venerdì 22 giugno 2012

mercoledì 20 giugno 2012

L’enigma dell’abbazia di San Giovanni in Venere, la probabile custode del Graal?

di Nicoletta Travaglini

 E’ notorio che l’Abruzzo, per la sua particolare geomorfologia, ha dato ricetto a Santi, Eremi e Briganti, i quali, nel bene, o nel male, hanno lasciato una loro indelebile impronta, modificandone, di fatto, la morfologia. Per esempio, nel territorio di Fossacesia, in provincia di Chieti, si colloca l’incantevole ed imponente abbazia di San Giovanni in Venere. Essa è stata eretta, sulla sommità di una boscosa collinetta, ricoperta da piante di ulivo come quella millenaria, posta ai piedi dell’abbazia, per ricordarne la fondazione.
L’abbazia di San Giovanni e Santa Maria, venne costruita in posizione predominante e solitaria, a circa un paio di chilometri dal centro abitato,  a picco sul quell’insenatura conosciuto come  “Golfo di Venere”, nelle vicinanze della foce del fiume Sangro, ove essa si specchia sulle morbide e trasparenti acque del  mare Adriatico.
Tradizione vuole che, ovviamente supportata anche da ritrovamenti archeologici, tale luogo sacro si erga sui ruderi di un preesistente tempio pagano dedicato Venere Conciliatrice, culto risalente IV secolo a.C., fatto rimarcato anche nel toponimo Portus Veneris, che indicava un porto posto alla foce del fiume Sangro durante la dominazione bizantina, vicino ad un nucleo abitato chiamato Vico Veneriis lungo  la via Traiana.
Con l’avvento del cristianesimo, questo luogo fu abitato da eremiti e uomini pii, e secondo un antica leggenda pare che alcuni monaci greco-ortodossi, durante la guerra iconoclastica nel VII secolo, emigrarono in maniera massiccia fino a giungere sulle coste di Fossacesia; tra loro vi erano anche i monaci basiliani, gli stessi che fondarono la chiesa di San Longino a Lanciano poi divenuta la chiesa del Miracolo Eucaristico, che presero possesso di quello che restava dell’antico tempio di Venere, facendolo diventare un luogo di culto cristiano dedicato alla Madonna.
Un'altra leggenda sostiene che il primo nucleo di questo luogo di culto fosse costituito da piccolo ricovero per frati benedettini, provvisto di una cappella, fatto innalzare da frate Martino intorno 540 dopo aver fatto abbattere il tempio di Venere, che versava in avanzato stato di abbandono per costruirvi una piccola cappella intitolata a San Giovanni e la Vergine Maria.
Nel 973 il conte di Teate, Trasmondo I, dispose che il monastero ricevesse delle cospicue rendite tali da trasformarlo, così, da un piccolo ricovero in un potente ed opulento monastero.
Anche se questo illuminato conte fece in modo che da una semplice e povera “cella”, essa si trasformasse in un monastero, la sua fondazione e come la sua opulenza vanno attribuiti al conte teatino Trasmondo II che agli inizi dell’anno Mille, dopo sostanziose prebende, rese possibile la formazione di un solida struttura religiosa, economica, autonoma governata da abati. Come segno di gratitudine nei confronti del conte i monaci, alla sua morte, sopravvenuta nel 1025, lo seppellirono nella cripta dove tuttora riposa. 
Se risulta un pochino complicato possedere dati certi sulla sua fondazione e sulla sue prime fasi della sua esistenza, vi sono precisi riferimenti storici relativi alle sue fasi costruttive che vanno dal 973 fino al 1204 circa, dove raggiunse il suo culmine con l’abate Oderisi II il Grande.
I secoli tra il X e l’XI furono molto importanti per la crescita religiosa, culturale ed economica dell’abbazia la quale divenne in breve tempo uno dei più fiorenti luoghi di culto centro-meridionali annoverando tra i suoi possedimenti oltre duecento feudi sparsi in diverse zone d’Italia e fuori dal nostro territorio nazionale come ad esempio in Dalmazia. 
Nel periodo in cui essa stava consolidando il suo potere e la sua fama, nella seconda metà dell’anno Mille circa, il terzo abate Monastico, Oderisio I, appartenete alla famiglia degli Pagliara, ramo secondario dei Conti dei Marsi, i quali a loro volta rappresentavano un ramo cadetto della più gloriosa e prestigiosa famiglia dei Di Sangro, aveva già fatto allestire una fiorente e ricca biblioteca, una ottima scuola retta dai confratelli; fortificò, attraverso fossati, torri e mura la chiesa, costruì ospedali ed officine, ma soprattutto, fondò la cittadina di Rocca San Giovanni, che  divenne, in breve tempo il più fiorente ed opulento possedimento della badia ed oggi nella chiesa madre di Rocca San Giovanni vi sono molte reliquie e volumi che facevano parte del ricco tesoro dell’abbazia di San Giovanni in Venere.
La famiglia di Sangro a cui apparteneva, come abbiamo detto, anche Oderisio I, discendeva direttamente da Carlo Magno e che annoverò nel loro albero genealogico anche Papi e Santi.
Questa potente ed antichissima casata discende dai duchi di Borgogna che a loro volta erano di stirpe carolingia, longobarda e, naturalmente, normanna. Questi nobili, ovviante, furono legati da vincoli strettissi alla Chiesa e in special modo al potente, ricco e stimato ordine Benedettino.
Nel IX secolo essi, vennero in Italia e si stabilirono maggiormente negli Abruzzi, ove riuscirono a conquistare e, quindi, a governare diversi feudi e contee, prendendo il titolo di “Conti dei Marsi”.
I nomi dei conti dei Marsi erano Bernardo, Oderigi, Teodino, Trasmondo che si posso incontrare in molti documenti del XI e del XII secolo.
In un atto notarile del agosto del 981, conservato a Montecassino, Teodino ed i suoi fratelli Rainaldo e Oderisio risultano i conti di Marsia ; si divisero i loro territori nel seguente ordine : Teodino divenne conte di Rieti e Amiterno, Rainaldo conte della Marsia e Oderisio Conte di Valva.
Oderisio diede origine a tre grandi rami: una discendenza si stanziò nella zona del Sangro con la linea Borrello, la più grande, che si diffuse in tutto l’Abruzzo Centrale dando vita a Prezza e a Raiano, alle linee separate di Gentile; un secondo ramo si trasferì in quello che oggi è la provincia di Teramo; conosciuti come i conti di Palearia o Pagliara,, annoveravano tra i membri della loro famiglia Berardo, vescovo di Teramo e Oderisio di Palearia che alla metà del sec. XIII fu nominato dal Re “Giustiziere d’Abruzzo”. Il terzo ramo si stabilì a Valva vicino Sulmona.
Nel 1250 pochi erano i sopravissuti di questa discendenza, così la famiglia d’Ocre vide distrutto il suo antico castello come fu in precedenza per i Barili, i quali insieme ai succitati d’Ocre si rifugiarono all’Aquila. Gli altri rami della famiglia come i Borello e di Sangro si ritirarono in Sicilia.
Trasmondo, vescovo di Valva e Abate di San Clemente a Casauria era figlio di Oderisio conte de’Marsi e fratello di Oderisio abate di Montecassino e di Attone, vescovo di Chieti. L’Abbazia di San Giovanni in Venere annovera due membri di questa famiglia, oltreché la permanenza del Vescovo di Teramo Berardo.  
All’inizio del 1500 essi ottennero il titolo di marchesi, alla fine dello stesso secolo divennero Duchi e pochi anni dopo questo titolo acquisirono, anche, quello di Principi, governando, il loro vastissimo impero in maniera tirannica, dispotica e violenta!
Nel loro albero genealogico, vi sono presenti anche figure di spicco come Oderisio, San Bernardo di Chiaravalle fondatore dei Templari, Santa Rosalia, Innocenzo III, Gregorio III, ideatore e iniziatore della Santa Inquisizione, Paolo IV Carafa,  che contrastò in tutte le maniere l’Ufficio della Santa Inquisizione, Benedetto XIII
Sempre della stessa famiglia dei di Sangro, come si è potuto ampiamente vedere, Oderisio II “il Grande”, portò enorme lustro all’abbazia attraverso mezzo secolo circa di conduzione del luogo sacro, incrementando le opere degli abati precedenti ed iniziando i lavori di ampliamento conferendogli la struttura architettonica attuale e per tali meriti sono ricordati in un epigrafe posta sulla facciata principale della badia.
  Durante il dominio normanno, essa fu coinvolta in giochi politici poco chiari che la portarono, suo malgrado,  a subire diversi saccheggi. Da qui inizia un periodo di inesorabile e lenta decadenza fatta anche di devastazioni e violenze come quella perpetrata dai Veneziani nella prima metà del 1200, poi da parte degli avventurieri di Ugone Orsini, quindi fu la volta dei di Carrara; i corsari di Pialy Pascià, che rasero al suolo Santo Stefano Riva Maris ed altri luoghi sacri si accanirono anche contro San Giovanni in Venere, come non fu risparmiata neanche da un orda di briganti che nel 1600 infestavano quei luoghi.
Anche Madre Natura volle lasciare tangibili segni del suo passaggio attraverso un terribile sisma che 1456 provocò gravi danni all’abbazia già provata da un periodo non molto florido, cosa che si ripete nel 1627 con un altro terremoto che squassò l’Italia centro-meridionale; ed infine la piccola nobiltà locale fece razzia dei suoi beni. In piena decadenza, intorno alla fine del 1500, passò nelle mani della confraternita di San Filippo Neri. Allo stato di ulteriore deterioramento, verso la fine del ‘700, passo nelle mani del regio demanio. Distrutta ulteriormente durante la Seconda Guerra Mondiale fu ristrutturata dalle amorevoli cure dei Padri Passionisti attuali custodi di questo immenso bene.
Questa badia  ha visto passare re e papi come Pietro da Morrone, futuro Celestino V che, secondo alcune fonti,  prese i voti in questo luogo, per poi tornarvi, al fine di cercare proventi durante la costruzione della chiesa di Santa Maria di Collemaggio. Accanto a queste supposizioni vi sono fonti che attestano che Pietro Angelerio, dopo aver iniziato i lavori della costruzione del luogo di culto, e senza aver acquistato il terreno circostante, parte alla volta dell’abbazia di San Giovanni in Venere e dopo alcuni anni egli torna con il danaro sufficiente a poter compare il terreno dove oggi sorge la basilica di Collemaggio! Secondo alcuni, Pietro da Morrone per comprarsi questi terreni, abbia chiesto sovvenzioni, forse alla potente abbazia di San Giovanni in Venere, in cambio di qualcosa di prezioso che potrebbe essere il Santo Graal, in quanto egli, incontrando i templari in Francia, pare che questi gli abbiano dato qualcosa di prezioso da custodire, e se egli non aveva denaro per comperare i terreni della futura abbazia, costruita dopo il suo ritorno dal viaggio succitato, per poter essere finanziato aveva bisogno di dare in garanzia qualcosa ai suoi finanziatori!
  Durante il periodo del suo soggiorno a Fossacesia, nominò cardinale il suo vice Tommaso di Ocre, che nel giro di poco tempo, divenne, per volere del successore di Celestino V, Bonifacio VIII, il primo abate Commentario della badia di San Giovanni in Venere ed ebbe il compito di occuparsi delle esequie del Papa Celestino V.
Ma che cos’è il Graal?
In origine, secondo alcune versioni, il Graal, era la pietra, uno smeraldo, più preziosa e lucente del diadema di Lucifero, l’Angelo più bello del Creato. Esso cadde sulla Terra quando questi ingaggio battaglia con gli Angeli e fu raccolto dagli uomini che lo usarono per fini non sempre nobili.
Altre versioni sostengono che quando Seth, il figlio di Adamo ed Eva, cercò di salvare suo padre da una letale malattia, tornando nell’Eden, egli non trovò nessuna cura specifica per lui, ma una cura per tutti i mali del mondo, insieme a una promessa che Dio non avrebbe mai abbandonato il genere umano e pare che questo fosse il Graal.
Questo sacro oggetto smette di essere qualcosa di metafisico per entrare nella realtà percepibile, quando Giuseppe D’Arimatea, un ricco ebreo forse parente di Gesù, raccoglie il Sangue del Cristo proprio nella coppa che poi verrà definita Santo Graal.
Dopo la crocifissione, il corpo di Gesù , fu dato in consegna a Giuseppe D’Arimtea e gli fu dato anche la coppa dell’Ultima Cena, con la quale il maestro celebrò questo rito. L’ebreo lavò il Corpo del Defunto, ma mentre faceva questo dalle ferite uscì del sangue che Giuseppe raccolse nella coppa, quindi il Corpo fu avvolto in un sudario e fu messo nel sepolcro, ove dopo tre giorni Resuscitò.
Dopo la Resurrezione Giuseppe fu imprigionate dai romani con l’accusa di sottrazione di cadavere e privato del cibo, fu lasciato languire in un umida cella, dove un giorno gli apparve Gesù risorto ammantato di luce che gli consegnò la coppa rivelandone, anche le virtù della medesima; Giuseppe fu tenuto in vita grazie a una colomba che portava tutti i giorni un’ostia nella coppa.
