domenica 10 giugno 2012

NUOVO ORDINE MONDIALE E VISIONE SPIRITUALE DEL MONDO - 1 Parte

Piero Cammerinesi (http://coscienzeinrete.net)


”Si è alla vigilia di eventi che possono essere gravemente distruttivi per l'uomo o preludere a una rinascita nel segno dello Spirito”.

Massimo Scaligero, Iniziazione e Tradizione

Houston, 8 maggio 2012

Chi ritiene di percorrere un sentiero spirituale ha il dovere di non confinare tale attività solo nella parte più intima della propria individualità.

Al contrario, deve misurarsi costantemente con il mondo esteriore, deve imparare a interpretarne le dissonanze e gli enigmi mediante le conoscenze e le capacità acquisite grazie al lavoro interiore.

È l’uomo intero a percorrere un sentiero spirituale, non solo la sua testa.

Il fatto che la testa sovente rifugga dal ‘contaminare’ la pura riflessione spirituale con la contraddittorietà spesso incomprensibile del mondo esteriore, con la presunzione di mantenere ‘puri’ determinati contenuti – non messi al vaglio della realtà esteriore – fa pensare alla pretesa dell’eremita di aver vinto le tentazioni della carne solo per il fatto di non essersi più allontanato dal proprio eremo.

Al contrario, misurare le proprie esperienze interiori e le proprie conoscenze con la poliedricità del mondo esteriore insegna a guardare alla totalità del mondo – e non solo alle verità ‘protette’ di cui ci siamo appropriati - come επιφανεια, manifestazione del divino.

Una di queste realtà – forse la più complessa perché a sua volta ‘contaminata’ da istanze personalistiche – è quella politica, che ci riesce difficile da osservare nel suo insieme e soprattutto da interpretare alla luce del sentiero spirituale, perpetuando in tal modo dentro di noi la nefasta separazione di scienza e religione.

Un argomento politico poco noto alle grandi masse ma particolarmente attuale per le nuove generazioni di utenti del web è quello del NWO o Nuovo Ordine Mondiale.

Il fatto che quest’argomento sia quasi esclusiva di autori o divulgatori spesso poco attendibili, ha fatto sì che esso, sin dall’inizio, venisse giudicato dai frequentatori del mainstream come una fantasia complottista.

In tal modo si muovono le opinioni umane e non è peregrino ipotizzare che le stesse vengano indirizzate sapientemente da chi sa come conseguire i propri obiettivi attraverso la manipolazione delle masse.

La ‘banalizzazione’ di questo progetto e il suo venir praticamente monopolizzato da parte di correnti ‘alternative’, new age e ‘complottiste’ ne ha di fatto svuotato, agli occhi della pubblica opinione, le caratteristiche di estrema autenticità e di inquietante pericolosità.

Il NWO nasce dalla convinzione anglo-americana di aver dato vita, con la nascita degli USA, ad un Paese con un destino unico e provvidenziale.
Una luce tra le Nazioni, un modello di civiltà, libertà e democrazia, una speranza per tutti i popoli in difficoltà, come efficacemente simboleggiato dalla statua della libertà. Dopo la II guerra mondiale questa convinzione, nutrita all’interno dei circoli anglosassoni – occulti e non – è stata di fatto ‘esportata’ in tutto il mondo diventando in qualche modo una verità assodata per tutti.

In fondo, come sosteneva Goebbels, una menzogna ripetuta all’infinito diventa verità…
L’american dream, la musica, l’abbigliamento, la politica, la cultura, tutto è espressione dell’eccezionalità nordamericana.

Gli Stati Uniti d’America rappresentano per i circoli che coltivano il NWO - e il New American Century - la civiltà che ha raccolto l’eredità dell’Impero Romano.

E le similitudini - per singolare che ciò possa apparire – non mancano: basti pensare che il primo appezzamento di terreno su cui sorse Washington DC si chiamava Rome ed il proprietario era un certo signor Pope! Ma non è tutto; vi scorreva all’interno un fiumiciattolo, che si chiamava, guarda caso…Tiber!
L’eredità imperiale, cosmopolita, culturalmente e militarmente dominante della Roma imperiale viene dunque raccolta dal nuovo Stato, nato dagli ideali massonici della ‘Terra promessa’; una ‘New Rome’ a partire dalla Gran Bretagna e dall’America, un Impero mondiale, un ‘pensiero unico’ ed uno stile di vita globale.
“A tale fine nacque una nuova nazione, gli Stati Uniti d’America, il primo ‘Stato mondiale’, costituito da immigranti provenienti da ogni parte del mondo invece che da una sola comunità etnica; una nuova Atlantide com’era intesa dall’occultista britannico dell’era elisabettiana John Dee, consigliere della Regina Vergine e da Francis Bacon, Cancelliere di Guglielmo I e sostenuta dall’élite scientifico-sacerdotale”.[1]

