domenica 6 luglio 2014

La corta memoria della scienza (1 di 4)



pubblicato su Mystero n. 56, gennaio 2005 (rivista edita da Luigi Cozzi)

di Vito Foschi

Introduzione


Noi viviamo in un mondo tecnologico, in cui tecnica e scienza sono dominanti ed anche in un paese poco attento a tali tematiche com'è l’Italia, siamo indotti a pensare di vivere in un mondo lineare in cui il progresso scientifico sia un processo chiaro e lineare, in cui le scoperte dell’oggi migliorano le nostre conoscenze in un continuo affinamento tendente al raggiungimento della verità. Ma è proprio cosi? Né dubitiamo…

Se volessimo descrivere il progresso scientifico con una metafora non è certamente possibile usare né una linea retta né una linea di trend, tipo l’indice di borsa con locali discese e salite ma con una tendenza di lungo periodo al rialzo. È più corretto usare l’immagine usata da Lèvy-Leblond nel suo libro “La Pietra di Paragone, la scienza alla prova…”: «Alla visione tradizionale di un sapere scientifico stabile, che cresce per estensione sistematica e concentrica, deve allora sostituirsi l’immagine frattale di un ambito parcellizzato, costituito da saperi differenziati, pseudopodi in perpetua ramificazione, che lasciano negli interstizi golfi di ignoranza e al loro interno vacuoli di dubbio».

Ci capita di pensare al passato immaginando un’epoca barbara in cui dominava la superstizione e l’ignoranza. Ma ancora una volta: è proprio così? Noi abbiamo effettivamente più conoscenze dei nostri antenati? O più precisamente: ogni generazione aumenta la conoscenza della generazione precedente? O, accanto a nuove scoperte, distrugge parte della conoscenza acquisita dai propri avi? È vera l’immagine di Lévy-Leblond di un sapere parcellizzato incuneato di profonde sacche di ignoranza?

L’amnesia del passato


La parte di passato che conosciamo con una certa accuratezza coincide sostanzialmente con l’inizio della produzione di testi scritti, mentre del periodo precedente, chiamato preistoria, abbiamo solo conoscenze indiziarie e congetture basate sul lavoro degli archeologi. È da notare però, che questo schema è vero in parte, perché in realtà la nostra conoscenza del passato parte da un periodo all’incirca coincidente con la nascita di Roma; del periodo antecedente si posseggono comunque documenti scritti come le scritture egizie e le tavolette d’argilla mesopotamiche, però spesso non sono considerate attendibili ma riferentesi ad eventi mitici. L’assurdo si ha con alcuni documenti,  che sono considerati esatti quando si riferiscono ad eventi recenti ed inattendibili quando si riferiscono ad eventi più remoti. Ma si tratta dello stesso documento! Questo è un altro argomento, però già da questo si incomincia ad intuire che l’uomo ha la tendenza a dimenticare il proprio passato.