Era il 70 d. C. quando Giuseppe D’Arimatea fu scarcerato, insieme a sua sorella e a suo cognato Bros. Questi scelsero, per causa di forza maggiore, l’esilio e partirono su una nave che li portò oltreoceano , verso un’isola sconosciuta dove, perpetrarono le loro tradizioni. Qui costruirono una tavola come quella usata per l’Ultima Cena dove presero posto dodici commensali, mentre il tredicesimo fu lasciato vuoto, perché era quello che avrebbe dovuto essere occupato da Gesù o da Guida. Se questa sedia veniva inavvertitamente occupata essa eliminava all’istante il commensale, per questo esso ebbe il nome di “Seggio Periglioso” e la tavola fu chiamata “Prima Tavola del Graal”.
Passarono alcuni anni in questa terra sconosciuta e Giuseppe sentì il bisogno e  la voglia di andare via e durante uno dei suoi tanti peregrinaggi per le vie del mondo, si fermò in Bretagna precisamente a Glastonbury, dove fondò la prima comunità cristiana che doveva soppiantare l’antica religione dei Druidi. Il primo tempio cristiano, qui fondato fu dedicato alla Madonna o, secondo alcune versioni  a Maria Maddalena e in questo luogo che rimase il Graal che veniva utilizzato durante la funzione religiosa.
Alla morte di Giuseppe il Graal fu custodito da suo cognato che grazie alla coppa riuscì a sfamare tutti i suoi seguaci. Dopo Bron il Graal passò nelle mani di un nuovo custode che conservò la sacra reliquia in un castello sulla Montagna della Salvezza di cui ignoriamo l’ubicazione. Nacque in quegli anni anche un ordine cavalleresco che, venne denominato come l’Ordine  dei Cavalieri del Graal, con il compito di proteggere questa coppa; essi si nutrivano delle ostie che la reliquia dispensava e il loro capo e custode  del divino recipiente ricopriva la carica di Re Sacerdote.
Uno di questi custodi fu ferito, secondo alcune versioni, dalla lancia di Longino e divenne sterile come la terra nella quale era ubicato il castello che custodiva la divina coppa.
Molti hanno visto un parallelo tra il Re Ferito, come venne denominato da allora in poi il custode del Graal, e la figura di San Rocco che in molte immagini viene raffigurato con una ferita alla  gamba.
Il Re Ferito trovava sollievo solo pescando e così fu definito anche come Re Pescatore ed egli sarebbe stato salvato da una domanda ben precisa fatta da un cavaliere puro di cuore; da qui che inizia la saga di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda di cui parleremo in seguito.
Tornando alla lancia di  Longino, essa è l’arma con cui il centurione romano trafisse il costato di Gesù crocifisso, pare che  avesse, come il Graal, delle doti magiche molto forti, perciò fu custodita insieme ad altre reliquie come: ad una spada e al piatto che resse la testa di Giovanni Battista, all’interno del castello del  Monte della Salvezza.
Questi quattro oggetti magici hanno influenzato la nostra cultura italiano poiché sono riprodotti nei semi delle carte da gioco.
Questa tradizione degli oggetti magici ha radici molto antiche e profonde presenti in culture millenarie come quelle asiatiche nelle quali si raccontano leggende secondo cui degli angeli sarebbero scesi dal cielo e si sarebbero stabiliti nel deserto dove avrebbero rivelato agli uomini la loro cultura superiore.
Prima di scomparire per sempre questi dei avrebbero lasciato quattro potentissimi talismani in grado di conferire poteri simili ai loro dei: una pietra, una spada, un calderone e una lancia.  Questi oggetti  sono presenti in quasi tutte le tradizioni. La pietra, ad esempio, potrebbe essere quella nera della Ka’ba, la spada potrebbe essere quella nella roccia, la coppa il Graal e la lancia forse quella di Longino. 
Alla morte di Erode, Israele, fu divisa in un mosaico di staterelli, che solo nel 6 d. C. divennero Provincia romana, con tutti gli onori e oneri che ciò comportava.
Gli ebrei insofferenti all’allora stato di cose, insorsero, dapprima con piccole sommosse culminati, poi, in vere e proprie rivolte. Mentre la Galilea bruciava, Roma, inviò un poderoso esercito per domare questi fuochi atti a spezzare il giogo degli invasori; paese dopo paese, città dopo città la zona settentrionale della Galilea si arrese e l’esercito giunse fino alle mura di Gerusalemme dove, forse corrotto dagli insorti,  esso si fermò. Nonostante  queste vittorie, gli ebrei continuarono a lottare e così nel 66 d. C. il generale Vespasiano, futuro imperatore, fu incaricato di riportare la pace nella provincia. Era il 68 quando le truppe del futuro imperatore si fermarono a causa della morte dell’imperatore  Nerone e tornarono a Roma. Nei diciotto mesi di tregua, gli ebrei non riuscirono a riorganizzare una resistenza duratura e così mentre Vespasiano fu incoronato imperatore suo figlio Tito partiva alla volta di Gerusalemme per riconquistarla.
L’assedio fu lungo e sanguinoso ma alla fine i romani ebbero ragione degli assediati e così entrarono trionfalmente in città dove si abbandonarono a ogni genere di violenza. Molti furono crocifissi sulle mura della città, le strade pullulavano di cadaveri appesi alle croci, il tempio fu profanato, derubato bruciato e infine raso al suolo, sulla cui terra fu buttato il sale.
Alcuni gruppi di persone appartenenti alla casta degli Zeloti si arroccarono nell’antica fortezza di Masada, essi resistettero per lungo tempo, finché, come narra una leggenda, una ragazza si innamorò di un soldato; essa, per amore, rivelò all’uomo dove erano i pozzi che alimentavano la città, i romani, allora, chiusero i pozzi e gli assediati furono costretti a arrendersi, ma per non subire l’onta della sconfitta si uccisero  tutti. I romani penetrarono nella cittadella e trovarono solo tanti cadaveri sparsi per la città.
Dopo aver domato la rivolta Tito fece erigere delle mura intorno al monte Golgotha e vi mise della terra intorno, quindi, lo fece spianare fino a trasformarlo in un pianoro, che conteneva al suo interno il Sepolcro con le spoglie mortali del Cristo. Non contento di ciò proibì il culto del cristianesimo e gli ebrei furono costretti a disperdersi per i quattro angoli del mondo.
Furono anni difficile per i cristiani e le loro tradizioni, queste infatti, furono affidate a sette segrete con a capo un vescovo di nome Marco.
Con l’avvento di Costantino sul trono, le cose cambiarono radicalmente; i cristiani uscirono dalla clandestinità e quando nel 314 divenne signore anche delle terre d’oriente, lui e sua madre Elena, rimasero affascinate dalle leggende che aleggiavano intorno al Santo Sepolcro. Così in breve tempo si iniziarono gli scavi per riportare alla luce questi tesori; si narra, che durante questi lavori, Elena avesse trovato un oggetto, forse una coppa, dove si raccolse il Sangue di Gesù.
A questo punto la storia del Graal si fa sempre più confusa e lacunosa; secondo alcune fonti esso finì in Bretannia, dopo che Roma fu depredata dai Visigoti nel 400 d. C. e pare che questa reliquia giaccia in fondo a un pozzo a pochi passi  dalla presunta tomba di un nobile cavaliere, forse re Artù.
Altre testimonianza parlano di un imperatore bizantino che nel I secolo d. C., dopo aver sottratto ai persiani alcune reliquie, forse anche il Santo Calice, esse siano state portate a Costantinopoli.
Alcune leggende affermano che a Costantinopoli vi fossero confluite tantissime reliquie sacre tra cui la Sindone, i Chiodi con cui Gesù fu crocifisso, alcune spine della Corona, di cui una oggi è a Vasto e naturalmente il Graal, che pare contenesse  la Sindone medesima.
Sembra che questi due oggetti abbiano seguito lo stesso cammino, ma queste sono solo supposizione; comunque il Santo Sudario, nel 1204, durante il sacco di Costantinopoli, da parte dei Templari, era qui e fu portata poi a Lirey in Francia e da qui a Torino.
Come abbiamo potuto vedere questa eterna ricerca forse di una chimera chiama in causa un ordine cavalleresco fatto da monaci guerrieri i Templari, appunto, che come sappiamo erano i difensori del Santo Sepolcro e dei luoghi sacri alla Cristianità e per far questo intentarono una guerra che chiamiate le Crociate. Alcune fonti sostengono che all’apice del suo splendore e durante l’era del abate Oderiso II il grande, essa fu in grado di finanziare addirittura la quarta Crociata, voluta da Papa Innocenzo III nel 1198, secondo tali fonti, questi uomini, dimenticando l’abito che indossavano e la loro missione, si abbandonarono ai più efferati atti di violenza, come si può leggere in una invettiva scritta da un monaco della chiesa di Santo Steafano Riva Maris, che racconta di come le milizie di Enrico di Svevia accampati tra le  foci del Sangro e quelle del Trigno, si diedero ai peggiori saccheggi, brutalità e violenze, risparmiando, però, l’abbazia di San Giovanni in Venere.
Questa chiesa fortificata romanica con forti influenze borgognone e di chiara impostazione cassinese, è a pianta rettangolare divisa in tre navate aventi lo stesso numero absidi su cui spicca il presbiterio che si ubica in posizione dominante rispetto al resto dell’edificio, in quanto sotto di essa si posiziona la cripta nella quale vi sono colonne e capitelli provenienti dal antico tempio pagano su cui poi venne edificato l’attuale chiesa. Nella cripta risaltano cinque meravigliosi affreschi raffiguranti di epoche diverse di cui il più antico posizionato sull’abside centrale.
Questi pregevoli e policromi affreschi rappresentano il Cristo sorretta da due angeli nell’atto di benedire con una mano mentre con l’altra sorregge un Vangelo. In un altro dipinto posto sul lato sinistro della finestra si può ammirare il Battista insieme a San Benedetto e vicino a questi beati vi è raffigurato un monaco inginocchiato che rappresenterebbe, secondo alcune fonti, il committente dell’opera. Un altro prezioso  affresco, posizionato sulla destra dell’abside, rappresenta la Vergine in trono con il Bambino ai cui lati spiccano le figure dell’Arcangelo Gabriele, come si legge dall’iscrizione posta sul suo capo,  e San Nicola di Bari. Ai lati delle absidi si possono ammirare l’immagine di Cristo in trono posta tra San Vito e San Filippo, in un altro dipinto sempre il Cristo in trono appare posizionato tra il Battista, l’Evangelista ed i santi Pietro e Paolo.
Le tre navate della chiesa sono costituite da archi a sesto acuto e dall’ interno delle chiesa tramite una porticina sormontata da una lunetta nella quale si può vedere un fregio raffigurante una svastica,simbolo di prosperità e pace, si accede al chiostro. Edificato da Oderisio II venne seriamente danneggiata dal sisma del 1456; questo luogo di silenzio e meditazione è ornato da decine e decine di trifore e capitelli; lungo i percorsi vi sono reperti archeologici provenienti da siti limitrofi come anche il sarcofago ospitato sotto l’arcata del campanile.
La facciata esterna che prima del violento sisma che del 1456, era costruita in pietra e in candido marmo, fu restaurata con mattoni nella parte lesionata. Questo ingresso conosciuto come portale della luna, così chiamato per la sua foggia ad arco, realizzato da Giacomo del Vasto per commissione dell’Abate  Rainaldo intorno ai primo trentennio del 1200. Sulla lunetta si possono ammirare il Cristo nell’atto di benedire, mentre ai suoi lati si posizionano la Madonna implorante ed il Battista con la testa rivolta verso il basso. Nella parte sottostante vi sono le figure di San Benedetto e del monaco committente o per lo meno di ciò che ne rimane. Sulla stele posizionata a destra del portale vi sono chiari riferimenti alla sua origine pagana con una decorazione che rimanda al culto di Venere in cui si vedono due amorini scoccare frecce contro una colomba, animale consacrato alla dea.
Spostandoci più giù sono rappresentate una serie di episodi biblici riferiti al Battista ed infine un enigmatico fregio che racconta la storia di Daniele nella fossa dei leoni mentre viene nutrito dal profeta Abacuc sorretto da un angelo.
Nella stele di sinistra in alto si possono vedere dei pavoni che si dissetano in una coppa, chiaro riferimento ad elementi pagani, poiché questi animali erano consacrati a Giunone. Scorrendo questa colonna, si possono notare scene della vita del Battista e l’annunciazione, in basso si vedono scene di caccia tra uomini ed animali fantastici, forniti di code di serpenti.