Francis Bacon vagheggiava una ‘Nuova Atlantide’ in cui l’America del Nord sarebbe stata guidata da un élite di scienziati-filosofi – il che nel linguaggio odierno comprenderebbe uomini d’affari, avvocati, docenti universitari etc. – interamente rivolta al materialismo ed al profitto. Un Novus Ordo Seclorum destinato a dominare il mondo in opposizione al vecchio ordine rappresentato dall’Oriente, con la sua oligarchia di sacerdoti-politici. Lo stesso Alexis de Tocqueville così si espresse, negli anni ’30 del XIX secolo sull’emergente potenza americana: “Sto mettendo a fuoco le nuove caratteristiche in cui il dispotismo può presentarsi nel mondo. La prima cosa che colpisce è la visione di una quantità innumerevole di persone – tutte simili e identiche – che si affannano a procurarsi i piaceri più meschini e insignificanti con i quali riempire le proprie esistenze. Ciascuno di loro, vivendo separatamente è estraneo al destino degli altri; i suoi figli e i suoi amici più stretti rappresentano per lui l’intera umanità. Quanto al resto dei suoi concittadini, sono accanto a lui ma lui non li vede; li tocca ma non li sente; lui esiste in se stesso e solo per se stesso; se gli resta la sua famiglia non può dire in nessun caso di aver perso il proprio Paese. Al di sopra di questa popolazione umana si trova un immenso potere tutorio che si arroga il diritto di assicurare loro le gratificazioni e di controllarne il destino. Questo potere è assoluto, capillare, regolare, previdente e delicato. Potrebbe assomigliare all’autorità di un genitore se - come nel caso di un genitore - l’obiettivo fosse quello di preparare i giovani alla maturità ma, al contrario, esso cerca di mantenerli in una fanciullezza perpetua; è ben contento che il popolo sia felice a patto che esso non pensi a nulla se non a essere felice”.[2]
Potremmo addirittura far risalire il germe del NWO all’XI secolo, allorché i Normanni conquistarono la Gran Bretagna e la Sicilia, ponendo nel popolo anglosassone il principio del materialismo destinato a gettare le basi del ‘Nuovo Mondo’.
Le società segrete britanniche e successivamente anglo-americane hanno costantemente lavorato per porre il mondo intero sotto il giogo del materialismo.

Da quest’autoinvestitura - e dal conseguente obiettivo di una dominazione mondiale anglo-americana - alla propensione a considerare lecita la propria missione di ‘esportatori’ di civiltà e democrazia il passo è breve ed è passato attraverso la creazione della Società delle Nazioni prima e delle Nazioni Unite poi.

Tutte le ‘creature’ di questa civiltà sono state ideate per assolvere al loro compito, vale a dire quello di asservire il mondo intero ai propri interessi.
In fondo il principale obiettivo di qualsiasi Impero è quello di mantenersi tale.
Il liberismo economico sregolato, il consumismo fine a sé stesso, la globalizzazione, l’onnipotere dei media sono tutte istanze che portano allo svilimento dell’uomo che – ridotto a consumatore - viene privato della sua dimensione spiritualmente libera.

Nonostante il mondo americano faccia un uso sfrenato della parola libertà, le sue azioni hanno regolarmente tradito tale ideale, inizialmente all’esterno dei propri confini ed oggi anche all’interno.
“Cos’è la libertà per un americano? Quello che gli serve a render la vita più comoda possibile. Chiama libertà quello che deve intrecciarsi con l’ordine sociale in modo che ciascuno possa procedere nel migliore dei modi nel mondo esteriore. Libertà per gli americani è un prodotto utilitaristico”.[3]

Il compito che il NWO si è assunto è stato sin dall’inizio – una volta eliminata l’influenza spiritualmente equilibrante dell’Europa centrale con due guerre mondiali - quello di dominare il mondo raccogliendo il testimone della civiltà romana e dedicandosi all’‘educazione’ dello spirito russo.
I programmi dell’Ovest anglo-americano – come rileva Rudolf Steiner nel primo Memorandum del 1917 – sono “illusori e fittizi”, parlano di libertà ma rendono impossibile la vera libertà al resto del mondo trasmettendo l’impressione che solo loro siano in grado di fare qualcosa per la salvezza del genere umano.[4]

“La metà di questo secolo [il XX] sarà un momento molto significativo.
(…) Infatti questo dominio del materialismo porta al tempo stesso in sé il germe della distruzione. La distruzione che è iniziata non si fermerà. (…) E la responsabilità di tutto ciò ricadrà su quella parte cui spetterà il dominio mondiale”.[5]
Dalla metà del secolo XX, finito il secondo conflitto mondiale, chi non si assoggetta al progetto del NWO ha, infatti, due sole prospettive: vivere nel terrore o venir distrutto.
Il terrore dei comunisti durante la guerra fredda prima, il terrore dei cinesi e dei coreani poi, degli arabi oggi.  Angosce create ad arte e diffuse capillarmente nelle popolazioni mondiali per impoverire il tessuto animico e per inibire possibili reazioni. Come previsto da Orwell nel suo 1984 la pratica dell’odio e della paura rende le masse manipolabili.

Oppure la distruzione: la distruzione dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, di tutti gli Stati sovrani che non si sono piegati al loro disegno di predominio mondiale.

Lo stesso progetto europeo è stato sostenuto e promosso instancabilmente dagli USA con la finalità evidente di portare l’intera Europa sotto l’ala protettrice dell’aquila americana e della NATO e alleata all’Orso russo - nel frattempo addomesticato con il consumismo - per contrastare quella che sarà la vera sfida del XXI secolo, come la Germania lo fu nel XX: la Cina. Facile intravedere dietro questo disegno strategico “la costruzione di un nuovo Impero Romano globale bastato sull’unione euro-americana, che servirà in modo esemplare da veicolo all’incarnazione di Ahriman, lo Spirito che si prefigge di dominare il mondo intero per trasformarlo nella sua ‘mente collettiva’. La massoneria ha portato proprio a questo: la creazione di un Impero Romano globale di materialismo”.[6]



