Blog dedicato ai misteri, esoterismo, antiche civiltà, leggende, Graal, Atlantide, ufo, magia
sabato 7 novembre 2020
IL PENTAGONO, BILL GATES, L’OCCIDENTE E LE SUE METASTASI
mercoledì 4 novembre 2020
Leonardo mago dell'arte (esoterica)
sabato 31 ottobre 2020
Merlino, Morgana e Artù. Sulle tracce degli eroi più moderni del Medioevo
tratto da "Il Giornale" del 05/08/2020
Altro che secoli bui, la saga della Tavola Rotonda è piena di energia, colore e forza letteraria. Einaudi pubblica in volume il corpus arturiano
di Claudia Gualdana
Il Medioevo è un dilemma. Chi ne sa nulla lo marchia con aggettivi spiacevoli: buio, oscurantista, barbaro. Chi lo conosce ne preferisce altri, per esempio fantastico. È infatti il termine compare nel titolo di due opere importanti dedicate all'evo di mezzo (Il medioevo e il fantastico, Il medioevo fantastico), rispettivamente di Tolkien e di Baltrusaitis.
Un luogo della memoria a tal punto controverso val bene qualche lettura. I capolavori non mancano, e ce n'è uno fresco di stampa. È Artù, Lancillotto e il Graal Volume I (La storia del Santo Graal, La storia di Merlino, Il seguito della storia di Merlino, a cura di Lino Leonardi, Millenni Einaudi, pagg. 1116, euro 90), un testo maestoso con introduzioni accurate, brevi compendi, apparati critici, note, immagini tratte da manoscritti originali. Tra l'altro è un evento editoriale: l'intero ciclo, di cui l'opera è il primo volume, non era mai stato tradotto integralmente in italiano moderno. Neanche in Francia è stato trattato come merita, è entrato nella Pléiade solo pochi anni fa e tuttora si fatica a considerarlo un classico. Eppure materia e cifre stilistiche sono da capogiro. Siamo nel regno del meraviglioso per eccellenza: il ciclo arturiano ai suoi inizi, che gli autori radicano in Terra Santa, nel segno della cristianizzazione delle terre del nord. Il tutto con un rutilante corollario di storie d'arme e d'amore, donzelle, cavalieri, re e principesse, contese e battaglie, creature fantastiche e un mago che è una celebrità, Merlino.
Il curatore ricorda che Lancillotto compare nella Commedia di Dante: laddove Francesca parla di un libro che fu galeotto nell'amore con Paolo allude proprio al Lancelot-Graal, chiamato dagli esperti «ciclo della Vulgata». Di cui la prima parte è quella in cui ci si perde in queste pagine lunghe eppure tanto veloci e leggere, per la quantità di storie incastonate che rapiscono e trasportano in un mondo sospeso a mezz'aria, sideralmente opposto a quello quotidiano.
L'avventura, il mistero. La lotta perenne tra il bene e il male. L'amore, la morte. Ed è la base del grande romanzo europeo, perché il ciclo arturiano è anche un viatico all'elaborazione psicologica dei personaggi. Lancillotto è il prototipo del cavaliere e dell'uomo perfetto, colui a cui ciascun giovane, a quei tempi, avrebbe dovuto ispirarsi. Bello, onesto, valoroso, pronto a morire per un ideale, eppure terribilmente umano, tormentato com'è dall'amore per la Regina Ginevra. Sarebbe ozioso riassumere qui una trama tanto intricata. Essa solca decenni attraverso la penna di scrittori diversi, talvolta celebri, talaltra abilissimi a nascondersi per mettere in primo piano soltanto la leggenda, e laddove uno conclude appare un altro a prendere i fili per riannodarne di nuove, sempre in nome della fedeltà verso quanto scritto prima. Meglio dunque fermarci agli esordi, che danno linfa e ragion d'essere a tutto ciò che verrà dopo.
Sappiamo che il ciclo è stato scritto nella Francia settentrionale nei primi decenni del Duecento, ed è stupefacente non tanto per «l'estensione inaudita» - scrive Leonardi quanto per il suo essere, per la prima volta in Europa, del tutto sradicato dal mondo greco-romano. Non da quello cristiano. Il primo libro della trilogia qui proposta è il Conte du Graal, non il capolavoro di Chrétien de Troyes, ma quello redatto da un monaco anonimo, probabilmente un eremita, secondo il quale la storia gli sarebbe stata consegnata direttamente da Gesù. Mirabolante espediente letterario per fondare un'epopea cristiano-barbarica: nel prologo il chierico spiega che, nella notte del giovedì santo di settecentodiciassette anni dopo la Passione, il Cristo gli appare e gli affida il Libro, scritto di suo pugno. L'eremita scopre così che gli evangelizzatori del nord erano dello stesso lignaggio di Gesù. Quindi legge per noi la straordinaria avventura umana di San Giuseppe di Arimatea, che nei Vangeli si occupa della sepoltura del corpo di Gesù. Gli apocrifi e la fantasia medievale lo hanno trasformato nel personaggio leggendario che avrebbe evangelizzato interi popoli portando con sé il Santo Graal, una ciotola in cui aveva raccolto alcune gocce del sangue di Cristo.
Il ciclo arturiano fiorisce quindi nella santità dei dogmi cristiani, in modo particolare la transustantazione, la trasformazione del pane e del vino in carne e sangue, come stabilito dal Concilio lateranense del 1215.
È come se la cornice sacra inquadrasse tutte le altre vicende, in una serie di mise en abyme che senza di essa si perderebbero in mille rivoli. E invece no, se persino il racconto della vita di Merlino, mago, e dunque di ascendenza in qualche modo demonica, trova nel santo battesimo una sorta di esorcismo e di nobilitazione. I due libri rimanenti sono dedicati a questa figura di indovino semi-selvaggio, come se la parabola salvifica del Cristo volesse per suo tramite purificare tutto ciò che a settentrione era stato prima della lieta novella. Il profeta indovino è il ponte che unisce la Terrasanta al nord Europa, Giuseppe di Arimatea e Lancillotto, la salvezza cristiana e il sottobosco pagano che essa ingloba e rettifica. Una strategia narrativa geniale, in cui una creatura destinata al paganesimo viene riscattata al bene, così come terre barbare sono conquistate alla civiltà in nome del Vangelo. Quindi questa storia quasi senza fine ha un fine nella conquista della perfezione cristiana.
Nella cerca c'è spazio per una commedia umana pre moderna in cui la grande assente è la noia, anche per il buon gusto che ha il narratore di starsene in un angolo, con grande beneficio per i caratteri sulla scena. Non c'è spazio neanche per il buio, perché i colori sono davvero tanti. Il blu del mare solcato dalla nave di Salomone; il rosso dei capelli della fata Morgana, sorella di Artù. L'oro della coppa del Graal apparsa a Parceval in un castello incantanto. Il verde delle foreste del nord Europa. Un caleidoscopio che fa pensare alle vetrate coloratissime delle cattedrali gotiche. Che stanno lì da secoli, radicate e solide. Proprio come la leggenda di Artù e dei suoi cavalieri immortali.
mercoledì 28 ottobre 2020
La serie tv sui complotti governativi. Fatti e misfatti di X-Files
tratto da "Il Giornale" del 07/07/2020
Grande successo ad inizio degli anni '90, X-Files è disponibile da oggi, 7 luglio, sul catalogo di Amazon Prime Video. Scopriamo perché resta una pietra miliare dell'universo televisivo americano
di Carlo Lanna
Nel corso degli ultimi 20 anni si sono avvicendate molte serie tv che hanno lasciato un’impronta indelebile nel cuore dei fan e che, di conseguenza, hanno rivoluzionato i canoni di narrazione nel piccolo schermo. Oggi, ad esempio, si ricorda ancora il mito di X-Files. La serie tv che miscela l’indagine poliziesca a quella che viene chiamata la "scienza di confine", resta una tra le produzioni per il piccolo schermo più amate di sempre.
Ad oggi è la serie tv che ha avuto un impatto maggiore sulla pop culture. Trasmessa in America in un periodo di grande fermento sociale e culturale, X-Files è andato in onda su Fox dal settembre del 1993 al maggio del 2002, per ritornare in tv dal 2016 al 2018.
Un successo che non ha caratterizzato solo l’America, dato che le vicende al limite dell’assurdo dell’agente Fox Muder e Dana Scully hanno trovato un enorme bacino di telespettatori anche qui in Italia. La serie, dapprima, è stata trasmessa su Canale 5 nel 1994, per arrivare poi su Italia Uno dove è stato trasmessa fino al suo ultimissimo episodio. Ora, in questa lunga estate caldissima, le 10 stagioni prodotte sono disponibili dal 7 luglio per i clienti di Amazon Prime Video per una intensissima maratona. All’appello, però, mancano i tre film per il grande schermo e la stagione 11, l’ultima, di cui i diritti sono ancora in possesso di Fox Italia. Questa piccola mancanza, però, non impedisce ai fan di poter apprezzare al meglio le vicissitudini dei due celebri agenti dell’FBI.
Alieni, governi ombra e segreti sepolti nel tempo: questo è X-Files
David Duchovny ha interpretato l’agente Fox Mulder, relegato in un archivio dell’FBI a catalogare tutti i casi irrisolti e apparentemente inspiegabili. L’ossessione si è sviluppata da un trauma che ha segnato l’adolescenza. La sorella di Mulder, a suo dire, sarebbe stata rapita dagli alieni all’età di 12 anni. Questo ha spinto il futuro agente dell’FBI a scoprire la verità, una verità che per troppo tempo è "rimasta là fuori". Mulder non è da solo in questa battaglia contro i mulini al vento. Al suo fianco c’è Dana Scully, medico e scienziato che utilizza i suoi metodi e la sua conoscenza per smontare tutte le teorie più folli del collega. Più passa il tempo, però, e anche la fede di Scully vacilla di fronte a casi inspiegabili e fuori dalla sua portata.