Anche di un’epoca recente come quella greca e romana ci rimane poco ed anche opere di autori come Aristotele sono andate perdute. Di altri abbiamo solo frammenti sopravissuti come citazioni di altri autori, come è accaduto per esempio, ad Eraclito. In epoca medievale si è assistito ad una ampia distruzione del sapere classico, salvatosi in parte, grazie alla civiltà araba allora fiorente e ai monaci, anche se la stessa Chiesa ha, a volte, contribuito alla scomparsa di alcune conoscenze che riteneva pagane.
La distruzione medievale è stata molto più grave di quanto si creda. Semplificando il discorso, la tecnica romana era all’incirca equivalente a quella rinascimentale. Tanto è vero, che alcuni autori hanno potuto affermare che gli uomini del rinascimento hanno semplicemente copiato da antichi trattati greco-romano. Un brano da un articolo de “Il Sole 24 Ore” del 25 gennaio 2004 che recensisce una nuova edizione di un manuale di metallurgia rinascimentale: «All’autore che è medico e filosofo, che nutre una forte passione per lo studio dei minerali, delle miniere, delle tecniche d’estrazione e lavorazione dei metalli, sia le cose sia i nomi appaiono collocati in una sorta d’indistinto caos. Molti minerali, già nel mondo antico, sono stati utilizzati come farmaci, ma l’oblio della lingua greca, la confusione derivante dalle traduzioni dal greco e dal siriano in arabo e dall’arabo al latino, hanno come oscurato le conoscenze, hanno distrutto, accanto alla nomenclatura, anche una traduzione di sapere e una continuità di pratiche. Va fatto il tentativo di introdurre ordine e chiarezza, bisogna classificare e descrivere sia ciò che era noto e mal definito, sia ciò che è nuovo».
Ma questi episodi sono meno eclatanti. Ad esempio tutti pensano che la macchina a vapore sia un’invenzione del ‘700 per opera di Thomas Newcomen e migliorata da James Watt. E si sbagliano. Una macchina che funzionava grazie al vapore esisteva già all’epoca dei romani, la famosa eolipila di Erone di Alessandria, uno dei più grandi ingegneri di tutti i tempi. Una sfera veniva riempita d’acqua che riscaldata produceva il vapore che attraverso due tubi piegati ad angolo retto e diametralmente opposti metteva in moto la sfera libera di girare su un perno.
«Egli [P.M. Schul] ha notato che Erone descrive accuratamente non solo l’eolipila (una piccola macchina a vapore che produce il moto circolare di una sfera), ma anche una versione dell’hodometron da applicarsi alle navi per misurare le distanze percorse mediante una ruota a pale parzialmente sommersa in acqua. Come osserva Schuhl, sarebbe bastato che il meccanismo dell’eolipila di Erone fosse applicato a una o più pale come quello dell’odometro descritto dallo stesso Erone, perché la navigazione a vapore fosse inventata con molti secoli di anticipo»(1). Esistono molti studiosi che si chiedono come mai non ci sia stata la rivoluzione industriale ai tempi dell’impero romano, dato che già esistevano tutte le conoscenze tecniche perché ciò avvenisse ed hanno pensato di trovare la causa di questa mancata rivoluzione nel sistema sociale ed economico dell’epoca con un’economia basata sul lavoro degli schiavi. È emblematico, il titolo “La rivoluzione dimenticata”, che lo studioso Lucio Russo ha voluto dare al suo libro che si occupa della scienza in epoca classica.
Una cosa semplice come la rotondità della terra, i più pensano che sia stata una scoperta moderna e confermata dal viaggio di Cristoforo Colombo. Niente di più sbagliato. La rotondità della terra era stata già ipotizzata ai tempi dell’antica Grecia, da Pitagora nel VI secolo a.C., da Aristotele, Euclide e così via e, se si va ai Fori Imperiali a Roma e si raggiunge il Tempio di Vesta ci si troverà un cartello affisso che recita: «sembra che Numa Pompilio re dei romani abbia costruito il tempio di Vesta rotondo avendo creduto che della stessa forma fosse la terra, da cui dipende la vita degli uomini». Questo semplice esempio dimostra che i nostri antenati non erano così ingenui come li dipingiamo.
D’altro canto, lo stesso Colombo non ha affrontato il viaggio verso le Americhe così alla cieca come a volte si lascia intendere, seguendo una sua brillante intuizione. Sicuramente era conoscenza di queste antiche teorie e si è servito sì del suo intelletto, ma per verificarne la fondatezza e non per inventarsele. Il suo viaggio è stato accuratamente preparato e sicuramente si è documentato su antichi testi dei vari astronomi e geografi dell’antichità.
Rick Sanders, un ricercatore straniero, in un suo lavoro(2) dimostra, che già gli antichi egizi erano in grado di affrontare viaggi intorno al globo, grazie ad uno strumento in grado di calcolare la longitudine, simile al torquetum usato a fine ‘400. In particolare si occupa della spedizione di Rata e Maui, promossa dallo scienziato Erastotene, direttore della Biblioteca di Alessandria nel III secolo a.C., forse allo scopo di dimostrare la sua teoria sulla rotondità della Terra. Si Ricordi, inoltre, che ci sono stati vari studiosi che hanno riprodotto antiche imbarcazioni ed hanno attraversato gli oceani dimostrando la fattività di simili imprese nel passato.
Le stesse idee di Leonardo da Vinci sono state trascurate per cinque secoli, quando un loro attento studio avrebbe potuto aiutare ad arrivare prima a certi risultati. In una puntata di Stargate-Linea di confine, si è visto costruire uno scafandro basato sui disegni di Leonardo dimostrandone la fattività già nel cinquecento, mentre i primi scafandri sono stati costruiti solo nel secolo scorso!
Possiamo affermare che l’uomo ha difficoltà a conservare memoria delle sue scoperte.

domenica 29 giugno 2014

Uomo Ente Magico

Uomo Ente Magico

Uomo Ente Magico vuole offrire un percorso giornaliero di pratiche volte al risveglio interiore. Meditazione, visualizzazione, ritualistica, tattwa, preghiera, ricarica energica, ed autosservazione, sono tutti utili strumenti per rompere lo stato di sonnambulismo in cui si trova l'essere umano. L'uomo vive una vita a metà, dove la parte magica e sacra che è in ognuno di noi viene continuamente soffocata da una serie di meccanismi sociali e psicologici. Il nostro obiettivo è una reale ed integrale presa di coscienza interiore, in grado di poterci risvegliare e liberarci dal potere esercitato dalle eggregore di questo mondo.
 
Indice delle tecniche proposte: RESPIRAZIONE CONSAPEVOLE,MEDITAZIONE SUL RESPIRO, MEDITAZIONE IO SONO, AUTOSSERVAZIONE, CONTROLLO DEL PENSIERO, MEDITAZIONE E PENSIERO, LA VISUALIZZAZIONE, LA PENTALFA,L'ARTE DEL MANTRA, PAROLE DI POTERE, TATTWA, UN RITO GIORNALIERO


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domenica 1 giugno 2014

La città in pace con gli dèi

tratto da "Il Sole 24 Ore" del 03/11/2002



Dalla leggenda di Romolo e Remo in poi, la scelta della localizzazione e la disposizione delle strade sottendevano una ricerca di armonia tra uomini e divinità

di Carlo Carena

Racconta Plutarco nella Vita di Romolo che il primo re di Roma, dopo aver sepolto il fratello, "fondò la città, avendo fatto venire dall' Etruria uomini che gli spiegassero ogni cosa con alcune norme e testi sacri e che glieli insegnassero, come durante i misteri. Scavò una fossa di forma circolare per deporvi le primizie di tutto quanto era utile secondo consuetudine o necessario secondo natura. E infine ciascuno, portando un po' di terra dal paese da cui proveniva, la gettò dentro e la mescolò insieme. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, mundus".

