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venerdì 1 agosto 2014
MEYRINK Le seduzioni del Diavolo
tratto da Il Giornale del 21 novembre 2005
di Marino Freschi
Gustav Meyrink (1868-1932) è una delle personalità più affascinanti della letteratura minore del Novecento, potremmo definirlo come uno dei simboli della Praga Magica, inventata da lui e codificata dal nostro Angelo Maria Ripellino. Già la sua vita è un romanzo magico: nasce a Vienna, figlio di unattrice di straordinaria bellezza e di un padre segreto, forse un ministro, forse un principe regnante. Cresce a Praga allevato dalla nonna materna. Economicamente ben provvisto, è un giovanotto molto intraprendente in affari finanziari e galanti: fonda una banca, ma viene arrestato per presunti illeciti. Laccusa si rivela infondata, giustificata dal risentimento di un marito a ragione geloso. Durante il suo incarceramento, listituto di credito fallisce sulla scia dello scandalo.
Meyrink è distrutto, decide di farla finita, sta per suicidarsi quando dalla fessura delluscio di casa un fattorino getta un volantino di un catalogo di pubblicazioni occultistiche. Per Meyrink è il segno e la svolta per rifondare la propria esistenza. Diventa un esoterista e insieme uno scrittore. Con una scrittura strana e ambivalente. Lamarezza accumulata nelle imperialregie galere gli ispira novelle animate da un irresistibile estro grottesco, che pubblica sul Simplicissimus, la principale rivista satirica della Germania guglielmina, che ospitò anche lesordiente Thomas Mann. Negli anni di guerra si rivela la sua impetuosa vena di romanziere, con una fitta serie di romanzi, tra cui, nel 1915, Il Golem, un intramontabile best-seller, un autentico capolavoro della narrativa fantastica, un racconto che ha definitivamente consolidato la svolta espressionistica in letteratura e nel cinema con lomonimo film del 1920 di Paul Wegener.
Meyrink aveva lasciato Praga per stabilirsi in un ameno paesetto bavarese, ma la città boema rivive sempre più intensamente nella sua scrittura rapida, straripante, espressionistica, coinvolgente, che diviene suggestiva e trascinante fino a elevarsi a una dimensione magica, fortemente pervasa da una cultura occultistica, che lui praticava e predicava con successo e convinzione, divenendo uno dei principali esponenti dellesoterismo mitteleuropeo, tradotto e introdotto in Italia da Julius Evola. Lattività pubblicistica ed editoriale è così frenetica che il romanzo Langelo della finestra dOccidente, del 1927 - ora ripubblicato da Adelphi (pagg. 459, euro 16) in una nuova e bella traduzione di Dora Sassi e Giusi Drago - è scritto almeno a quattro mani. Infatti gran parte del racconto è opera - accertata dalla critica - di Alfred Schmitt-Noerr, uno studioso affine spiritualmente e vicino di casa di Meyrink.
Il romanzo risulta tutto sommato unitario e linteresse narrativo regge per tutto il racconto. Linvenzione del romanzo è giocata su due dimensioni temporali: quella di Sir John Dee, matematico, astrologo e alchimista dellInghilterra elisabettiana e della Praga di Rodolfo II, e quella contemporanea dello scrittore. La trama duplice è unificata dallesperienza della reincarnazione e di una sofferta avventura iniziatica, cui è destinata la stirpe di John Dee, per cui il romanzo è un esempio - didattico - sulle insidie che minacciano leletto sulla via del risveglio. Il tema del tempo percorre lintero racconto, mescolando con intrigante sapienza narrativa passato e presente, come riconosce il protagonista, scoprendo di essere anche lo studioso elisabettiano: «Il passato è divenuto presente! Il presente è il sommarsi di tutto il passato in un attimo di consapevolezza, oppure è nulla. E poiché questa consapevolezza - questo ricordo - si desta ogni qualvolta lo spirito la chiama, ecco che leterno presente vive nella corrente del tempo». Certo, un mito, ma anche una forte intuizione sul senso dellindividuo, così stretto nelle sbarre di unesistenza singola.
Dopo tanto Signore degli Anelli e Harry Potter - anche questultima opera molto meno «ingenua» di quanto si possa credere, tributaria di segrete suggestioni culturali - la prospettiva magica è ormai acquisita, anche se in Meyrink veniva sublimata nelle figure tradizionali della cultura esoterica del Primo Novecento - quella di Guénon e di Evola -, con il principio demonico della Donna, che è metafisicamente il Due, Satana, la corrosione del nucleo aureo delliniziato, non ancora assurto alla dignità delladepto, che ha realizzato pienamente la sua vocazione esoterica. Dunque, Langelo della finestra dOccidente è romanzo storico e insieme racconto fantastico, ma anche esempio stravagante del romanzo diniziazione, costellato di prove e di incontri fatali, che sintrecciano nella trama quotidiana, che viene continuamente sollevata nel misterioso firmamento dello scontro tra le potenze solari della salvazione e quelle notturne e demoniache della disintegrazione. E come spesso avviene le figure del male sono le più vive, talvolta perfino più simpatiche - come lantiquario moscovita Lipotin del Golem, anche lui reincarnazione di tutti i suoi antenati, ovviamente tutti fedeli servitori dello zar.
Cè poi la seducente principessa caucasica Assja Chotokalungin, che non può non ricordare unaltra femme fatale della letteratura tedesca di quegli anni: Clavdia Chauchat, la bella russa caucasica della Montagna incantata. E questi due romanzi, sorti quasi contemporaneamente, sono a modo loro due racconti ditinerari iniziatici, come ebbe a riconoscere Mann in una celebre conferenza a Princeton. Ma se la magica montagna di Hans Castorp è velata da unatmosfera di ambiguità e dindeterminatezza, gli scenari disegnati da Meyrink o dalla «ditta» Meyrink, più ingenui e certamente più dozzinali, peccano di un didascalismo propagandistico. Eppure queste lacune sono anche gli ingredienti che fanno meglio risaltare la cultura esoterica dello scrittore. Una cultura fantastica che aveva profondamente influenzato gli scrittori praghesi, come Max Brod e perfino Kafka, che nel Castello, in assoluta autonomia, scrive un racconto che sfiora spesso le affascinanti figure della letteratura diniziazione. Meyrink rimane senza dubbio uno scrittore minore quando gli scrittori maggiori si chiamavano Thomas Mann e Franz Kafka.
giovedì 31 luglio 2014
Nei falò di San Giovanni il segno del sole
tratto da Il Giornala del 9 giugno 2006
di redazione
Notte di S. Giovanni: i falò, antica memoria di un passato precristiano, illuminano la notte. Ma questo è noto a tutti: ciò che, forse, è meno noto, è che la natività di San Giovanni Battista viene celebrata, con apposite cerimonie, dalle Logge massoniche di qualsivoglia Obbedienza. Non solo: la Massoneria celebra - e sempre in occasione del Solstizio (questa volta l'invernale)- anche San Giovanni Evangelista, Logge di San Giovanni sono definite quelle dei primi tre gradi massonici (quelli definiti Massoneria Azzurra) e, di nuovo, i due San Giovanni sono i santi patroni delle antiche confraternite operative dei «muratori» inglesi. Ma poiché la Massoneria non è una religione ma un'Istituzione Iniziatica che, al di là e al di sopra delle religioni storiche, pratica l'esoterismo nel solco della Tradizione, il significato di tale pratica non può sicuramente quello specificamente e riduttivamente cristiano: per comprenderne il motivo bisogna guardare, necessariamente, al simbolismo solstiziale nella sua globalità.
Il Solstizio d'Estate è il momento in cui il sole comincia a sorgere sempre più a sud sull'orizzonte (e, analogamente, col Solstizio d'Inverno, sempre più a nord), determinando l'accorciarsi delle giornate: il trionfo del Sole, quindi, è solo momentaneo, perché nel mondo dell'impermanenza questo prelude, inevitabilmente, alla sua discesa sino ad arrivare all'altro culmine, quello invernale, in cui finalmente può risorgere.