Viaggiano in lungo e in largo per tutti gli Stati Uniti tra creature mostruose, esperimenti segreti e virus sconosciuti, fino a quando non comprendono dell’esistenza di un complotto in seno al governo che mira a tenere nascosta un’invasione alinea da parte dei Colonizzatori. Scoprire la verità però ha un caro prezzo e sia Mulder che Scully sono disposti a tutto pur di scoperchiare un pericolosissimo vaso di Pandora, tenuto segreto fin dal primo avvistamento degli Ufo durante lo schianto di Roswell. Ovviamente, cercare di compattare tutte le vicende principali che sono state snocciolate in quei 218 episodi è quasi impossibile. Basti sapere che X-Files ha trovato la forza proprio in una narrazione complessa e sfaccettata, tanto da tenere incollato lo spettatore alla tv per un’intera decade.
Fatti e misfatti
Prima di diventare il successo che abbiamo imparato ad apprezzare, X-Files ha avuto una gestazione molto travagliata. Creata da Chris Carter, il primo episodio della serie è stato riscritto ben due volte prima che il network approvasse il progetto. Solo tre anni dopo il primo ingaggio da parte della Fox, infatti, lo sceneggiatore ha visto il suo progetto diventare una serie tv, presentando X-Files come un mix tra lo scandalo Watergate e The Night Stalker (serie tv degli anni ’70). Ma la fonte d’ispirazione sono stati anche Ai Confini della Realtà e Il Silenzio degli innocenti. Le riprese si sono svolte a Vancouver, che si adattava molto bene alle atmosfere dello show, poi dalla stagione sei, il set si è spostato definitivamente a Los Angeles.
David Duchovny all’inizio non era interessato a prendere parte a una serie così impegnativa. Era uscito da poco da una straziante interpretazione in Twin Peaks di David Lynch e voleva allontanarsi dalla tv per dedicarsi al grande schermo. La parte, infatti, fu offerta in principio a Kevin Sorbo (conosciuto per essere stato l’Hercules dell’omonima serie tv), ma è stato scartato perché era "troppo alto" per interpretare un agente dell’FBI. L’audizione di Duchovny fu impeccabile, e convinto dall’ottima sceneggiatura, l’attore ha poi firmato il contratto. Gillian Anderson, che ha interpretato l’amatissima Dana Scully, ha affermato che non riusciva a staccare gli occhi dallo script e voleva la parte a tutti i costi. All’inizio però si pensava a una donna più austera per il ruolo, ma la scelta è ricaduta sulla Anderson una volta che Chris Carter ha notato la forte alchimia che c’era tra i due attori protagonisti. Questo legame ha fatto sognare i fan, tanto è vero che ancora oggi in molti sperano che David e Gillian possano uscire allo scoperto come coppia anche nella realtà.
Sono stati più di 100 gli attori selezionati per un ruolo nella serie. Solo 10 sono stati contattati nel corso degli anni, come Robert Patrick che sostituì Duchovny dalla settima stagione in poi. La sua presenza però non ha generato il plauso da parte dei fan e il suo ruolo è stato ridimensionato, anticipando il ritorno dello "spettrale" Mulder. E durante le riprese, inoltre, lo stesso attore protagonista intentò una causa alla casa di produzione perché, a suo dire, avrebbe venduto i diritti alle proprie reti affilate, riducendo lo stipendio al cast.
Alla fine a David Duchovny è stato riconosciuto un indennizzo di 20 milioni di dollari. La stagione sette fu concepita per essere anche l’ultima ma, alla luce di un interesse sempre maggiore da parte del pubblico alle teorie cospirative, lo show è rinnovato per altri due anni. Sono stati più di 18 milioni di telespettatori che hanno consacrato il successo di X-Files, e sono stati 16 i riconoscimenti che ha ricevuto, tra cui ben 62 candidature agli Emmy Awards.
I film, gli spin-off e il ritorno in tv
Per approfondire alcuni dettagli che non sono stati raccontati in tv, tra la sesta e la settima stagione, è stato prodotto il primo film per cinema di X-Files. Con il titolo Battaglia per il futuro, la pellicola (molto intensa e accattivante) non ha raggiunto la fetta di pubblico sperato, dato i contenuti erano ancora legati ai meccanismi della serie tv. Nel 2008 i protagonisti sono tornati poi in Voglio Crederci, film sequel di X-Files, che è stato però aspramente criticato perché non racconta cosa è successo realmente dopo la fine della serie tv, ma bensì solo un’indagine inedita di Mulder e Scully. Due sono stati gli spin-off. Millennium condivideva il creatore e alcune atmosfere di X-Files e raccontava la storia del profiler Frank Black che aveva la capacità di entrare nella mente di un serial killer. Dopo un ottimo inizio, lo show è stato cancellato senza un finale dopo tre stagioni.
È stato criticato, inoltre, per l’eccessiva violenza. Destino avverso anche per The Lone Gunmen (i Pistoleri Solitari). I compagni e amici di Mulder amanti del complottismo non hanno avuto vita lunga. Dopo 13 episodi lo show è stato cancellato ed è ancora oggi inedito in Italia. E poi nel 2015 X-Files ritorna finalmente in tv per raccontare cosa è successo dopo l’ultimo episodio della nona stagione. Le puntate, 16 in tutto, hanno stravolto tutta la mitologia dello show. Ancora oggi i fan si interrogano su quel criptico finale.
sabato 24 ottobre 2020
GROTTE PLANETARIE SULLA LUNA E MARTE, POSSIBILI LUOGHI PER BASI SPAZIALI
tratto da "L'Opinione" del 24 luglio 2020
di Redazione
Cavità naturali scavate dalla lava e lunghe fino a 40 chilometri sulla Luna e Marte potrebbero essere luoghi ideali per ospitare future basi abitate dall’uomo. Le ha scoperte la ricerca italiana pubblicata sulla rivista Earth-Science Reviews e condotta dalle Università di Bologna e di Padova. Cavità simili, chiamate “tubi di lava”, “esistono non solo sulla Terra, ma nel sottosuolo della Luna e di Marte, i cui pozzi di accesso in superficie sono stati ripetutamente osservati nelle immagini ad alta risoluzione fornite dalle sonde interplanetarie”, ha detto Francesco Sauro, del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Bologna e direttore dei corsi Caves e Pangaea dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa).
Coordinatore della ricerca con il geologo planetario Riccardo Pozzobon, del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, Sauro ha detto inoltre che la presenza dei tubi di lava “è evidenziata da allineamenti sinuosi di cavità e collassi nei tratti in cui la volta della galleria ha ceduto” e che “questi collassi, di fatto, costituiscono potenziali ingressi o finestre sul sottosuolo”. Formazioni simili sono state esplorate, sulla Terra, nelle Hawaii, nelle Canarie, in Australia e Islanda.
Confrontando le immagini del suolo di Luna e Marte riprese dai satelliti, i ricercatori hanno scoperto che rispetto ai “tubi” terrestri, che raggiungono un diametro compreso fra i 10 e i 30 metri, le dimensioni dei condotti aumentano di 100 volte su Marte e di 1000 volte sulla Luna: un impressionante aumento di dimensioni dovuto alla minore gravità e ai suoi effetti sull’attività vulcanica.
Secondo Pozzobon, “condotti di tali dimensioni possono raggiungere lunghezze superiori ai 40 chilometri, fornendo così spazio a sufficienza per ospitare intere basi planetarie per l’esplorazione umana della Luna: cavità talmente enormi da arrivare a contenere il centro storico della città di Padova”.
I tubi di lava proteggono inoltre dalle radiazioni cosmica e solare, riparano dai micrometeoriti e offrono un ambiente a temperatura controllata, non soggetta a variazioni tra notturne e diurne.
Le agenzie spaziali stanno mostrando crescente interesse per le grotte planetarie e i tubi lavici in vista delle future missioni umane su Luna e Marte, hanno rilevato infine i ricercatori, per i quali “tutto questo rappresenta un cambio di paradigma nella futura esplorazione spaziale”.
mercoledì 21 ottobre 2020
sabato 17 ottobre 2020
Il mistero del genoma umano: tracce di organismi primordiali
tratto da "Il Giornale" del 26/07/2020
Dopo aver anticipato i tempi raccontando l'incubo della pandemia, Quammen ci racconta l'albero intricato della vita e i misteri nascosti nel dna dell'uomo
di Matteo Carnieletto Andrea Indini
Immaginate un albero, di quelli secolari. Alla base, il tronco affonda le proprie radici nella terra. Non puoi vedere fino a dove arrivano. Puoi immaginarlo. È da lì che viene. È da lì che succhia linfa vitale, giorno dopo giorno.
Punti, poi, lo sguardo verso l'alto e la chioma è tanto grande da coprire la visuale del cielo azzurro che gli piomba addosso. È immobile, ma in continua mutazione. Da lontano sembra un tutt'uno ma, mano a mano che ti avvicini, puoi scorgere ogni diramazione dei suoi rami. Verrebbe da dire: proprio come la vita. Ma non è così. Questa poteva, infatti, essere un'immagine che andava bene per descrivere, anche se in modo sommario, l'intuizione che aveva avuto Charles Darwin quando, nello scrivere L'origine della specie nel 1859, illustrava quanto aveva appreso durante il secondo viaggio a bordo della HMS Beagle e metteva le basi alla teoria dell'evoluzione facendo così sgretolare il credo creazionista secondo cui la vita data da Dio è immutabile. Si trattò di una vera e propria rivoluzione per la biologia, ma ben presto anche l'idea secondo cui le informazioni ereditarie si trasmettessero solo verticalmente fu superata. La scoperta del trasferimento genico orizzontale ha, infatti, rivelato che in alcuni casi il materiale ereditario viene trasmesso lateralmente. Saltando da una linea all'altra.
