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domenica 27 gennaio 2019

Quando i Druidi Insegnavano Giocando: Giochi e Riti di Fertilità

Questo viaggio tra le incisioni rupestri e i “giochi” di montagna parte da molto lontano, da quel mondo celtico da cui provengono molte delle nostre tradizioni. Tra le tante storie di Britannia si parla spesso dei "Tredici Tesori”, un gruppo di oggetti magici menzionati nei manoscritti gallesi del XV e XVI secolo, come ad esempio nel ciclo  arturiano di Culhwch e Olwen o nel Tri Thlws ar Ddeg Ynys Prydain. Secondo la tradizione questi sarebbero la "Bianca Elsa”, la spada di Rhydderch Hael”, il “ Paniere di Gwyddno "Gambalunga", il “Corno di Bran l'Avaro del Nord", il "Il Carro di Morgan il Ricco", la “Cavezza di Clydno Eiddyn", il  "Coltello di Llawfrodedd Farchog", il “Calderone di Dyrnwwch il Gigante" l’”Affilatoio di Tudwal Tudglyd",  la ”Cotta di Padarn, la ”Brocca e il Piatto di Rhygenydd il Chierico", il "Mantello di Artù” in Cornovaglia ed infine la ”Scacchiera di Gwenddoleu ap Ceidio”. E’ proprio su quest’ultimo che voglio soffermarmi. Secondo la tradizione questa magica tavola altro non sarebbe che una scacchiera in oro con pezzi d'argento e cristallo, nota anche come Gwyddbwyll, letteralmente "saggezza di legno". Di essa si parla in molti testi e leggende celtiche. Nel Mabinogi, più precisamente ne “il sogno di Rhonabwy”, si fa riferimento a un gioco costituito da una tavola d'argento su cui muovevano pedine d'oro noto come Fidchell. Il testo recita: "Leth a fóirni d'or buidi, in leth aili d'findruine", ovvero "La metà dei suoi pezzi erano d'oro giallo, l'altra metà di bronzo bianco". Le leggende descrivono il Fidchell come un gioco utilizzato dai re e dagli dei. Nella leggenda, sarebbe stato inventato da Lugh, dio celtico della Luce, nonché utilizzato da suo figlio, l'eroe Cú Chulainn. In realtà, secondo alcuni studiosi, sia la tavola di Gwenddoleu che il Fidchell sarebbero la riproposizione di un gioco di provenienza norrena chiamato Hnefatafl. La fonte più antica che lo cita è la Saga di Grettir, scritta da un monaco islandese che chiama questo gioco appunto con il nome di Hnefatafl cioè "tavolo del re". Da uno scritto di Rögnvaldr Kali, databile tra il 1135 e il 1158, leggiamo

I can play at Tafl, / Nine skills I know, / Rarely forget I the runes, / I know of books and smithing, / I know how to slide on skis, / Shoot and row, well enough; / Each of two arts I know, / Harp-playing and speaking poetry