Come ha osservato quel Maestro della Tradizione Integrale che è René Guénon, ciò che ha raggiunto il suo massimo può ormai solo decrescere, e ciò che è giunto al suo minimo può solo crescere: per questo, il Solstizio d'Estate segna l'inizio della metà discendente dell'anno, il Solstizio d'Inverno quello della metà ascendente.
I due Solstizi, quindi, sono complementari e rappresentano i due punti estremi dell'anno solare: non deve trarci in inganno il fatto che non coincidano esattamente con i solstizi (i due Santi vengono festeggiati dalla Chiesa latina il 24 giugno ed il 27 dicembre), perché siamo comunque in presenza di un periodo di tempo sacro che permette una dilatazione simbolica dell'evento.
Ma se teniamo presente che nel mondo greco i due solstizi venivano chiamati «porte», il simbolismo solstiziale diventa molto più chiaro: non siamo in presenza di quella religione cosmica inventata dai positivisti occidentali, ma al cospetto di una visione metafisica di tutto rispetto. Il solstizio d'estate rappresenta la «porta degli uomini» e quello invernale la «porta degli dèi»: sono le aperture che collegano i mondi, il simbolo del passaggio tra il mondo terreno del divenire e quello celeste, caratterizzato dall'eternità e dall'aspazialità. Ora, se teniamo presente che il mondo degli antenati e quello degli dèi, nel simbolismo cosmico, non sono posti esattamente a sud e a nord, ma a sud-ovest e nord-est, comprendiamo perché la ricorrenza dei due San Giovanni non corrisponda esattamente a quelle solstiziali.
Tradotto nel simbolismo proprio dell'esoterismo cristiano, San Giovanni Battista ha la funzione di introdurre gli essere nel cosmo e, quindi, di proteggere e preservare l'universo: ecco il perché dei riti, come i falò o le ruote infuocate che, richiamando il simbolismo solare, hanno la funzione di allontanare il male. Ma il cosmo, nel linguaggio simbolico, viene spesso rappresentato dalla caverna, cosa che, nel linguaggio massonico, corrisponde alla Loggia: la volta stellata, il simbolismo assiale Oriente-Occidente e Nord-Sud, rendono perfettamente l'immagine di un «loka», cioè di un universo.
Celebrando San Giovanni, la Massoneria non si limita a rievocare le tradizioni pre-cristiane di un periodico rinnovamento cosmico, ma riesce a riportare la tradizione religiosa cristiana all'interno di un ambito sapienziale di più vasta portata: e, così facendo, il Mito e il Simbolo, ancora una volta, dimostrano così la loro vitalità e la loro capacità di saper parlare, anche in questi tempi, all'uomo di oggi.
di redazione
Notte di S. Giovanni: i falò, antica memoria di un passato precristiano, illuminano la notte. Ma questo è noto a tutti: ciò che, forse, è meno noto, è che la natività di San Giovanni Battista viene celebrata, con apposite cerimonie, dalle Logge massoniche di qualsivoglia Obbedienza. Non solo: la Massoneria celebra - e sempre in occasione del Solstizio (questa volta l'invernale)- anche San Giovanni Evangelista, Logge di San Giovanni sono definite quelle dei primi tre gradi massonici (quelli definiti Massoneria Azzurra) e, di nuovo, i due San Giovanni sono i santi patroni delle antiche confraternite operative dei «muratori» inglesi. Ma poiché la Massoneria non è una religione ma un'Istituzione Iniziatica che, al di là e al di sopra delle religioni storiche, pratica l'esoterismo nel solco della Tradizione, il significato di tale pratica non può sicuramente quello specificamente e riduttivamente cristiano: per comprenderne il motivo bisogna guardare, necessariamente, al simbolismo solstiziale nella sua globalità.
Il Solstizio d'Estate è il momento in cui il sole comincia a sorgere sempre più a sud sull'orizzonte (e, analogamente, col Solstizio d'Inverno, sempre più a nord), determinando l'accorciarsi delle giornate: il trionfo del Sole, quindi, è solo momentaneo, perché nel mondo dell'impermanenza questo prelude, inevitabilmente, alla sua discesa sino ad arrivare all'altro culmine, quello invernale, in cui finalmente può risorgere.
Come ha osservato quel Maestro della Tradizione Integrale che è René Guénon, ciò che ha raggiunto il suo massimo può ormai solo decrescere, e ciò che è giunto al suo minimo può solo crescere: per questo, il Solstizio d'Estate segna l'inizio della metà discendente dell'anno, il Solstizio d'Inverno quello della metà ascendente.
I due Solstizi, quindi, sono complementari e rappresentano i due punti estremi dell'anno solare: non deve trarci in inganno il fatto che non coincidano esattamente con i solstizi (i due Santi vengono festeggiati dalla Chiesa latina il 24 giugno ed il 27 dicembre), perché siamo comunque in presenza di un periodo di tempo sacro che permette una dilatazione simbolica dell'evento.
Ma se teniamo presente che nel mondo greco i due solstizi venivano chiamati «porte», il simbolismo solstiziale diventa molto più chiaro: non siamo in presenza di quella religione cosmica inventata dai positivisti occidentali, ma al cospetto di una visione metafisica di tutto rispetto. Il solstizio d'estate rappresenta la «porta degli uomini» e quello invernale la «porta degli dèi»: sono le aperture che collegano i mondi, il simbolo del passaggio tra il mondo terreno del divenire e quello celeste, caratterizzato dall'eternità e dall'aspazialità. Ora, se teniamo presente che il mondo degli antenati e quello degli dèi, nel simbolismo cosmico, non sono posti esattamente a sud e a nord, ma a sud-ovest e nord-est, comprendiamo perché la ricorrenza dei due San Giovanni non corrisponda esattamente a quelle solstiziali.
Tradotto nel simbolismo proprio dell'esoterismo cristiano, San Giovanni Battista ha la funzione di introdurre gli essere nel cosmo e, quindi, di proteggere e preservare l'universo: ecco il perché dei riti, come i falò o le ruote infuocate che, richiamando il simbolismo solare, hanno la funzione di allontanare il male. Ma il cosmo, nel linguaggio simbolico, viene spesso rappresentato dalla caverna, cosa che, nel linguaggio massonico, corrisponde alla Loggia: la volta stellata, il simbolismo assiale Oriente-Occidente e Nord-Sud, rendono perfettamente l'immagine di un «loka», cioè di un universo.
Celebrando San Giovanni, la Massoneria non si limita a rievocare le tradizioni pre-cristiane di un periodico rinnovamento cosmico, ma riesce a riportare la tradizione religiosa cristiana all'interno di un ambito sapienziale di più vasta portata: e, così facendo, il Mito e il Simbolo, ancora una volta, dimostrano così la loro vitalità e la loro capacità di saper parlare, anche in questi tempi, all'uomo di oggi.
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mercoledì 30 luglio 2014
Guénon l'intransigente L'autorità dello spirito supera il potere politico
tratto da Il Giornale del 21 luglio 2014
di Marcello Veneziani
Rigoroso e matematico: così l'interprete della Tradizione critica la "falsa unità" delle nazioni nate per sete di dominio temporale
Se cercate un pensiero metafisico assoluto che non si contamina con la storia e col proprio tempo, che non scende a patti, non indulge sul piano personale ma resta integro e puro nei cieli della Tradizione, siete sulla via di René Guénon.
