sabato 29 ottobre 2022

Il lato oscuro del sapere classico

tratto da "il Giornale" del  29 settembre 2022

Premonizioni, interpretazione dei sogni e fantasmi al servizio degli dei

di Barbara Castiglioni

Nel sesto secolo a.C., il re della Lidia, Creso, aveva inviato dei messaggeri a sette oracoli, perché facessero nello stesso giorno e ad ognuno di loro l'identica domanda: «Cosa sta facendo oggi il re della Lidia?». Neanche i messaggeri conoscevano la risposta. Cinque degli oracoli fallirono la prova; il sesto sbagliò di poco, e fu molto apprezzato. Solo Delfi diede la risposta giusta: il re della Lidia stava cucinando; per l'esattezza, stava facendo bollire un agnello e una tartaruga in una pentola di rame. Questo è solo uno dei moltissimi aneddoti raccontati ed esaminati in Parapsicologia nel mondo antico da Eric Dodds, regius professor ad Oxford, studioso di Euripide e Platone e già autore de I Greci e l'irrazionale, il quale nel 1971 decide di pubblicare un fascinoso saggio sui fenomeni paranormali nell'antichità (Parapsicologia nel mondo antico, Mimesis, pagg. 200, euro 12, traduzione di Elio lo Cascio).

Dodds, che si definiva un «razionalista incurabile», riteneva Edgar Allan Poe il «responsabile» dei suoi interessi parapsicologici e sapeva bene che l'uomo è un bruto a cui la sofistica ha solo insegnato a giustificare, di fronte a sé stesso, la propria brutalità, e affiancava allo studio delle tematiche paranormali anche un'esperienza diretta: come esperimenti di ipnotismo e telapatia e sedute con dei medium, tra cui i celebri fratelli Schneider di Monaco. Nel saggio, Dodds racconta il lato oscuro del mondo antico: come alcuni episodi di trance della discussa e temuta Pizia che, secondo Plutarco, una volta cominciò a parlare con la voce roca e a gettarsi da una parte e dall'altra come posseduta da uno spirito maligno, per poi precipitarsi fuori dal santuario urlando, e morire pochi giorni dopo.

Una sezione di speciale importanza è occupata, naturalmente, dai sogni, che Democrito spiegava come «effetto della penetrazione, attraverso i pori del sognatore, delle immagini emesse da ogni sorta di oggetti e specialmente dalle persone viventi». I sogni, dice Plutarco, sono «gli oracoli più antichi»: e non a caso gli onirocriti, cioè gli interpreti di sogni per professione, facevano parte dell'establishment egiziano ed erano ritenuti così importanti che il re assiro Esarhaddon, nel VII secolo a.C., ne fece rapire alcuni per deportarli in Assiria; un po' come i Russi che, ricorda Dodds, nel 1945 rapirono gli scienziati tedeschi. Gli onirocriti esistevano anche Grecia, sia nel mondo omerico che nel quinto secolo. E gli Ateniesi tentavano di «stornare» con la preghiera o il sacrificio un sogno, nel caso fosse negativo: Teofrasto, nei Caratteri, ricorda che l'Uomo Superstizioso, ogni volta che sogna, corre dagli onirocriti per chiedere a quale dio sacrificare.

Ai sogni si affiancano però vari altri fenomeni: come lo scrying o «cristallomanzia», come la definivano i libri bizantini di magia, che consiste nel «guardare a lungo qualcosa di traslucido o rilucente per vedere immagini allucinatorie in movimento dentro l'oggetto stesso». Un metodo simile è quello di utilizzare come specchio un recipiente pieno d'acqua: come un ragazzo che, racconta Varrone, pare fosse riuscito a prevedere e descrivere in un poema di 160 versi il corso della futura guerra Mitridatica guardando nell'acqua un'immagine - o un fantasma - di Mercurio. O come la levitazione, che nell'antichità era attribuita ai saggi indiani, a Giamblico e persino a Gesù, ma poteva avere anche dei risvolti molto rischiosi: l'eretico montanista Teodoto, ad esempio, cadde per terra e morì; Simon Mago, invece, se la cavò con una gamba rotta.