Cosa vuol dire tutto questo, di cui noi non riusciamo a capire il significato e nemmeno il perché immersi in un ambiente urbano senza capo né coda, senza significato e identità, dove si dorme, si viaggia, si traffica, in cui si entra o da cui ci si allontana indifferentemente: per povertà concettuale, ci dice Joseph Rykwert in L' idea di città, per la perdita di ogni forma simbolica e di qualsiasi ancoraggio nello spazio e nel tempo. Il rito di Romolo è, con altri antichi, il punto di partenza del libro di questo architetto dell' università della Pennsylvania; libro non nuovo, anzi già famoso (apparve la prima volta in inglese nel ' 63, e Adelphi lo riprende ora assai bene - peccato manchi un indice dei nomi - dall' edizione Einaudi dell' 81); ma libro tuttora suggestivo e ancor più ammonitore.

La città romana ne resta al centro, sia per la documentazione scritta e archeologica che ne possediamo sia per la ricchezza delle sue implicazioni. Essa è anche nell' esperienza e nella fantasia di semplici turisti o curiosi di archeologia per quella sua forma a pianta squadrata e regolare, frutto di esperienze successive e spiegata razionalmente. Le cose, per Rykwert, stanno in realtà ben diversamente, sono molto più complesse, implicano ben altro, e quella non è una semplice soluzione tecnica di problemi utilitari, bensì il prodotto di una particolare visione del mondo e di un rapporto armonico fra le leggi divine e il vivere umano. La complessa struttura geometrica della città romana, la sua localizzazione e il suo orientamento non derivano, come spesso si sostiene ma Rykwert confuta, dalla forma dell' accampamento; né sono invenzione di Ippodamo di Mileto (e in ogni caso Ippodamo fu un urbanista curioso di cose celesti); bensì da tutto un sistema di usanze e di credenze, per cui quella struttura fu anche il veicolo della diffusione di un' intera cultura e di un certo modo di vivere. Né fu, sia per la sua forma sia per le procedure con cui fu costituita, la sola nel mondo antico. Forma e procedure fanno anch' esse parte di quella civiltà del sacro che è poi andata perduta, più totalmente che mai nel mondo odierno, dove non sopravvive non solo il luminoso ma nemmeno il religioso (la religione, si pensi un po' , è come dice Cicerone "ciò che porta il pensiero e il culto di una natura superiore, che chiamiamo divina").

Di qui l' importanza che avevano i riti di fondazione e la loro memoria. Non per nulla i Romani ne festeggiavano il natale in coincidenza con la primavera, contavano gli anni ab urbe condita. Non per nulla vi convocavano sacerdoti e indovini, adottavano cerimoniali che Rykwert dice con ogni probabilità etruschi, di quel popolo che portava i segni delle sue origini orientali e presso cui la divinazione, dagli uccelli o dai visceri delle vittime dei sacrifici, era espertissimamente coltivata. Per gli storici romani, che li descrissero minutamente anche se non in modo strettamente concorde, quei riti rappresentavano la chiave d' interpretazione della storia di questa come delle altre città, quali quelle che i coloni greci avevano fondato in tutto l' arco del Mediterraneo portandosi dietro zolle di terra dalla città natale e custodendone sacralmente, e anche politicamente la memoria.

La localizzazione e l' orientamento erano fissati con studi e cerimonie che coinvolgevano gli àuguri con i bastoni ricurvi non meno degli agrimensori con i loro strumenti essi pure di origine divina, che solo Aristofane osò deridere (negli Uccelli, versi 992-1020). Äuguri e agrimensori guardavano al cielo non meno che al terreno: perché la città doveva riprodurre sul terreno il cielo; conteneva anch' essa nel suo mundus, uno scavo negli abissi infernali nel punto in cui s' incrociavano le due vie ortogonali fra nord e sud e fra ovest ed est. Gli àuguri dividevano la loro zona di osservazione celeste, il "tempio" come veniva chiamato, in quadranti per mezzo delle linee del cardo e del decumanos; e così i fondatori di città li tracciavano, li ricuperavano per sempre sul terreno. Il "cardine" vi designava l' asse intorno a cui ruota il sole, e quindi l' asse dell' universo; mentre il "decumano" divideva l' universo, e la città, da oriente a ponente.