martedì 12 giugno 2012

NUOVO ORDINE MONDIALE E VISIONE SPIRITUALE DEL MONDO - 2 Parte

Piero Cammerinesi (coscienzeinrete.net)


per leggere la 1° parte clicca qui

Ora è il turno della Siria e prossimamente lo sarà dell’Iran.

Il progetto di demonizzazione dell’Islam – a parole naturalmente tale demonizzazione viene puntualmente negata – ed il mito del Clash of Civilizations (scontro di civiltà) di Samuel Huntington sono stati abilmente messi in atto da decenni ed oggi iniziano a dare i loro risultati, con maggioranze silenziose qui negli USA pronte ad appoggiare altre guerre di espansione, una volta chiamate ‘guerre giuste’ ed oggi divenute, quasi per magia, ‘guerre umanitarie’.
Il concetto di guerra umanitaria o di terroristi - che quando combattono dalla propria parte sono patrioti e quando sono dalla parte avversa diventano terroristi - sono il risultato di una profonda ‘contaminazione’ del linguaggio che è stato piegato alle esigenze dell’Impero, il quale non può rischiare di vedere le proprie scelte inficiate da un eventuale mettersi di traverso di un’opinione pubblica che chiami le cose con il loro nome, che con il termine guerra intenda morte, distruzione, fame, ingiustizia. Allora se la chiamiamo guerra umanitaria mettiamo in primo piano il bene che si pretende di perseguire, così che il termine guerra evocherà al massimo un riferimento ai collateral damage, ai danni collaterali.

Oggi la “guerra globale al terrorismo viene presentata come ‘scontro di civiltà’, una lotta tra valori e religioni in competizione, mentre in realtà si tratta di una pura e semplice guerra di conquista, determinata da obiettivi strategici ed economici”.[1]

Che poi sono l’assicurare – sotto la direzione della Banca Mondiale e dell’IMF, il Fondo Monetario Internazionale – agli USA ed ai loro alleati il controllo delle fonti di energia, la privatizzazione delle aziende di proprietà statale ed il trasferimento delle risorse economiche dei Paesi aggrediti nelle mani del capitale straniero.

Ora però – con le recenti vicende di Siria e Iran - per la prima volta negli ultimi decenni questa incontrastata espansione sembra venir ostacolata dall’opposizione combinata di Russia e Cina. Allora ai proclami di guerra si sostituisce il subdolo alimentare la guerra civile interna con la speranza che un altro regime sgradito – o non più gradito - all’Impero venga rovesciato da improbabili ‘primavere arabe’, come è già accaduto nel caso di Tunisia, Egitto e Libia.

Tutta l’attenzione continua comunque a essere sistematicamente indirizzata verso l’esterno, mentre all’interno degli USA sono in continuo aumento le misure antidemocratiche e le limitazioni delle libertà individuali, con la militarizzazione della polizia, i poteri praticamente illimitati attribuiti da Obama alla Homeland Security, con il rinnovo quadriennale, nel 2011, del Patriot Act che sancisce la legalità di arresti, torture e finanche di uccisioni di cittadini americani se richiesto dalla ‘sicurezza nazionale’ nonché di controllo – meglio dire spionaggio - pressoché assoluto sull’intera popolazione.

Tutto ciò fa pensae che qualcosa stia vigorosamente spingendo le élite dominanti ad accelerare la realizzazione del progetto del NWO attraverso sempre più manifesti processi di controllo e di mistificazione degli eventi a livello mondiale.

Probabilmente questo è dovuto a due ordini di fattori.

Prima di tutto all’aumento esponenziale delle persone che – grazie ad Internet – riescono ad informarsi in tempo reale di quanto accade nel mondo, sfuggendo alle ‘sirene’ del mainstream, da anni ormai quasi completamente embedded.

In secondo luogo al ‘risveglio interiore’ di molte persone che iniziano a prendere posizione – interiormente ed esteriormente – contro la realizzazione del progetto del NWO, che sta palesemente trascinando l’umanità su una china disastrosa.

Gli effetti della crisi economica del 2008 stanno infatti palesando le contraddizioni del liberismo assoluto - che ha di fatto deificato il ‘Mercato’ ponendolo al di sopra di ogni valore umano – mostrando il vero volto del progetto di un Nuovo Ordine Mondiale.

udolf Steiner affermò espressamente, nel lontano 1919, che “l’elemento anglo-americano potrà certamente conseguire il dominio mondiale ma senza la tripartizione della società tale dominio inonderà il mondo con la malattia e la morte della cultura[2].

Vale a dire che senza la ‘correzione’ dell’idea della tripartizione dell’organismo sociale il modello anglosassone non porterà che degradazione alla cultura umana.

Quali sono dunque, alla luce di queste indicazioni, le conseguenze per l’umanità di questo modello in termini di sofferenza per la vita umana?

Il capitalismo sfrenato, il consumismo, la globalizzazione, l’inquinamento, la diffusione capillare della droga, la volgarizzazione della cultura, sostituita dal culto delle immagini televisive, l’apparire a scapito dell’essere.

Il perpetuarsi di vastissime sacche di miseria e di degradazione e l’incessante ricorso alla guerra e alla sopraffazione di chi non segue gli stessi principi sociali o politici. 

Come non riconoscere negli eventi di oggi le avvisaglie di quella ‘terza prova’ cui alludeva Massimo Scaligero come a una necessaria correzione al deragliamento della cultura occidentale: “Questa contraddizione giunta collettivamente
al limite, ormai per la seconda volta, nell'attuale secolo, conoscerà la sua istanza risolutiva nei prossimi decenni quando si presenterà la terza prova: la quale  è virtualmente cominciata e pesa ormai su ciascun essere umano, come segreta angoscia, come segreta paura, come senso d'inutilità e senso di impotenza.”[3]

Il senso di angoscia che pervade – ormai da decenni – le popolazioni umane è stato creato ad arte dalle élite dominanti per mantenere le persone in uno stato di continua soggezione, di paura di perdere quanto si è acquisito - quando non la vita stessa - sempre per colpa dell’altro: il bolscevico, il brigatista, il terrorista…

Quale via d’uscita?


L’unica possibile; quella della consapevolezza e della lucidità sempre maggiori di chi intraprende con serietà un percorso spirituale.

Quella di un’azione interiore e di una trasformazione progressiva di se stessi in accordo con la lucida comprensione dei segni dei tempi.

Senza trascurare la pervicace tenacia nell’indagare ogni aspetto della nostra vita – compresa la politica, la storia e l’economia - alla luce della conoscenza spirituale, che deve divenire il nostro fedele strumento di conoscenza sia del Mondo spirituale sia di quello fisico.