Mentre eravamo chiusi in casa, obbligati dal lockdown imposto per contenere la pandemia da coronavirus, molti di noi hanno ripreso in mano un capolavoro uscito dalla penna di David Quammen, Spillover. L'evoluzione delle pandemie (Adelphi). Lo aveva scritto in tempi non sospetti, era il 2012 (in Italia sarebbe uscito un paio di anni dopo), ma già preconizzava quello l'inferno in cui ci siamo venuti a trovare quest'anno. Il salto di specie, dall'animale all'uomo, e la nascita di una malattia di cui non si conosce cura. "La zoonosi (il salto di specie, ndr) – ci metteva in guardia – è una parola del futuro, destinata a diventare assai più comune nel corso di questo secolo". Mentre correvamo a studiare quello che ci stava esplodendo in torno, il saggista statuniteste, autore anche del bellissimo Alla ricerca del predatore alfa, ci metteva davanti a un altro processo in atto da sempre: l'evoluzione della specie. In libreria è, infatti, arrivato da qualche settimana, sempre edito da Adelphi, L'albero intricato. Si tratta di un saggio puntuale (come lo sono sempre i suoi lavori), in alcuni tratti anche ostico, che ha il pregio di aiutare a capire quei processi millenari che da sempre plasmano la vita e che, grazie alla scoperta fatta da Carl Woese negli anni Settanta con il suo lavoro su batteri e archei, si è compreso essere molto più intricati di quanto non immaginassimo. "Woese era uno scienziato mosso dalla più intensa curiosità sulle domande più profonde riguardanti la vita sulla Terra - spiega Quammen in una recente intervista al Giornale - utilizzò la biologia molecolare per rispondere a quelle domande".
È stato Woese a scoprire che i geni non si spostano soltanto in senso verticale, passando cioè da una generazione alla successiva, ma anche lateralmente. Non solo. Possono addirittura attraversare i confini di specie o passare da un regno a un altro. L'uomo stesso è una sorta di mosaico composto da molteplici forme di vita. Siamo "l'equivalente genetico di una trasfusione di sangue". Per almeno l'otto per cento, infatti, il nostro genoma presenta residui di retrovirus che hanno intaccato il dna dei nostri antenati. Si chiama eredità infettiva. Alcuni di questi si sono riadattati e hanno inizato a svolgere funzioni a dir poco fondamentali. Ne è un esempio la sincitina 2, il gene produttore della membrana che, durante la gravidanza, si sviluppa fra la placenta e il feto per portare il nutrimento al nascituro e smaltire gli scarti. Senza di quello non sarebbe possibile la gravidanza.
L'albero descritto da Quammen è a dir poco intricato. E più ti spinge a guardare dove siamo arrivati, più ti obbliga a volgere lo sguardo verso dove tutto ha avuto inizio. Che, poi, è la domanda che muove tutto quanto. "Ci sono prove molecolari forti - spiega Quammen - secondo cui una cellula di archeo sia stata la cellula ospite del primo evento di endosimbiosi che ha condotto alla linea di discendenza di cellule complesse che, oggi, chiamiamo eucarioti, ai quali apparteniamo anche noi". Tra i "donatori" possiamo, infatti, ritrovare organismi primordiali che popolavano la Terra miliardi di anni fa. Oggi abitano in ciascuno di noi in una simbiosi che, come ci fa notare lo scrittore americano, dovrebbe spingerci a interrogarci sui concetti di specie e di individuo.
venerdì 9 ottobre 2020
La Simbologia Occulta nella Leggenda del Graal - Vito Foschi - Book Revi...
mercoledì 7 ottobre 2020
Conosci Eratostene di Cirene?
in collaborazione con il blog Fanta-Teorie:
https://fanta-teorie.blogspot.com/2020/08/conosci-eratostene-di-cirene.html
Quanti di noi conosco Eratostene di Cirene?
In pochi quasi certamente eccetto per chi ha studiato matematica, fisica, e altre materie scientifiche in modo più approfondito, non limitandosi all'insegnamento scolastico.
E' vissuto tra il 276 a.c. al 194 a.c. circa. Un vero matusalemme per l'epoca. Secondo i suoi contemporanei e i posteri eccelleva i tutti i campi del sapere. E' stato precettore di Tolomeo IV Filopatore. Viene ricordato per essere stato un erudito matematico, astronomo, geografo, filologo, filosofo e poeta della Grecia antica.
Viene anche suggerito dalla maggior parte dei posteri come il padre della Geodesia (lo studio della forma della terra).
Quasi certamente è stato uno dei primi ad aver tentato di calcolare la dimensione della Terra, avvicinandosi molto alla cifra corretta pur attuando un metodo molto semplice oltre 2200 anni fa.
A lui dobbiamo anche l'algoritmo per trovare i numeri primi che fino a lui era rimasto irrisolto o comunque il metodo non era molto preciso.
Inoltre è stato il terzo direttore della biblioteca di Alessandria d'Egitto.
Un curriculum davvero di tutto rispetto. Ma allora perché quasi nessuno lo conosce? Quali sono le cause?
Bisogna ammettere che per sentirne parlare bisogna aspettare l'università oppure raramente anche le superiori.
A mio modesto parere bisognerebbe rivedere il sistema scolastico italiano e anche le priorità dei libri di testo. Oltre ad Eratostene meriterebbero più spazio anche i Sumeri per esempio. Ma non solo la lista è assai lunga. Purtroppo!
sabato 3 ottobre 2020
UFOLOGY WORLD - 8 novembre
8 NOVEMBRE 2020 all’interno di Cinecittà World a Castel Romano si terrà la nuova edizione di UFOLOGY WORLD per l’Italia organizzato da Francesca Bittarello con 3 Dibattiti, Mostre e Villaggio Espositori. Fra gli ospiti Paola Leopizzi Harris famosa ufologa americana, Bernard Rouch dalla Francia, Adriano Forgione, Pablo Ayo, Dario del Buono e molti altri ancora.
LA VENDITA DEI BIGLIETTI PER UFOLOGY WORLD E' SOLO ON-LINE: www.ufologyworld.it
mercoledì 30 settembre 2020
Jacques Bergier: «Come nacque “Il mattino dei maghi”»
tratto da: http://blog.ilgiornale.it/scarabelli/2019/11/24/jacques-bergier-come-nacque-il-mattino-dei-maghi/
di Andrea Scarabelli
È appena uscita, per Edizioni Bietti, la traduzione italiana di Io non sono leggenda, l’autobiografia di Jacques Bergier, il mitico autore de Il mattino dei maghi, manifesto del “realismo fantastico” scritto a quattro mani con Louis Pauwels e pubblicato da Gallimard nel 1960. L’edizione dell’autobiografia dell’“Amante dell’Insolito e Scriba dei Miracoli” (come lui stesso aveva fatto scrivere sul suo biglietto da visita) comprende vari materiali aggiuntivi, molti dei quali pubblicati in prima edizione mondiale. Oltre a un ricordo dell’autore ad opera di Sebastiano Fusco, che lo incontrò in varie occasioni, il volumetto contiene un ricco apparato di note, un capitolo tagliato nell’edizione francese (Retz, 1977) e il progetto editoriale di una delle opere che avrebbe dovuto costituire il seguito di un libro epocale come pochi altri. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo qui un estratto del capitolo di Io non sono leggenda dedicato all’incontro tra Jacques Bergier e Louis Pauwels – il primo, scienziato e fisico comunista, il secondo, amante della spiritualità e discepolo di Gurdjieff, nonché uomo di destra – contenente anche informazioni su come nacque Il mattino dei maghi, nonché sulle reazioni “a caldo” del pubblico di fronte alla sua comparsa.
Non sempre riesco a decifrare le tracce del futuro. Mi capita di fare previsioni con una tale esattezza che sfiora il paradosso temporale, ma spesso ciò non succede. Quando incontrai Louis Pauwels, nel 1959, non avrei mai immaginato che ciò avrebbe cambiato molte vite. Grazie agli studi di cui ho già parlato, entrai in contatto con l’alchimista René Alleau, che mi presentò Pauwels. Ciò che mi colpì – e continua a colpirmi – è la sua curiosità. Pauwels è di una curiosità indomita, una disposizione naturale frequente tra i russi e gli europei dell’Est ma molto rara in un europeo occidentale.
Quando lo conobbi, aveva appena concluso Monsieur Gurdjieff. Ci scambiammo riflessioni e idee, e progettammo un’opera che non avrebbe mai visto la luce: uno studio globale sulle società segrete. Tale progetto – come scoprimmo solo dopo – era del tutto impossibile, per il semplice fatto che se una società è davvero segreta è impossibile studiarla.
Il progetto morì dunque di morte naturale, ma io e Pauwels continuammo a collaborare. Andavo da lui, a Mesnil, e passavamo intere giornate a parlare, dopodiché si svegliava alle quattro del mattino e cominciava a dattiloscrivere le nostre conversazioni. Tale metodo – che usiamo tuttora – è anche alla base del suo libro L’ammirevole Blumroch. Ovvero, la colazione del superuomo. Tutto parte da uno scambio di riflessioni e informazioni. Mi duole non aver conservato i fascicoli che costituivano il punto di partenza delle mie storie, ma non potevo prevedere che i nostri lavori sarebbero stati analizzati e commentati da cima a fondo. Alcuni di questi fascicoli si trovano a casa di Pauwels, altri nella camera blindata del ristorante Quick-Élysées (Champs-Élysées, 114), che funge da magazzino, ma purtroppo la maggior parte di essi è andata perduta.
Mentre Il mattino dei maghi cresceva, ci accorgemmo che la sua struttura era altrettanto bizzarra e unica: vi avevamo inserito lunghe citazioni, ma anche storie di pura immaginazione – cosa che, per quanto ne so, non è mai stata fatta da nessuno. Quando ci mettemmo alla ricerca di un titolo, io proposi Approcci generali, che però avrebbe generato confusione, avendo un taglio, per così dire, umoristico. Suggerii allora Il Graal e la Galassia, ma Claude Gallimard, futuro editore dell’opera, ci fece notare che pochissimi sapevano cosa fossero il Graal e le galassie (e come dargli torto, pensando ai lettori di Sartre e Gide?). Fu Pauwels a trovare Il mattino dei maghi, titolo definitivo del libro, che uscì nel 1960.
La sua pubblicazione ha suscitato numerose reazioni. Jean Paulhan e Raymond Queneau mi dissero che, se avessero letto il manoscritto, per consentirne la pubblicazione l’editore sarebbe dovuto passare sul loro cadavere.