[1] Terry Boardman, Rome and Freemasony. The greatest irony. http://www.monju.pwp.blueyonder.co.uk/NWO11.htm
[2] Alexis de Tocqueville, Democracy in America
[3] Rudolf Steiner, O.O.157 Destini umani e destini del popoli
[4] Rudolf Steiner, O.O.24 I Memorandum del 1917. Tilopa, 1991. Pag.33
[5] Rudolf Steiner, O.O.194 La missione di Michele - La manifestazione dei segreti dell’essere umano
[6] Terry Boardman, Rome and Freemasony. The greatest irony. http://www.monju.pwp.blueyonder.co.uk/NWO11.htm

mercoledì 6 giugno 2012

BRUNILDE E ROSASPINA: MITI E FIABE INDOEUROPEE

tratto da L'Indipendenza

http://www.lindipendenza.com/brunilde-rosaspina-cerchio/

di REDAZIONE
Relegate spesso al mondo dell’infanzia, le fiabe rievocano da sempre l’immagine della nonna e dei bambini davanti al focolare durante le fredde e lunghe notti d’inverno. Le fiabe popolari non nascono dalla fantasia di un autore, noto o anonimo che sia, ma sono il frutto di una lunga serie di storie raccontate e ripetute nel corso degli anni, variegate in mille piccole sfumature. Affondano le loro radici profonde nel fertile terreno di miti e leggende. La raccolta di fiabe dei fratelli Grimm è forse l’esempio più eccellente. Perché si usa la bacchetta magica per produrre un incantesimo o lanciare un maleficio?
Chi sono le fate che si presentano alla culla di Rosaspina, la bella addormentata? Come fanno i nani ad abitare dentro la roccia? Perché gli animali riescono a parlare e ad essere compresi dagli uomini? Come si fa a diventare invisibili? Perché non si deve sapere né pronunciare il nome di esseri terribili? Molte saranno le domande che sorgeranno nel corso della lettura di questo saggio che si propone di rintracciare e approfondire le origini di personaggi, situazioni ed episodi entrando nel mondo variopinto ed affascinante delle mitologie di matrice indoeuropea, con particolare attenzione a quelle appartenenti ai popoli che un tempo abitavano le terre germaniche: Celti e Germani, che si sono poi spinti verso Ovest e verso Nord creando le meravigliose culture irlandesi, gallesi e nordiche. Si scoprirà così che nulla è raccontanto per caso, ma che il piccolo particolare a cui non prestiamo attenzione è in realtà un riflesso di antiche leggende e miti indelebili nelle culture di questi popoli.
Prefazione di Paolo Gulisano. Dal Mito alla Fiaba
Nel corso del Novecento è stato possibile assistere ad un fenomeno letterario interessante e sorprendente: il ritorno nella narrativa del Mito e dell’Epica. Accendendo ancora una volta la fantasia degli uomini, chiamando nuovamente l’attenzione dei cantastorie su di sé, suscitando nuove versioni di antiche narrazioni, il Mito, rappresentato, oltre che sulla carta, anche sul grande schermo, ha dimostrato di essere vivo e vitale nella fantasia e nei sogni. Scrittori anglosassoni come Chesterton, Tolkien, Lewis, ma anche tedeschi come Michael Ende, hanno proposto ai lettori disincantati della Modernità le loro storie, leggende dai molti significati, dai valori profondi, arcaici, strettamente intrecciati con la storia e i miti dell’Europa. Anni fa, in una fortunata versione cinematografica del mito di Artù, Excalibur di John Boorman, il Mago Merlino pronunciava queste suggestive parole: la maledizione degli uomini è che essi dimenticano.
Una frase quanto mai vera, e sulla quale riflettere. La memoria, sembra dirci Merlino, è tra le risorse umane una delle più importanti: occorre coltivarla come una virtù, con amorevole attenzione. Ci può salvare dalla superficialità di giudizio, dall’ingratitudine, da una vita senza gusto e significato, facendoci invece considerare con più attenzione le realtà con le quali bisogna sempre fare i conti: il bene e il male, il futuro e il passato, il mistero della vita. Le storie di Tolkien, Lewis, Ende, o anche il discusso Harry Potter di Joanne Rowling o coloro, come Mary Stewart, che hanno rivisitato le leggende medievali di Merlino, di Re Artù, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, nella loro fervida immaginazione, hanno il pregio di non dimenticare queste questioni fondamentali. Sta tutto qui il loro fascino, quello che fa produrre ancora nuove spettacolari versioni del mito: non è una pura evasione dalla realtà per rifugiarsi nella fantasia, ma è forse l’occasione per volgere lo sguardo verso cose grandi, verso noi stessi e la nostra anima assetata di Bellezza, verso le stelle, cercando i segni del nostro destino. Come ha insegnato il grande creatore di miti J.R.R. Tolkien, la letteratura dell’immaginario può essere lo specchio dei gusti, degli umori e addirittura della condizione psicologica dell’epoca moderna, esprimendo i dubbi, le paure, le domande insoddisfatte, le esigenze profonde dell’animo umano. I miti, i simboli, le leggende e le tradizioni ci rivelano noi stessi. Non è un caso, probabilmente, che molti di questi grandi scrittori furono insigni medievisti: al centro di tutto il Medio Evo infatti c’era il simbolo: la vita dell’uomo medievale era inscritta in un universo simbolico, dove ogni forma del pensiero, artistica, mistica, teologica, si basava su di esso. L’esperienza quotidiana era esperienza spirituale, nutrita dai simboli che la provocavano, la animavano, le conferivano un valore profondo. L’abilità narrativa e la fervida immaginazione di chi scolpiva le cattedrali gotiche, con i suoi mostri e le sue creature fantastiche, o di chi scriveva la storia della Cerca del Santo Graal o le peripezie di un Re e della sua spada incantata adoperavano il linguaggio del simbolo, che trasfigurava la realtà stessa, ed è stato capace di mantenere la sua intensità e il suo valore, trascorrendo, inattaccabile, il tempo e la storia.
Il lettore disincantato di oggi viene quindi provocato opportunamente dal racconto fantastico, sia che si tratti di fiaba o di narrazione epica, di leggenda come di racconto “gotico”; sospeso tra il misterioso e il terribile, è sempre in qualche modo espressione umana sottesa tra il sacro e il profano, a partire dal linguaggio, che reca sempre in sè le tracce di arcaici miti, fino ai contenuti, che sono comunque e sempre quelli del fantastico, ossia dell’irruzione, oscura e inquietante oppure solare e confortante di un evento soprannaturale nella realtà quotidiana. Non c’è generazione di lettori (o di spettatori) la quale, a dispetto di tutte le mode, non senta la suggestione dell’ elemento fantastico, mitico, fiabesco: un tipo di letteratura portatrice di una sapienza antichissima, che mimetizza i suoi contenuti nel linguaggio apparentemente semplice ed infantile delle fiabe, o del folklore popolare. Il mito è necessario perché la realtà è molto più grande della razionalità. Il mito è visione, è nostalgia per l’eternità. Il mito non è metafora o allegoria, ma simbolo, ossia segno che rimanda ad un significato ultimo che l’uomo deve riconoscere e interpretare. Il mito, nella storia dell’umanità, non è mai stato contrapposto, come avviene oggi, alla realtà; il mito è sempre stato per sua stessa natura vero, espressione della verità delle cose. Nel mito si veniva a contatto con qualcosa di vero che si era pienamente manifestato nella storia, e questa manifestazione poteva fondare sia una struttura del reale che un comportamento umano. Il mito è un mezzo per dare risposte a questioni fondamentali come l’origine dell’uomo, il bene, il male, l’amore, la morte e per dare spiegazioni ai fenomeni della natura. Se il mito è il nesso, il legame che l’uomo ha sempre cercato con il senso della vita, esso non può quindi che essere considerato un’espressione naturale ed antichissima del senso religioso che vive nel cuore dell’uomo. Nel corso della Modernità, gli antichi miti d’Europa – celtici, norreni, greci e così via- si sono occultati nelle fiabe. Un luogo nascosto, protetto, un luogo apparentemente per bambini. Roger Caillois sostenne che “la fiaba è un racconto situato fin dal principio nel mondo fittizio degli incantatori e dei geni. Le prime parole della prima frase sono già un avvertimento: In quel tempo oppure C’era una volta… Per questo le fate e gli orchi non spaventano nessuno. L’immaginazione li confina in un mondo lontano, fluido, impenetrabile, senza rapporto né comunicazione con la realtà di ogni giorno nella quale è pressoché impensabile che essi possano fare irruzione. (…) La differenza balza agli occhi – prosegue Caillois spingendosi nel fantasy così detto gotico o anche horror – quando si tratta di fantasmi o di vampiri. Certo, anche loro sono esseri immaginari, eppure li colloca in un mondo tutt’altro che immaginario; anzi, se li rappresenta come creature che fanno le loro apparizioni nel mondo reale, apparizioni che sono per giunta incomprensibili, terribili, invariabilmente funeste. (…) Così le manifestazioni del fantastico derivano tutte dallo stesso principio. Esse sono tanto più terribili quanto più il loro scenario è famigliare, le loro vie più subdole o fulminee, quanto più si presentano con un non so che di fatale e d’irrimediabile che si sprigiona da una rigorosa concatenizzazione degli eventi.” La fiaba dunque come un viaggio iniziatico, come una serie di tappe di un viaggio, di un’impresa.
Lo studio di Alessandra Tozzi che il lettore ha tra le mani è una guida preziosa per avventurarsi su questo cammino, per riconoscere i segnali indicatori, per non smarrirsi nel labirinto, e soprattutto per farci ritrovare e riassaporare il significato di un patrimonio culturale che va conservato, difeso, valorizzato, e tramandato.