“L'ora presente – scrive Massimo Scaligero - è grave: non è una espressione retorica, questa. Chi conosce come realmente stiano le cose, sa che quei pochi che hanno una qualunque responsabilità interiore, non dovrebbero ormai perdere più un minuto di tempo, non dovrebbero più rimandare di un attimo la loro decisione per quei superamenti che in segreto essi veramente conoscono di quale natura debbano essere”.[4]




[2] Rudolf Steiner, O.O.194 La missione di Michele - La manifestazione dei segreti dell’essere umano
[3] Massimo Scaligero, Iniziazione e Tradizione, pag.42
[4] Ibidem

domenica 10 giugno 2012

NUOVO ORDINE MONDIALE E VISIONE SPIRITUALE DEL MONDO - 1 Parte

Piero Cammerinesi (http://coscienzeinrete.net)


”Si è alla vigilia di eventi che possono essere gravemente distruttivi per l'uomo o preludere a una rinascita nel segno dello Spirito”.

Massimo Scaligero, Iniziazione e Tradizione

Houston, 8 maggio 2012

Chi ritiene di percorrere un sentiero spirituale ha il dovere di non confinare tale attività solo nella parte più intima della propria individualità.

Al contrario, deve misurarsi costantemente con il mondo esteriore, deve imparare a interpretarne le dissonanze e gli enigmi mediante le conoscenze e le capacità acquisite grazie al lavoro interiore.

È l’uomo intero a percorrere un sentiero spirituale, non solo la sua testa.

Il fatto che la testa sovente rifugga dal ‘contaminare’ la pura riflessione spirituale con la contraddittorietà spesso incomprensibile del mondo esteriore, con la presunzione di mantenere ‘puri’ determinati contenuti – non messi al vaglio della realtà esteriore – fa pensare alla pretesa dell’eremita di aver vinto le tentazioni della carne solo per il fatto di non essersi più allontanato dal proprio eremo.

Al contrario, misurare le proprie esperienze interiori e le proprie conoscenze con la poliedricità del mondo esteriore insegna a guardare alla totalità del mondo – e non solo alle verità ‘protette’ di cui ci siamo appropriati - come επιφανεια, manifestazione del divino.

Una di queste realtà – forse la più complessa perché a sua volta ‘contaminata’ da istanze personalistiche – è quella politica, che ci riesce difficile da osservare nel suo insieme e soprattutto da interpretare alla luce del sentiero spirituale, perpetuando in tal modo dentro di noi la nefasta separazione di scienza e religione.

Un argomento politico poco noto alle grandi masse ma particolarmente attuale per le nuove generazioni di utenti del web è quello del NWO o Nuovo Ordine Mondiale.

Il fatto che quest’argomento sia quasi esclusiva di autori o divulgatori spesso poco attendibili, ha fatto sì che esso, sin dall’inizio, venisse giudicato dai frequentatori del mainstream come una fantasia complottista.

In tal modo si muovono le opinioni umane e non è peregrino ipotizzare che le stesse vengano indirizzate sapientemente da chi sa come conseguire i propri obiettivi attraverso la manipolazione delle masse.

La ‘banalizzazione’ di questo progetto e il suo venir praticamente monopolizzato da parte di correnti ‘alternative’, new age e ‘complottiste’ ne ha di fatto svuotato, agli occhi della pubblica opinione, le caratteristiche di estrema autenticità e di inquietante pericolosità.

Il NWO nasce dalla convinzione anglo-americana di aver dato vita, con la nascita degli USA, ad un Paese con un destino unico e provvidenziale.
Una luce tra le Nazioni, un modello di civiltà, libertà e democrazia, una speranza per tutti i popoli in difficoltà, come efficacemente simboleggiato dalla statua della libertà. Dopo la II guerra mondiale questa convinzione, nutrita all’interno dei circoli anglosassoni – occulti e non – è stata di fatto ‘esportata’ in tutto il mondo diventando in qualche modo una verità assodata per tutti.

In fondo, come sosteneva Goebbels, una menzogna ripetuta all’infinito diventa verità…
L’american dream, la musica, l’abbigliamento, la politica, la cultura, tutto è espressione dell’eccezionalità nordamericana.

Gli Stati Uniti d’America rappresentano per i circoli che coltivano il NWO - e il New American Century - la civiltà che ha raccolto l’eredità dell’Impero Romano.

E le similitudini - per singolare che ciò possa apparire – non mancano: basti pensare che il primo appezzamento di terreno su cui sorse Washington DC si chiamava Rome ed il proprietario era un certo signor Pope! Ma non è tutto; vi scorreva all’interno un fiumiciattolo, che si chiamava, guarda caso…Tiber!
L’eredità imperiale, cosmopolita, culturalmente e militarmente dominante della Roma imperiale viene dunque raccolta dal nuovo Stato, nato dagli ideali massonici della ‘Terra promessa’; una ‘New Rome’ a partire dalla Gran Bretagna e dall’America, un Impero mondiale, un ‘pensiero unico’ ed uno stile di vita globale.
“A tale fine nacque una nuova nazione, gli Stati Uniti d’America, il primo ‘Stato mondiale’, costituito da immigranti provenienti da ogni parte del mondo invece che da una sola comunità etnica; una nuova Atlantide com’era intesa dall’occultista britannico dell’era elisabettiana John Dee, consigliere della Regina Vergine e da Francis Bacon, Cancelliere di Guglielmo I e sostenuta dall’élite scientifico-sacerdotale”.[1]

Francis Bacon vagheggiava una ‘Nuova Atlantide’ in cui l’America del Nord sarebbe stata guidata da un élite di scienziati-filosofi – il che nel linguaggio odierno comprenderebbe uomini d’affari, avvocati, docenti universitari etc. – interamente rivolta al materialismo ed al profitto. Un Novus Ordo Seclorum destinato a dominare il mondo in opposizione al vecchio ordine rappresentato dall’Oriente, con la sua oligarchia di sacerdoti-politici. Lo stesso Alexis de Tocqueville così si espresse, negli anni ’30 del XIX secolo sull’emergente potenza americana: “Sto mettendo a fuoco le nuove caratteristiche in cui il dispotismo può presentarsi nel mondo. La prima cosa che colpisce è la visione di una quantità innumerevole di persone – tutte simili e identiche – che si affannano a procurarsi i piaceri più meschini e insignificanti con i quali riempire le proprie esistenze. Ciascuno di loro, vivendo separatamente è estraneo al destino degli altri; i suoi figli e i suoi amici più stretti rappresentano per lui l’intera umanità. Quanto al resto dei suoi concittadini, sono accanto a lui ma lui non li vede; li tocca ma non li sente; lui esiste in se stesso e solo per se stesso; se gli resta la sua famiglia non può dire in nessun caso di aver perso il proprio Paese. Al di sopra di questa popolazione umana si trova un immenso potere tutorio che si arroga il diritto di assicurare loro le gratificazioni e di controllarne il destino. Questo potere è assoluto, capillare, regolare, previdente e delicato. Potrebbe assomigliare all’autorità di un genitore se - come nel caso di un genitore - l’obiettivo fosse quello di preparare i giovani alla maturità ma, al contrario, esso cerca di mantenerli in una fanciullezza perpetua; è ben contento che il popolo sia felice a patto che esso non pensi a nulla se non a essere felice”.[2]
Potremmo addirittura far risalire il germe del NWO all’XI secolo, allorché i Normanni conquistarono la Gran Bretagna e la Sicilia, ponendo nel popolo anglosassone il principio del materialismo destinato a gettare le basi del ‘Nuovo Mondo’.
Le società segrete britanniche e successivamente anglo-americane hanno costantemente lavorato per porre il mondo intero sotto il giogo del materialismo.

Da quest’autoinvestitura - e dal conseguente obiettivo di una dominazione mondiale anglo-americana - alla propensione a considerare lecita la propria missione di ‘esportatori’ di civiltà e democrazia il passo è breve ed è passato attraverso la creazione della Società delle Nazioni prima e delle Nazioni Unite poi.

Tutte le ‘creature’ di questa civiltà sono state ideate per assolvere al loro compito, vale a dire quello di asservire il mondo intero ai propri interessi.
In fondo il principale obiettivo di qualsiasi Impero è quello di mantenersi tale.
Il liberismo economico sregolato, il consumismo fine a sé stesso, la globalizzazione, l’onnipotere dei media sono tutte istanze che portano allo svilimento dell’uomo che – ridotto a consumatore - viene privato della sua dimensione spiritualmente libera.

Nonostante il mondo americano faccia un uso sfrenato della parola libertà, le sue azioni hanno regolarmente tradito tale ideale, inizialmente all’esterno dei propri confini ed oggi anche all’interno.
“Cos’è la libertà per un americano? Quello che gli serve a render la vita più comoda possibile. Chiama libertà quello che deve intrecciarsi con l’ordine sociale in modo che ciascuno possa procedere nel migliore dei modi nel mondo esteriore. Libertà per gli americani è un prodotto utilitaristico”.[3]

Il compito che il NWO si è assunto è stato sin dall’inizio – una volta eliminata l’influenza spiritualmente equilibrante dell’Europa centrale con due guerre mondiali - quello di dominare il mondo raccogliendo il testimone della civiltà romana e dedicandosi all’‘educazione’ dello spirito russo.
I programmi dell’Ovest anglo-americano – come rileva Rudolf Steiner nel primo Memorandum del 1917 – sono “illusori e fittizi”, parlano di libertà ma rendono impossibile la vera libertà al resto del mondo trasmettendo l’impressione che solo loro siano in grado di fare qualcosa per la salvezza del genere umano.[4]

“La metà di questo secolo [il XX] sarà un momento molto significativo.
(…) Infatti questo dominio del materialismo porta al tempo stesso in sé il germe della distruzione. La distruzione che è iniziata non si fermerà. (…) E la responsabilità di tutto ciò ricadrà su quella parte cui spetterà il dominio mondiale”.[5]
Dalla metà del secolo XX, finito il secondo conflitto mondiale, chi non si assoggetta al progetto del NWO ha, infatti, due sole prospettive: vivere nel terrore o venir distrutto.
Il terrore dei comunisti durante la guerra fredda prima, il terrore dei cinesi e dei coreani poi, degli arabi oggi.  Angosce create ad arte e diffuse capillarmente nelle popolazioni mondiali per impoverire il tessuto animico e per inibire possibili reazioni. Come previsto da Orwell nel suo 1984 la pratica dell’odio e della paura rende le masse manipolabili.

Oppure la distruzione: la distruzione dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, di tutti gli Stati sovrani che non si sono piegati al loro disegno di predominio mondiale.