Impossibile ricordare tutti gli attacchi. Un integralista (l’estrema destra della Chiesa cattolica) scrisse un libro in cui dimostrava che Il mattino dei maghi ci era stato dettato da Satana in persona. Comunisti e uomini di sinistra pubblicarono studi dimostrando che era una macchinazione per distogliere il popolo francese dai veri problemi. Un autore tedesco di fantascienza, Walter Ermsting, spiegò che il libro ci era stato trasmesso telepaticamente dal sistema solare di Altair. Quanta immaginazione…!
Lavorando con Louis Pauwels forse non avrò penetrato i grandi segreti cosmici, ma ho imparato due cose. Anzitutto, che un non-scienziato può essere un uomo valido e degno di amicizia; prima di conoscerlo, consideravo questa tipologia al di sotto del livello umano. In secondo luogo, il nostro rapporto mi ha insegnato l’importanza dello stile. L’enorme successo de Il mattino dei maghi è dovuto in gran parte allo stile di Pauwels. Per quanto mi riguarda, non nutro l’ambizione di essere uno scrittore, ma so di avere un gran talento nel raccontare storie. Quando discutevo con Pauwels, gli parlavo come se mi trovassi davanti al fuoco del campo coi miei compagni di lotta, o nei campi di concentramento cogli altri deportati.
Di recente, agli inizi del 1976, ho esaminato l’ultima edizione de Il mattino dei maghi. Il novantadue per cento dei fatti indicati all’interno del libro è esatto; purtroppo non siamo riusciti a verificare la restante parte, essendo coperta dal segreto militare: ebbene, la veridicità del nostro libro è superiore a quella di qualsiasi altra opera scientifica contemporanea. L’esattezza dei migliori libri scientifici non supera in media il cinquanta per cento, vale dire che un fatto su due è falso. Nemmeno i dubbi degli scienziati cambiano nulla. Quando sono al potere, come gli antropologi nella Germania hitleriana o Lyssenko nella Russia di Stalin, spediscono chi contraddice le loro teorie nei campi, inverando le parole di Max Planck: «La verità non trionfa mai, ma i suoi avversari hanno il brutto difetto di morire sempre». Non amo affatto il termine “divulgazione” e credo sia impossibile “divulgare senza volgarizzare”, come recita il motto di una nota casa editrice. Ma si può certamente spiegare, anche se ciò implica un tradimento: infatti, il solo linguaggio della verità è di tipo matematico, e la matematica non può essere espressa a parole. Mi sono dovuto sforzare parecchio per inserire ne Il mattino dei maghi una sola formula matematica. Anche Jacques Monod ce l’ha fatta, nella sua celebre opera Il caso e la necessità, antitesi (o antidoto?) de Il mattino dei maghi. Tuttavia, se è giusto difendere ciò che si crede vero, bisogna essere anche capaci di evitare l’errore. Ebbene, l’unica formula inserita da Monod nel suo libro è sbagliata…
Sono convinto che gli aspetti più favolosi del mondo possano essere formulati solo a partire dalla matematica, ma che sia altrettanto necessario parlarne con uomini come Pauwels, dotati di una certa dote poetica. Ho avuto un’esperienza analoga – piuttosto deludente – con il cineasta Alain Resnais, a cui ho esposto le teorie matematiche moderne sul tempo. Non ci ha capito nulla, ma qualcosa è passato, generando film come L’anno scorso a Marienbad, in cui un uomo incontra una donna ben prima di averla vista, e Je t’aime, je t’aime, storia di un viaggiatore nel tempo che orbita sempre intorno a un istante (la sua destinazione), prima di fermarsi.
Lavorare con Pauwels è piacevole. È al tempo stesso entusiasta e critico – il solo atteggiamento possibile quando, come disse Talbot Mundy, si attraversano frontiere in cui «gli avvenimenti, come le sentinelle, aprono il fuoco senza preavviso». Ecco perché ne Il mattino dei maghi non si trovano (e solo Dio sa quante ne abbiamo vagliate!) truffe come dischi volanti, astrologia, radioestesia, ectoplasmi, guaritori filippini… I nostri emulatori non hanno avuto la stessa onestà, ma non possiamo farci nulla.
È difficile spiegare come mai io e lui non abbiamo mai litigato, cosa che accade spesso durante le collaborazioni. Penso sia dovuto al fatto che la nostra relazione non è competitiva. Ciò che interessa a me non importa a lui, e viceversa, facendo sì che la nostra sia una visione binoculare dell’universo, a cui teniamo parecchio (come noto, lo sguardo binoculare è reso possibile dalla distanza che separa gli occhi). Per continuare con questa metafora, potrei dire che il nostro sguardo intercetta radiazioni che di norma l’occhio non percepisce. Risiede qui il nucleo del realismo fantastico.
L’espressione risale allo scrittore belga Franz Hellens e si applica perfettamente al nostro percorso – anche se tengo a precisare che non è una filosofia in senso vero e proprio, quanto piuttosto un atteggiamento di fronte alle cose. È infatti impossibile, al contrario di quanto ripetuto giorno e notte dagli sciocchi, “aderire” al realismo fantastico. A questo proposito, ricordo sempre l’aneddoto del segretario di Darwin.
«Signore» gli disse, «c’è qui una che ha letto la sua opera. Vorrebbe dirle che ha finalmente accettato l’universo!».
«Alla buon’ora!» tagliò corto Darwin.
Il realismo fantastico rende l’universo più gradevole, ma è impossibile che dia i natali a una religione o una filosofia. Il mattino dei maghi uscì nel 1960. Allo stato attuale delle cose, gli manca solo l’indice dei nomi. Ma Pauwels e io non ne possiamo davvero più. Io credevo che l’opera passasse inosservata. Pauwels, più ottimista, sperava di raggiungere le mille copie. Entrambi avevamo fatto male i conti…
sabato 26 settembre 2020
IL FANTASMA DEL MUSEO È «tornata» la contessa Lydia
tratto da "Il Giornale" del 24/04/2007
Appassionata di esoterismo e scomparsa nel '45, dopo mezzo secolo sarebbe all'improvviso riapparsa nelle stanze di casa sua, in via Sant'Andrea 6
di Stefania Vitulli
Nobildonna. Appassionata lettrice di volumi di spiritismo e di esoterismo. Organizzatrice di esclusive serate in compagnia di una sfera di cristallo, in un salottino dorato della sua casa milanese, per evocare chissà quali misteriose presenze e predire il futuro ai nipoti.
Con queste credenziali, pareva inevitabile che la contessa Lydia Caprara Attendolo Bolognini, una volta deceduta, si trasformasse in un fantasma. E che tornasse ad abitare, dando discreto disturbo ai suoi «vicini», la sua splendida casa di via Sant'Andrea 6 a Milano, donata al Comune alla sua morte nel 1945 e da 1963 divenuta Museo di storia contemporanea. Ama manifestarsi nelle quiete notti del centro storico milanese, aggirarsi nelle numerose stanze dei suoi palazzi di via Sant'Andrea e via Bagutta 24, immerse in quelle ore in un silenzio di tomba, nel cuore di quello che oggi è il quadrilatero della moda e che fino a mezzo secolo fa era ancora il presidio dei milanesi di razza, delle antiche famiglie nobili, degli intellettuali bohémien, del maestro Toscanini. La contessa si agita. Sposta i mobili originali del suo appartamento al primo piano del museo: cassapanche, sedie imbottite, porcellane, quadri, rari reperti egizi che le rammentano la nascita, nel 1876, e l'infanzia ad Alessandria d'Egitto. A volte fa così tanto rumore che «sembra abbia ospiti». Di lei, i testimoni affermano di vedere l'ombra, di sentire correnti fredde attraversare le stanze o un improvviso calore emanare dai mobili, porte sbattere, finestre ermeticamente chiuse aprirsi. Si fa sentire, la contessa Lydia, soprattutto quando la gestione del palazzo la turba. Che si tratti di ristrutturazioni, di tinteggiatura delle pareti, di acquisizione di mobili o quadri o semplicemente di una festa in suo onore, non manca mai di dire la sua.
«La prima volta che mi hanno parlato di queste manifestazioni - ci racconta Roberto Guerri, direttore delle Civiche raccolte storiche di Milano - è stato quando abbiamo preso il Museo e rivisto l'allestimento, nel 1994. Due ragazze delle pulizie sentirono poco prima delle sette del mattino una nitida voce femminile che chiedeva "Chi siete? Cosa fate in casa mia? Cosa volete?". Non ci feci caso. Ma cambiammo il personale e anche i nuovi venuti vedevano un'ombra, di mattina presto e a museo chiuso, dirigersi dalle stanze dell'appartamento "ricostruito" della Contessa agli uffici. Quando la inseguivano e aprivano le porte, non c'era nessuno. Alla fine degli anni Novanta di nuovo la contessa si fece sentire, per dirci "Adesso avete sistemato la mia casa"».
Di nobili origini bolognesi, dei Caprara di Montalba, Lydia sposò a soli sedici anni, nel 1892, il conte Gian Giacomo Morando de Rizzoni, imparentato coi Litta e nipote della più rinomata amante di Umberto I, la «bella Bolognini», di cui, nel più famoso quadro che la ritrae, Lydia indossa la lunghissima collana di perle. La coppia risiederà a Milano, nel palazzo di famiglia di via Sant'Andrea e presso il grandioso castello di Sant'Angelo Lodigiano, feudo degli Attendolo Bolognini dal 1452 e oggi sede della Fondazione che Lydia volle intitolare al marito. I curatori del Museo hanno negli ultimi dieci anni riportato nel palazzo gli arredi originali restaurati e la quadreria sei-settecentesca dei Bolognini, in modo da rendere l'idea di quel che doveva essere casa Morando.
E così la contessa ha potuto sentirsi di nuovo a casa ed è tornata ad abitare le sue stanze: «Gli episodi più eclatanti sono avvenuti durante la ristrutturazione del 2003» continua Guerri. «Il corpo di guardia al pianterreno del Museo passava notti molto agitate. Sentiva che di sopra venivano spostati i mobili. Staccavano l'allarme per controllare: tutto era a posto. Quando decisi di riverniciare la Pinacoteca in un colore violetto, ricominciarono le turbolenze. Dovetti cambiare il colore "sgradito" e la contessa si quietò. I custodi erano arrivati a portare lumi e croci, la notte, per difendersi dal fantasma, e volevano organizzare una veglia la notte del suo compleanno per evocarla e parlarle».