martedì 11 ottobre 2022

Il papà racconta, nuova edizione

di Redazione


Da pochi giorni è in commercio la nuova edizione de "Il papà racconta" di Vito Foschi, creatore di questo blog, con un testo rivisto ripulito da refusi, una nuova veste grafica e sfidando la jella con una nuova fiaba, la tredicesima. E' stata creata anche un'edizione rigida da poter usare per un gradito regalo. Per gli appassionati del fantastico sicuramente un testo di interesse e soprattutto un libro da leggere ai bimbi prima di metterli a letto. Vi invitiamo a leggerlo e a regalarlo a Natale. Vi anticipiamo i 13 titoli delle fiabe:

Il drago starnutente
Il topolino bianco
Lo scoiattolo pigro
Le cavallette salterine
I maiali e i cinghiali
La fata golosa
Il nano pasticcione
Il Folletto Burlone
L’Elfo miope
Il fabbro felice
I monelli e la strega del mare
Il principe capriccioso
Il mago della moneta

A voi il libro:

 

martedì 4 ottobre 2022

Il viaggio di Gilgamesh è una fuga impossibile (e senza ritorno) dalla morte immortale

tratto da "Il Giornale" del 14 Ottobre 2021

Il mitico re di Uruk è stato il prototipo di Ulisse. Ma è un eroe più tormentato

di Davide Brullo

Infine, siamo canne al vento. Questa è la verità. «La sorte ci stronca così, come canne... siamo proprio come le canne al vento... Siamo canne, e la sorte è il vento». Le parole che sigillano il romanzo di Grazia Deledda, Canne al vento (libro di cupa e biblica bellezza, che deve risalire la cruna del nostro canone), ricalcano quelle del sapiente sumero che qualche millennio fa ha cantato l'Epopea di Gilgamesh: «L'umanità è recisa come canne in un canneto. Sia il giovane nobile, come la giovane nobile sono preda della morte. (...) La morte malefica recide l'umanità». Questo è il nodo ultimo, inestricabile, della ricerca di «Colui che vide il Profondo... saggio in tutte le cose», Gilgamesh, prototipo di Ulisse, «un grand'uomo, straordinario giramondo» (così la versione di Emilio Villa, eresiarca in linguaggi), «l'eroe del lungo viaggio» che «vide molti paesi, conobbe molti uomini, soffrì molti dolori» (così Maria Grazia Ciani nella sua Odissea). La distanza tra i due eroi, tuttavia, è radicale: Ulisse conosce l'odore acre e inebriante della morte, è scaltro, distrugge metropoli e viaggia per fare ritorno a casa, arso dal desiderio di conoscere. Gilgamesh è un fondatore di città, tormentato da un solo, inquietante, tarlo: la morte. Perché si muore? E dunque: perché vivere se l'esito è il morire? Quando Enkidu, «progenie del silenzio... ricoperto di peli come il dio degli animali», unico amico di Gilgamesh, «l'alto, il magnifico, il terribile», muore, il sommo re è squassato. «L'angoscia è penetrata nel mio cuore! Ho paura della morte», ammette l'eroe, nel cuore dell'epos. Così Gilgamesh, l'eroe che sa aggiogare gli dèi e che rifiuta di sposare «Dama Ishtar», ingolosita dalla sua magnificenza, vaga per scoprire il segreto dell'immortalità, per vincere la morte, per dare a ogni atto un estro eterno. Le parole di Utnapishtim, l'uomo sopravvissuto al Diluvio - e che per questo è diventato immortale -, sono perentorie: l'uomo muore, questa è la sua dannazione, la benedizione.