Il reperto più antico è stato rinvenuto a Wimose, su una delle maggiori isole danesi, mentre, sotto forma di incisioni rupestri, questi giochi sono stati trovati in molteplici paesi europei, dall'Irlanda alla Russia. In Inghilterra lo troviamo a Salisbury, Gloucester e Norwich. Ovviamente l’Italia non fa eccezione, anzi. Raffigurazioni di questi giochi sono diffusissime in tutto l’arco alpino. Incredibilmente ben conservato, ad esempio, il Hnefatafl presente a Ungiasca, in Piemonte. Nell’articolo “Ungiasca Perduta”, pubblicato sulla rivista Verbanus da  Nino Chiovini, leggiamo “…La parte superiore del muro di contenimento della «piazza», usata come sedile collettivo, era costituita da una serie di lastroni di pietra…Su di un lastrone, il più levigato, era stata scalpellata una singolare figura labirintica, di cui in nessun luogo che a Ungiasca vidi l’eguale…venivano scalpellate sulle superfici piane di determinate pietre le figure che vanno sotto il nome di filetti…Ma in nessun luogo che a Ungiasca vidi quel labirinto su cui ragazzi, giovani e meno giovani, si accanivano al gioco chiamato dìi pévèr e dul lüv, ossia delle pecore e del lupo…” (Il gioco è ancora visibile in piazza Don Pagani, poco prima della via acciottolata e di cui parleremo a breve). Sempre in Piemonte, a Campiglia Cervo è presente, nella Piazza, una vera e propria “lastra dei tre giochi”. Si tratta di un masso usato come panchina fuori in Via Roma, 16 sul quale appaiono incisi tre giochi: un filetto, il "gioco dell'Orso" e “il lupo e le pecore”, mentre a Massello, è presente un masso di piccole dimensioni situato sul bordo destro del sentiero sulla cui superficie liscia e piana sono incise, oltre al filetto, due figure zoomorfe la più grande delle quali presenta vistose corna nonché raffigurazioni interpretabili come dardi che colpiscono un animale. Strane associazioni che fanno pensare a ben altro oltre al semplice gioco. Ancora il gioco del filetto è presente a Ronco Canavese, proprio nel portico della chiesa, e a Sparone, sulle lastre presenti sotto i portici di via Faletti. L’incisione più nota è però quella presente a Traversella. Qui, lungo il noto “Sentiero delle Anime”, troviamo molteplici rocce incise come la nota Pera dij Crus, le cui incisioni sono riconducibili all’ultimo scorcio del neolitico. Come ricorda il nome, si tratta certamente di un percorso rituale utilizzato per celebrarvi riti legati al culto degli Antenati. Su molti massi presenti lungo il percorso, oltre a coppelle, antropomorfi e croci gammate troviamo, appunto il Fidchell. Strana curiosità: queste raffigurazioni rupestri sono realizzate su pareti semi-verticali o fortemente inclinate che ne impediscono l’utilizzo pratico, come nel caso dei graffiti presenti sul soffitto delle grotte di Fontainebleau, insomma in luoghi e sistemazioni dove sarebbe impossibile giocare. Forse avevano anche un significato simbolico? Approfondiamo. Scavando nelle nostre tradizioni folkloriche alpine troviamo una sorta di variante del  Hnefatafl, il già citato “Gioco dell’orso” (Fig.1). il piano da gioco è composto da  due cerchi concentrici, intersecati da una croce e completati da lunette che delimitano i punti di intersezione sul cerchio più esterno. A sfidarsi sono un orso da una parte e tre cacciatori dall’altra. L’obiettivo è di chiudere tutte le vie di fuga al primo, bloccandolo. Si tratta sicuramente di un gioco ma allo stesso modo di un simbolo propiziatorio che richiama l’uccisione del Dio vegetazionale con orso-dendrofago, simbolo della fertilità. Il Frazer e io stesso, nel mio Saggio “Culti Pagani in Piemonte e Valle d’Aosta”, narriamo come in tempi più remoti in particolari date dell’anno un vero orso era portato in giro da un montanaro/domatore che andava da un paese all'altro facendolo ballare  nelle piazze.
Figura 1
Figura 2
Figura 3

In seguito questo uso scomparve e in alcuni paesi, per mantenere la tradizione, l'orso fu sostituito da una persona appositamente mascherata che ripeteva la stessa pantomima.  Al termine di una caccia simulata, l'orso veniva catturato e portato all’interno del paese dove era fatto oggetto di dileggi e di scherzi. L'epilogo può variare dall'"uccisione" dell'orso alla sua liberazione/fuga e ritorno alla natura. Il Piemonte, e più in generale tutto l’arco alpino ricordano, in particolari date questi riti come nel periodo carnevalesco dove la morte di “Carnevale” ben si sposa con quanto detto. Un esempio è l’Orso di Segale di Valdieri. Durante il giorno di Carnevale un uomo travestito da orso viene esibito in catene per le vie del paese seguito dai perulìer, bambini vestiti di stracci suonno le scaréle, strumenti di legno rumorosissimi.  E’ l’idea di risvegliare il mondo naturale, andato in letargo durante l’inverno, proprio come l’orso che, ad un certo punto fugge. Rituale simile è presente a Mompaterno, comune della val di Susa, situato alle pendici del Rocciamelone, la prima domenica di Febbraio. La festa è chiamata con il nome di Fora l’Ours, coincidente con la il giorno di Sant’Orso, santo sulla cui esistenza ci sono molti dubbi che dunque fanno immaginare si tratti di un’operazione sincretica atta a sovrapporre, agli antichi culti pagani, i nomi della nuova religione. Anche in questo caso l’orso è tenuto sotto scacco da quattro custodi/cacciatori.