Lo stesso progetto europeo è stato sostenuto e promosso instancabilmente dagli USA con la finalità evidente di portare l’intera Europa sotto l’ala protettrice dell’aquila americana e della NATO e alleata all’Orso russo - nel frattempo addomesticato con il consumismo - per contrastare quella che sarà la vera sfida del XXI secolo, come la Germania lo fu nel XX: la Cina. Facile intravedere dietro questo disegno strategico “la costruzione di un nuovo Impero Romano globale bastato sull’unione euro-americana, che servirà in modo esemplare da veicolo all’incarnazione di Ahriman, lo Spirito che si prefigge di dominare il mondo intero per trasformarlo nella sua ‘mente collettiva’. La massoneria ha portato proprio a questo: la creazione di un Impero Romano globale di materialismo”.[6]



[1] Terry Boardman, Rome and Freemasony. The greatest irony. http://www.monju.pwp.blueyonder.co.uk/NWO11.htm
[2] Alexis de Tocqueville, Democracy in America
[3] Rudolf Steiner, O.O.157 Destini umani e destini del popoli
[4] Rudolf Steiner, O.O.24 I Memorandum del 1917. Tilopa, 1991. Pag.33
[5] Rudolf Steiner, O.O.194 La missione di Michele - La manifestazione dei segreti dell’essere umano
[6] Terry Boardman, Rome and Freemasony. The greatest irony. http://www.monju.pwp.blueyonder.co.uk/NWO11.htm

mercoledì 6 giugno 2012

BRUNILDE E ROSASPINA: MITI E FIABE INDOEUROPEE

tratto da L'Indipendenza

http://www.lindipendenza.com/brunilde-rosaspina-cerchio/

di REDAZIONE
Relegate spesso al mondo dell’infanzia, le fiabe rievocano da sempre l’immagine della nonna e dei bambini davanti al focolare durante le fredde e lunghe notti d’inverno. Le fiabe popolari non nascono dalla fantasia di un autore, noto o anonimo che sia, ma sono il frutto di una lunga serie di storie raccontate e ripetute nel corso degli anni, variegate in mille piccole sfumature. Affondano le loro radici profonde nel fertile terreno di miti e leggende. La raccolta di fiabe dei fratelli Grimm è forse l’esempio più eccellente. Perché si usa la bacchetta magica per produrre un incantesimo o lanciare un maleficio?
Chi sono le fate che si presentano alla culla di Rosaspina, la bella addormentata? Come fanno i nani ad abitare dentro la roccia? Perché gli animali riescono a parlare e ad essere compresi dagli uomini? Come si fa a diventare invisibili? Perché non si deve sapere né pronunciare il nome di esseri terribili? Molte saranno le domande che sorgeranno nel corso della lettura di questo saggio che si propone di rintracciare e approfondire le origini di personaggi, situazioni ed episodi entrando nel mondo variopinto ed affascinante delle mitologie di matrice indoeuropea, con particolare attenzione a quelle appartenenti ai popoli che un tempo abitavano le terre germaniche: Celti e Germani, che si sono poi spinti verso Ovest e verso Nord creando le meravigliose culture irlandesi, gallesi e nordiche. Si scoprirà così che nulla è raccontanto per caso, ma che il piccolo particolare a cui non prestiamo attenzione è in realtà un riflesso di antiche leggende e miti indelebili nelle culture di questi popoli.
Prefazione di Paolo Gulisano. Dal Mito alla Fiaba
Nel corso del Novecento è stato possibile assistere ad un fenomeno letterario interessante e sorprendente: il ritorno nella narrativa del Mito e dell’Epica. Accendendo ancora una volta la fantasia degli uomini, chiamando nuovamente l’attenzione dei cantastorie su di sé, suscitando nuove versioni di antiche narrazioni, il Mito, rappresentato, oltre che sulla carta, anche sul grande schermo, ha dimostrato di essere vivo e vitale nella fantasia e nei sogni. Scrittori anglosassoni come Chesterton, Tolkien, Lewis, ma anche tedeschi come Michael Ende, hanno proposto ai lettori disincantati della Modernità le loro storie, leggende dai molti significati, dai valori profondi, arcaici, strettamente intrecciati con la storia e i miti dell’Europa. Anni fa, in una fortunata versione cinematografica del mito di Artù, Excalibur di John Boorman, il Mago Merlino pronunciava queste suggestive parole: la maledizione degli uomini è che essi dimenticano.
Una frase quanto mai vera, e sulla quale riflettere. La memoria, sembra dirci Merlino, è tra le risorse umane una delle più importanti: occorre coltivarla come una virtù, con amorevole attenzione. Ci può salvare dalla superficialità di giudizio, dall’ingratitudine, da una vita senza gusto e significato, facendoci invece considerare con più attenzione le realtà con le quali bisogna sempre fare i conti: il bene e il male, il futuro e il passato, il mistero della vita. Le storie di Tolkien, Lewis, Ende, o anche il discusso Harry Potter di Joanne Rowling o coloro, come Mary Stewart, che hanno rivisitato le leggende medievali di Merlino, di Re Artù, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, nella loro fervida immaginazione, hanno il pregio di non dimenticare queste questioni fondamentali. Sta tutto qui il loro fascino, quello che fa produrre ancora nuove spettacolari versioni del mito: non è una pura evasione dalla realtà per rifugiarsi nella fantasia, ma è forse l’occasione per volgere lo sguardo verso cose grandi, verso noi stessi e la nostra anima assetata di Bellezza, verso le stelle, cercando i segni del nostro destino. Come ha insegnato il grande creatore di miti J.R.R. Tolkien, la letteratura dell’immaginario può essere lo specchio dei gusti, degli umori e addirittura della condizione psicologica dell’epoca moderna, esprimendo i dubbi, le paure, le domande insoddisfatte, le esigenze profonde dell’animo umano. I miti, i simboli, le leggende e le tradizioni ci rivelano noi stessi. Non è un caso, probabilmente, che molti di questi grandi scrittori furono insigni medievisti: al centro di tutto il Medio Evo infatti c’era il simbolo: la vita dell’uomo medievale era inscritta in un universo simbolico, dove ogni forma del pensiero, artistica, mistica, teologica, si basava su di esso. L’esperienza quotidiana era esperienza spirituale, nutrita dai simboli che la provocavano, la animavano, le conferivano un valore profondo. L’abilità narrativa e la fervida immaginazione di chi scolpiva le cattedrali gotiche, con i suoi mostri e le sue creature fantastiche, o di chi scriveva la storia della Cerca del Santo Graal o le peripezie di un Re e della sua spada incantata adoperavano il linguaggio del simbolo, che trasfigurava la realtà stessa, ed è stato capace di mantenere la sua intensità e il suo valore, trascorrendo, inattaccabile, il tempo e la storia.
Il lettore disincantato di oggi viene quindi provocato opportunamente dal racconto fantastico, sia che si tratti di fiaba o di narrazione epica, di leggenda come di racconto “gotico”; sospeso tra il misterioso e il terribile, è sempre in qualche modo espressione umana sottesa tra il sacro e il profano, a partire dal linguaggio, che reca sempre in sè le tracce di arcaici miti, fino ai contenuti, che sono comunque e sempre quelli del fantastico, ossia dell’irruzione, oscura e inquietante oppure solare e confortante di un evento soprannaturale nella realtà quotidiana. Non c’è generazione di lettori (o di spettatori) la quale, a dispetto di tutte le mode, non senta la suggestione dell’ elemento fantastico, mitico, fiabesco: un tipo di letteratura portatrice di una sapienza antichissima, che mimetizza i suoi contenuti nel linguaggio apparentemente semplice ed infantile delle fiabe, o del folklore popolare. Il mito è necessario perché la realtà è molto più grande della razionalità. Il mito è visione, è nostalgia per l’eternità. Il mito non è metafora o allegoria, ma simbolo, ossia segno che rimanda ad un significato ultimo che l’uomo deve riconoscere e interpretare. Il mito, nella storia dell’umanità, non è mai stato contrapposto, come avviene oggi, alla realtà; il mito è sempre stato per sua stessa natura vero, espressione della verità delle cose. Nel mito si veniva a contatto con qualcosa di vero che si era pienamente manifestato nella storia, e questa manifestazione poteva fondare sia una struttura del reale che un comportamento umano. Il mito è un mezzo per dare risposte a questioni fondamentali come l’origine dell’uomo, il bene, il male, l’amore, la morte e per dare spiegazioni ai fenomeni della natura. Se il mito è il nesso, il legame che l’uomo ha sempre cercato con il senso della vita, esso non può quindi che essere considerato un’espressione naturale ed antichissima del senso religioso che vive nel cuore dell’uomo. Nel corso della Modernità, gli antichi miti d’Europa – celtici, norreni, greci e così via- si sono occultati nelle fiabe. Un luogo nascosto, protetto, un luogo apparentemente per bambini. Roger Caillois sostenne che “la fiaba è un racconto situato fin dal principio nel mondo fittizio degli incantatori e dei geni. Le prime parole della prima frase sono già un avvertimento: In quel tempo oppure C’era una volta… Per questo le fate e gli orchi non spaventano nessuno. L’immaginazione li confina in un mondo lontano, fluido, impenetrabile, senza rapporto né comunicazione con la realtà di ogni giorno nella quale è pressoché impensabile che essi possano fare irruzione. (…) La differenza balza agli occhi – prosegue Caillois spingendosi nel fantasy così detto gotico o anche horror – quando si tratta di fantasmi o di vampiri. Certo, anche loro sono esseri immaginari, eppure li colloca in un mondo tutt’altro che immaginario; anzi, se li rappresenta come creature che fanno le loro apparizioni nel mondo reale, apparizioni che sono per giunta incomprensibili, terribili, invariabilmente funeste. (…) Così le manifestazioni del fantastico derivano tutte dallo stesso principio. Esse sono tanto più terribili quanto più il loro scenario è famigliare, le loro vie più subdole o fulminee, quanto più si presentano con un non so che di fatale e d’irrimediabile che si sprigiona da una rigorosa concatenizzazione degli eventi.” La fiaba dunque come un viaggio iniziatico, come una serie di tappe di un viaggio, di un’impresa.
Lo studio di Alessandra Tozzi che il lettore ha tra le mani è una guida preziosa per avventurarsi su questo cammino, per riconoscere i segnali indicatori, per non smarrirsi nel labirinto, e soprattutto per farci ritrovare e riassaporare il significato di un patrimonio culturale che va conservato, difeso, valorizzato, e tramandato.