TITOLO: Brunilde e Rosaspina. Mito e fiaba dagli Indoeuropei ai fratelli Grimm; AUTRICE: Alessandra Tozzi, PREFAZIONE: Paolo Gulisano; EDITORE: Il Cerchio; COLLANA: Fantasia; PAGINE: 392; PREZZO: euro 25,00

martedì 29 maggio 2012

lunedì 28 maggio 2012

Le fate venute dalle stelle

di Nicoletta Camilla Travaglini

Una teoria molto suggestiva  portata avanti da Fieber nella quale sostiene che le fate siano, in realtà, delle creature venute dallo spazio.
L’autore di tale ipotesi dice a questo proposito:
Quando ero bambino, si narra in una raccolta di fiabe  irlandesi, udivo mio nonno parlare del magico popolo che vive sulle colline…
Egli era fermamente convinto che le fate esistessero veramente e non si recò mai nelle paludi a raccogliere la torba, senza essere spiritualmente preparato a incontrarne qualcuna…
Diceva che in cielo c’era stato una guerra fra Dio e gli angeli e che per quaranta giorni e quaranta notti di seguito il Padreterno aveva scacciato angeli dal cielo gettandoli verso la Terra. Alcuni erano rimasti sospesi in aria, altri invece erano arrivati fin quaggiù, chi toccava la terraferma, chi  cadendo in mare. Un giorno udì un uomo dire che se il giorno del Giudizio Universale avessero perduto la speranza di poter rientrare in Cielo avrebbero distrutto la Terra.   