Ecco qui svelato il mistero simbolico: Il gioco ripropone, in altra veste, l’idea del dio vegetazionale, pronto a morire per poi risorgere e assicurare la fertilità dei campi.
Un gioco simile è quello noto come “due lupi e venti pecore”. Si impiegavano venti pezzi rappresentanti, appunto, le pecore e due pedine raffiguranti i lupi. Questi ultimi si potevano muovere in ogni direzione con lo scopo di mangiare la pecora come nel gioco della dama, mentre le pecore potevano muoversi solo di una casella alla volta. Il gioco era già noto in Scandinavia nel 400 d.C. e probabilmente fu proprio portato dai Vichinghi nelle terre che conquistarono. Ancora una volta il gioco nasconde ben altri significati. Il lupo presso gli antichi Celti, era associato al mondo degli inferi. Pensiamo, ad esempio a Dormarth, posto alla guardia del regno dei morti, mentre nel Mabinogi si narra che cani bianchi con le orecchie rosse accompagnavano il Dio gallese dell’oltretomba Arawan. Inoltre è mangiando carne di cane che Cù Chulainn si indebolisce prima di essere ucciso. Il gioco della “pecora e del lupo” ci ripropone un altro rituale di fertilità: la morte che genera la rinascita nella natura. La scelta del lupo, o delle fiere locali come simbolo/divinità non era casuale, infatti l’animale, che con i suoi comportamenti era considerato grande predatore, era in competizione con gli stessi uomini cacciatori e così il selvaggio, per propiziare una buona caccia, cercava di onorare l’animale sia per ingraziarselo e evitare che gli sottraesse il sostentamento, sia per poter ereditare dallo stesso la sua stessa capacità di caccia, mentre lo smembramento dell’agnello, in molte culture immagine divina, ripropone il sangue versato ed in offerta al mondo degli inferi per poter assicurare la vita e il sostentamento.
Ecco l’anima del gioco, immaginiamo sotto l’albero il maestro che, mentre gioca spiega le dinamiche religiose e naturali al suo allievo. Il cerchio è chiuso, quello del gioco.

Figura 4

domenica 14 febbraio 2016

I CELTI IN PIEMONTE – PARTE 1

I COTII DELLA VAL DI SUSA : Dai Druidi a Maometto

Di Andrea Romanazzi

Il Piemonte, per la sua posizione, è stato da sempre terra di passaggio e dunque terra di colonizzatori. La regione alpina piemontese fu sicuramente abitata già 100.000 anni a.C. anche se la vera e propria colonizzazione avvenne attorno a 7000-6000 a.C. come testimoniano i ritrovamenti del sito La Maddalena, presso Chiomonte il cui museo, purtroppo, è chiuso. Il popolamento dell’arco alpino può essere diviso in tre fasi, una preindoeuropea, una uralo-altaica ed infine una indoeuropea. Fanno parte della prima fase i Liguri, una popolazione autoctona erroneamente collegata ai Celti. Questo gruppo di allevatori-agricoltori aveva origine mediterranea, forse legata ai mitici “Popoli del Mare” o comunque di origine mediorientale. Almeno fino al 500 a.C. i Liguri dominarono l’area. In realtà tale gruppo venne presto in contatto con popolazioni di provenienza uralica, quelle che antropologicamente oggi vengono definite “razze alpine”, che, fondendosi con le popolazioni liguri locali, portarono in dote le credenze animistico-sciamaniche tipiche dell’area della Mongolia. Solo successivamente arrivarono gli Indoeuropei, più noti come Celti, in realtà un insieme numeroso di popoli linguisticamente e culturalmente simili suddiviso in moltissime tribù. Questa nuova avanzata spinse i Liguri ad occupare le aree montuose mentre le popolazioni celtiche si posizionarono nelle pianure come testimoniano molti studi sulla toponomastica. Ad esempio la radice –asco indicherebbe le origini liguri, molto più diffuse in montagna, contro quella –ago ascrivibile alle origini celtiche.


