare gli arrivava alla cintola. Kali era partita alla riscossa e lo aveva ucciso. Ma da ogni goccia del sangue ne nasceva un altro. La dea aveva ucciso anche questi, ma anche da questi erano nati tanti demoni quante gocce di sangue la dea aveva versato. Ma mentre secondo gli indù ortodossi Kali aveva risolto il problema della moltiplicazione dei demoni leccando il sangue che colava dalle loro ferite, i Thag sostenevano che Kali si era stancata e aveva creato due uomini dal sudore delle sue braccia. Aveva dato due sciarpe a questi due primi Thag ordinando di uccidere tutti i demoni senza versare neppure una goccia di sangue. I Thag avevano obbedito e poi avevano restituito le sciarpe alla dea. Ma Kali gliele aveva lasciate per ricordo e per assicurare un santo e onorevole mestiere a loro e ai loro discendenti. Ai due uomini non solo era stato permesso ma addirittura raccomandato di uccidere gli uomini così come avevano fatto con i demoni. Chi nasceva membro della setta non poteva rifiutare il dovere dell’assassinio rituale".[1]

Si vuole che sia stata la stessa dea Kālī a fondare la setta, insegnando loro come uccidere i nemici. Le armi dei Thug erano: il coltello ricavato da una costola della dea, la piccozza ricavata da uno dei suoi denti e il laccio per strangolare ricavato da un orlo del sari di Kālī. Venivano risparmiati dai Thug, le donne, i portatori di difetti ed infermi, ed i bambini che non venendo uccisi venivano iniziati alla setta. Si vuole che fossero anche risparmiati, carpentieri, tagliatori di pietra e carpentieri in quanto mestieri sacri alla dea Kālī.

La setta dei Thug non era una associazione di banditi, ma un vero e proprio gruppo religioso, che uccideva le vittime non per scopi di lucro, ma per la sola necessità di procacciarsi delle vittime da sacrificare alla divinità. Dopo gli omicidi rituali i membri della setta si riunivano per celebrare una specie di banchetto simbolico in cui preghiere e altre pratiche avevano il ruolo di consolidare la coesione del gruppo. Tutti gli aderenti alla setta dei Thug erano a conoscenza del Ramasi, una sorta di codice segreto tramandato di padre in figlio e negato a tutti i non adepti. La lotta degli Inglesi condotta con i noti Fucilieri del Bengala contro i Phansigar, portò alla scomparsa della setta, la cui struttura fortemente chisa ha fatto sì che molti dei loro segreti siano andati completamente perduti con gli ultimi membri di un gruppo che grazie ad Emilio Salgari può ancora riemergere dalla storia ed entrare nel mito. Secondo alcuni i Thug non si sono mai estinti davvero ed ancora oggi alcune misteriose sparizioni sono opera loro…

[1] In Alessandro Grossato, La via dei ladri in India.

martedì 4 ottobre 2016

A caccia di streghe con i "Libri in cantina"

tratto da Il Giornale del 28/9/2016

La mostra della piccola e media editoria "Libri in cantina" va di scena a Susegana (Treviso). Tra i libri presentati c'è un interessante volume sulla stregoneria

di Raffaello Binelli

Il prossimo 1 e 2 ottobre a Susegana (Treviso) si svolge la mostra della piccola e media editoria "Libri in cantina".

Tra i numerosi volumi che verranno presentati ce n'è uno che parla di stregoneria: "A caccia di streghe nei domini della Serenissima" (Itinera Progetti Editore) a cura di Mauro Fasan.

Un fenomeno, quello della stregoneria, che nel corso degli anni ha ispirato saggi e trattati, romanzi e fiabe. Nel territorio oggi racchiuso fra le province di Treviso e Pordenone fra il 1500 e il 1600 si sono svolti decine di processi per stregoneria.

Sotto questa etichetta comune infatti, in quegli anni di grande fermento religioso, spesso l’Inquisizione raggruppò luterani e benandanti (appartenenti ad un culto pagano-sciamanico contadino basato sulla fertilità della terra diffuso in Friuli), guaritori e astrologi a vario titolo accusati di rapporti con il diavolo.

Attraverso una minuziosa analisi di documenti e cronache dell’epoca l’autore ricostruisce alcuni fra i principali processi nei quali furono coinvolti anche importanti nobildonne ed esponenti dell’aristocrazia veneta, oltre al celebre mago Aquino Turra, un personaggio di primo piano attorno a cui hanno ruotato storie curiose: presunto stregone nonché abile donnaiolo, era figlio di un prete e venne perennemente inseguito dai mariti traditi. E poi le streghe di Meduna (e Pasiano), da cui si comprende molto bene quanto la stregoneria fosse diffusa in tutte le classi sociali e vissuta come una cosa normale, un aspetto della vita quotidiana.