TITOLO: Brunilde e Rosaspina. Mito e fiaba dagli Indoeuropei ai fratelli Grimm; AUTRICE: Alessandra Tozzi, PREFAZIONE: Paolo Gulisano; EDITORE: Il Cerchio; COLLANA: Fantasia; PAGINE: 392; PREZZO: euro 25,00

martedì 29 maggio 2012

lunedì 28 maggio 2012

Le fate venute dalle stelle

di Nicoletta Camilla Travaglini

Una teoria molto suggestiva  portata avanti da Fieber nella quale sostiene che le fate siano, in realtà, delle creature venute dallo spazio.
L’autore di tale ipotesi dice a questo proposito:
Quando ero bambino, si narra in una raccolta di fiabe  irlandesi, udivo mio nonno parlare del magico popolo che vive sulle colline…
Egli era fermamente convinto che le fate esistessero veramente e non si recò mai nelle paludi a raccogliere la torba, senza essere spiritualmente preparato a incontrarne qualcuna…
Diceva che in cielo c’era stato una guerra fra Dio e gli angeli e che per quaranta giorni e quaranta notti di seguito il Padreterno aveva scacciato angeli dal cielo gettandoli verso la Terra. Alcuni erano rimasti sospesi in aria, altri invece erano arrivati fin quaggiù, chi toccava la terraferma, chi  cadendo in mare. Un giorno udì un uomo dire che se il giorno del Giudizio Universale avessero perduto la speranza di poter rientrare in Cielo avrebbero distrutto la Terra.   

Fieber ci dice anche da dove proverebbero queste magiche creature:
 …Fattosi improvvisamente serio, mi rimproverò, diventando serio di aver conosciuto un decano che non solo aveva visto con i propri occhi questi piccoli esseri, ma aveva anche parlato con loro: gli avrebbero rivelato di essere abitanti della Luna.
L’idea che ci si faceva allora della patria delle fate, degli elfi e dei folletti era però completamente diversa; W. Evans-Wentz la descrive come un mondo invisibile, nel quale il nostro pianeta sarebbe immerso, come un’isola sprofondata in un immenso oceano. Gli abitanti di “quest’altra Terra” erano normalmente immaginati come esseri più piccoli dell’uomo terrestre, ma avevano il potere di trasformarsi anche in giganti. Quelli che mantenevano almeno per metà sembianze umane erano molto amati e preferito agli altri. Usavano a volte i loro poteri per rapire uomini che, dopo avere stordito, tenevano prigionieri. A volte rubavano loro cereali e bestiame ma in altre occasioni potevano anche mostrarsi generosi e disponibili. Nel complesso, però, non esistevano fate, folletti e gnomi che fossero “buoni” in modo assoluto; tutti potevano all’improvviso e senza motivo, diventare cattivi e vendicativi.
… Gli Algonkini si tramontavano una leggenda secondo cui un giorno un cacciatore di questa stirpe scoprì in una radura un cerchio d’erba schiacciata. Si nascose fra i cespugli e di lì a poco vide scendere dal cielo un cesto nel quale sedeva un gruppo di donne meravigliose che, scese dal cesto, si misero  a danzare in cerchio. Il cacciatore attese il momento propizio, poi afferrò una delle donne e la trascinò via con sé. Spaventate, le altre rifugiatesi di nuovo nel cesto, che venne velocemente tirato su e in un attimo sparì fra le nuvole. L’indiano condusse la donna nella sua tenda e, poco tempo che vivevano insieme, lei gli dette un figlio ma, approfittando di un momento in cui non era sorvegliata, fuggì nella radura col il bambino, dove intrecciò un nuovo cesto magico con le sue mani. Appena vi fu salita col il bimbo, volò in cielo a raggiungere le compagne e non tornò mai più.


Note
1)  FIEBAG, Johannes Gli Alieni Contatti con intelligenze extraterrestri Edizioni Mediterranee, Roma 1994, pag.40.
2) FIEBAG, Johannes op. cit., pag. 41, 44, 45.


domenica 20 maggio 2012

"Vampiri" a Trani Metti un masso sul morto iapigio

Tratto dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 3/3/2002

Due tombe, per quattro defunti: furono inumati senza onoranze funebri e in posizione prona, con un macigno addosso.L’inquietante ipotesi degli antropologi: erano reietti che non dovevano assolutamente tornare tra i vivi

"Vampiri" nell’antica Trani. E ciò che hanno sospettato archeologi e antropologi di fronte alle due sconcertanti tombe iapigie emerse a Capo Colonna. Qui qualcosa di unico nella storia degli scavi in Puglia - nonché della ritualità funebre antica - si è parato davanti agli occhi dell’archeologa Ada Riccardi della Sovrintendenza. Nella sepoltura più piccola era deposto un cadavere in posizione prona, inginocchiato, schiacciato da un lastrone piazzatogli sulla spalla; nel secondo sepolcro, invece, tre erano i defunti, anch’essi inumati, ognuno con un proprio masso addosso.
Lo scavo è stato condotto dalla Riccardi nel 2001. Ma la notizia, per evidente cautela, non era trapelata finora.
Durante gli scavi precedenti effettuati negli anni ‘70 a Capo Colonna, la penisoletta di Trani dove sorge il bel Monastero che sarà sede museale, non erano emerse sepolture: si trovarono invece tracce di insediamenti dell’età del Bronzo e anche fondi di capanna dell’età del Ferro, delimitate da un fossato. Furono recuperati reperti tardo-elladici e micenei (secondo la testimonianza dell’archeologo di allora: ma nessuno li ha mai visti, né sembra siano stati mai pubblicati!). Lo scorso anno però si ripresero le indagini in una zona limitrofa e riaffiorarono strutture di ambienti, con un cortile che doveva essere in origine lastricato (lo si deduce dal "vespaio" di ciottoli di mare disseminati, che avrebbero dovuto formare il sottofondo). Le pareti di questo edificio presentavano una originalità. i paramenti esterni dei muri erano costituiti da lastroni infissi verticalmente nel terreno. Una tecnica costruttiva mai attestata per l’antica Peucezia (o per la Daunia, visto che Trani allora sorgeva sul confine tra queste due popolazioni). D’altronde si doveva trattare, quasi certamente di un luogo di culto.
In questi ambienti sono riafforati frammenti di ceramica iapigia (un’olla ed altri cocci di vasi) che rimandano a una decorazione tipicamente daunia. Stravagante è il disegnino di uno dei frammenti, che raffigura un bipede con una voluminosa cresta, nonché una lunga coda da rettile. Il loro "stile" indica con ogni verosimiglianza la datazione dell’intero insediamento e quindi delle tombe. Tutto dunque farebbe pensare alla fine del IX o all’inizio dell’VIII secolo avanti Cristo.
Una fossa circolare fu scavata accanto alla parete dell’edificio maggiore. A che cosa servisse? Resta per ora una domanda senza risposta; e ancora più intrigante è aver constatato che nell’interno del pozzetto fossero stati infisse delle pietre. Certo un rito, di cui ci sfugge il senso.
Tuttavia il culmine del mistero di questo scavo a Capo Colonna non è certo la fossa, quanto le due tombe: che di per sé costituiscono una eccezionalità per questa epoca. Una di esse è all’interno all’edificio, l’altra, più piccola, è esterna, si direbbe nel "cortile".
Come si è detto, in quest’ultima sepoltura fu deposto - ben duemila e ottocento anni fa - un uomo in una posizione ben strana: quasi inginocchiato, prono, con addosso un lastrone. Identica fine fu riservata ai tre defunti ammassati nella tomba più vasta, anch’essi seppelliti con un macigno addosso. Il primo è un adulto maschio - ci dice il prof Vito Scattarella del Dipartimento di Zoologia, sezione Antropologica dell’Università di Bari, che con il dottor Sandro Sublimi Saponetti stanno studiando i resti ossei. Gli altri sono due adulti dai venti ai quarant’anni e un ragazzo di quindici anni. L’indagine prosegue, ma nessun segno traumatico è ancor apparso sulle ossa: il che escluderebbe, per ora, una morte violenta, inflitta loro dalla comunità, che pure volle punire questi morti per l’eternità.
Che si trattasse di sepolture di reietti era emerso da vari indizi: non solo l’imposizione dei massi, ma anche la mancanza di qualsiasi elemento a corredo funebre: neppure un frammentino di ceramica fu adagiato nelle tombe. Eppure i loro corpi non furono lasciati insepolti o gettati in mare. Oltre al sasso, i corpi furono coperti da terreno, e le tumulazioni furono sigillate con un lastrone di pietra. È quasi esplicita in un siffatto rituale la volontà di impedire ai defunti un ritorno tra i vivi. E a un fenomeno di "vampirismo" hanno pensato gli antropologi baresi Scattarella e Sublimi. Le deposizioni di Trani, pur essendo uniche in Italia, hanno dei riscontri con altre scoperte dagli archeologi nel nord della Grecia: fu la studiosa greca Anastasia Tsaliki (ora docente in Inghilterra) a rivelare in alcuni congressi di antropologia la permanenza di rituali funebri di questo genere, dall’età neolitica fino ai giorni nostri. Il masso imposto al defunto doveva impedire che, egli tornasse a portare scompiglio nella comunità dei vivi. Naturalmente quando si parla di "vampirismo" non ci si vuol riferire al mondo dell’orrore, come lo intendiamo oggi. E tuttavia questi trapassati dovevano essere affetti da morbi connessi con la manifestazione del sangue, sostengono gli antropologi: quali la fotofobia, la porfiria, la tubercolosi polmonare, la rabbia ecc...
Su quali fonti letterarie o documentali dell’antichità si basi questa convinzione, non è dato ancora sapere con precisione. Ma certo, l’indagine non finisce qui, e di queste sepolture si continuerà a parlare.
Macigni, ritorni dal mondo dei morti… Un nesso non nuovo: il più immediato riscontro che il mito può fornirci - se vogliamo stare al gioco - è quello di un celebre "revenant": Sisifo. L’astuto fondatore di Corinto, che aveva incatenato la Morte, e una volta defunto aveva ingannato anche gli dèi degli inferi ed era tornato a vivere (uno dei rarissimi casi di "zombi" nel mito) fu punito con un masso da sospingere per l’eternità. Perché aveva osato l’impossibile "ritorno".

Giacomo Annibaldis

La coincidenza
Qui Davanzati scrisse nel ‘700 il suo trattato "sopra i vampiri" È solo una coincidenza. Ma è stravagante che si parli di "vampirismo" nell’antica Trani, nella città in cui fu "incubato" - duemilacinquecento anni dopo l’inumazione di questi defunti iapigi - il primo trattato completo sui "revenants": quella "Dissertazione sopra i vampiri" scritta nel 1739-40 da Giuseppe Davanzati, che di Trani era in quegli anni arcivescovo e vi mori nel 1755 (era nato a Bari nel 1665). La "Dissertazione" era un’anatomia completa e illuministica non solo del diffuso fenomeno del vampiro, ma di tutto il luna park dell’orrore. Pubblicata postuma nel 1774 dal nipote Forges Davanzati, è stato riproposta nel 1998 da Besa editrice.

giovedì 17 maggio 2012

Il mistero delle Pleiadi

di Nicoletta Travaglini


L’antropomorfismo delle civiltà antiche portò alla personificazione delle montagne o alture nelle quali si credette di ravvisare divinità e personaggi mitologici dall’aspetto umano.