 
Il nostro viaggio nel Piemonte celtico parte dunque dall’area della Val di Susa, dominata delle Alpi Cozie, il cui nome deriva, appunto, dalla popolazione celtica dei Cotii. Il regno dei Cotii era forse quello più geograficamente definito, questo, forse, a causa degli ottimi rapporti con i Romani che lasciarono a tale popolo il governo dell’area in cambio di un appoggio politico-militare. Simbolo di tale collaborazione è l’arco di “trionfo” realizzato a Susa, eretto tra il 9 e l’8 a.C. con lo scopo di onorare Augusto il conquistatore e sigillare il patto tra Cesare e Cozio. E’ però già in questo luogo che troviamo le prime tracce degli antichi culti celtici: rocce coppellate legate al culto delle acque sono presenti infatti proprio sotto l’arco romano. Il territorio si estendeva da una non meglio identificata Ocelum, presumibilmente borgo nei pressi dell’attuale Avigliana, fino ad Exilles, il cui nome poverrebbe da Exingomagus, ovvero borgo degli Exingi, una importante popolazione della valle. Interessiamoci ora della religione dei Cotii. Come per le altre popolazioni celtiche, i culti, officiati dai sacerdoti, chiamati druidi, erano legati alla Natura. Alberi, fonti, rocce e montagne erano espressione della divinità. Ovviamente ogni popolazione aveva i suoi nomi peculiari, nell’area dei Cotii, ovvero la regione alpina occidentale, ad esempio era Albiorix il dio dei monti, come testimoniano numerose iscrizioni ritrovate nell’area e il tempio che presumibilmente doveva sorgere a Sauze d’Oulx, alle pendici del monte Genevris. Era sicuramente la divinità più venerata della zona, successivamente poi soppiantata da Apollo che ne prenderà il posto. Insieme alla divinità dei monti era poi diffuso il culto di Belenos, il dio solare, come testimonia un’iscrizione ritrovata a Bardonecchia o testimoniato a Sarre, Oropa. E’ suo il simbolo solare della “stella delle Alpi”, detto anche rosa celtica, oggi divenuto un simbolo politico. Infine altro culto fortemente diffuso era quello delle tre Matrone, divinità femminili dalle caratteristiche non perfettamente definite ma che dovevano avere legami con il culto della Grande Madre di diffusione mediterranea. Il nome Mons Matrona, dato al Monginevro ne attesta il culto nella zona. Se vogliamo però raggiungere uno dei tanti luoghi sacri ai Cotii dobbiamo seguire le orme dei Saraceni che, dalle loro basi in Provenza, cercavano di espugnare il Piemonte. Infatti a Bussoleno, proprio nell’area che fu dei Cotii si parla del castello Saraceno, la cui leggenda vuole realizzato proprio da tali invasori. Un po’ più a sud troviamo il borgo di Frassinello, considerato il quartier generale dei Saraceni e Mandrogne, colonia araba, giusto per fare due esempi. Approfondiremo in una successiva parte questa “invasione araba”, ma ora questo cosa centra con i culti dei celti? Ebbene, se volete raggiungere il sacro luogo del quale mi accingo a parlare, dovete chiedere del “Maometto” di Borgone. Il “Maometto” si trova in un’area boschiva su uno sperone roccioso in gneiss e ridosso del massiccio montuoso che a nord chiude la val di Susa. Si tratta di un’edicola rupestre  80x60 cm circa scolpita a bassorilievo sulla parete rocciosa, con all’interno raffigurato un personaggio che la tradizione popolare ha voluto identificare con Maometto. Piuttosto curioso visto che i mussulmani, per tradizione, non possono raffigurare i loro idoli religiosi e questo esclude che si possa davvero trattare del profeta. Si tratta ovviamente di una chiara demonizzazione di un luogo sacro pagano a cui la Chiesa ha associato un culto demoniaco ovvero infedele. Di esempi simili è ricchissima l’Italia e rimando ad un mio libro “Guida ai luoghi della Dea Madre in Italia” per approfondirlo.
Se osserviamo bene il bassorilievo, danneggiato fortemente dagli agenti atmosferici e dall’incuria dell’uomo, possiamo riconoscere una sorta di piccolo tempio con due colonne ai fianchi e una figura maschile al centro, con un mantello e con in mano due oggetti non facilmente identificabili. In particolare nella mano destra sembra essere presente uno strumento sottile e ricurvo, una sorta di falcetto, mentre ai piedi è presente una figura animale che potrebbe essere identificata come un cane. Sul sito comunale questa figura viene descritta come legata a Giove Dolicheno, un dio venerato dai militi romani, nel I° e II° secolo d.C.. Infatti proprio attorno all'attuale Borgone, sorgeva il confine tra l'Impero romano e il Regno di Re Cozio, sulla via che portava alle Gallie. Il culto di “Maometto” sarebbe legato ai contingenti mercenari che,  provenendo dalla città di Doliche in Siria, adoravano per l'appunto Dolicheno, divinità ittita, il cui culto si fuse con quello del romano Giove. Una visione che mi sento di non condividere, perché “scomodare” antiche divinità lontane? La figura infatti è sicuramente legata al culto di Silvano, di cui mi sono già occupato nel saggio “Il ritorno del Dio che Balla”. La divinità per l’Antico è concepita come immanente, essa permea tutto ciò che circonda l’uomo e dunque essa è anche dendromorfa. Se però all’inizio l’albero stesso è la divinità, successivamente, non viene più visto come essa ma come sua dimora, lo spirito arboreo invece di essere considerato l’anima di ogni albero, diventa la divinità della foresta, si passa così da una fase animista ad una politeista. In seguito allo spirito arboreo viene associato un aspetto antropico, anche a causa della semplicità da parte dell’Antico di associare ad una divinità sembianze umane. Iniziano così a nascere figure di divinità silvane, spesso rappresentate con un volto umano e con attributi agresti, come il bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro e spesso con un enorme fallo. E’ questo il nostro “Maometto”. La sacralità dell’area è poi attestata da tutto ciò che circonda la figura. Sono infatti presenti molteplici rocce con scavate delle nicchie semisferiche, probabilmente il luogo ove venivano riposte delle offerte.