Oggi, che il Museo è come nuovo e si attende che diventi la «Casa della Storia» di tutti i milanesi, la contessa che dice? «L'ultimo episodio misterioso è accaduto l'estate scorsa - ci racconta Beatrice De Angelis, una delle custodi -. Abbiamo passato le mani insieme a una collega sul tavolino ricoperto di velluto rosso che si trova nell'appartamento. E un forte calore è salito dal velluto. Non credo ai fantasmi. Ma quel tavolino ha qualcosa di strano». Forse Lydia cerca di evocare qualcuno che le riporti la sua sfera di cristallo, oggi a Monaco di Baviera nelle mani degli eredi Von Wesendonk, o i suoi libri esoterici, custoditi alla Biblioteca Trivulziana del Castello Sforzesco. Troppo lontano perché una nobildonna sola, di notte, vi si possa avventurare.
mercoledì 23 settembre 2020
In Egitto ritrovato il “Libro delle due Vie”, il testo illustrato più antico al mondo. Eccezionale scoperta firmata da Harco Willems, professore all’Università di Lovanio in Belgio.
di Carlo Franza
Grandiosa scoperta in Egitto, ma certamente pare essere un evento di stampo mondiale. E’ stata ritrovata l’edizione più datata del testo illustrato più antico del mondo; si tratta del Libro delle due Vie , una sorta di guida avventurosa per il regno dei morti. In Egitto è stata scoperta la copia più antica di quello che viene considerato il primo testo illlibro-due-vie-egittoustrato al mondo: un’edizione del Libro delle due vie risalente a 4mila anni fa. L’eccezionale scoperta è stata pubblicata per la prima volta nel Journal of Egyptian Archaeology, già nel settembre 2019, in un articolo a firma di Harco Willems, un collega egittologo di chiara fama, professore all’Università di Lovanio in Belgio e tra i maggiori esperti dei Testi dei Sarcofagi. Tutto parte dalla data del marzo/aprile del 2012, quando vicino alla città egiziana di Minya, il Progetto Dayr al-Barsha, dell’università belga KU Leuven, ha scavato nel sito del complesso funerario di Medio Regno del nomarca Ahanakht I. La tomba di Ahanakht I è piuttosto conosciuta, dal momento che è stata esplorata tra il 1891 ed il 1891 e completamente scavata dall‘archeologo americano George Andrew Reisner nel 1915, sostenuto dalla Harvard University e dal Museum of Fine Arts di Boston. Il sito conserva la necropoli principale dei governatori della regione durante il Medio Regno, all’incirca dal 2055 al 1650 a.C., e vanta molte tombe riccamente decorate. Gli scavi dell’università belga hanno portato alla luce i resti di un sarcofago del Medio Regno, di una donna di nome Ankh, sulle cui pareti sono riportati i versi della prima versione de Il Libro delle due vie, una sorta di mappa mistica, mappa per l’aldilà egiziano. Il libro anticipa il corpus di testi funebri raccolto nel famoso Libro dei Morti, una vera e propria guida, esemplarissima, per il caro estinto, in quanto descriveva i due percorsi irti di ostacoli, uno via terra e l’altro via acqua, che l’anima poteva intraprendere per approdare al cospetto di Osiride, sovrano e giudice supremo del regno dei morti. Secondo Rita Lucarelli, docente di Egittologia all’Università della California-Berkeley, gli antichi egizi erano ossessionati dalla vita in tutte le sue forme e la morte era una nuova vita. I due viaggi rappresentati nel Libro delle due vie, uno via terra e l’altro via acqua, erano una sorta di odissea purgatoria, straordinariamente ardua e così piena di pericoli che avevano bisogno di guide mortuarie come questo libro per accompagnare l’anima e garantire il suo passaggio sicuro.
libro-due-vie-egitto-2-1068x671Risulta chiaro che questo non è il solito libro da sfogliare, anche perché questi testi antichi erano incisi sulle pareti di legno dei sarcofagi, in quanto servivano proprio ad essere letti dai defunti nel corso del pericoloso viaggio negli inferi, durante i quali potevano essere assaliti da ogni sorta di demoni, fiamme ardenti e custodi strani. Quasi una sorta di Divina Commedia dantesca ante litteram, tra il racconto e vere e proprie formule magiche. Sebbene nelle iscrizioni si faccia riferimento a un governatore di nome Djehutynakht, la ricerca di Willems ha rivelato che la bara originariamente conteneva i resti di una donna di nome Ankh, indicata in tutto il testo come “lui” e imparentata con un alto funzionario della provincia. Anche in questo caso, nulla di strano, visto che spesso le defunte venivano chiamate con pronomi maschili, per assomigliare di più a Osiride.
Dal 2001, Willems ha supervisionato gli scavi nella necropoli copta di Dayr al-Barshā, utilizzata come cimitero durante il periodo del Regno Medio, dal 2055 al 1650 a.C. circa. Gli antichissimi frammenti del sarcofago sono stati ritrovati all’interno di un lungo un pozzo, nella tomba di un antico governatore provinciale egiziano di nome Ahanakhtin già nel 2012. Ma il fragile stato dei manufatti, saccheggiati ripetutamente nel corso dei millenni e attaccati da funghi degradatori del legno, ha impedito agli studiosi di effettuare ricerche e verifiche, almeno fino a ora. Le immagini ritrovate su due pannelli di cedro, infatti, sono state elaborate con DStretch, un potente software in grado di restituire immagini ad alta definizione, hanno rivelato incisioni preziose con figure e geroglifici, nonostante i segni siano per lo più sbiaditi a occhio nudo. Nel 2012, dunque, il team di archeologi ha riaperto una tomba abbandonata da tempo e il pozzo su cui Willems ha investigato era uno dei cinque nel complesso tombale del monarca Ahanakht I. Alcuni metri più in basso, i ricercatori hanno scoperto i resti di un sarcofago trascurato dalle precedenti campagne di scavo il cui contenuto, però, era stato saccheggiato e distrutto da funghi degradatori del legno. Solo due pannelli di cedro in decomposizione hanno rivelato incisioni preziose con immagini e geroglifici.
Sulla base di iscrizioni su altri manufatti tombali che fanno riferimento al faraone Mentuhotep II, che regnò fino al 2010 a.C., Willems ritiene che questo Libro delle due vie recentemente identificato sia più antico di almeno quattro decenni delle altre versioni precedentemente conosciute del testo e già ritrovate in Egitto.
sabato 19 settembre 2020
Libri che uccidono, alchimia ed energia atomica
tratto da http://blog.ilgiornale.it/scarabelli/2020/01/21/libri-che-uccidono-alchimia-ed-energia-atomica/
di Andrea Scarabelli
La sera del 21 marzo 1919, a Parigi viene presentato un singolare poema in prosa dadaista, dal titolo Voyages en Kaléidoskope. Pubblicato cinque mesi prima dalla casa editrice di Georges Cres e tutt’ora inedito in italiano, è firmato da Irene Hillel-Erlanger, poetessa ebrea già autrice di varie antologie con lo pseudonimo di Claude Lorrey nonché collaboratrice di Germaine Dulac, regista del cinema muto francese. Nata il 30 giugno 1878, era tra le promotrici del neonato movimento dadaista, amica di Breton e Aragon (si vocifera, tra l’altro, che il racconto erotico, firmato dal secondo, Le con d’Irène, fosse dedicato proprio a lei…). Sta di fatto che, come racconta Serge Hutin nel suo libro Governi occulti e società segrete, tradotto negli anni Settanta all’interno della mitica collana di Mediterranee “la Biblioteca dei Misteri”, durante quel cocktail, dopo aver distribuito copie omaggio del libro ai giornalisti e agli amici presenti, l’autrice muore per una singolare intossicazione da ostriche. Nessun altro invitato registra il benché minimo malessere; in compenso, il giorno dopo qualcuno acquista tutte le copie in circolazione del Voyages, facendolo così sparire dalle librerie.
La trama del prose-poem è, in realtà, molto semplice: sintetizzando chimicamente misteriosi fluidi e metalli, lo scienziato e occultista Joel Joze mette a punto un caleidoscopio capace di rivelare la natura nascosta delle cose. Così come nella Fosca del nostro Iginio Ugo Tarchetti, Joel è infatuato di due donne: la Contessa Vera, stella della Parigi notturna, spregiudicata e crudele, e la più discreta Grace, che indossa sempre un velo. Lo scienziato sceglie ovviamente la prima, che però lo riduce sul lastrico, fino a quando viene a salvarlo Grace. Quando questa si toglie finalmente il velo, Joel scopre che lei e Vera sono in realtà sorelle, per così dire due emanazioni della stessa persona. La prima è il tempo, la seconda l’eternità; l’una è la realtà, l’altra la verità.
Incastonato in fronte, celato dal velo, Grace porta un diamante bianco, che nel corso della tenzone ingaggiata con la rivale genera un’immane quantità di forza “sottile” (una sinistra anticipazione dell’energia atomica?), radendo al suolo l’intera Ville Lumière. Una trama singolare, che secondo molti celerebbe tracce ermetiche dalla prima all’ultima pagina, su come preparare la Pietra dei Filosofi, portando a compimento la Grande Opera. Difficile dire se l’autrice si occupasse operativamente di alchimia – certo è che conosceva quell’ambiente, assai florido nella Belle Époque. Fu molto probabilmente da queste frequentazioni che nacque quello che è e rimane un autentico testo a chiave. D’altronde, nel dicembre 1919, tre mesi prima di morire, sulla rivista Literature lei stessa aveva offerto una chiave di lettura, scrivendo che «enigmi e segni si trovano ovunque. Basta solo saperli leggere».