Fra questi simboli trascendenti e perenni viveva l' uomo romano e in genere l' uomo antico (Rykwert dà paralleli non solo nell' ovvia Mesopotamia ma in India, Africa e America in tempi anche più recenti; né erano concepite in modo e con contenuti ideali sostanzialmente diverse le città immaginate dai grandi rinascimentali, la Sforzinde di Filarete o le Vedute prospettiche di Francesco di Giorgio). Quegli uomini avevano sotto gli occhi e si muovevano dentro una pianta dell' universo, partecipavano a cerimonie che la ricordavano e ribadivano annualmente. Mai si sarebbero attentati di intaccarla, perché era una misura sacra, che comunicava sicurezza e valore anche a loro stessi. Quando invece Freud, come osserva il nostro autore in suadenti pagine, descrive alcune metropoli moderne, Londra o Parigi, mostra come la struttura del modello urbano si sia disintegrata. Anche le memorie che vi sono sparse tacciono ormai per gli abitanti, quando non sono addirittura un ingombro per i suoi traffici. Haussmann, lo sventratore di Parigi antica e il costruttore della moderna, pensava che l' agglomerato urbano dovesse servire solo alla produzione e al consumo, e che i vincoli municipali per i suoi abitanti siano solo l' essere, essa, un grande mercato, un immenso opificio e un' arena per le loro ambizioni. Tracciò anch' egli i suoi assi ed ebbe qualche idea di percorsi, d' incroci e di prospettive, ma nessuna percezione o preoccupazione simbolica. E questa è una condizione "patologica" per la città moderna e per i suoi abitanti, laddove un romano sapeva che camminando lungo il cardo procedeva parallelamente all' asse incrollabile del sole, e camminando lungo il decumanos ne seguiva il corso immutabile; ed era in pace con gli dèi, che non è poco.

Joseph Rykwert ci dà questi avvisi non meno che queste notizie e interpretazioni: le seconde usando Plutarco e Livio, Vitruvio, Plinio e Frontino, i primi affiancandosi a Fustel de Coulanges, a Guénon, a Dumézil, persino a Simone Weil. Spiegando la città antica, dove si cercava di proteggere le personalità umane con la tutela della divinità e di armonizzare il proprio agire col volere degli dèi, addita la scissione che invece l' urbanesimo moderno ha introdotto e le "esistenze parapsicotiche" che ne derivano. Richiami, e libro, oggi ancor più necessari, o vani.

Joseph Rykwert, "L' idea di città. L' antropologia della forma urbana nel mondo antico", a cura di Giuseppe Scattone, Adelphi, Milano 2002, pagg. XXVIII-306, 30,00.

domenica 18 maggio 2014

Il simbolismo apocalittico del film 300, versione aggiornata



di Vito Foschi
  

Il film 300 è stato tacciato di essere un film violento e “testosteronico”, qualunque cosa voglia dire questo termine; una subitanea interpretazione politica-sociologica lo ha trasformato nel conflitto fra oriente ed occidente, ma al di là degli aspetti più spettacolari, 300 nasconde un simbolismo molto chiaro e se vogliamo anche semplice. Diciamolo subito il film è stato caricato di una simbologia apocalittica piuttosto evidente e sia la battaglia delle Termopili che il fumetto di Miller sono solo un pretesto per parlare dell’eterna lotta del bene e del male, sempre presente. Chi ha visto il film e letto il fumetto si sarà reso conto che esistono solo piccole differenze fra i due tipi di narrazione, ma queste differenze non sembrano casuali. Il disegnatore Miller si è ispirato alla battaglia per farne un’opera di profondo impatto visivo, ma chi ha messo mano al film ci ha aggiunto alcuni particolari per trasformarlo in un’opera simbolica.

Nella scena iniziale lo spartano Delios narra di come il giovane Leonida ammazza un feroce lupo nero dalle dimensioni mostruose e subito dopo paragona il re Serse ad una belva feroce. Il lupo ha significati positivi, come nel caso della Lupa di Roma, ma anche negativi simboleggiando la ferocia e la violenza. Il lupo nero, in particolare, è simbolo del demonio e l’accostamento e il conseguente significato sono chiari.
Lo spartano definisce l’esercito di Serse un esercito di schiavi e ciò a grandi linee è storico, perché l’impero persiano era multinazionale e le varie nazioni gli tributavano truppe che chiaramente non avevano molto interesse ad immolarsi per un re straniero che aveva conquistato i loro territori.
Al di là della storicità della battuta è lapalissiana l’idea dello scontro fra l’esercito dei greci formato da uomini liberi e l’esercito di schiavi di Serse.

La figura di Serse non ha nulla di storico, la sua figura da transessuale con piercing è totalmente inventata, ma è proprio l’ambiguità a risultare interessante. Nel film e nel fumetto Serse si proclama Dio Re e anche questo è totalmente inventato. L’ambiguità è caratteristica dell’anticristo, ed uno dei titoli con cui si presenta è quello di re di questo mondo. Beninteso, re di questo mondo e non Re del Mondo. Essere il re di questo mondo significa essere signore del mondo materiale, mentre Re del Mondo ha il preciso significato di signore della creazione in tutti i suoi aspetti anche non materiali. Gesù è Re del Mondo, perché ne comprende tutti i suoi aspetti, mentre Satana può essere signore solo della materia ed infatti tenta Cristo con regni e ricchezze, non con doni che vanno oltre il dominio della materia. Serse tenta Leonida con l’offerta del governo dell’intera Grecia. Un altro particolare interessante del film è il carro d’oro su cui viaggia Serse decorato con arieti chiaro simbolo di Satana.