Rigoroso e preciso, matematico non solo nelle sue certezze ma anche nei suoi studi, che non completò (per poi laurearsi in filosofia e insegnare). Come accadde a Julius Evola, ingegnere mancato, e a Pavel Florenskij che abbracciò studi matematici, scientifici e umanistici con rigoroso ardore. Guénon torna ora in libreria con un suo testo del '29 che pubblicò in Italia Alfredo Cattabiani da Rusconi e che more solito Adelphi evita di citare nella riedizione. È un testo all'apparenza metapolitico, Autorità spirituale e potere temporale (pp.140, euro 12), che conferma la coerenza dei temi, il nitore dello stile, l'intransigenza antimoderna di Guénon. E anche, va detto, la solita, puntigliosa precisione espressa in reiterate precisazioni, che denuncia da un lato confusioni, malintesi e contraffazioni delle idee tradizionali e dall'altro ripete fino alla noia la sua estraneità a polemiche di scuola e di partito, appartenenze e rapporti col proprio tempo. Guénon insiste sulla sua indipendenza totale che però non coincide con il suo assoluto individualismo: anche quando rivendica la sua estraneità a ogni filone e a ogni legame col suo tempo, Guénon non parla mai a titolo personale ma sempre in nome d'una Tradizione metafisica rappresentata da pochi eletti. Sono le élites intellettuali, come le chiama Guénon, ma non c'entrano con l'uso corrente del termine intellettuale. Qui intellettuale sta per ispirazione dall'alto ed evoca l'uso dantesco (è notevole la sua interpretazione esoterica di Dante). La vera intuizione intellettuale per Guénon è del tutto perduta nell'epoca moderna. Brilla tra gli invisibili.
Quali sono i temi di questo testo? Innanzitutto la distinzione già presente nel titolo tra autorità e potere: la prima si addice al regno spirituale, la seconda al regno terreno e temporale. Quindi la distinzione tra religioso e sacro: la religione appartiene alla sfera del sacro ma non la esaurisce; il sacro si riferisce a un sacerdozio più ampio e a una conoscenza più alta. Non a caso, Guénon fondò da giovane una rivista, La Gnosi. A quale Tradizione Guénon si riferisce? A La Tradizione in sé, che è unica, sovrastante e permea le grandi tradizioni, sorge in Oriente, si manifesta nel sufismo, l'esoterismo islamico, e in Occidente diviene visione della vita e organizzazione gerarchica fino al Medioevo, per poi perdersi nella modernità. Come si accede alla Tradizione nell'epoca che ne è priva? Tramite il cammino iniziatico con i Maestri sulle Vie della Tradizione. Guénon da un verso percorre un itinerario che va dall'ordine martinista e dalla scuola ermetica alla Massoneria esoterica e alla Chiesa gnostica, in cui assume il nome di Palingenius - traduzione greca del suo nome - René, Ri-nato- che indica la rinascita. (Si veda La vita semplice di Guénon di Paul Chacornac, ed. Luni). Dall'altro si converte poi all'Islam e dopo aver scritto questo libro, nel 1930 va a vivere fino alla morte al Cairo, si risposa con la figlia di uno sceicco - avendo perso la prima moglie francese - e ha quattro figli, di cui uno postumo.
Rispetto al cristianesimo, Guénon criticò il protestantesimo che volta le spalle alla Tradizione, insedia il primato della coscienza individuale sul rito ed è il preambolo alle Chiese nazionali e poi alle nazioni, che per Guénon sono «false unità» che si sostituiscono per sete di dominio temporale alla «vera unità». Guénon ammira invece il cattolicesimo medievale e i suoi estremi bagliori. Ma aggiunge una considerazione importante: quando la Tradizione perde lo spirito della dottrina, meglio affidarsi alla lettera, alle sue forme esteriori, piuttosto che allontanarsi del tutto e definitivamente. Meglio i residui di verità perdute o dimenticate (le superstizioni di cui diceva Vico) piuttosto che il nulla. «La minima particella di spirituale sarà ancora incomparabilmente superiore a tutto ciò che appartiene all'ordine spirituale». Ma Guénon non applica lo stesso criterio nel giudicare il folclore, le usanze, le tradizioni umanistiche, nazionali e popolari che non considera estremi lasciti della tradizione ma segni negativi di una controtradizione. Nessuno, dice, può giudicare «una tradizione al lume di un'altra tradizione»: eppure Guénon lasciò la tradizione cristiana in cui nacque e fu battezzato e si convertì all'Islam. Questo contraddice l'idea stessa di Tradizione ed è più consono a una scelta autonoma di tipo individuale. Ma per Guénon non si può legare la sfera del sacro a un vincolo di tipo terreno, temporale e personale. Dense e dantesche sono le pagine sul paradiso terrestre e il paradiso celeste, il primo legato alla virtù e alla beatitudine in questa vita, il secondo invece legato alla visione divina e alla beatitudine della vita eterna. Alla prima si dedica l'Imperatore, il Princeps romano, alla seconda il Pontifex, che genera ponti tra l'umano e il divino. Il Pontifex maximus in Guénon è figura chiave della Tradizione: nell'iconografia è portatore di chiave, come al Sovrano si addice lo scettro. Il Papa è l'estremo erede, almeno nella lettera, di quella definizione e del suo ruolo pontificale. Guénon condanna «la superstizione dei valori» che sarebbero una contraffazione dei principi. Sui valori Heidegger e Schmitt arrivarono alle stesse conclusioni da altri percorsi. Per la dottrina orientale ripresa da Guénon «la giustizia è costituita dalla somma di tutte le ingiustizie, e nell'ordine totale ogni disordine è compensato da un altro disordine». Quasi una vichiana eterogenesi dei fini, direbbe Augusto del Noce. Come altri autori della Tradizione, Guénon sposa la dottrina dei cicli cosmici, dall'età dell'oro all'età oscura; una visione che ha senso se sottolinea la caduta dal piano metafisico e trascendente al piano profano e discendente. Ma se applicata al corso storico, si riduce a una visione regressiva, degenerativa e involuzionista della storia, speculare allo schema progressista e ai suoi limiti.
Chi incontrò Guénon a Villa Fatma, dove visse per anni, lo ricorda come un uomo esile, «fragile come un'arpa», con gli occhi di un azzurro intenso in un viso lungo; silenzioso, affabile e gentile, vestito con la galabiah e le babbucce, così trasparente che «sembrava avesse già raggiunto l'altra riva». Quando stava per morire, disse di lasciare intatto il suo studio perché lui sarebbe rimasto presente benché invisibile. Poi si raddrizzò dal letto e vide la sua anima prendere il volo.
di Marcello Veneziani
Rigoroso e matematico: così l'interprete della Tradizione critica la "falsa unità" delle nazioni nate per sete di dominio temporale
Rigoroso e preciso, matematico non solo nelle sue certezze ma anche nei suoi studi, che non completò (per poi laurearsi in filosofia e insegnare). Come accadde a Julius Evola, ingegnere mancato, e a Pavel Florenskij che abbracciò studi matematici, scientifici e umanistici con rigoroso ardore. Guénon torna ora in libreria con un suo testo del '29 che pubblicò in Italia Alfredo Cattabiani da Rusconi e che more solito Adelphi evita di citare nella riedizione. È un testo all'apparenza metapolitico, Autorità spirituale e potere temporale (pp.140, euro 12), che conferma la coerenza dei temi, il nitore dello stile, l'intransigenza antimoderna di Guénon. E anche, va detto, la solita, puntigliosa precisione espressa in reiterate precisazioni, che denuncia da un lato confusioni, malintesi e contraffazioni delle idee tradizionali e dall'altro ripete fino alla noia la sua estraneità a polemiche di scuola e di partito, appartenenze e rapporti col proprio tempo. Guénon insiste sulla sua indipendenza totale che però non coincide con il suo assoluto individualismo: anche quando rivendica la sua estraneità a ogni filone e a ogni legame col suo tempo, Guénon non parla mai a titolo personale ma sempre in nome d'una Tradizione metafisica rappresentata da pochi eletti. Sono le élites intellettuali, come le chiama Guénon, ma non c'entrano con l'uso corrente del termine intellettuale. Qui intellettuale sta per ispirazione dall'alto ed evoca l'uso dantesco (è notevole la sua interpretazione esoterica di Dante). La vera intuizione intellettuale per Guénon è del tutto perduta nell'epoca moderna. Brilla tra gli invisibili.