Col passare degli anni, dopo quel cocktail fatale nessuno parlò più di lei. Fino al 1945, quando Eugen Canseliet, discepolo dell’enigmatico Fulcanelli, scrisse nei Due luoghi alchemici di aver ricevuto dal suo maestro il compito di recuperare copia di quel testo. Come noto, uno dei dettami alchemici prescrive il cosiddetto “segreto iniziatico”, ossia di non rivelare mai ai profani gli enigmi dell’Ars Regia. E quel libro pullula di enigmi cifrati, tra cui un termometro che secondo alcuni indicherebbe il “segreto alchemico delle temperature”. Che qualcuno avesse voluto punire l’autrice, avvelenandola e incaricandosi poi di ritirare tutte le copie del libro incriminato dalla circolazione? O che lei stessa avesse voluto lanciare un monito agli apprendisti stregoni dell’era atomica, anticipando di un paio di decenni i macelli di Hiroshima e Nagasaki?
Nessuno lo saprà mai. E chi sa è meglio che non dica nulla. Concludo con un piccolo aneddoto: nel 1971, Jacques Bergier pubblicò in Francia I libri maledetti, tradotto in italiano l’anno dopo sempre ne “la Biblioteca dei Misteri”. La tesi del libro è molto semplice: dall’inizio dei tempi, esisterebbe una misteriosa congrega (gli Uomini in Nero) che si occuperebbe di far sparire dalla circolazione quei libri che potrebbero portare l’umanità a un repentino sviluppo evolutivo. Altro che censori! Considerando la scarsa responsabilità mostrata da certi uomini di potere alle prese con gli enigmi della materia, i membri della setta, in sostanza, avrebbero come compito quello di salvare l’umanità da se stessa. Ebbene, nel Fondo Jacques Bergier (Biblioteca di Saint-Germain en Laye) è contenuto il manoscritto dell’indice originario del libro, pubblicato da Marc Saccardi nel suo ricco libro Amateur d’insolite et scribe des miracles (L’OEil du Sphynx, Paris 2008). Nel manoscritto compaiono tutti i capitoli poi finiti nell’edizione stampata. Tutti, salvo uno, cancellato nervosamente a penna dall’autore. Ecco il suo titolo: «Chapitre IX. Le “kaléidoskope” d’Irene Erlanger».
sabato 5 settembre 2020
sabato 29 agosto 2020
ALCHIMIA La quintessenza della mente
tratto da "Il Giornale" del 02/01/2007
Questa falsa scienza è come un fiume carsico nella storia dell'umanità Riemergendo, a esempio, nei rosacrociani o nella New Age. Un'antologia dei «testi della tradizione occidentale»
di Giuseppe Bernardi
Alla parola «alchimia», che si dovrebbe forse pronunciare «alchìmia», associamo subito la medioevale ossessione, ristretta a pochi, della trasmutazione dei metalli, e tendiamo probabilmente a lasciar cadere lì l’argomento. A un gradino successivo d’attenzione possiamo riflettere sul fatto che era un’arte con la quale si credeva di convertire i metalli in oro, il metallo perfetto, e di creare pozioni capaci di guarire qualsiasi malattia. A un livello ulteriore di disponibilità riflessiva, si stabilirà che quest’arte, stata pagana prima che alto- e basso-medioevale, cercava la trasmutazione dei metalli vili attraverso l’individuazione di un unico principio attivo, la «quintessenza», la pietra filosofale, strada che doveva condurre all’elisir di lunga vita, alla sulfurea aspirazione faustiana dell’eterna giovinezza, tutte pratiche sospette che la Chiesa ovviamente s’affrettò a bollare come demoniache.
È forse lecito pensare che tali studi misterici, e le loro pratiche, si svolgessero in ambiti circoscritti e marginali, senza grande risonanza nel mondo, come dire, nel «lavoro» e in tutte quelle attività che esso macinava, dai commerci alle arti. Se Dante nel canto XXIX dell’Inferno si prende la briga di citare un falsario alchimista, da lui conosciuto personalmente e finito male («Sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,/ che falsai li metalli con l’alchìmia;/ e te dee ricordar, se ben t’adocchio,/ com’io fui di natura buona scimia»), è assai dubbio che, nei secoli di fioritura dell’alchimia, fra Tre e Quattrocento, il mercante o il calzolaio fiorentino, o il piccolo armatore veneziano impegnato a battere le coste dell’Istria e della Dalmazia, avessero per la testa l’alchimia. Insomma, del sogno alchemico, falsa scienza che presagiva peraltro la nascita, nella seconda metà del Seicento, di una scienza vera, la chimica, parrebbe di non poter parlare se non in termini storici.
Invece, è da questo nostro ultimo assunto in poi, nel senso di una sua implicita smentita, che sembra partire l’enorme lavoro esegetico, compilatorio, antologico, che è ora depositato in Alchimia. I testi della tradizione occidentale, a cura di Michela Pereira («I Meridiani. Classici dello spirito», pagg. CXXXVI-1566, euro 55). Infatti, come dice nel dottissimo saggio introduttivo la curatrice, la tradizione alchemica, con il suo simbolismo che aspira all’integrazione della mente col mondo, attraverserebbe, come un lungo fiume carsico dalla linfa nascosta, i secoli fino a noi alimentando la nostra cultura, «ma a cui possono attingere solo quanti non hanno paura di avventurarsi nel profondo».
Nelle sue vene, diverse per origine, contenuti, lingua, la tradizione alchemica, partendo dallo scopo originario di perfezionamento della materia, di cura del mondo, di purificazione di sé, si sarebbe col tempo arroccata nel mito, anche per un’orgogliosa diversificazione dalle scienze moderne, e si troverebbe radicata «nei gruppi esoterici ancora vitali e attivi nella realtà politica e nella cultura», come il movimento rosacrociano, per arrivare persino alla New Age. Cosa non si farebbe pur di rimanere abbarbicati all’irrazionalismo? Pur di rifiutare la vetusta ma sempre pericolosa idea di progresso, con le sue scienze sociali? Pur di sfuggire alla delusione delle ideologie per avervi demandato l’esigenza di risposte assolute, come nelle religioni? Pur di non liberarsi da una dolorosa ma seduttiva nostalgia di divino, quella che spingeva gli alchimisti a cercare di ri-creare il Paradiso, a ricevere forse i misteri dell’integrità di sé col mondo attraverso i segreti trasmessi dagli angeli caduti?
In quel «quanti non hanno paura di avventurarsi nel profondo» c’è quasi una velata minaccia, un affettuoso avvertimento paterno, anzi materno, trattandosi di una emanazione dello spirito junghiano, cui la curatrice pare particolarmente devota. Benché sembri che siano passati secoli (e per la fine dell’alchimia millenni) da quando una sessantina d’anni fa Carl Gustav Jung scrisse mirabili testi sullo spirito Mercurio, sui rapporti tra psicologia e alchimia, o meglio sugli apporti dell’alchimia alla psicologia, i suoi concetti fondamentali, secondo cui la simbologia alchemica riusciva a portare in superficie le strutture archetipiche della personalità umana utili alla rigenerazione dell’io, paiono resistere al tempo anche nella loro traslata applicazione. E chi ha avuto l’occasione di visitare la casa di Jung sulle rive del lago, a Küsnacht, vicino a Zurigo, e di vedere dipinte sulle pareti le sue figurazioni orientali, piene di sogno e di simbologie indiane e tibetane, non può non sentire ancora la suggestione del luogo e dell’uomo che l’abitò. E viene anche in mente un passo che concentra e relativizza il pensiero di Jung sull’alchimia: «Certo la produzione dell’oro e in genere l’indagine della natura chimica era una grande istanza dell’alchimia. Ma ancora più grande, più appassionante, sembra esser stata, non si può dire "l’indagine", ma piuttosto l’esperienza dell’inconscio. Che per tanto tempo non si sia capita questa parte dell’alchimia - la sua mistica - dipende puramente dal fatto che nulla si sapeva dell’inconscio sovrapersonale e collettivo».
Lo sforzo prodigioso della curatrice di presentare e commentare una vastissima e significativa scelta di testi della tradizione alchemica, dallo pseudo-Democrito e da Zosimo di Panopoli a Giabir ibn Hayyan con tutta la sua scuola, da Ermete Trismegisto a Michele Scoto, da Stefano d’Alessandria a Ruggero Bacone, da Raimondo Lullo a Paracelso, e a decine d ‘ altri autori, è inteso proprio nel senso di fornire un contributo al «significato filosofico della quête alchemica e del suo ruolo nella cultura europea», ruolo evidentemente ritenuto vivo e fluente. «Dire l’indicibile» sembra essere al fondo di questa quête, che, accanto a un atteggiamento di mistero e a una volontà di occultazione, presenta una proliferazione di testi, ripetitivi, apparentemente didascalici, ciascuno con apporti propri, tendenti tutti a un sapere che lotta di continuo con la sua intraducibilità in linguaggio, perché è un sapere che si può ottenere eventualmente attraverso l’esperienza intuitiva, attraverso una specie di aspirato donum Dei, che consentirebbe di penetrare la materia, di condurre la mente dentro le dinamiche naturali, nell’afflato di una trasformazione della realtà, di una riunificazione e scambiabilità di corpo e spirito, di alto e basso, di maschio e femmina.
Ma tutto ciò rimase, nella tradizione alchemica finché durò, una lotta, non riservata all’alchimia soltanto. Senza nostalgia dell’Eden, non hanno cercato forse di dire l’indicibile don Chisciotte, la signora Bovary, Gregor Samsa, Bloom?
giovedì 27 agosto 2020
sabato 22 agosto 2020
Alchimia, Ufo o beffa? E' il libro più misterioso
tratto da Il Giornale del 5 marzo 2009
Il manoscritto Voynich: scritto in una lingua sconosciuta, illeggibile da 500 anni. Ha sconfitto crittografi, archeologi e computer. Uno studio scientifico rilancia l’enigma
di Luigi Mascheroni
Ha fatto impazzire storici e linguisti di ogni Paese, ha resistito agli attacchi dei crittografi di eserciti e servizi segreti di mezzo mondo, ha sconfitto i più sofisticati software di decifrazione di codici, ha ammutolito scienziati e filosofi.
È un piccolo volume formato da un centinaio di fogli scritti a mano, di cui non si conosce l’autore, né la data né il luogo di composizione: è conosciuto come «manoscritto Voynich», dal nome inglesizzato dell’antiquario russo di origini polacche Wylfrid Wojnicz che lo acquistò per il suo negozio londinese dai gesuiti del collegio di Villa Mondragone, a Frascati, nel 1912. Ed è considerato l’enigma letterario più sorprendente di tutti i tempi, il libro più misterioso della storia. Che nessuno è in grado di leggere.