Punto centrale del film è il discorso incentrato sulla ragione: “La sola speranza che ha il mondo di giustizia e ragione” grida lo spartano Delios ai suoi compagni.
La scena in cui Efialte, lo spartano deforme, va da Serse a tradire costituisce la summa di tutto il film. Serse dice di sé che lui è buono, che può dare tutto, donne e potere ed è sufficiente piegarsi; al contrario Leonida che aveva chiesto allo storpio di alzare lo scudo, ovvero aveva chiesto di essere uomo. La proposta del re è quella tipica dell’Anticristo che si presenta come buono e accondiscendente e in cambio vuole l’anima. Da notare che la scena si apre con un caprone che suona uno strumento a fiato e anche ai più distratti l’iconografia non può non ricordare il famoso quadro di Francisco Goya, “Il grande caprone”  con il sabba delle streghe con al centro un caprone antropomorfizzato a simboleggiare il diavolo.

Il grande caprone di Francisco Goya (immagine presa da Wikipedia)
Fotogramma del film 300. E' evidente la somiglianza con il quadro del Goya
 
Il fanatismo degli spartani che si immolano è paragonabile a quello dei cristiani che si facevano
sbranare dai leoni. Anche la morte di Leonida ha qualcosa di cristiano. La scena finale vede il re spartano trafitto da frecce come S. Sebastiano e a braccia aperte come se fosse in croce. Probabilmente l’autore del film si è ispirato a qualche rappresentazione classica e potrebbe darsi trattarsi di un caso, ma una semplice coincidenza? Alla fine sembra che l’autore abbia considerato gli spartani alla stregua dei martiri cristiani. Ed in un certo qual modo la fede c’entra. I cristiani si immolavano per la fede in Cristo, gli spartani per la loro fede nella libertà e nella ragione. Sono interessanti i continui rimandi alla ragione, che poi è il lascito culturale dei greci a noi occidentali che i cristiani hanno pensato bene di includere nel loro sistema di pensiero. Efialte, il traditore invita Leonida ad essere ragionevole e a sottomettersi a Serse, cosa ovviamente ragionevole visto la sproporzione di forze. Ma è alla stessa ragione che si appella Leonida, ma ad una ragione sorretta dalla fede, una fede che porta a sperare che infine la ragione trionfi nella libertà e nella giustizia.
La fede nella libertà porta gli spartani a morire da uomini liberi che vivere da schiavi. Speranza e fede non ricordano qualcosa?

“.. hanno dato la vita, non solo per Sparta, ma per tutta la Grecia e per la speranza difesa da questa nazione [..]. Quest’oggi noi riscattiamo il mondo dal misticismo e dalla tirannia e lo accompagniamo in un futuro più radioso di quanto si possa immaginare”

domenica 27 aprile 2014

La casa infestata. Il Grande Mistero di Amherst

[ISBN 978-88-98776-00-9] Walter Hubbell, La casa infestata. Il Grande Mistero di
Amherst, Golem Libri, Roma 2013, pp. 104, € 12,00
(http://www.golemlibri.it/parapsicologia/la-casa-infestata/).


Amherst, Nuova Scozia, estate del 1878: degli strani fenomeni
iniziarono a verificarsi nel piccolo cottage in cui Daniel Teed, uomo onesto e rispettato da tutti, viveva insieme alla sua famiglia. Un'inquetante forza invisibile sembrava aver preso possesso della casa: oggetti grandi e piccoli venivano lanciati senza che nessuno li toccassse, misteriosi rumori risuonavano ad ogni ora del giorno e dellla notte, miniacciosi incendi si sviluppavano spontaneamente e gli stessi membri della famiglia, come nelle più sfrenate leggende della stregoneria medievale, venivano fatti oggetto di veri e propri assalti fisici...
Fenomeni talmente strani che, di lì a poco, in paese non si parlò d’altro. Cosa fu a suscitare lo stupore e la meraviglia degli abitanti di Amherst? Che cos’era il “Grande Mistero” su cui tutti si interrogavano? Per la prima volta in italiano lo storico resoconto, scritto da un testimone diretto e corredato da numerosi documenti di convalida, di uno dei più bizzarri casi di poltergeist mai apparsi nella letteratura parapsicologica.


[L'autore] Nato da una famiglia di avvocati della Pennsylvania, Walter Hubbell (1851-1932) fu un attore fin da giovane. Fu durante una trasferta teatrale nel 1879 che ebbe modo di far visita alla celebre “casa infestata” di Amherst, in Nuova Scozia, e di conoscere Esther Cox, la ragazza intorno alla quale si incentravano i misteriosi fenomeni. La passione per le tematiche
occulte lo accompagnò per tutta la vita. Pur critico verso i dogmi e le pratiche dello Spiritismo allora in voga, ne recepì i presupposti teorici elaborando una personale visione metafisica.