Anche la Majella, massiccio montuoso dell’Abruzzo, divenne, agli occhi dei suoi primi abitanti, una divinità. Il suo nome deriva dalla Magna Mater italica Maja, che significherebbe, secondo alcuni, cresta,montagna; secondo altri grandezza intesa come forza o potenza; infine taluni hanno creduto di ravvisare in esso la radice del nome “Amazzone”.

In molte leggende nate in Abruzzo si parla di gigantesse guerriere chiamate “Majellane”, che indossavano grossi orecchini di forma circolare e collane costituite da enormi sfere sfaccettate.

Maia o Maja era una di queste donne colossali che insieme al suo unico figlio fuggì dalla Frigia per riparare nel porto di Ortona, dove con il ragazzo ferito in battaglia tra le braccia, in groppa a un veloce destriero,  per sfuggire ai suoi nemici, si rifugiò tra gli anfratti, i boschi e le rocciose vette delle montagne abruzzesi dove, malgrado le sue cure, egli morì di lì a poco. Allora, lo seppellì sulla terza vetta del Gran Sasso andando da Oriente verso Occidente.

La disperazione di Maja fu così forte che nel giro di poco tempo morì anche lei e fu seppellita in montagna che in suo onore fu chiamata Majella, il mausoleo della Magna Mater abruzzese.

In un'altra leggenda si racconta che Maja era la più bella delle sette Pleiadi di cui si innamorò Zeus, fu anche la moglie di Vulcano e la madre di Ermes. Sul Monte Pallano, essa cercò le erbe per curare suo figlio, il quale, nel giro di poco tempo, perì.    

         Di fronte all’imponente profilo del massiccio montuoso della Majella, in Abruzzo e più precisamente, nella provincia di Chieti, si staglia il Monte Pallano; un colle sulla cui sommità svetta il simbolo della società moderna e tecnicizzata:  il ripetitore tv e antenne per la telefonia mobile; poche balze più in basso, però, vi sono i ruderi  di un’ antica città, delimitata da una possente cinta muraria, composta da blocchi di pietra calcarea sovrapposti a secco.

Il Monte Pallano è alto all’incirca 1020 metri ed è avvolto da una fitta vegetazione  che va dalle querce fino ai lecci, passando per  i cerri e faggi.

Il suo territorio è diviso tra il comune di Archi, Atessa, Tornareccio e Bomba. La fauna che popola questo primitivo angolo d’Abruzzo è composto da: volpi, tassi, lepri, qualche cinghiale, ovviamente i serpenti, ramarri e uccelli rapaci notturni e diurni.

Questo luogo funge da spartiacque tra la valle del Sangro e quella dell’Osento. Dalla sommità di questo monte lo sguardo si perde sulle cime dell’Appennino Marchigiano fino a immergersi nelle coste della ex Jugoslavia, sostando sul Faro di Puntapenna a Vasto, e sull’antica Abbazia di Santo Stefano ad Riva Maris, potente monastero distrutto dai mori.

L’aspetto peculiare di Monte Pallano è costituito da mura ciclopiche che si ergono per circa 163 metri in prossimità della vetta, raggiungono l’altezza e lo spessore di circa  5 metri; essi risultano leggermente inclinati rispetto al terreno circostante e recingono solo parte del versante di Tornareccio, poiché il resto è difeso dall’asperità del paesaggio come: canaloni, vegetazione intricata, angusti viottoli, rocce etc.

  In passato, vi si accedeva tramite quattro porte molto strette, di cui solo tre sono, al momento, visibili, di cui, una, ancora in fase di recupero, poiché nel 1971, fu distrutta a causa di un allargamento di una strada rurale. La più grande e la meglio conservata viene chiamata “Porta del Piano”, l’altro ingresso più basso è chiamato “Porta del Monte”; queste anguste aperture,  che hanno la trave principale costituita da un monolite unico, servivano per il passaggio di una persona per volta o di un unico cavaliere, così in caso di attacco nemico,  esse potevano essere facilmente sorvegliato.

Il suo toponimo potrebbe derivare dal nome della dea Pale, protettrice dei pastori a cui si tributavano offerte per propiziare fecondità e salute delle greggi.

La dea Pale, che spesso è  rappresentata anche come un dio, ha molte caratteristiche simili a Eracle – Ercole, questo fatto è suffragato anche da ritrovamenti fatti nella zona di Pallano.  Eracle era l’eroe nazionale greco, ma il suo mito si diffuse anche in Oriente, in Europa e ovviamente preso gli Italici. Egli, come le dee Pale, Bona, Maia e in generale le divinità agresti, erano i numi tutelari dell’agricoltura e di tutto ciò che era legato ad esso, inoltre si invocava questo semidio anche per la stipula di contratti, in quanto egli era anche il protettore della “parola data” e “della buona fede”. Veniva, spesso,  rappresentato con la clava e la pelle leonina addosso, con arco e faretra, e presso gli Italici indossava la corazza; aveva quasi sempre la barba ed era nudo con una possente muscolatura.  Egli nutriva dell’astio nei confronti della dea Maia – Bona, la quale si rifiutò di farlo bere alla sua fonte durante le celebrazioni dei riti annuali ad ella dedicati, ai quali erano interdetti gli uomini. Ercole – Eracle stanco ed affaticato per l’ennesima fatica patita, non si era reso conto della situazione e così da quell’episodio disdicevole che nacque il divieto alle donne di partecipare ai riti in onore dell’eroe.

Il sincretismo cristiano assimilò questo eroe mitologico con Sant’Antonio Abate o del deserto, del fuoco o del porcello con connotazioni prettamente agricole; infatti, ancora oggi, è in uso, presso i contadini invocare il Santo per propiziare la fecondità del bestiame. Molte sono le analogie tra questi due personaggi, per esempio come il suo archetipo, Antonio ha la barba, combatte con le entità infernali ed è nato in oriente. Inoltre nella zona pedemontana di Pallano, all’incrocio delle grandi arterie tratturali del passato, e sull’attuale strada a scorrimento veloce Fondo Valle Sangro,  sorge il Ponte di Sant’Antonio dalla vicina chiesa a lui dedicata.

Tuttavia non si può escludere che il toponimo Pallano potrebbe derivare  dal nome della dea della sapienza Pallade ma non vi sono molto elementi a supporto di tale tesi.

Alcune fonti ritengono, invece, che il nome provenga dal termine  osco  “Pala” che significa rotondità o altura.

I megaliti, comunque, non erano costruzioni obsolete, poiché se ne contano più di duecento solo nella zona dell’alto e basso Sangro; questo complesso di recinzioni, si ritiene, che facessero parte di una più ampia rete di elementi difensivi disseminati in punti strategici, che si tenevano in contatto attraverso segnali ottici notturni e diurni.

Il Monte Pallano, doveva, presumibilmente, essere, per la sua particolare conformazione geomorfologia, un punto strategicamente fondamentale e un sicuro baluardo contro la colonizzazione ellenica, in quanto rappresentava l’ultima montagna prima del mare. 

Questa cinta muraria sono le vestigia di antiche civiltà preistoriche la cui origine si perde nella notte dei tempi, giacché, essa, data intorno al IV - VI secolo a. C., sembra essere stata edificata su elementi preesistenti. 

La presenza  umana, in questi luoghi,  si fa  risalire a circa 20000 anni fa e anche se  rara,  essa era basata su gruppi più o meno organizzati. 

Nel millennio che definiamo come Età del Ferro, o meglio la fine dell’Età del Bronzo e  l’inizio dell’Età del Ferro, che viene circoscritta dal 1020 fino al III secolo a.C., la penisola italiana era costituita da un mosaico di popoli con usi e costumi diversi: l’area settentrionale e meridionale era influenzata dalla cultura ellenico-orientale, il centro, invece, era organizzato in confederazioni su modello centroeuropeo.

Una differenza fondamentale tra queste due aree di influenza era il modo di seppellire i morti; quelle popolazioni  affine alla  cultura greco-orientale, bruciavano il loro defunti e ne conservavano i resti in urne bronzee, invece gli altri li tumulavano in fosse che venivano ricoperte da tumuli di terra.

Nel centro Italia, cioè nella Sabina, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata vi erano stanziati i Sabini, Peligni, Marruccini, Marsi Aequi, Vestini, Pretuzi, Frentani, Pentrini, Carracini, Sabelli, Sanniti e Umbri che venivano genericamente definiti, dall’etimo osco, “Safin” . I Frentani, invece, occupavano la fascia costiera del Molise e la parte centrale litorale dell’attuale territorio chietino. Una popolazione affine ad essi occupava la destra del fiume Sangro ed era chiamata Lucani o Lucanati e risultavano culturalmente analoghi agli altri popoli del centro peninsulare definiti, poi, dai romani come Italici.  

Questi popoli erano il risultato dell’unione tra pacifici agricoltori autoctoni e pastori guerrieri cercatori di metalli provenienti dalla zona egeo – anatolica, apportatori di tecniche superiori come la transumanza, praticamente sconosciuta presso i popoli neolitici.

Nel I millennio a. C. con l’affermarsi della cultura agreste tipica dei Piceni, la pastorizia fu relegata solo alle zone montane interne. In seguito con l’avvento dei bellicosi Sabelli si diede un nuovo impulso alla pastorizia, la quale per varie ragioni si praticò solo verticalmente, cioè dai monti alle valli circostanti; per favorire tale tecnica essi edificarono i Vici, villaggi agro pastorali, situati in pianura erano difesi dagli Oppida, borghi costruiti su alture e protette da possenti mura, simili a quelli del Monte Pallano.

Il primo insediamento di cui abbiamo traccia in questa zona di Pallano è quello adiacente all’incavo naturale chiamato Lago Nero, che oggi risulta completamente asciutto, che si ubicava nei pressi della cima del monte. Questo lago, che si riempiva solo in determinate condizioni climatiche, era considerato dall’uomo di Pallano, come una divinità alla quale erano tributati culti magico-misterici correlate, alla presenza o meno delle sue acque.

In questo contesto mistico legato all’acqua, che i Lucanati probabilmente, celebravano anche i riti della Primavera Sacra o Ver Sacrum, durante la quale un capo, in questo caso il Nerf, principe guerriero con poteri assoluti, compreso quello religioso, consacrava, forse al Lago Nero, tutti gli esseri viventi che sarebbero nati nella primavera successiva, i quali una volta adulti, venivano allontanati dal consorzio civile perché appartenete alla deità e con il compito di colonizzare nuove terre lontane. In realtà molto di coloro che venivano offerti come ex voto risultavano poco gradite alla  comunità; questi si riunivano, spesso, in vere e proprie milizie paramilitari fuorilegge che terrorizzavano la zona e non solo.