Risalente a un periodo compreso fra la fine del Quattro e la prima metà del Cinquecento, scritto in una lingua misteriosa e indecifrabile, arricchito da numerose illustrazioni a colori di piante ignote ai botanici, animali rari, strane figure femminili, stelle e diagrammi, il «manoscritto Voynich» resiste da mezzo millennio a ogni tentativo di decodificazione e traduzione: ha battuto i geroglifici egizi, la scrittura cuneiforme, persino la leggendaria Lineare B minoica. Il suo silenzio è impenetrabile. Pochissimi lo hanno potuto maneggiare - il manoscritto è custodito alla Beinecke Rare Book Library dell’università di Yale -, qualche studioso lo conosce attraverso la riproduzione pubblicata dall’editore francese Jean-Claude Gawsewitch nel 2005, i più ne hanno solo sentito parlare, tramandando il «mistero» attraverso studi specialistici, siti internet, persino romanzi fantasy.
Oggi la storia di questo occulto rompicapo letterario è raccontata, insieme ai numerosi tentativi di decifrazione e alle più fantasiose ipotesi interpretative - un messaggio in codice di una civiltà extraterrestre, un clamoroso falso rinascimentale, un’“enciclopedia” di arcani saperi per una setta di iniziati... - è ripercorsa dal primo saggio scientifico dedicato all’argomento mai apparso in Italia: L’enigma del manoscritto Voynich dello studioso argentino Marcelo Dos Santos (Edizioni Mediterranee).
Secondo una lettera in latino, datata 1666 e trovata allegata al testo, il volume fu acquistato nel 1568 dall’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, collezionista di nani per il divertimento della corte e di libri esoterici ed altre mirabilia per il proprio piacere. Poi nel XVII secolo scomparve, per riapparire agli inizi del ’900 nella biblioteca gesuita dove lo trovò Wojnicz.
Ma chi l’ha scritto, e perché? Nel 1921 il filosofo statunitense William R. Newbold, specialista in codici cifrati nella Prima guerra mondiale, sostenne che il manoscritto fosse opera del filosofo Ruggero Bacone (1214-93). Altri, confondendo il cognome di Ruggero Bacone, del filosofo rinascimentale Francis Bacon. Negli anni Cinquanta il crittografo americano William Friedman individuò una serie di “ridondanze”, ossia ripetizioni di alcune parole, simili alle formule chimiche, ipotizzando si trattasse di un antico erbario. Nel 1962 Edith Sherwood fece notare la similitudine fra la calligrafia del manoscritto e la scrittura speculare di Leonardo da Vinci; nel 1978 il linguista John Stojko considerò il testo una raccolta di lettere scritte in ucraino, successivamente codificate, ma senza capirne il senso; mentre negli anni Ottanta il fisico Leo Levitov assicurò che il manoscritto fosse opera degli eretici Catari e che celasse i segreti del Giardino dell’Eden. Infine lo psicologo inglese Gordon Rugg, docente di Scienze del calcolo all’Università di Keele, nel 2003 è giunto alla conclusione che si tratti di un falso cinquecentesco, realizzato dall’avventuriero elisabettiano Edward Kelley con la complicità dell’alchimista John Dee per vendere, dietro un compenso di 600 monete d’oro, un testo incomprensibile abilmente contraffatto all’imperatore Rodolfo II. Senza però riuscire del tutto a convincere esperti e profani della reale natura dell’unico libro esistente che nessuno sa leggere: un trattato di alchimia in codice, il delirio di un pazzo, una scrittura perduta o una beffa d’artista?
mercoledì 19 agosto 2020
In Ungheria per scoprire i Garabonciás diák
In collaborazione con l'autore Michele Leone
tratto da: https://micheleleone.it/garaboncias-diak-i-maghi-erranti-della-tradizione-ungherese/
Garabonciás diák i maghi erranti della tradizione ungherese
Perso in alcune ricerche sulla magia e religiosità popolare ho incontrato sulla mia strada i Garabonciás diák. Approfondirò questo argomento in ulteriori più dettagliati articoli, oggi ti riporto il video sui Garabonciás diák. Mi sono imbattuto in questi maghi erranti, quasi per caso, ero partito studiando alcuni fenomeni magico religiosi del sul Italia e risalendo lo stivale dopo aver incrociato i Benandanti in Friuli ho trovato i Grabancijaš dijak subito dopo il confine ed arrivare in Ungheria è stato quasi fisiologico.
Come noterai dall’immagine di copertina questo video fa parte di un mio nuovo progetto: La valigia di Hermes.
La valigia di Hermes diventerà una sezione di questo sito e al tempo stesso è pensata come un programma dal vivo e in studio, sia video sia in podcast. Per ora le dirette sono su Facebook, per le puntate in studio mi sto organizzando e spero in autunno di saperti dire qualcosa di più, stesso discorso per i podcast.
Ve non conosci la mia pagina Facebook ecco il link per scoprirla e spero seguirla: Michele Leone: Esoterismo e Società Segrete
Ti riporto il link al mio canale Youtube: Michele Leone
Ecco il video sui Garabonciás diák:
Se conosci qualche tradizione popolare o particolare legata alla magia, alla preghiera, a riti particolari, se ne sei stata/o testimone, se hai ricevuto dalla nonna o da qualche zia formule o ricette particolari sarei felice di conoscerle. Puoi inviarmi una mail a questo indirizzo info chiocciola micheleleone.it o compilare il form che trovi qui nel sito.
Torno alle mie esplorazioni, non mi resta che augurarti
Gioia – Salute – Prosperità
martedì 11 agosto 2020
Il mistero dell’Ufo che spaventò Mussolini e sparì in America
tratto da "Il Giornale" del 20 marzo 2017
Nel giugno del '33 un Ufo si schianta in Italia. Il regime di Mussolini insabbia tutto. Ma secondo Pinotti, del Centro ufologico nazionale, quell'avvenimento spinse il Duce ad allearsi con Hitler
di Gabriele Bertocchi
C'è una storia misteriosa di Ufo tenuta nascosta e seplata dal regime fascista, guidato da Benito Mussolini.
È quella di un velivolo non identificato che si schiantò nei pressi del Lago Maggiore, in Italia.
Un avvenimento che, secondo Roberto Pinotti, fondatore e segretario del Centro ufologico nazionale, potrebbe ridefinire la storia del periodo pre-bellico e l'alleanza tra Mussolini e Hitler. L'Ufo - termine che al tempo dei fatti non era stato ancora coniato - si è schiantato al suolo il il 13 giugno 1933 al confine tra Piemonte e Lombardia, più precisamente a Vergiate, in provincia di Varese, non troppo distante dall'aeroporto di Malpensa. Tra i resti di quel velivolo, non solo rottami: vengono rinvenuti anche i corpi dei piloti.
La paura di Mussolini
L'unica traccia e testimonianza del primo caso ufologico in Italia è un dispaccio dell’agenzia Stefani, di carattere "riservatissimo". La vicenda venne immediatemente secretata, anche se un ufficio, il Gabinetto RS/33, di cui faceva parte anche Guglielmo Marconi, continuò a occuparsi. Ora a provare a fare chiarezza è Roberto Pinotti, durante il convegno "Ufologia" ad Arona. Il professore ha spiegato che "i resti dell’Ufo, che nei disegni viene descritto come un velivolo cilindrico, con una strozzatura poco prima del fondo, con oblò sulla fiancata, da cui uscivano luci bianche e rosse, furono portati nei capannoni della Siai-Marchetti a Vergiate, dove rimasero per 12 anni. Così come i corpi dei piloti, conservati in formalina, a lungo studiati. Si sa che erano alti 1,80, avevano capelli e occhi chiari".
Dalle fattezze dei corpi rinvenuti, Pinotti, come riportato su La Stampa, avanza la sua personalissima ipotesi, fondata sulla somiglianza tra i due alieni e i piloti tedeschi. "Il Duce credette, forse, che sarebbe stato opportuno allearsi con una potenza militare come quella della Germania nazista, capace di produrre un velivolo mai visto prima, piuttosto che averla come nemica", afferma il segretario Centro ufologico nazionale.
I resti spediti negli States
Il mistero però negli anni è rimasto tale. Infatti, a guerra finita gli Alleati hanno preso in custodia quelle case e le hanno spedite in America. Ma il giallo non si risolve, anzi, come fa notare Pinotti si infittisce: "Stranamente le tre persone che erano a conoscenza del trasporto di quelle casse negli Usa sono morte, due in incidenti di mare, una suicida".
Come è evidente ci sono ancora tante risposte mancanti. Ciò che è certo è che gli esperti sono concordi nel sostenere come la zona tra Lago Maggiore e Ticino è tra quelle con più segnalazioni di oggetti non identificati
sabato 8 agosto 2020
La Cia pubblica i suoi "X-Files"
tratto da Il Giornale del 31/01/2016
La Cia pubblica i suoi "X-Files", concedendo al pubblico la possibilità di guardare alle indagini sugli Ufo e gli alieni fra il anni 1940 e gli anni 1950
di Andrea Riva
La Cia pubblica i suoi "X-Files", concedendo al pubblico la possibilità di guardare alle indagini sugli Ufo e gli alieni fra il anni 1940 e gli anni 1950.
"Guardate i nostri X-Files. Abbiamo deciso di mettere in evidenza alcuni documenti che sia gli scettici sia coloro che credono" negli Ufo "troveranno interessanti" afferma la Cia sul proprio sito internet, dividendo i documenti in due categorie.
Ispirandosi alla serie tv di successo '"he X-Files" e ai suoi protagonisti, gli agenti Fox Mulder e Dana Scully, la Cia divide i documenti proprio in base a loro: in quelli che l'agente Mulder userebbe per cercare di persuadere gli altri sull'esistenza di attività extraterrestre, e quelli che l'agente Scully userebbe per offrire spiegazioni scientifiche alla visione degli Ufo.