lunedì 31 marzo 2014

La mitica Agharta nel libro di Pruneti

tratto da L'Opinone del 13 marzo 2014

di Luca Bagatin

Chi è il Re del Mondo che tutto sa e governa? Esiste davvero la mitica Agharta o Agharti – regno sotterraneo incontaminato dove albergano perfezione, bellezza, pace e amore e dove, appunto, il Re del Mondo vive al riparo da occhi indiscreti? Pressoché tutte le culture, le tradizioni folkloristiche, le correnti gnostiche ed esoteriche ne parlano, anche se con nomi e forme differenti, per quanto solo eruditi studiosi ed esoteristi quali René Guénon, Alexandre Saint-Yves d’Alveydre e Ferdynand Ossendowski, hanno tentato di penetrarne e raccontarne il segreto.
Il professor Luigi Pruneti, docente, saggista, scrittore ed ex Gran Maestro della Massoneria della Gran Loggia d’Italia, nel suo ultimo ed agile saggio edito da “La Gaia Scienza” con prefazione del principe Tiberio Dobrinya, ovvero “Il mistero del Re del mondo e della mitica Agharta”, ci presenta l’ampia letteratura a disposizione relativa a tale figura. Pruneti esordisce con il mito della cosiddetta “Terra Cava”, ovvero l’idea – sviluppatasi in particolare nel corso dell’Ottocento in cenacoli teosofici, occultistici ed esoterici – che la Terra fosse cava e popolata da esseri viventi, talvolta esseri mitologici, talaltra draghi e/o rettili.
In particolare, Pruneti fa riferimento ad opere quali “La razza ventura”, bellissimo romanzo del barone Edward Bulwer-Lytton che racconta del popolo degli Ana, una razza superiore abitante il mondo sotterraneo; oppure alle celebri opere del romanziere d’avventura Jules Verne, quali “Viaggio al centro della terra” e “Le Indie nere”. Come ricorda il professor Pruneti, già alcuni anni fa fu edito dalle Edizioni Mediterranee un ottimo volume dal titolo “Jules Verne e l’Esoterismo”, nel quale l’autore, Michel Lamy, racconta e dimostra come le opere del celebre scrittore francese racchiudano profondi significati esoterici e facciano riferimento a credenze e studi tipici di noti cenacoli esoterici quali, fra gli altri, la Società Teosofica fondata da Madame Blavatsky e la Massoneria.
René Guénon, Saint-Yves d’Alveydre e Ferdynand Ossendowski, dicevamo, sono i maggiori studiosi del mito del Re del Mondo. Nelle loro opere - frutto di fonti orientali, afghane, indiane (d’Alveydre), mongole e tibetane (Ossendowski) - tali studiosi delineano la figura del Re del Mondo quale una sorta di governatore occulto del Mondo, guidato da Dio, abitante di Agharta, una terra somigliante a Lhasa, la dimora del Dalai Lama in Tibet. Terra di saggi e veggenti (Agharta) che volendo sarebbero in grado di curare tutti gli infermi del pianeta e resuscitare i defunti.
Molti uomini, nel corso della Storia, hanno ricercato Agharta e il Re del Mondo. In particolare in Tibet. Fra questi il barone Von Urgern-Sternberg, il quale lottò – ai tempi della guerra civile in Russia – contro l’armata rossa e tentò, invano, di raggiungere Lhasa, purtuttavia non riuscendovi in quanto fu fucilato dai russi prima di poterla raggiungere. Il professor Pruneti nel suo saggio ci fa notare come, di volta in volta, nel corso della storia e delle tradizioni, il Re del Mondo sia stato identificato come il Prete Gianni – sovrano e sacerdote d’Oriente (forse indiano o etiope) – oppure come un discendente dei Re Magi, oppure ancora come un alleato di Gengis Khan.
Il mito rimane e le fonti letterarie, storiche, esoteriche e religiose sono numerosissime e tutte citate dal professor Pruneti, sia nella documentata bibliografia che nelle ampie note a margine. Il mito rimane, dicevamo, al punto da aver influenzato anche la cinematografia e la musica. Il regista Frank Capra, nel 1937, girò “Orizzonte perduto”, tratto dall’omonimo romanzo di James Hilton, ovvero la storia dell’equipaggio di un aereo dirottato in una sperduta valle del Tibet in cui era celata la città di Shangri- La, i cui abitanti, estremamente longevi, vivevano – a differenza del mondo dei mortali – in una condizione di amore e felicità.
Nel 1973 il regista e scrittore Alejandro Jodorowsky girò “La montagna sacra”, film surrealista nel quale un ladro e nove ricchi, con l’aiuto di un alchimista, si mettono alla ricerca del cenacolo dei nove saggi della montagna, bramando il segreto dell’immortalità. Il musicista Franco Battiato, appassionato di esoterismo nonché amico dello stesso Jodorowsky, nel 1979 incise il disco “L’Era del cinghiale bianco”, nel quale è contenuta la canzone “Il Re del Mondo”, dove si incrociano critiche alla società dei consumi ed alla guerra e riferimenti alla tradizione sufi, ovvero la tradizione esoterica dell’Islam.
Evidenti riferimenti, ancora una volta, al mito in questione che, si dice, allorquando l’umanità precipiterà nelle barbarie e nelle violenze più turpi, riporterà Agharta in superficie ed instaurerà una nuova Età dell’Oro in cui la pace e le prosperità trionferanno sull’ignoranza degli uomini. Tutto ciò e molto altro ne “Il mistero del Re del Mondo e della mitica Agharta”. Ancora una volta Luigi Pruneti non delude, dunque, i suoi lettori più raffinati e curiosi.