Fieber ci dice anche da dove proverebbero queste magiche creature:
 …Fattosi improvvisamente serio, mi rimproverò, diventando serio di aver conosciuto un decano che non solo aveva visto con i propri occhi questi piccoli esseri, ma aveva anche parlato con loro: gli avrebbero rivelato di essere abitanti della Luna.
L’idea che ci si faceva allora della patria delle fate, degli elfi e dei folletti era però completamente diversa; W. Evans-Wentz la descrive come un mondo invisibile, nel quale il nostro pianeta sarebbe immerso, come un’isola sprofondata in un immenso oceano. Gli abitanti di “quest’altra Terra” erano normalmente immaginati come esseri più piccoli dell’uomo terrestre, ma avevano il potere di trasformarsi anche in giganti. Quelli che mantenevano almeno per metà sembianze umane erano molto amati e preferito agli altri. Usavano a volte i loro poteri per rapire uomini che, dopo avere stordito, tenevano prigionieri. A volte rubavano loro cereali e bestiame ma in altre occasioni potevano anche mostrarsi generosi e disponibili. Nel complesso, però, non esistevano fate, folletti e gnomi che fossero “buoni” in modo assoluto; tutti potevano all’improvviso e senza motivo, diventare cattivi e vendicativi.
… Gli Algonkini si tramontavano una leggenda secondo cui un giorno un cacciatore di questa stirpe scoprì in una radura un cerchio d’erba schiacciata. Si nascose fra i cespugli e di lì a poco vide scendere dal cielo un cesto nel quale sedeva un gruppo di donne meravigliose che, scese dal cesto, si misero  a danzare in cerchio. Il cacciatore attese il momento propizio, poi afferrò una delle donne e la trascinò via con sé. Spaventate, le altre rifugiatesi di nuovo nel cesto, che venne velocemente tirato su e in un attimo sparì fra le nuvole. L’indiano condusse la donna nella sua tenda e, poco tempo che vivevano insieme, lei gli dette un figlio ma, approfittando di un momento in cui non era sorvegliata, fuggì nella radura col il bambino, dove intrecciò un nuovo cesto magico con le sue mani. Appena vi fu salita col il bimbo, volò in cielo a raggiungere le compagne e non tornò mai più.


Note
1)  FIEBAG, Johannes Gli Alieni Contatti con intelligenze extraterrestri Edizioni Mediterranee, Roma 1994, pag.40.
2) FIEBAG, Johannes op. cit., pag. 41, 44, 45.


domenica 20 maggio 2012

"Vampiri" a Trani Metti un masso sul morto iapigio

Tratto dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 3/3/2002

Due tombe, per quattro defunti: furono inumati senza onoranze funebri e in posizione prona, con un macigno addosso.L’inquietante ipotesi degli antropologi: erano reietti che non dovevano assolutamente tornare tra i vivi

"Vampiri" nell’antica Trani. E ciò che hanno sospettato archeologi e antropologi di fronte alle due sconcertanti tombe iapigie emerse a Capo Colonna. Qui qualcosa di unico nella storia degli scavi in Puglia - nonché della ritualità funebre antica - si è parato davanti agli occhi dell’archeologa Ada Riccardi della Sovrintendenza. Nella sepoltura più piccola era deposto un cadavere in posizione prona, inginocchiato, schiacciato da un lastrone piazzatogli sulla spalla; nel secondo sepolcro, invece, tre erano i defunti, anch’essi inumati, ognuno con un proprio masso addosso.
Lo scavo è stato condotto dalla Riccardi nel 2001. Ma la notizia, per evidente cautela, non era trapelata finora.
Durante gli scavi precedenti effettuati negli anni ‘70 a Capo Colonna, la penisoletta di Trani dove sorge il bel Monastero che sarà sede museale, non erano emerse sepolture: si trovarono invece tracce di insediamenti dell’età del Bronzo e anche fondi di capanna dell’età del Ferro, delimitate da un fossato. Furono recuperati reperti tardo-elladici e micenei (secondo la testimonianza dell’archeologo di allora: ma nessuno li ha mai visti, né sembra siano stati mai pubblicati!). Lo scorso anno però si ripresero le indagini in una zona limitrofa e riaffiorarono strutture di ambienti, con un cortile che doveva essere in origine lastricato (lo si deduce dal "vespaio" di ciottoli di mare disseminati, che avrebbero dovuto formare il sottofondo). Le pareti di questo edificio presentavano una originalità. i paramenti esterni dei muri erano costituiti da lastroni infissi verticalmente nel terreno. Una tecnica costruttiva mai attestata per l’antica Peucezia (o per la Daunia, visto che Trani allora sorgeva sul confine tra queste due popolazioni). D’altronde si doveva trattare, quasi certamente di un luogo di culto.
In questi ambienti sono riafforati frammenti di ceramica iapigia (un’olla ed altri cocci di vasi) che rimandano a una decorazione tipicamente daunia. Stravagante è il disegnino di uno dei frammenti, che raffigura un bipede con una voluminosa cresta, nonché una lunga coda da rettile. Il loro "stile" indica con ogni verosimiglianza la datazione dell’intero insediamento e quindi delle tombe. Tutto dunque farebbe pensare alla fine del IX o all’inizio dell’VIII secolo avanti Cristo.
Una fossa circolare fu scavata accanto alla parete dell’edificio maggiore. A che cosa servisse? Resta per ora una domanda senza risposta; e ancora più intrigante è aver constatato che nell’interno del pozzetto fossero stati infisse delle pietre. Certo un rito, di cui ci sfugge il senso.
Tuttavia il culmine del mistero di questo scavo a Capo Colonna non è certo la fossa, quanto le due tombe: che di per sé costituiscono una eccezionalità per questa epoca. Una di esse è all’interno all’edificio, l’altra, più piccola, è esterna, si direbbe nel "cortile".
Come si è detto, in quest’ultima sepoltura fu deposto - ben duemila e ottocento anni fa - un uomo in una posizione ben strana: quasi inginocchiato, prono, con addosso un lastrone. Identica fine fu riservata ai tre defunti ammassati nella tomba più vasta, anch’essi seppelliti con un macigno addosso. Il primo è un adulto maschio - ci dice il prof Vito Scattarella del Dipartimento di Zoologia, sezione Antropologica dell’Università di Bari, che con il dottor Sandro Sublimi Saponetti stanno studiando i resti ossei. Gli altri sono due adulti dai venti ai quarant’anni e un ragazzo di quindici anni. L’indagine prosegue, ma nessun segno traumatico è ancor apparso sulle ossa: il che escluderebbe, per ora, una morte violenta, inflitta loro dalla comunità, che pure volle punire questi morti per l’eternità.
Che si trattasse di sepolture di reietti era emerso da vari indizi: non solo l’imposizione dei massi, ma anche la mancanza di qualsiasi elemento a corredo funebre: neppure un frammentino di ceramica fu adagiato nelle tombe. Eppure i loro corpi non furono lasciati insepolti o gettati in mare. Oltre al sasso, i corpi furono coperti da terreno, e le tumulazioni furono sigillate con un lastrone di pietra. È quasi esplicita in un siffatto rituale la volontà di impedire ai defunti un ritorno tra i vivi. E a un fenomeno di "vampirismo" hanno pensato gli antropologi baresi Scattarella e Sublimi. Le deposizioni di Trani, pur essendo uniche in Italia, hanno dei riscontri con altre scoperte dagli archeologi nel nord della Grecia: fu la studiosa greca Anastasia Tsaliki (ora docente in Inghilterra) a rivelare in alcuni congressi di antropologia la permanenza di rituali funebri di questo genere, dall’età neolitica fino ai giorni nostri. Il masso imposto al defunto doveva impedire che, egli tornasse a portare scompiglio nella comunità dei vivi. Naturalmente quando si parla di "vampirismo" non ci si vuol riferire al mondo dell’orrore, come lo intendiamo oggi. E tuttavia questi trapassati dovevano essere affetti da morbi connessi con la manifestazione del sangue, sostengono gli antropologi: quali la fotofobia, la porfiria, la tubercolosi polmonare, la rabbia ecc...
Su quali fonti letterarie o documentali dell’antichità si basi questa convinzione, non è dato ancora sapere con precisione. Ma certo, l’indagine non finisce qui, e di queste sepolture si continuerà a parlare.
Macigni, ritorni dal mondo dei morti… Un nesso non nuovo: il più immediato riscontro che il mito può fornirci - se vogliamo stare al gioco - è quello di un celebre "revenant": Sisifo. L’astuto fondatore di Corinto, che aveva incatenato la Morte, e una volta defunto aveva ingannato anche gli dèi degli inferi ed era tornato a vivere (uno dei rarissimi casi di "zombi" nel mito) fu punito con un masso da sospingere per l’eternità. Perché aveva osato l’impossibile "ritorno".