Quali sono i temi di questo testo? Innanzitutto la distinzione già presente nel titolo tra autorità e potere: la prima si addice al regno spirituale, la seconda al regno terreno e temporale. Quindi la distinzione tra religioso e sacro: la religione appartiene alla sfera del sacro ma non la esaurisce; il sacro si riferisce a un sacerdozio più ampio e a una conoscenza più alta. Non a caso, Guénon fondò da giovane una rivista, La Gnosi. A quale Tradizione Guénon si riferisce? A La Tradizione in sé, che è unica, sovrastante e permea le grandi tradizioni, sorge in Oriente, si manifesta nel sufismo, l'esoterismo islamico, e in Occidente diviene visione della vita e organizzazione gerarchica fino al Medioevo, per poi perdersi nella modernità. Come si accede alla Tradizione nell'epoca che ne è priva? Tramite il cammino iniziatico con i Maestri sulle Vie della Tradizione. Guénon da un verso percorre un itinerario che va dall'ordine martinista e dalla scuola ermetica alla Massoneria esoterica e alla Chiesa gnostica, in cui assume il nome di Palingenius - traduzione greca del suo nome - René, Ri-nato- che indica la rinascita. (Si veda La vita semplice di Guénon di Paul Chacornac, ed. Luni). Dall'altro si converte poi all'Islam e dopo aver scritto questo libro, nel 1930 va a vivere fino alla morte al Cairo, si risposa con la figlia di uno sceicco - avendo perso la prima moglie francese - e ha quattro figli, di cui uno postumo.
Rispetto al cristianesimo, Guénon criticò il protestantesimo che volta le spalle alla Tradizione, insedia il primato della coscienza individuale sul rito ed è il preambolo alle Chiese nazionali e poi alle nazioni, che per Guénon sono «false unità» che si sostituiscono per sete di dominio temporale alla «vera unità». Guénon ammira invece il cattolicesimo medievale e i suoi estremi bagliori. Ma aggiunge una considerazione importante: quando la Tradizione perde lo spirito della dottrina, meglio affidarsi alla lettera, alle sue forme esteriori, piuttosto che allontanarsi del tutto e definitivamente. Meglio i residui di verità perdute o dimenticate (le superstizioni di cui diceva Vico) piuttosto che il nulla. «La minima particella di spirituale sarà ancora incomparabilmente superiore a tutto ciò che appartiene all'ordine spirituale». Ma Guénon non applica lo stesso criterio nel giudicare il folclore, le usanze, le tradizioni umanistiche, nazionali e popolari che non considera estremi lasciti della tradizione ma segni negativi di una controtradizione. Nessuno, dice, può giudicare «una tradizione al lume di un'altra tradizione»: eppure Guénon lasciò la tradizione cristiana in cui nacque e fu battezzato e si convertì all'Islam. Questo contraddice l'idea stessa di Tradizione ed è più consono a una scelta autonoma di tipo individuale. Ma per Guénon non si può legare la sfera del sacro a un vincolo di tipo terreno, temporale e personale. Dense e dantesche sono le pagine sul paradiso terrestre e il paradiso celeste, il primo legato alla virtù e alla beatitudine in questa vita, il secondo invece legato alla visione divina e alla beatitudine della vita eterna. Alla prima si dedica l'Imperatore, il Princeps romano, alla seconda il Pontifex, che genera ponti tra l'umano e il divino. Il Pontifex maximus in Guénon è figura chiave della Tradizione: nell'iconografia è portatore di chiave, come al Sovrano si addice lo scettro. Il Papa è l'estremo erede, almeno nella lettera, di quella definizione e del suo ruolo pontificale. Guénon condanna «la superstizione dei valori» che sarebbero una contraffazione dei principi. Sui valori Heidegger e Schmitt arrivarono alle stesse conclusioni da altri percorsi. Per la dottrina orientale ripresa da Guénon «la giustizia è costituita dalla somma di tutte le ingiustizie, e nell'ordine totale ogni disordine è compensato da un altro disordine». Quasi una vichiana eterogenesi dei fini, direbbe Augusto del Noce. Come altri autori della Tradizione, Guénon sposa la dottrina dei cicli cosmici, dall'età dell'oro all'età oscura; una visione che ha senso se sottolinea la caduta dal piano metafisico e trascendente al piano profano e discendente. Ma se applicata al corso storico, si riduce a una visione regressiva, degenerativa e involuzionista della storia, speculare allo schema progressista e ai suoi limiti.
Chi incontrò Guénon a Villa Fatma, dove visse per anni, lo ricorda come un uomo esile, «fragile come un'arpa», con gli occhi di un azzurro intenso in un viso lungo; silenzioso, affabile e gentile, vestito con la galabiah e le babbucce, così trasparente che «sembrava avesse già raggiunto l'altra riva». Quando stava per morire, disse di lasciare intatto il suo studio perché lui sarebbe rimasto presente benché invisibile. Poi si raddrizzò dal letto e vide la sua anima prendere il volo.
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lunedì 14 luglio 2014
Un italiano sconosciuto precursore di Einstein
pubblicato su Mystero n. 56, gennaio 2005 (rivista edita da Luigi Cozzi)
Ovvero E=mc2,
come dirà dopo Albert Einstein. Dopo? Ebbene sì, non è una frase di Albert Einstein,
ma di un suo oscuro precursore. Come si legge dal passo sopra riportato,
l’equivalenza fra massa ed energia è chiaramente formulata nei termini matematici
esatti che saranno poi di Einstein. Questo frase fa parte di un articolo apparso
nel febbraio del 1904 negli atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere
ed Arti ed intitolato “Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo”. L’articolo
porta in allegato una lettera di complimenti del famoso astronomo Schiaparelli.
di Vito Foschi
«La materia di un
corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata
dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello
spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [...] La formula mv²
ci dà la forza viva e la formula mv²/8338 ci dà, espressa in calorie, tale
energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la
velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si
ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè
oltre dieci milioni di milioni».
Introduzione
![]() |
Albert Einstein - Foto da Wikipedia |
L’articolo, in cui
Einstein presenta la sua famosa formula è presentato alla rivista Annalen der Physik nel
settembre 1905, quindi più di un anno e mezzo dopo la pubblicazione dell’“Ipotesi
dell'etere nella vita dell'universo”.
Vi chiederete chi è l’autore di questa opera che sembra anticipare
e forse ispirare il famoso scienziato tedesco? L’autore è uno sconosciuto
agronomo vicentino: Olinto De Pretto.
Esaminiamo i particolari della vicenda.
L’articolo di Einstein
L’articolo in cui Einstein presenta la formula
dell’equivalenza fra massa ed energia segue di qualche mese quello sulla teoria
della relatività. Potrebbe sembrarne una diretta conseguenza, ma in realtà non
è così. L’idea è in un certo qual modo indipendente, anche se si inserisce
perfettamente nell’ipotesi della relatività. Idee similari erano state proposte
da alcuni scienziati, tra cui Poincaré che aveva ipotizzato che l’energia
elettromagnetica potesse essere considerata come «"un fluide fictif", la cui massa è uguale al rapporto tra
l'energia e il quadrato della velocità della luce». L’ipotesi di Einstein si
poteva tranquillamente inserire in questa corrente di pensiero più che essere
una conseguenza della teoria della relatività ristretta. Oltre a ciò,
l’articolo di Einstein presenta un’ipotesi ristretta, rispetto alla formulazione
generale di Olinto De Pretto, riferendosi al caso specifico di un corpo
radiante. Infine, il titolo dell’articolo presenta un punto interrogativo come
se si volesse rispondere ad un quesito già posto da altri. Questo, insieme alla
possibilità che il giovane fisico tedesco potesse essere a conoscenza del
lavoro di De Pretto, porta ad ipotizzare che si sia potuto ispirare a
quest’ultimo. I legami con
l’Italia del giovane Einstein sono stato importanti dato che la sua famiglia vi si trasferì definitivamente nel 1894 e che
conosceva l’italiano tanto bene da tenere delle conferenze nella nostra lingua.