domenica 30 marzo 2014

Napoli: misteriosi segni sulla pietra

tratto da "L'Opinone" del 13 marzo 2014


di Achille Della Ragione


 
Il primo a parlare di architettura esoterica, cercando di penetrare la testimonianza misteriosa lasciataci da quelle maestranze attive a Napoli, tra tardo Medioevo e primo Rinascimento, fu Mario Buonoconto nel suo prezioso volumetto sulla “Napoli esoterica”.
Già sotto i Normanni e poi durante i regni di Svevi, Angioini ed Aragonesi, giunsero in città, dal nord Europa prima e poi dalla Francia e dalla Spagna, artigiani organizzati in confraternite sul modello franco templare. Essi erano particolarmente abili nel sagomare il piperno, pietra molto dura, adoperata in genere per la pavimentazione stradale e per ricavare portali e soglie di balconi. Già in epoca tardo romana si erano costituite delle corporazioni di maestri pipernieri che tramandavano i “segreti dell’arte” solo a pochi fidati apprendisti. Nel Rinascimento erano chiamati “maste ‘e prete” e si immaginava che sapessero caricare la pietra di energia positiva. Quando si apprestavano alla costruzione di un edificio importante, oltre a porre nelle fondamenta alcune monete, come obolo per i morti, in ossequio a riti propiziatori in uso presso i Caldei ed i Greci, cercavano, sfruttando una sorta di rabdomanzia, d’identificare i punti di forza del luogo, scegliendo il più adatto per costruire.
Questa breve introduzione è necessaria per affrontare il discorso sui segni presenti sul bugnato della facciata della chiesa del Gesù Nuovo, precedentemente palazzo della nobile famiglia dei Sanseverino, edificato nel Quattrocento e, dopo sfortunate vicende della casata, ceduto all’Ordine del Gesuiti, che lo trasformarono nella splendida chiesa barocca, tra le più note della città. L’architetto Novello da San Lucano si servì di maestranze locali che crearono quella serie di piccole piramidi aggettanti verso l’esterno con il vertice puntato sull’osservatore. Queste facciate a bugnato, relativamente diffuse al nord, sono insolite nel meridione ed a Napoli ve ne son ben pochi esempi. Su quelle in esame sono presenti numerosi e strani segni incisi sulla superficie, un misterioso alfabeto con una sorta d’ideogrammi che si ripetono secondo un ritmo particolare, che fa supporre ad una chiave criptata di lettura, di recente oggetto di una suggestiva interpretazione da parte di uno studioso locale, Vincenzo De Pasquale, che ha ritenuto di identificarvi un pentagramma che si è materializzato in un concerto eseguito nella navata della stessa chiesa del Gesù Nuovo. La lettura fatta da De Pasquale parte dall’ipotesi, smentita da esperti della lingua, che i misteriosi segni non siano tracce lasciate dai cavatori per conteggiare il lavoro svolto, bensì lettere dell’aramaico, la lingua parlata da Gesù. Ad ogni segno corrisponde una nota e la facciata è un pentagramma sul quale l’architetto, Novello da San Lucano, ha scritto la sua opera musicale che, di traccia in traccia, per vie misteriose, sarebbe finita persino in un’opera di Johann Sebastian Bach.
Il concerto, re-intitolato “Enigma”, è stato suonato dall’organista ungherese LorentRez ma sarebbe stato scritto originariamente per strumenti a plettro. Il legame con l’Ungheria non è casuale. Novello da San Lucano andò a vivere nel Paese magiaro e lì morì, dopo aver progettato e costruito diversi edifici e aver lasciato sue tracce nella storia artistica e musicale. Alla ricerca di altri messaggi sulla pietra si è mosso da tempo un appassionato medico di professione, Lucio Paolo Raineri, che ha indagato sulle mura medioevali cittadine, costruite dagli Aragonesi, a partire dal 1484, servendosi di maestranze di Cava de’ Tirreni ed utilizzando piperno proveniente dalle cave di Soccavo. La folgorazione per il riflesso di uno specchio provocato da un’insolita luce estiva gli fece scorgere i frammenti di un misterioso discorso sulle pietre scure della Torre San Michele in via Cesare Rosaroll, una fra le meglio conservate. Ha continuato le sue indagini fotografando altri segni strani su mura e torri che da via Marina arrivano fino a via Foria. Ha così fatto molte altre scoperte, alcune già note agli studiosi della Napoli segreta. “Sono quasi tutti segni lapicidi, marchi di fabbrica dei cavatori, segni di posa, di allestimento”. Per lo più si tratta di lettere dell’alfabeto, numeri o simboli astrologici ed anche una croce uncinata, segno di antica tradizione indiana (molto simili a quelli trovati anche sul bugnato della facciata del Gesù Nuovo). In altri casi, sono segni che richiamano l’alchimia o la massoneria perché le logge segrete originariamente erano composte da fratelli muratori. I segni su Torre San Michele sono stati soltanto il punto di partenza. Armato di taccuino e macchina fotografica, il medico-Indiana Jones s’è fatto tutto il percorso aragonese. “Naso all’aria – racconta – confrontandomi con le supposizioni di chi mi vedeva in giro, cominciai a rivisitare i massi di piperno di altre torri, con i soli limiti di penetrazione del mio sguardo e della loro dislocazione e accessibilità”, perché gran parte della fortificazione è ormai all’interno di palazzi privati o è stata abbattuta o è stata sommersa da superfetazioni architettoniche. L’anamnesi di Raineri è stata scrupolosa e ha partorito una relazione documentatissima nella quale si legge il resoconto delle sue esplorazioni nella metropoli dei segni che avrebbe fatto la felicità di un Roland Barthes in cerca del grado zero della testimonianza operaia.