Giacomo Annibaldis

La coincidenza
Qui Davanzati scrisse nel ‘700 il suo trattato "sopra i vampiri" È solo una coincidenza. Ma è stravagante che si parli di "vampirismo" nell’antica Trani, nella città in cui fu "incubato" - duemilacinquecento anni dopo l’inumazione di questi defunti iapigi - il primo trattato completo sui "revenants": quella "Dissertazione sopra i vampiri" scritta nel 1739-40 da Giuseppe Davanzati, che di Trani era in quegli anni arcivescovo e vi mori nel 1755 (era nato a Bari nel 1665). La "Dissertazione" era un’anatomia completa e illuministica non solo del diffuso fenomeno del vampiro, ma di tutto il luna park dell’orrore. Pubblicata postuma nel 1774 dal nipote Forges Davanzati, è stato riproposta nel 1998 da Besa editrice.

giovedì 17 maggio 2012

Il mistero delle Pleiadi

di Nicoletta Travaglini


L’antropomorfismo delle civiltà antiche portò alla personificazione delle montagne o alture nelle quali si credette di ravvisare divinità e personaggi mitologici dall’aspetto umano.

Anche la Majella, massiccio montuoso dell’Abruzzo, divenne, agli occhi dei suoi primi abitanti, una divinità. Il suo nome deriva dalla Magna Mater italica Maja, che significherebbe, secondo alcuni, cresta,montagna; secondo altri grandezza intesa come forza o potenza; infine taluni hanno creduto di ravvisare in esso la radice del nome “Amazzone”.

In molte leggende nate in Abruzzo si parla di gigantesse guerriere chiamate “Majellane”, che indossavano grossi orecchini di forma circolare e collane costituite da enormi sfere sfaccettate.

Maia o Maja era una di queste donne colossali che insieme al suo unico figlio fuggì dalla Frigia per riparare nel porto di Ortona, dove con il ragazzo ferito in battaglia tra le braccia, in groppa a un veloce destriero,  per sfuggire ai suoi nemici, si rifugiò tra gli anfratti, i boschi e le rocciose vette delle montagne abruzzesi dove, malgrado le sue cure, egli morì di lì a poco. Allora, lo seppellì sulla terza vetta del Gran Sasso andando da Oriente verso Occidente.

La disperazione di Maja fu così forte che nel giro di poco tempo morì anche lei e fu seppellita in montagna che in suo onore fu chiamata Majella, il mausoleo della Magna Mater abruzzese.

In un'altra leggenda si racconta che Maja era la più bella delle sette Pleiadi di cui si innamorò Zeus, fu anche la moglie di Vulcano e la madre di Ermes. Sul Monte Pallano, essa cercò le erbe per curare suo figlio, il quale, nel giro di poco tempo, perì.    

         Di fronte all’imponente profilo del massiccio montuoso della Majella, in Abruzzo e più precisamente, nella provincia di Chieti, si staglia il Monte Pallano; un colle sulla cui sommità svetta il simbolo della società moderna e tecnicizzata:  il ripetitore tv e antenne per la telefonia mobile; poche balze più in basso, però, vi sono i ruderi  di un’ antica città, delimitata da una possente cinta muraria, composta da blocchi di pietra calcarea sovrapposti a secco.

Il Monte Pallano è alto all’incirca 1020 metri ed è avvolto da una fitta vegetazione  che va dalle querce fino ai lecci, passando per  i cerri e faggi.

Il suo territorio è diviso tra il comune di Archi, Atessa, Tornareccio e Bomba. La fauna che popola questo primitivo angolo d’Abruzzo è composto da: volpi, tassi, lepri, qualche cinghiale, ovviamente i serpenti, ramarri e uccelli rapaci notturni e diurni.