Nel dicembre del 1916 un esagitato Rainer Maria Rilke scrive a Katharina Kippenberg - mecenate, audace, aiutava il marito, Anton, nella direzione della Insel Verlag -: «Gilgamesh è gigantesco!». Lo ispirava, quel poema babilonese, «l'epos della paura della morte»: l'aveva letto nella versione di Anton Ungnad, assirologo di stanza a Jena poi in Pennsylvania, del 1911. Vi trovava, è probabile, affinità agghiaccianti; nelle Neue Gedichte aveva scritto una poesia, Esperienza della morte, che attacca così: «Nulla sappiamo di questo svanire...». Tentava, di fronte a quella antichità senza fondo, la parola fondamentale, la rivelazione.

Proprio perché Gilgamesh è il poema della morte, narra l'amare, sfrenato. Enkidu, la creatura mostruosa, dei boschi, diventa civile quando è edotto all'amore da una prostituta: «Mentre i due insieme facevano l'amore,/ egli dimenticò la steppa in cui era nato». Dall'arte di amare nasce il desiderio della gloria, la necessità della lotta, l'agone per il sacro, l'agonia della mancanza. Gilgamesh ed Enkidu stringono un'alleanza dopo essersi sfidati: insieme sfidano le potenze supreme, irrompono nella Foresta dei Cedri, «la dimora segreta degli dèi», uccidono il guardiano, Humbaba, squarciano il Toro celeste, «e mentre percorrevano le strade di Uruk la gente si radunava per ammirarli». Ma il canto di gloria si svolge in nube di lacrime. L'eroe sovrano, «il migliore degli uomini», è piagato dal pianto, «piangeva amaramente vagando per la steppa», perché l'amico è morto, perché esiste la morte e la morte riduce la gloria a un refolo, inaridisce il potere in sfoggio inutile.

Comunque la raccontiamo, Gilgamesh (Adelphi, pagg. 310, euro 24) è il testo essenziale, il racconto dei racconti, che ci incunea nelle domande prime, ineluttabili, inesauribili: cos'è la morte, e dunque, cos'è la vita? Il poema rimane immenso, indomato, perché incenerisce l'etica - per quello basta il libro biblico dei Proverbi, per altro affascinante - in favore della lirica: le immagini sono plastiche, possenti, animali («Perfino gli dèi ebbero paura del Diluvio,/ si ritirarono e ascesero al cielo di Anu,/ accucciandosi come cani rannicchiati all'aperto./ Le dee gridavano come una donna durante il parto»). Alcune lasse poetiche - la ricorrenza dei sogni, che orientano i destini; il funerale di Enkidu («Ti piangano il cipresso e il cedro... ti piangano l'orso, la iena, la pantera, il ghepardo, il cervo e lo sciacallo»); il confronto dell'eroe con «l'uomo-scorpione» - ci cristallizzano nello stupore.

Adelphi aveva già in catalogo una versione dell'Epopea di Gilgame: quella, resa in prosa, nel 1960, da Nancy Sandars. Traduzione da traduzione di una riduzione non indimenticabile. Con questo volume poco cambia: Adelphi traduce la traduzione curata da Andrew George nel 1999. La resa è più efficace, anche per il puro curioso, eppure il lavoro di Giovanni Pettinato, grande assirologo, pubblicato nel 1992 da Rusconi e nel 2004 da Mondadori, resta più efficace, più rude, rovinosamente bello.

A differenza di Ulisse, Gilgamesh non ha una donna a cui tornare, né una patria autentica. Certo che il suo destino è morire, al termine del viaggio mostra a Urshanabi «il barcaiolo» le mura imponenti di «Uruk-l'Ovile». «Per chi faticarono le mie braccia, per chi si prosciugò il sangue del mio cuore?», domanda l'eroe, ammirando la sua città. Il cielo leviga l'interrogativo, lo inghiotte. Forse Gilgamesh ha una rivelazione, miliare, micidiale. Se tutto muore, tutto è indimenticabile. Proprio perché tutto muore, tutto è immortale.