“Niente scorsi sui massi della piccola Torre Duchesca a vico Santa Maria a Formiello – scrive – né sulla vicina Torre Sant’Anna. Porta Capuana ed il tratto di mura tra Torre Onore e Torre Gloria fu ricchissimo di reperti, visibili ad occhio nudo e ad altezza d’uomo. La stessa scarsezza di risultati l’ebbi per porta Nolana, anche se la grafia di quello che può sembrare un’intera parola sconosciuta, alla base della Torre Fede, mi ha lasciato sconcertato”.
Oltre che sulle torri aragonesi, i segni lapicidi sono presenti in Campania sull’abbazia di San Guglielmo al Goleto e sulla cattedrale di Sant’Antonino a Sant’Angelo dei Lombardi e sull’abbazia di Santa Maria di Realvalle a Scafati. Ma in una metropoli perennemente affollata e costruita su se stessa, ogni angolo racchiude un segreto, un messaggio, una pietra parlante. “L’importante è cominciare a capirne la lingua”, commenta Raineri, che, molto probabilmente, è solo quella del lavoro. Al fianco di scritte pseudocriptiche, ve ne sono altre, perfettamente leggibili, ma delle quali ci sfugge il significato, come quella che s’incontra nel porticato del chiostro dell’ex dimora dei Caracciolo, i cui locali sono stati utilizzati negli ultimi anni dai giudici di pace per i loro uffici. Cogliamo l’occasione per descrivere il mastodontico edificio che ospita la scritta, posto sull’ultimo tratto di via Tribunali, l’unico in stile tardo gotico ed unico che ricorda l’architettura catalana. L’edificio era stato disegnato dal grande architetto dell’arca funebre di re Ladislao a San Giovanni a Carbonara, Andrea Ciccione, e ne sopravvissero, come si vede, l’arco d’ingresso, il pianterreno del primo chiostro e la porta della sala di ricevimento, in origine sacello gentilizio di Sergianni e fino al diciottesimo secolo ricchissima cappella, detta “il tesoro”, dove si nominavano i nuovi magistrati del vicino tribunale. Oggi, ad abitare il complesso, è il Comune di Napoli con i suoi uffici, sezione San Lorenzo, quartiere Forcella. Al primo piano i corridoi con gli infissi in legno e le vetrate mostrano ancora il disegno ospedaliero. Qui erano ricoverate persone fino a pochi decenni fa: gli ultimi anziani pazienti ne sono usciti nel 1970.
Il Lazzaretto, sala maestosa, sgombra dai letti o dai pagliericci che si dovevano usare per appestati, malati di tifo e altri pazienti colpiti da epidemia, è un trionfo di luce. Una separazione architettonica con timpano distingue la corsia dalla sala chirurgica o gabinetto medico. Oggi, al posto dei tavoli anatomici, c’è una piccola sala conferenze su cui troneggia una lapide dedicata a Mariano Semmola. Tutta la sala del Lazzaretto è circondata a mezza altezza da una lunga balconata da cui passare cibo e rimedi ai malati con cui non si poteva entrare in contatto. Qui si curavano, tolte le epidemie, le diffusissime malattie veneree e della pelle (nel 1888 vi fu istituito un reparto dermoceltico). Pochi anni fa in questa sala, infinitamente lunga ed infinitamente alta, sessanta metri, per dieci, per sei, è stata girata una fiction dedicata al medico santo Giuseppe Moscati, interpretato da Beppe Fiorello.
Due anni fa, con la venuta a Napoli, in occasione del Napoli Teatro Festival, del grande regista spagnolo Enrique Vargas, il Lazzaretto diventò spazio teatrale, oscurato ed irriconoscibile, un lungo ventre di balena dove si avveravano visioni felliniane, gomitoli di cotone e ragnatele, morti e voci del passato e feste mobili che avvolgevano lo spettatore in un’esperienza irripetibile: un bell’esorcismo per un luogo del potere diventato luogo di sofferenza e, infine, luogo d’arte. Il bellissimo palazzo, che era stato simbolo del potere di Sergianni Caracciolo su Napoli e sulla regina Giovanna II, sede di feste e intrighi, manifesto della potenza degli uomini nuovi sulle antiche dinastie, acquistato dai frati Ospedalieri nel 1587, si trasformò in ospedale, per necessità. Giaceva in abbandono da un secolo, infiltrato da case private, tanto che le liti fra vicini produssero un morto, come testimonia la lapide minacciosa, ancora oggi presente, voluta da un diffamato, in un lato del cortile: “Dio m’arrassa da invidia canina da mali vicini, et da bugia d’homo dabbene”. Questa frase si presta a varie interpretazioni: potrebbe essere una preghiera o una delle tante invocazioni scaturite dalla filosofia dei napoletani. Viene anche citata dal Chiarini e una leggenda vuole che se i frati dell’ospedale avessero tolto la targa, il possesso della donazione sarebbe passato all’ospedale degli Incurabili.