Questo culto era connesso anche alla dea Maja o Maia, la Grande Madre, chiamata anche Vergiliae per il suo stretto rapporto con la primavera di cui ne era una epifania.

 Il nome Maia, tra i tanti significati che gli sono stati attribuiti, c’è anche quello di accrescimento, sviluppo e fertilità del suolo, nonché essa da il nome al mese di Maggio, cioè, il mese in cui si risveglia Madre Natura ed è anche quello dedicato alla Vergine Maria.

Maia, come abbiamo detto,  era una gigantessa facente parte delle mitiche amazzoni e secondo vox populi, i Megaliti Palatini sono stati costruiti da uomini mastodontici, i quali risiedevano all’interno delle mura e andavano a lavorare in Puglia.

Essi erano, secondo alcuni miti medioevali abruzzesi, i Paladini o Palladini  di Carlo Magno che la fantasia popolare ha associato ad alcuni scheletri enormi ritrovati nella zona. Intorno al 1954 circa, infatti, si stavano ultimando dei lavori per la costruzione di una strada quando venne alla luce uno scheletro di un uomo alto circa tre metri che calzava dei parastinchi, tra lo stupore generale egli venne tolto dallo scavo, ma siccome i lavori dovevano andare avanti ed il più velocemente possibile, lo scheletro gigante fu occultato e di esso non si seppe più niente.

Questa cinta muraria non aveva comunque, solo valenza difensiva, ma era anche un luogo di culto dedicato, presumibilmente, alla Grande Madre, il quale posto su un monte poteva fungere, forse, da osservatorio astronomico orientato verso le stelle chiamate Pleiadi.

Le Pleiadi fanno parte della costellazione del Toro che nonostante il loro scarso splendore, se comparato alle vicine Orione e Aldebaran, hanno, da sempre,suscitato interesse negli astronomi di tutte le epoche, che hanno visto in esse un qualcosa di misterioso e arcano.

Intorno al 2500 a.C. questo gruppo di stelle, acquistano una notevole importanza presso gli abitanti della Mesopotamia, in quanto il loro sorgere corrispondente all’equinozio primaverile, che coincideva con il loro capodanno. 

I greci le intitolarono il grande anno processionale, consistente in circa 26 mila anni solari, che venne chiamato, appunto, “Il grande anno delle Pleiadi”, che, però, nei secoli successivi prese il nome di “anno platonico”.

Nell’antichità ai marinai, la loro apparizione nel cielo primaverile, cioè il 10 maggio, indicava il periodo dell’anno propizio alla navigazione, dopo il riposo invernale, il quale si concludeva l’11 novembre quando esse divenivano invisibili. Questo lasso di tempo era chiamato dai Celti All Hallows Evens, cioè il tempo in cui i vivi potevano incontrare i morti, che il sincretismo cristiano trasformò nella festa di “Ognisanti”.

In passato, queste stelle erano visibili dalla primavera in poi, oggi, a causa della precessione degli equinozio, sono visibili dalla metà di agosto fino alla fine di marzo.

Nell’antica Grecia si narrava che queste sette sorelle, figlie di Pleione e Atlante, prima della loro mutazione in astri, si erano unite a  dei, partorendo altrettante divinità o eroi, Maja la più vecchia e più bella, giacendo con il padre degli dei generò, Ermes, come fecero le sue sorelle con altrettante divinità maschili, la cui stirpe avrebbe fondato città o imperi, solo Merope essendosi unita ad un mortale aveva interrotto la stirpe divina; perciò nel momento in cui fu trasformata in stella, insieme alle altre, vergognandosi della sua scelta affettiva, si celò agli esseri umani.

Parlando dell’Atlantidi perdute, in un’altra narrazione, non si fa riferimento a Merope, bensì a Elettra, la quale, dopo la sconfitta di Troia, fondata da suo figlio Dardano, in preda alla disperazione si rifugiò nel circolo polare Artico da dove torna ciclicamente con i capelli scompigliati in segno di grande dolore, cioè come una stella cometa.

Alcuni miti narrano che queste siano state trasformate in stelle in segno di riconoscenza per la loro saggezza. 

Un’altra versione del mito si dice che esse piansero così tanto per la sorte del loro padre che per questo divennero stelle.

Infine in uno dei tanti racconti popolari nati intorno alle Pleiadi, si dice che un giorno Pleione e le sue figlie erano in Boezia quando furono aggredite da Orione, il grande cacciatore, che voleva abusare di loro esse, riuscirono miracolosamente a fuggire e stettero nascose per cinque anni finché Zeus non le trasformò in astri del firmamento.

Questo gruppo di stelle in realtà è composto da oltre novecento corpi celesti ma solo sei o sette sono visibili ad occhio nudo esse sono: la più scintillante Alcione, tempesta invernale, Taigete, ninfa della montagna, Asterope, Elettra, ombra,  Maja, fertilità, Merope, mortalità, e Celano, oscurità.

Il loro nome deriverebbe dalla parola “navigare” in quanto indicava il periodo dell’anno più adatto alla navigazione,  potrebbe derivare dalla parola “più” poiché ne sono tante, il loro nome greco, invece,  significa “stormo di colombe” perché sembra che prima di divenire stelle fossero colombe inseguite da Orione.  

L’insediamento di Monte Pallano, come si è detto precedentemente era strategicamente ottimo, per questo esso resistette a lungo alla colonizzazione forzata e violenta dei romani, che con tre Guerre Sociali,  assoggettarono  gli Italici.

Questa romanizzazione brutale e inevitabile portò anche all’urbanizzazione di quelle comunità tribali sparse in tutta la valle del Sangro;  le quali si aggregarono in vere e proprie città, come quella che nacque nella zona di Fonte Benedetti quasi alle falde di Monte Pallano.

Questa città, di cui ignoriamo il nome,  che era forse la Palacinum impressa in alcune monete ritrovate sul posto,  doveva essere molto ricca ed operosa dato che batteva moneta e si trovava in una posizione particolarmente favorevole al controllo dei traffici lungo il braccio  tratturale secondario Centurelle-Montesecco, rispetto al più importante tratturo Aquila – Foggia, oggi in parte inglobata nella strada a scorrimento veloce “Fondo Valle Sangro”.

Nonostante queste buone premesse questa comunità non divenne mai “Municipio Romano” e, così, gradatamente ma, inesorabilmente, la presenza antropica dei luoghi divenne sempre più rara e limitata solo ai Tholos, ripari in pietra usata dai pastori e greggi durante la transumanza.

Durante il Medioevo, molte furono le abbazie e luoghi di culto che si concentrarono a ridosso della zona pedemontana del monte in questione. Per una curiosa coincidenza, forse voluta dai suoi costruttori, lungo la strada che congiunge il mare Adriatico al Monte Pallano vi sono ben tre chiese dedicate a Santo Stefano: la prima Santo Stefano erga mare, nel territorio di Vasto, la seconda Santo Stefano rivum maris a Casalbordino, la terza Santo Stefano in Lucania a Tornareccio. A questa enigmatica casualità si aggiunge anche un destino comune che unì la storia di questi tre luoghi.

E’ notorio che questo protomartire morì lapidato per il suo eccessivo zelo nella diffusione del “Verbo” cristiano. Il suo culto dilagò prepotentemente, dall’oriente fino ad arrivare anche in Abruzzo, poiché esso si intrecciò indissolubilmente con l’agiografia di Santo Stefano in Lucania, parroco della zona Frentana, attuale Lanciano e dintorni, che fu ammazzato barbaramente insieme ai suoi figli dai mori di  Pallonio, despota saraceno che viveva nel castello di Monte Pallano, di cui oggi non si è trovata nessuna traccia se non nei toponimi. I resti del Santo e dei suoi figli furono trovati diversi secoli dopo grazie a un sogno premonitore e in quel luogo fu edificata la chiesa che porta il suo nome. In un'altra versione si dice che Pallonio, da qui, forse, il nome Pallano, avesse imprigionato i cristiani all’interno dei megaliti affinché abiurassero il loro credo, e quelli che non lo fecero furono trucidati.

Queste leggende nacquero in seguito alle scorrerie dei mori che terrorizzavano la costa adriatica e intorno alla prima metà dell’anno Mille, questa chiesa come le altre tre  dedicate al protomartire furono profanate, saccheggiate e distrutte dai saraceni, come in una sorta di invisibile e comune destino che associò questi luoghi di culto.

Santo Stefano in Lucania risorse molto lentamente e faticosamente, Santo Stefano ad rivum maris, invece ebbe un più rapida ripresa ma fu profanato per ben tre volte e  quando nel 1566 Pialy Pascià, mise a ferro e fuoco tutta la riviera adriatica, da Pescara a Termoli, distrusse definitivamente questo luogo sacro, nato su edifici romani preesistenti Egli, dopo aver preso prigionieri i monaci, li sevizio e impiccò sui ruderi della chiesa;  così si compì il tragico destino  della potente abbazia di Santo Stefano ad rivum maris.      

  Sempre durante l’Evo medio si svilupparono molti miti intorno a questa costruzione atipica, che venne chiamata anche con l’appellativo di “ Mura del Diavolo” , perché in alcune leggende si sosteneva che nelle viscere del monte vi fossero seppelliti ingenti tesori, tutti custoditi da demoni, imprigionati in quei luoghi da malefici; questa credenza popolare ricorda quella degli indiani d’America che costruivano le loro “ Ruote della Medicina”, una sorta di cerchi magici che si dipanavano a raggiera lungo i pendii delle alture, al cui interno vi erano rinchiusi entità malvagie. Il tesoro più cospicuo è composto da una gallina tutta d’oro e dai suoi pulcini, che razzolano nei vari cunicoli di Pallano.

Questa leggenda avvalorerebbe la tesi che queste mura megalitiche sarebbero in realtà osservatori astronomici orientati verso le Pleiadi in quanto, esse, erano conosciute dai nostri avi dediti all’agricoltura,  come le “Gallinelle”con le quali si misurava il tempo, così, quando esse sorgevano su Montepallano all’alba, erano circa le quattro di mattina, quando erano visibile sul far della sera erano foriere di pioggia. I francesi chiamano la gallina Alcione e,le sorelle, i pulcini.

Secondo alcune leggende queste mura megalitiche sono state costruite dalle fate; infatti, in molte tradizioni, queste costruzioni sono conosciute come “pietra delle fate”.



Di

Nicoletta  Camilla Travaglini

Fonti:

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TRAVAGLINI, Nicoletta in  Mystero la Rivista del Possibile anno II n. 16 ed. Mondo Ignoto srl. Roma.

TRAVAGLINI, Nicoletta, La Magna Mater, in Graal n. 7 Gennaio/Febbraio 2004.

PERILLI, Vinicio, PERILLI, Enrico Da Freud a Jung a Hillman  edizione Samizar 2003