Uno dei casi della Cia nel file dell'agente Mulder risale al 1952, quando un oggetto "simile a una grande padella volante" è atterrato in Germania. La Cia cita un testimone oculare che, una volta avvicinatosi al luogo dell'atterraggio dell'oggetto, ha visto due uomini con indosso una tuta metallica brillante. I due si sono chinati verso il testimone oculare, per poi tornare alla "grande padella volante" e spuntare il volo. "L'oggetto ha iniziato a sollevarsi lentamente da terra e a ruotare" riferisce il testimone alla Cia, sottolineando che anche se inizialmente pensava di sognare poi avvicinandosi al terreno ha visto l'impronta circolare dell'oggetto volante.
Fra i file anche i documenti e i pareri della commissione scientifica sugli Ufo. I ripetuti avvistamenti nel 1952 non avevano dati nè prove solide per poter essere spiegati e la commissione ha concluso all'unanimità che non c'era una diretta minaccia alla sicurezza nazionale con gli avvistamenti. Molti infatti non erano altro che aerei militari, luce riflessa da cristalli di ghiaccio e chiari raggi di luce.
giovedì 6 agosto 2020
Tradizioni e Misteri vol. 3

Vi presentiamo il terzo volume di Tradizioni e Misteri con articoli di Nicoletta Travaglini, Cavaliere Vermiglio e Vito Foschi, una pubblicazione non periodica dedicata alle tradizioni e ai misteri. La pubblicazione è aperta alla collaborazione di altri. Per chi volesse proporre dei testi, l'indirizzo mail di riferimento è il seguente: tradizioniemisteri@gmail.com.
domenica 2 agosto 2020
X° Convegno di Ufologia città di Pomezia
mercoledì 22 luglio 2020
Medici di nome e di fatto: i segreti alchemici dei Granduchi stregoni
Alambicchi, veleni, ricettari, quadri e antichi laboratori. Tre secoli di (proto)scienza alla corte della famiglia toscana
di Maurizia Tazartes
«Un'infinita varietà di fuochi, di fucine, di fornetti, e lambicchi» per esercitarsi a fondere metalli, trasformarli, studiarli. Era questo il vero regno dei Medici, descritto nel 1561 da Vincenzo Fedeli.
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"Il laboratorio dell'alchimista" di Jan Van der Straet Immagine tratta da Wikipedia |
L'ambasciatore veneziano aveva visto di persona il granduca Cosimo I affaccendarsi a produrre farmaci nella sua fonderia di Palazzo Vecchio. Dal 1582 il figlio Francesco I trasferisce le varie botteghe dedite alla fusione dei metalli, all'oreficeria, alla ceramica, alla lavorazione del vetro, del porfido e della porcellana al secondo piano degli Uffizi. Non lontano dunque da quella suggestiva Tribuna, da poco restaurata, che ne fu il nucleo originario con i suoi tesori di naturalia, mirabilia e pretiosa.
L'alchimia è stata la grande passione che ha affascinato, insieme all'arte, tutti i Medici dal Quattrocento a metà Settecento. Nel corridoio degli Uffizi, dove si facevano esperimenti all'avanguardia, lavoravano insieme ad artigiani e operai gli stessi granduchi. Il colto Francesco I cesellava in una sua stanza al «banco di gioie», mentre in un ambiente vicino giocava il figlioletto Antonio e non lontano riposava nella sua camera la moglie Bianca Cappello. Un quadretto famigliare che la dice lunga sulla modernità di quei signori.
A raccontare l'assiduo lavoro in queste botteghe non ci sono solo gli affreschi cinquecenteschi di Antonio Tempesta e Alessandro Allori nel corridoio di levante, ma una mostra originale: L'alchimia e le arti. La fonderia degli Uffizi: da laboratorio a stanza delle meraviglie, in corso agli Uffizi stessi. Sessanta opere (dipinti, sculture, incisioni, manoscritti, rimedi farmaceutici e libri) portano nella cultura e mentalità del tempo con i suoi sorprendenti segreti.
A creare e sperimentare ricette farmaceutiche furono Cosimo I e i figli Francesco e Ferdinando. Sistemate in preziosi cofanetti intarsiati le pastiglie in terra sigillata (con l'arma del granduca), destinate ad alti dignitari della corte e a sovrani stranieri, curavano con la terra dell'isola dell'Elba gli sputi di sangue, le febbri maligne, le dissenterie. Mentre un particolare olio, detto di contravveleno e formato con migliaia di scorpioni, era utile contro la peste. Balsami a base di piante o di mummie egizie lenivano fistole, bubboni e piaghe. C'era anche la mummia artificiale o chimica, preparata con le carni di un uomo perito di morte violenta, che addolciva i dolori ossei, mentre per il male mestruale andava bene la tintura di corallo. Come poi fossero usati i medicamenti lo illustrano eccezionali codici come Dell'elixir vitae libri quattro del domenicano Fra Donato d'Eremita edito nel 1624, vari trattati di medici ed eruditi.
Nelle fucine alchemiche, rappresentate in magnifiche tele dipinte da David Teniers il Giovane, Gérard Thomas, Giovanni Domenico Valentini, è visibile il lavoro dell'alchimista, una specie di dotto filosofo che consulta libri tra orci, padelle, catini, strumenti vari in bronzo e rame e bracieri di fuoco. Le Illustrazioni alchemicometallurgiche del 1530-1535 del pittore senese Domenico Beccafumi descrivono l'arte fusoria personificando i metalli e gli artefici, attraverso suggestive xilografie che precorrono -con arte - la pubblicità televisiva di dentifrici e detersivi.
E poi ci sono loro i Medici, Cosimo I in un marmo rosso frammentario progettato dal Buontalenti, Francesco I in un medaglione di porcellana e in un dipinto anonimo, Ferdinando I in veste di cardinale, il nipote don Antonio con un orecchino di perla, singolare rimedio per la sua malattia agli occhi. E ancora Ferdinando II, diventato granduca a undici anni, allievo di Galileo, protettore delle scienze e fondatore nel 1642 della Sperimentale Accademia Medicea con sede a Palazzo Pitti. Altro che disimpegnati.
La mostra: «L'Alchimia e le Arti» (Firenze, Galleria degli Uffizi, sino al 3 febbraio, catalogo Sillabe), a cura di Valentina Conticelli
giovedì 16 luglio 2020
Un viaggio sulle tracce insanguinate dell'antichissima stirpe dei vampiri
Nick Groom esplora la letteratura e le leggende da cui è nato Nosferatu
di Luca Gallesi
Creature come il Mostro di Frankenstein e il Vampiro non sono accomunate soltanto dalle innumerevoli pellicole spesso di serie B- prodotte dalla leggendaria casa cinematografica Hammer, ma appaiono intimamente legate sin dalla nascita del loro mito.
Nella notte buia e tempestosa del 16 giugno 1816, a Villa Diodati, sul Lago di Ginevra, alloggiano Byron, il suo medico John Polidori, Shelley, la sua futura moglie Mary Godwin, e la sua attuale amante, nonché sorellastra di Mary, Claire Clairmont. Affascinati dalle storie gotiche, decidono di scriverne una ciascuno e premiare la migliore. Come sappiamo, fu la giovane Mary a vincere la competizione, con quello che sarebbe diventato il riconosciuto capolavoro del genere: Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo, mentre il racconto di Polidori, intitolato proprio il Vampiro, non fu particolarmente riuscito. Quello che non è noto, invece, è il legame tra il romanzo di Mary Shelley e la diffusione del nuovo concetto di vampiro del Romanticismo: lo scienziato Victor Frankenstein, infatti, considera la sua creatura «come il mio vampiro, il mio spettro uscito dalla tomba e destinato a distruggere tutto ciò che mi era caro». Con vampiro intendeva un predatore cattivo e ripugnante, esattamente ciò che voleva dire anche la prima moglie di Shelley, Harriet, quando scoprì i molteplici tradimenti del marito: «L'uomo che ho amato una volta è morto. Adesso è un vampiro!».
Troviamo questo insospettato collegamento tra fantasia e realtà in un avvincente saggio: Vampiri. Una nuova storia, di Nick Groom (il Saggiatore, pagg. 388, euro 25, traduzione di Denis Pitter), dove i mostri come li conosciamo oggi, ossia tramite la loro rielaborazione cinematografica, hanno poco spazio, dato che, come dimostra l'autore, professore di Letteratura inglese all'Università di Exeter, la figura del vampiro affonda le radici in un'epoca arcaica lontanissima dalla rielaborazione romantica e contemporanea. Ben prima del successo del romanzo Dracula, di Bram Stoker, infatti, i vampiri popolano trattati di teologia, referti medici, diari di viaggio, poesia e narrativa, mischiando scienza e superstizione, come questo saggio racconta, documentandone le remote origini slave.
È durante l'Illuminismo che il vampiro esce dal folklore para-religioso per assumere il ruolo di cattivo, quando Rousseau e Voltaire lo assimilano al commercio, gli scambi e l'intermediazione azionaria, esattamente come, nel secolo successivo, lo utilizzerà Marx quale metafora del villain, identificando l'ordine borghese con «un vampiro che succhia il sangue e il midollo». Anche nel Novecento, il Vampiro viene spesso utilizzato come metafora di cattiva politica, ad esempio quando addirittura un gentiluomo compassato come Keynes taccia il primo ministro David Lloyd George di essere «una persona radicata nel nulla, un vampiro!».
A riabilitare il vampiro, se non altro come elegante e irresistibile nobile, ci penseranno, nella seconda metà del secolo scorso, le pellicole interpretate dall'affascinante Christopher Lee, per giungere, infine, ai succhiasangue contemporanei, che popolano piccoli e grandi schermi, da Twilight a True Blood, fino a quelli più inquietanti, curiosamente dimenticati da Groom, ovvero i protagonisti del romanzo di Richard Matheson e dell'omonimo film- Io sono leggenda. Qui, in un crudele contrappasso, è l'ultimo essere umano sopravvissuto a incarnare il Mostro sanguinario, l'assassino spietato, l'incubo dei vampiri, stirpe che ormai domina, contrastata solo dall'ultimo uomo vivente, il pianeta.