Purtroppo non è facilmente dimostrabile che lo scienziato fosse a conoscenza
del lavoro di De Pretto.
Olinto De Pretto, chi era costui?
Olinto De Pretto nacque in provincia di Vicenza il 26 aprile
del 1857, sesto di sette fratelli e si laureò in Agraria presso l’Università di
Milano per poi lavorare, subito dopo, alla scuola Superiore di agricoltura come
assistente. Lasciato il lavoro all’università nel 1886, Olinto De Pretto
assunse la carica di direttore amministrativo della Fonderia De Pretto, costituita
da suoi famigliari, che lasciò nel 1920, quando l’azienda si fuse con la
svizzera Escher Wyss. Accanto a questa attività si occupò di fondare scuole
tecniche professionali e di varie società industriali. La sua vita si concluse
tragicamente il 16 marzo 1921 quando fu ucciso da una donna che lo accusava di
essere stato la causa del mancato successo del marito, proprietario di una cava
di lignite. In quello stesso anno usciva alle stampe il libro di De Pretto “Lo
spirito dell’universo” dove riprendeva i temi della suo lavoro del 1904.
In questo suo libro potrebbe trovarsi una rivendicazione
della primogenitura dell’idea dell’equivalenza fra massa ed energia, ma non se
ne trova traccia. In realtà, le idee di De Pretto e di Einstein avevano in
comune solo l’enunciato dell’equivalenza fra massa ed energia mentre per il
resto differivano totalmente. Le idee di De Pretto si basavano sul concetto di
etere e negavano il valore limite della velocità della limite, anzi
presupponevano un valore di propagazione dell’attrazione gravitazionale
infinito, idee totalmente opposte a quelle einsteiniane. Probabilmente per
questo, l’agronomo vicentino nel suo libro non incluse idee che inficiavano le
sue teorie.
Il collegamento
Come accennato la famiglia di Einstein si stabilì in Italia
dal 1894. Il padre dello scienziato si occupava dell’installazione della luce
pubblica in alcuni comuni del Veneto e proprio la Fonderia De Pretto era
una delle poche aziende capaci di costruire turbine necessarie per la
produzione di elettricità. Inoltre i De Pretto compivano frequenti viaggi in
Svizzera per motivi legati a brevetti internazionali. Questa potrebbe essere la
via con cui Einstein venne a conoscenza della teoria di De Pretto, ma potrebbe
esisterne un’altra, indiretta, ma più interessante.
“A conclusione osservo che durante il lavoro ai problemi qui
trattati il mio e collega M. Besso mi stette fedelmente a fianco e che io devo
allo stesso parecchi preziosi incitamenti”.
Questa frase si trova nell’articolo del 1905 in cui Einstein pone
le basi della relatività ed è tanto importante perché nell’articolo manca
totalmente la bibliografia.
L’amicizia fra Michele Besso ed Albert Einstein nacque al
Politecnico di Zurigo e durò tutta la vita. Besso nacque nel 1873 a Trieste da una
famiglia piuttosto agiata, divenuto ingegnere, lavorò presso la “Società per lo
sviluppo delle Industrie elettriche in Italia” per poi lasciarla per andare a
lavorare nell’ormai storico Ufficio Brevetti di Berna, dietro insistenza
dell’amico tedesco. Di questo periodo non esiste documentazione scritta dato il
contatto diretto dei due amici. Besso era dotato di profonda curiosità
scientifica in vari campi ed aveva mantenuto legami con la famiglia in Italia,
ma circostanza notevole, un suo zio con cui aveva un rapporto piuttosto
stretto, Beniamino Besso, era Direttore delle Ferrovie Sarde e risiedeva a
Roma, ed un fratello di Olinto De Pretto, Augusto, faceva parte del Reale
Ispettorato delle Strade Ferrate, e per motivi di lavoro soggiornava spesso a
Roma. Si può ipotizzare che Augusto De Pretto, abbia potuto parlare delle idee
del fratello Olinto ai suoi colleghi, tra cui Beniamino Besso e questi ne abbia
potuto accennare al nipote Michele con cui aveva un fitto rapporto epistolare.
Certo, prove documentabili non ne esistono, ma esiste una concreta possibilità
di un contatto, seppur indiretto, fra l’agronomo vicentino e lo scienziato
tedesco.
Del fatto ne avrebbe potuto parlare lo stesso Einstein
citandolo insieme ai tanti aneddoti della sua vita, raccontando di come aveva
trasformato un’idea folle di uno sconosciuto nella più grande scoperta del
secolo. Ma il fatto che non ne parla non significa nulla perché spesso ciò che
ricordiamo del nostro passato è una ricostruzione a posteriori. A questo
proposito riporto un passo dell’articolo
“I sentieri dell’innovazione” di Armando Massarenti pubblicato su “Il Sole 24
Ore” del 19 settembre 2004:
«…gli storici della
scienza sanno che i racconti individuali degli scienziati vanno sempre presi
con molta cautela. In perfetta buona fede essi tendono a dare ricostruzioni
mitiche delle loro scoperte e dei processi che vi hanno condotto. Esemplare è
il caso di Einstein che era assolutamente convinto di aver elaborato la teoria
della relatività ristretta in risposta all’esperimento di Michelson e Morley
sul trascinamento dell’etere. In realtà esso era sì stato svolto alcuni anni
prima, ma Einstein ebbe modo di conoscerlo solo dopo l’elaborazione della
propria teoria. A convincerlo di ciò è stata la puntuale ricostruzione degli
eventi fatta da Gerard Holton.
Ma non si può
biasimare Einstein per aver creduto in una versione mitica ed edificante degli
eventi, peraltro tuttora riprodotta in buona parte dei manuali di fisica».
Conclusioni
Dell’intricata ed affascinante faccenda ne parla
diffusamente il prof. Bartocci dell’Università di Perugia, alle cui ricerche
facciamo riferimento, nel suo libro “Albert Einstein e Olinto De Pretto: La
vera storia della formula più famosa del mondo” (Bologna, Andromeda, 1999),
opera quasi introvabile anche perché nessun grande editore rischierebbe su un
libro del genere: Albert Einstein è per il momento intoccabile.
mercoledì 9 luglio 2014
La corta memoria della scienza (4 di 4)
di Vito Foschi
Bibliografia:
Comunicazione e metodologia della trasmissione del sapere
Un altro fattore da non trascurare è la metodologia della
trasmissione del sapere. Anche oggi in un mondo in cui l’informazione sembra a
portata di mano esistono zone oscure in cui è impedito l’accesso. Basti pensare
a quanta tecnologia militare è chiusa in sicuri bunker inaccessibili ai più. O
un esempio, più banale, ma forse più emblematico, la formula della Coca Cola,
uno dei segreti meglio custoditi del mondo. Anche in passato la trasmissione
del sapere è stata soggetta a questi vincoli. E così l’artigiano trasmetteva le
sue scoperte ai suoi allievi, che avrebbero fatto lo stesso, mantenendo un
vincolo di segretezza. Le corporazione medievali ne sono una chiara
testimonianza. Un altro esempio è l’arte della metallurgia ammantata da oscuri
simbolismi dai sacerdoti egizi per mantenere il loro segreto e il loro potere.