Questo luogo funge da spartiacque tra la valle del Sangro e quella dell’Osento. Dalla sommità di questo monte lo sguardo si perde sulle cime dell’Appennino Marchigiano fino a immergersi nelle coste della ex Jugoslavia, sostando sul Faro di Puntapenna a Vasto, e sull’antica Abbazia di Santo Stefano ad Riva Maris, potente monastero distrutto dai mori.

L’aspetto peculiare di Monte Pallano è costituito da mura ciclopiche che si ergono per circa 163 metri in prossimità della vetta, raggiungono l’altezza e lo spessore di circa  5 metri; essi risultano leggermente inclinati rispetto al terreno circostante e recingono solo parte del versante di Tornareccio, poiché il resto è difeso dall’asperità del paesaggio come: canaloni, vegetazione intricata, angusti viottoli, rocce etc.

  In passato, vi si accedeva tramite quattro porte molto strette, di cui solo tre sono, al momento, visibili, di cui, una, ancora in fase di recupero, poiché nel 1971, fu distrutta a causa di un allargamento di una strada rurale. La più grande e la meglio conservata viene chiamata “Porta del Piano”, l’altro ingresso più basso è chiamato “Porta del Monte”; queste anguste aperture,  che hanno la trave principale costituita da un monolite unico, servivano per il passaggio di una persona per volta o di un unico cavaliere, così in caso di attacco nemico,  esse potevano essere facilmente sorvegliato.

Il suo toponimo potrebbe derivare dal nome della dea Pale, protettrice dei pastori a cui si tributavano offerte per propiziare fecondità e salute delle greggi.

La dea Pale, che spesso è  rappresentata anche come un dio, ha molte caratteristiche simili a Eracle – Ercole, questo fatto è suffragato anche da ritrovamenti fatti nella zona di Pallano.  Eracle era l’eroe nazionale greco, ma il suo mito si diffuse anche in Oriente, in Europa e ovviamente preso gli Italici. Egli, come le dee Pale, Bona, Maia e in generale le divinità agresti, erano i numi tutelari dell’agricoltura e di tutto ciò che era legato ad esso, inoltre si invocava questo semidio anche per la stipula di contratti, in quanto egli era anche il protettore della “parola data” e “della buona fede”. Veniva, spesso,  rappresentato con la clava e la pelle leonina addosso, con arco e faretra, e presso gli Italici indossava la corazza; aveva quasi sempre la barba ed era nudo con una possente muscolatura.  Egli nutriva dell’astio nei confronti della dea Maia – Bona, la quale si rifiutò di farlo bere alla sua fonte durante le celebrazioni dei riti annuali ad ella dedicati, ai quali erano interdetti gli uomini. Ercole – Eracle stanco ed affaticato per l’ennesima fatica patita, non si era reso conto della situazione e così da quell’episodio disdicevole che nacque il divieto alle donne di partecipare ai riti in onore dell’eroe.

Il sincretismo cristiano assimilò questo eroe mitologico con Sant’Antonio Abate o del deserto, del fuoco o del porcello con connotazioni prettamente agricole; infatti, ancora oggi, è in uso, presso i contadini invocare il Santo per propiziare la fecondità del bestiame. Molte sono le analogie tra questi due personaggi, per esempio come il suo archetipo, Antonio ha la barba, combatte con le entità infernali ed è nato in oriente. Inoltre nella zona pedemontana di Pallano, all’incrocio delle grandi arterie tratturali del passato, e sull’attuale strada a scorrimento veloce Fondo Valle Sangro,  sorge il Ponte di Sant’Antonio dalla vicina chiesa a lui dedicata.

Tuttavia non si può escludere che il toponimo Pallano potrebbe derivare  dal nome della dea della sapienza Pallade ma non vi sono molto elementi a supporto di tale tesi.

Alcune fonti ritengono, invece, che il nome provenga dal termine  osco  “Pala” che significa rotondità o altura.

I megaliti, comunque, non erano costruzioni obsolete, poiché se ne contano più di duecento solo nella zona dell’alto e basso Sangro; questo complesso di recinzioni, si ritiene, che facessero parte di una più ampia rete di elementi difensivi disseminati in punti strategici, che si tenevano in contatto attraverso segnali ottici notturni e diurni.

Il Monte Pallano, doveva, presumibilmente, essere, per la sua particolare conformazione geomorfologia, un punto strategicamente fondamentale e un sicuro baluardo contro la colonizzazione ellenica, in quanto rappresentava l’ultima montagna prima del mare. 

Questa cinta muraria sono le vestigia di antiche civiltà preistoriche la cui origine si perde nella notte dei tempi, giacché, essa, data intorno al IV - VI secolo a. C., sembra essere stata edificata su elementi preesistenti. 

La presenza  umana, in questi luoghi,  si fa  risalire a circa 20000 anni fa e anche se  rara,  essa era basata su gruppi più o meno organizzati. 

Nel millennio che definiamo come Età del Ferro, o meglio la fine dell’Età del Bronzo e  l’inizio dell’Età del Ferro, che viene circoscritta dal 1020 fino al III secolo a.C., la penisola italiana era costituita da un mosaico di popoli con usi e costumi diversi: l’area settentrionale e meridionale era influenzata dalla cultura ellenico-orientale, il centro, invece, era organizzato in confederazioni su modello centroeuropeo.

Una differenza fondamentale tra queste due aree di influenza era il modo di seppellire i morti; quelle popolazioni  affine alla  cultura greco-orientale, bruciavano il loro defunti e ne conservavano i resti in urne bronzee, invece gli altri li tumulavano in fosse che venivano ricoperte da tumuli di terra.

Nel centro Italia, cioè nella Sabina, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata vi erano stanziati i Sabini, Peligni, Marruccini, Marsi Aequi, Vestini, Pretuzi, Frentani, Pentrini, Carracini, Sabelli, Sanniti e Umbri che venivano genericamente definiti, dall’etimo osco, “Safin” . I Frentani, invece, occupavano la fascia costiera del Molise e la parte centrale litorale dell’attuale territorio chietino. Una popolazione affine ad essi occupava la destra del fiume Sangro ed era chiamata Lucani o Lucanati e risultavano culturalmente analoghi agli altri popoli del centro peninsulare definiti, poi, dai romani come Italici.  