Continuando il nostro excursus piemontese, procedendo verso est, incontriamo le Valli di Lanzo tre valli delle Alpi Graie piemontesi, comprese tra la Valle dell'Orco a Nord e la Val di Susa a Sud, che prendono il nome dalla cittadina di Lanzo Torinese, posta su un'antica morena glaciale al termine delle valli…
….continua a breve

venerdì 14 agosto 2015

Santuari à répit. Il rito del «ritorno alla vita» o «doppia morte» nei santuari alpini

Vi segnaliamo questo libro che ci informa su una curiosa usanza medievale per elaborare il lutto degli infanti, evento purtroppo frequente in tempi addietro. Vi lasciamo alla presentazione:

"Un tempo la morte di un bambino era frequente ed elaborata dalla mentalità di allora. Ma il decesso prima del battesimo condannava il piccolo defunto al limbo, spazio dell'Aldilà mai veramente accettato dai fedeli. A queste creature non era concessa neppure la sepoltura in terra consacrata; interrate in luoghi incolti, lungo i fiumi, fra le rocce dei monti, il loro spirito secondo le leggende - vagava in cerca di pace e tornava a tormentare i viventi. Il desiderio di dare ai propri figli la salvezza dell'anima è all'origine del rito e dei santuari del "ritorno alla vita", che gli studiosi francesi hanno chiamato à répit, del respiro, e altri della "doppia morte" o della "morte sospesa". I santuari del ritorno alla vita sono piuttosto rari in Italia, ma le Alpi occidentali ne annoverano diversi, dedicati alla Madonna e ad alcuni santi. Davanti alla santa immagine che "abitava" il luogo, si posava - con infinita speranza - il piccolo morto e - fra preghiere e promesse - si imploravano i celesti protettori perché ottenessero da Dio un "miracolo di tenerezza", che attuasse il rovesciamento della situazione, permettendo al bambino di tornare in vita, soltanto il tempo di un respiro. Breve istante fra morte e morte, sufficiente per entrare nella luce dei beati."