Naturalmente questa segretezza ha permesso ad alcune
conoscenze di attraversare i secoli sottraendosi all’occhio di severi censori
che accendevano falò su cui bruciare i libri, ma aumentando anche il rischio di
vedere dimenticate certe conoscenze.
Effetto collaterale: esoterizzazione della cultura moderna
Come accennato prima per la scienza, che subisce un processo
di esoterizzazione, sta avvenendo per la cultura in genere. Ormai si è creata
una sovrastruttura informativa formata dai media quali stampa, radio, TV ed
Internet che invece di facilitare l’accesso alla conoscenza finisce per
occultarla in un bombardamento continuo di notizie e informazioni che finiscono
per occupare tutto lo spazio mentale rendendo impossibile un pensiero ed una
rielaborazione critica.
Un’altra sovrastruttura che apparentemente dovrebbe
facilitare ma che in realtà nasconde è il commento dei testi classici. Con la
scusa di renderli leggibili per i lettori moderni, si finisce di infarcirli
tanto con introduzioni, note, commenti, glosse da nascondere l’opera. Inoltre,
il numero di pagine di questi “aiuti alla lettura”, a volte, supera
abbondantemente quelle dell’opera stessa, con il risultato finale di libri di
centinaia di pagine che scoraggiano alla lettura, quando in realtà, l’opera
originale è di poche pagine. E poi, perché è necessario il commento? Perché la
cultura ha subito una destrutturazione ed una specializzazione. Prima
esistevano le materie del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del
quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica) e la loro conoscenza era
sufficiente ad accedere a tutto il sapere. Ora questa struttura non esiste più,
esistono le specializzazioni, che rendono sì possibile dei risultati, ma al costo
di vivere nella propria gabbia specialistica e di non riuscire più ad accedere
alle diverse branche del sapere.
Un altro fattore che rende difficile la lettura di testi
antichi è la cancellazione della religione dalle materie d’insegnamento. Sarà
stata una conquista dello stato laico, ma, di fatto, impedisce l’accesso alla
cultura antica tutta impregnata di religione e misticismo.
Come ho detto prima, viviamo in una continua rincorsa per
stare a passo coi tempi imparando cose inutili e dimenticando spesso conoscenze
utili. Gli esempi li viviamo noi stessi. Vi chiedo: sapreste riconoscere un
santo che vedete raffigurato in una chiesa? Credo che la maggior parte di noi
eccetto per i santi più noti avrebbe delle difficoltà. Sembra una sciocchezza,
ma questo è un esempio concreto a noi vicino della distruzione della conoscenza
del passato. E non crediate che sia un problema di poco conto. Quanti studiosi
stanno lì a lambiccarsi il cervello per interpretare una raffigurazione
religiosa cercando di capire che santi sono rappresentati? La cosa
demoralizzante è, che un qualsiasi nonno, anche un po’ svanito, sarebbe in
grado di riconoscerli, perché venendo da una società in cui la scrittura non
era ancora dominante, al catechismo gli hanno insegnato a riconoscere i santi
dai particolari della loro rappresentazione. San Rocco dalla piaga alla gamba e
dal cane, per farvi un esempio concreto a me noto.
Conclusioni
Possiamo ben dire come afferma Hancock nel suo libro “Le
impronte degli dei”, di essere una specie affetta da amnesia e, aggiungiamo,
che i moderni sistemi di comunicazione e memorizzazione delle informazioni non
rendono più facile il compito di ricordare; anzi, sono loro la causa principale
della crescita esponenziale della produzione di documenti, spesso privi di
qualsiasi utilità, che essendo più veloce della capacità di immagazzinamento,
lo rendono più difficile. Senza contare, che anche se si riuscisse ad
immagazzinare tutto, rimarrebbe il problema di come accedere a tale sconfinata
massa di informazioni e se qualcosa rimane inaccessibile è come non averla
affatto.
Questo in termini generali, ma è ancor più necessario un
ripensamento di tutto il processo scientifico, affinché la scienza non diventi
un’inutile fatica di Sisifo, impegnata a scoprire per poi dimenticare più e più
volte. Sarebbe necessario, forse, che gli stessi scienziati dedicassero parte
del loro tempo a ricerche d’archivio, esercizio che permetterebbe loro di aver
un’apertura mentale ed una flessibilità di pensiero più ampia ed, a volte, di
evitare l’inutile sforzo di riscoprire cose già note. Questo permetterebbe di
risparmiare risorse da impegnare in “vere” nuove scoperte.
Note:
1) Salvatore
Settis, Le officine di Archimede, Il Sole 24 Ore del 18 gennaio 2004;
2) Rick
Sanders, “ll”, Graal n.8, marzo-aprile 2004, Hera Edizioni;
3) Articolo
riportato parzialmente sul libro di Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La
scienza alla prova”, CUEN 1998;
4) Giorgio
Nebbia, “Innovazione in Italia? Si provveda di ufficio”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”
del 12/3/2000.
5) Jean-Marc
Lévy-Leblond, “La Pietra
di Paragone La scienza alla prova”, CUEN 1998, pag. 94;
6) Per
chi volesse avere qualche informazione in più può leggere l’articolo “Albert
Einstein e Olinto De Pretto: un dimenticato precursore italiano
dell’equivalenza tra massa ed energia” di U.
Bartocci, M. Mamone Capria, reperibile in Internet all’indirizzo: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/depre.html.
Bibliografia:
Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La
scienza alla prova”, CUEN 1998;
AA. VV. Episteme, Physis e Sophia
nel III millennio, Perugia, n. 1 – 6, 2000 – 2002;
Paolo Rossi, “Origini di una
favola clericale”, IlSole-24ore di domenica 6 giugno 2004.
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martedì 8 luglio 2014
La corta memoria della scienza (3 di 4)
di Vito Foschi
Un altro esempio ci viene dalla zoologia. Esistono degli
elenchi delle specie in pericolo di estinzione dando così per scontato che le
specie non in elenco non corrono pericolo. Ma è proprio così? Purtroppo no. In
realtà di molte specie non si sa più nulla perché dopo la loro scoperta e
classificazione avvenuta anche più di un secolo fa, non sono state più fatte
ricerche. Nel diciannovesimo secolo è stato fatto un enorme sforzo di scoperta
e classificazione e numerosissime specie si conoscono solo grazie alle
pubblicazioni di allora. Nel curriculum dei biologi di oggi alla zoologia è
riservato ben poco spazio. Quando qualche spedizione ritorna ad esplorare i
luoghi di avvistamento di alcune specie, spesso non le ritrova, perché ormai
estinte.
Un altro esempio dal libro di Lévy-Leblond:«Da qualche anno,
non è raro veder citare, in articoli di ricerca “di punta”, come riferimento
tecnico immediato, dei lavori del matematico Henri Poincaré che risalgono a più
tre quarti di secolo e che non erano più stati menzionati per diversi decenni.
[…] L’irruzione della fisica detta moderna, teorie quantistiche, relatività,
aveva all’inizio del secolo relegato – così sembrava – quella fisica negli
scaffali di un classicismo polveroso». Più avanti:«Si è dovuta operare una vera
riconquista e, attraverso i campi fino a poco tempo fa riconosciuti e coltivati
ma abbandonati e ridivenuti incolti, ritrovare sentieri dimenticati. Così
l’ingenua fede in una modernità irreversibile e la sottovalutazione presuntuosa
di un’antica disciplina hanno impedito e ritardato uno sviluppo scientifico
maggiore».
Da un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno:
«Alcune innovazioni sono già state fatte decenni fa e alcuni insuccessi erano
già prevedibili: la pericolosità e la tossicità del piombo tetraetile –
l’antidetonante delle benzine ormai quasi definitivamente eliminato dalle
benzine in commercio, quelle che si chiamano “con piombo” – erano ben
conosciute da chi aveva scoperto la nuova sostanza negli anni venti del
Novecento. Alcuni processi per diminuire l’inquinamento atmosferico erano già
stati inventati nella metà dell’Ottocento e poi accantonati. Gli attuali
processi di riciclo dei rottami metallici sono stati inventati un secolo e
mezzo fa.»(4)
Da un articolo de “Il Sole-24 Ore” del 22 febbraio 2004 di
Cristina Marcuzzo: «La teoria economica, nella sua storia, non segue un
tracciato regolare, né si presenta come un accumulo di verità acquisite una
volta per tutte. I “ritorni” a idee del passato sono frequenti, come sono
ripetuti gli abbandoni di alcune concezioni, quando non reggono al confronto
con la teoria ritenuta al momento più “vera”». Abbiamo visto che non è una
caratteristica tipica dell’economia, ma è comune a tutte le scienze. Dallo
stesso articolo: «Rivisitare le idee del passato può significare rafforzare le
convinzioni del presente, oppure ricercare percorsi che non si sono imboccati o
che sembrava portassero, in un particolare momento storico, a un vicolo cieco.
Qualunque sia il fine dell’esercizio, interrogare la storia, sia dei fatti che
delle idee, è la condizione della crescita della conoscenza, intesa non come
progresso lineare dall’errore alla verità, ma come consapevolezza dei suoi
limiti e della sua circonstanzialità».
Ed ancora: «Ormai una componente regolare delle riviste
scientifiche generiche, come “Nature” o “Science”, è la messa in rilievo di
lavori dimenticati che anticipano di parecchi decenni delle (ri)scoperte
recenti presentate come originali.»(5)
Altri
esempi li possiamo trovare nella rubrica Reprints della rivista “Episteme” del
prof. Umberto Bartocci reperibile anche in Internet. In tale rubrica sono
pubblicati o vecchi lavori ormai dimenticati o teorie recenti ma controverse.
Ad esempio nel numero 2 troviamo il discorso tenuto dal prof. Quirino Majorana,
zio del più noto Ettore Majorana, all’Accademia delle Scienze dell’Istituto di
Bologna in occasione della inaugurazione dell’Anno Accademico in data 9
Dicembre 1951, in
cui lo scienziato contesta la teoria della relatività di Einstein
evidenziandone le contraddizioni.
Un articolo interessante è “Low Energy Nuclear Reactions” con sottotitolo “The revival of alchemy” di
Roberto A. Monti presente nel numero 4 di Episteme. Vi riporto la traduzione
dell’abstract:
«Nel 1959
C.L. Kervran mostrò l’evidenza sperimentale delle
Trasmutazioni a bassa Energia, ma i fisici contemporanei rifiutarono di credere
nell’evidenza sperimentale di fronte a loro perché avrebbe messo in questione
gli interessi, molto ben stabiliti, della Fisica delle Alta Energia. Nel 1989
Fleishmann e Pons fecero un’altra Trasmutazione a bassa Energia, erroneamente
chiamata “Fusione Fredda”, il quale attirò grande attenzione. I fisici dell’Alta
Energia iniziarono una fortissima campagna per invalidare la “Fusione Fredda”
di fronte al pubblico. Nel 1996 “Lo Sviluppo delle Tecnologie delle
Trasmutazioni” diventa il problema fondamentale della Seconda Conferenza delle
Reazione delle Basse Energie (College Station, TX). Nel 1998, ICCF-7
(Vancouver) e nel 2000, ICCF-8 (Lerici, Italia) mostra l’evidenza conclusiva
dei Fenomeni di Trasmutazione a Bassa Energia. Le allusioni alchemiche
risultano essere sempre corrette, provando che l’alchimia è una scienza
sperimentale. La fisica del XXI secolo sarà caratterizzata dalle Reazione
Nucleari a bassa energia: il risveglio dell’alchimia.»
Il prof. Roberto Monti è anche un forte critico della teoria
della relatività di Einstein. L’esistenza di critiche alle teorie einsteiniane
è cosa pochissimo nota e comunemente si pensa che tali teorie siano verità
incontestabili o per lo meno così viene fatto credere, ma come visto non è
affatto così.
Un caso sbalorditivo, perfetto esempio dell’amnesia
programmata della scienza, è quello che riguarda un possibile antesignano della
famosa formula E=mc2 di
Einstein; nel 1904 un certo Olinto De Pretto, agronomo vicentino, pubblica
“Ipotesi dell’etere nella vita dell’universo” negli Atti del Reale Istituto
Veneto di Scienze con prefazione del famoso astronomo Schiaparelli. La frase
che sembrerebbe anticipare la teoria della relatività è la seguente:
«La materia di un
corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata
dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello
spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [...] La formula mv²
ci dà la forza viva e la formula mv²/8338 ci dà, espressa in calorie, tale
energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la
velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si
ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè
oltre dieci milioni di milioni».
Come vedete, eccetto
il riferimento all’etere, la formula E=mc2 è chiaramente formulata.
I legami con l’Italia del giovane Einstein erano piuttosto forti considerato
che la sua famiglia vi si
trasferì definitivamente nel 1894. Inoltre, conosceva l’italiano tanto bene da
tenere delle conferenze nella nostra lingua e la formulazione che Einstein fa
della formula è meno generale di quella di De Pretto riferendosi al caso specifico di un corpo
radiante. Purtroppo non è facilmente dimostrabile che lo scienziato fosse a
conoscenza del lavoro di De Pretto.
Della questione ne parla diffusamente il su citato prof.
Bartocci nel suo libro “Albert Einstein e Olinto De Pretto: La vera storia
della formula più famosa del mondo” (Bologna, Andromeda, 1999), opera quasi
introvabile anche perché nessun grande editore rischierebbe su un libro del
genere: Albert Einstein è per il momento intoccabile.
In ogni caso è regola
ricordare il primo che ha concepito una idea e non i suoi successori. La teoria
di De Pretto contiene ancora il riferimento all’etere e conterrà altri errori però
sarebbe giusto riconoscerli la paternità della formula più famosa del mondo.(6)
Come si evince da quanto detto la scienza ha la spiccata
tendenza a dimenticare se stessa, cancellando di fatto la sua storia rendendo
difficile se non impossibile recuperare idee accantonate, ma che in un secondo
momento potrebbero ritornare utili.
Altra conseguenza è la sempre maggiore difficoltà della
scienza di spiegare se stessa. Se scompaiono i sentieri che hanno condotto ad
una scoperta, come sarà possibile spiegarla ai non specialisti? Se gli stessi
addetti ai lavori non controllano il loro sapere, sempre più parcellizzato,
come posso pretenderlo di divulgarlo? Si assiste ad un processo che potremmo
chiamare “esoterizzazione”, nel senso di rendere difficile l’accesso a
qualcosa, senza nessun riferimento al sapere iniziatico, della scienza. Una
delle accuse mosse alla magia da parte della scienza, sta diventando sua
componente fondante.
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lunedì 7 luglio 2014
La corta memoria della scienza (2 di 4)
di Vito Foschi
L’amnesia del presente
L’uomo ha la strana tendenza a dimenticare e non è
un'esclusiva dei nostri avi come si potrebbe pensare, anzi si può dire che
questo processo nella nostra epoca “scientifica” stia subendo un’accelerazione.
La continua produzione di nuovi saperi costringe l’uomo ad una continua
rincorsa del presente dimenticando tutto quello che ha imparato per poter
essere “al passo con il tempo”. Ma fra le tante cose che si dimenticano non ci
sarà qualcosa di utile? Ma poi, tutta la rincorsa ad essere aggiornati coi
tempi è veramente importante? Non sarebbe necessaria una rielaborazione critica
di tutta la messe di informazioni prodotta per discernere l’utilità o meno? Mi
interessa veramente sapere come funziona l’ultimo modello di telefonino che non
comprerò mai, perché ora non ho i soldi e fra un mese quando li avrò, sarà già
uscito il modello successivo? O ancora, perché affannarsi con gli aggiornamenti
del sistema operativo del computer o del programma di videoscrittura, giusto
per non fare nomi, quando per il mio uso corrente quello che ho, è già ottimo?
E il risultato qual è? Che perderò tempo a leggere il nuovo manuale del
programma di videoscrittura, invece che a leggere il tal libro che mi serve per
scrivere un articolo. Questo a livello individuale, mente a livello collettivo
si avrà una distruzione sistematica del sapere che diventa veramente “passato”!
Si vendono manuali sulle nuove versioni dei programmi a scapito di opere che
meriterebbero di essere lette con una graduale sostituzione dei libri buoni con
i libri cattivi utilizzando una metafora economica sulla moneta che recita che
la moneta cattiva scaccia quella buona. Con una differenza: la moneta buona
viene tesaurizzata, mentre i buoni libri finiscono al macero.
I nostri progenitori avevano una cultura orale che si
trasmetteva da padre in figlio. Questo ci fa pensare che fosse una cultura che
tendesse a dimenticare se stessa. Ma ne siamo proprio sicuri? Gilgamesh non
esiste tuttora? E i Veda? E i miti egizi? Quelli greci o romani? E perfino
quelli celtici sono sopravvissuti alla sistematica persecuzione dei druidi da
parte degli antichi romani!
In passato il mito riusciva a passare indenne attraverso le
generazioni, forse modificandosi ma mantenendo intatto il nucleo centrale. Oggi
tutto questo non esiste. Esistono le varie soap-opera, telenovelas, telefims che dopo successi
strepitosi svaniscono come neve al solito come se non fossero mai esistiti. Chi
si ricorda più di programmi degli inizi degli anni ottanta? Del nome di attori
che all’epoca sembravano tenere il mondo in una mano?
Certo delle perdite ci sono state, ma purtroppo ci saranno
sempre. Anche nel nostro mondo industrializzato in cui scienza e tecnica sono
padrone c’è una spiccata tendenza ad obliare il passato. Quante opere del
cinema mute sono andate perse? E quante si sono riuscite a salvare solo con
costosi restauri? Per fare un esempio nel campo artistico, ma questo succede ed
è ancora più grave perché implica i suoi stessi processi di produzione, nella
scienza. Abbiamo accennato alla parentesi medievale in cui il sapere umano ha
subito una distruzione sistematica e questo è sicuramente successo in passato
in altre civiltà. Basti pensare che ancora non si è grado di capire come sono
state costruite opere megalitiche con la semplice forza umana e animale.
L’amnesia
programmata della scienza: il processo scientifico si basa sulla distruzione
del saper precedente ed alcune scoperte l’uomo le ha dovuto fare più volte
La
scienza è un continuo processo di affinamento della conoscenza e questo implica
la necessità di cancellare gli errori del passato per far spazio agli ultimi risultati
ritenuti più corretti. «L’oblio è costitutivo della scienza. Impossibile per
lei conservare la memoria di tutti i suoi errori, la traccia di tutte le sue
erranze. La pretesa di dire il vero costringe a dimenticare il falso». Dal
libro di Lévy-Leblond.
Banalmente
la teoria eliocentrica ha cancellato la teoria tolemaica ormai dimenticata.
Questo processo è giusto e necessario, ma comporta dei rischi. Abbiamo visto
come in passato la scienza è dovuta ritornare sui suoi passi per riscoprire ciò
che si sapeva secoli prima, ma questo accade tutt’ora. È insito nell’attività
scientifica la distruzione delle vecchie ricerche per far posto alle nuove. Ma
in tutto questo scarto non ci sarà qualcosa che meritava di essere salvato?
Sono molteplici gli esempi di ricerche non proseguite perché le necessità o le
mode del momento, perché anche nella scienza esistono le mode, hanno spostato
l’attenzione su altri settori e poi sono state riprese decenni dopo. Questo
potrebbe sembrare un problema da poco, ma oggi la produzione scientifica è su
una scala molto vasta e lo scarto è a sua volta su una scala altrettanto vasta.
Non esistono più i pochi studiosi che si conoscevano tutti quanti e che si
incontravano in qualche congresso mondiale, ormai a livello mondiale possiamo
parlare di milioni di persone impegnate nella ricerca. Basti pensare al
moltiplicarsi delle università italiane e della conseguente moltiplicazione dei
professori, che volenti o nolenti per esigenze di sopravvivenza devono produrre
o almeno dimostrare di fare ricerca pubblicando articoli su apposite riviste.
Anzi, il loro avanzamento di carriera è anche ancorato al numero di articoli
pubblicati con tutte le conseguenze del caso sull’inflazione produttiva di
articoli. Alcuni vengono scritti solo per allungare un curriculum senza
contenere nulla di interessante sul piano scientifico.
L’accumularsi
di tutta questa produzione pone problemi di spazio alle biblioteche che tendono
ad accumulare in modo disordinato le riviste scientifiche, strumento principe
dell’attività scientifica, e recuperare ricerche del passato è a volte quasi
impossibile. Oltre a questo problema logistico, esiste il ben più grave
problema culturale, che chi ha condotto studi specialistici, trova difficoltà a
prendere in mano nuovi saperi in branche completamente nuove: di fatto è
impreparato! Il lavoro scientifico si basa su una specie di allenamento fatto
di letture di articoli di settore, nel padroneggiare certi procedimenti
matematici e determinati strumenti, se tutto questo manca è come ritrovarsi a
leggere un libro in un’altra lingua. Si è grado di leggere, cioè si hanno le
conoscenze scientifiche di base, ma non si conosce la lingua cioè gli strumenti
specifici di quella particolare materia. Non è un lavoro da poco. Ne ho fatto
esperienza personale con la mia tesi. Ho dovuto passare mesi per familiarizzare
con l’argomento e padroneggiare un programma di simulazione matematica per
poter incominciare a lavorarci. Immaginate la difficoltà a riprendere studi di
decenni fa, che trattano di teorie completamente diverse e dimenticate. Ancora
Lévy-Leblond:
«…i meccanismi di
rimozione e occultamento, costitutivi del funzionamento della ricerca,
conducano ormai a degli effetti perversi o, se non altro, controproducenti. […]
Il fatto è che l’eliminazione delle foglie morte della scienza, il rigetto dei
suoi rifiuti opera ormai sulla stessa scala industriale della sua produzione.
[…] Più precisamente, come esser certi che, in quelli che consideriamo oggi
lavori secondari o senza sbocchi, abbozzi o doppioni, non giacciono, invisibili
nel contesto attuale, un punto di vista, un metodo, un risultato ricchi di
implicazioni future?».
Ecco
alcuni esempi di scoperte dimenticate e poi ritrovate.
La
malattia dell’olmo che ha portato alla distruzione di milioni di piante è stata
affrontata coi metodi della biologia moderna senza alcun risultato, mentre
nell’ottocento si sapeva come affrontarla. Ci si era dimenticati degli studi
condotti dal 1843 al 1859 di un certo Eugène Robert che permisero all’epoca di
fermare l’epidemia! Vi riporto una frase dell’articolo di Didier Fleury che ha
riscoperto il metodo:«Avendo a disposizione mezzi di indagine di una potenza
senza uguali nel passato, la biologia ha tendenza a vedere questioni nuove
laddove di fatto c’è ben poco di nuovo!»(3)
Per
anni si è pensato che lo stomaco non potesse ospitare batteri patogeni cronici
non riuscendo a capire l’origine dell’ulcera gastrica. Invece da pochi anni si
è “scoperto” che la causa è proprio un batterio, l’Helicobacter pilori. Di
fatto si sono trascurate osservazioni di un secolo fa che affermavano la
presenza di batteri nello stomaco.
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