Questi popoli erano il risultato dell’unione tra pacifici agricoltori autoctoni e pastori guerrieri cercatori di metalli provenienti dalla zona egeo – anatolica, apportatori di tecniche superiori come la transumanza, praticamente sconosciuta presso i popoli neolitici.

Nel I millennio a. C. con l’affermarsi della cultura agreste tipica dei Piceni, la pastorizia fu relegata solo alle zone montane interne. In seguito con l’avvento dei bellicosi Sabelli si diede un nuovo impulso alla pastorizia, la quale per varie ragioni si praticò solo verticalmente, cioè dai monti alle valli circostanti; per favorire tale tecnica essi edificarono i Vici, villaggi agro pastorali, situati in pianura erano difesi dagli Oppida, borghi costruiti su alture e protette da possenti mura, simili a quelli del Monte Pallano.

Il primo insediamento di cui abbiamo traccia in questa zona di Pallano è quello adiacente all’incavo naturale chiamato Lago Nero, che oggi risulta completamente asciutto, che si ubicava nei pressi della cima del monte. Questo lago, che si riempiva solo in determinate condizioni climatiche, era considerato dall’uomo di Pallano, come una divinità alla quale erano tributati culti magico-misterici correlate, alla presenza o meno delle sue acque.

In questo contesto mistico legato all’acqua, che i Lucanati probabilmente, celebravano anche i riti della Primavera Sacra o Ver Sacrum, durante la quale un capo, in questo caso il Nerf, principe guerriero con poteri assoluti, compreso quello religioso, consacrava, forse al Lago Nero, tutti gli esseri viventi che sarebbero nati nella primavera successiva, i quali una volta adulti, venivano allontanati dal consorzio civile perché appartenete alla deità e con il compito di colonizzare nuove terre lontane. In realtà molto di coloro che venivano offerti come ex voto risultavano poco gradite alla  comunità; questi si riunivano, spesso, in vere e proprie milizie paramilitari fuorilegge che terrorizzavano la zona e non solo.

Questo culto era connesso anche alla dea Maja o Maia, la Grande Madre, chiamata anche Vergiliae per il suo stretto rapporto con la primavera di cui ne era una epifania.

 Il nome Maia, tra i tanti significati che gli sono stati attribuiti, c’è anche quello di accrescimento, sviluppo e fertilità del suolo, nonché essa da il nome al mese di Maggio, cioè, il mese in cui si risveglia Madre Natura ed è anche quello dedicato alla Vergine Maria.

Maia, come abbiamo detto,  era una gigantessa facente parte delle mitiche amazzoni e secondo vox populi, i Megaliti Palatini sono stati costruiti da uomini mastodontici, i quali risiedevano all’interno delle mura e andavano a lavorare in Puglia.

Essi erano, secondo alcuni miti medioevali abruzzesi, i Paladini o Palladini  di Carlo Magno che la fantasia popolare ha associato ad alcuni scheletri enormi ritrovati nella zona. Intorno al 1954 circa, infatti, si stavano ultimando dei lavori per la costruzione di una strada quando venne alla luce uno scheletro di un uomo alto circa tre metri che calzava dei parastinchi, tra lo stupore generale egli venne tolto dallo scavo, ma siccome i lavori dovevano andare avanti ed il più velocemente possibile, lo scheletro gigante fu occultato e di esso non si seppe più niente.

Questa cinta muraria non aveva comunque, solo valenza difensiva, ma era anche un luogo di culto dedicato, presumibilmente, alla Grande Madre, il quale posto su un monte poteva fungere, forse, da osservatorio astronomico orientato verso le stelle chiamate Pleiadi.

Le Pleiadi fanno parte della costellazione del Toro che nonostante il loro scarso splendore, se comparato alle vicine Orione e Aldebaran, hanno, da sempre,suscitato interesse negli astronomi di tutte le epoche, che hanno visto in esse un qualcosa di misterioso e arcano.

Intorno al 2500 a.C. questo gruppo di stelle, acquistano una notevole importanza presso gli abitanti della Mesopotamia, in quanto il loro sorgere corrispondente all’equinozio primaverile, che coincideva con il loro capodanno. 

I greci le intitolarono il grande anno processionale, consistente in circa 26 mila anni solari, che venne chiamato, appunto, “Il grande anno delle Pleiadi”, che, però, nei secoli successivi prese il nome di “anno platonico”.

Nell’antichità ai marinai, la loro apparizione nel cielo primaverile, cioè il 10 maggio, indicava il periodo dell’anno propizio alla navigazione, dopo il riposo invernale, il quale si concludeva l’11 novembre quando esse divenivano invisibili. Questo lasso di tempo era chiamato dai Celti All Hallows Evens, cioè il tempo in cui i vivi potevano incontrare i morti, che il sincretismo cristiano trasformò nella festa di “Ognisanti”.

In passato, queste stelle erano visibili dalla primavera in poi, oggi, a causa della precessione degli equinozio, sono visibili dalla metà di agosto fino alla fine di marzo.

Nell’antica Grecia si narrava che queste sette sorelle, figlie di Pleione e Atlante, prima della loro mutazione in astri, si erano unite a  dei, partorendo altrettante divinità o eroi, Maja la più vecchia e più bella, giacendo con il padre degli dei generò, Ermes, come fecero le sue sorelle con altrettante divinità maschili, la cui stirpe avrebbe fondato città o imperi, solo Merope essendosi unita ad un mortale aveva interrotto la stirpe divina; perciò nel momento in cui fu trasformata in stella, insieme alle altre, vergognandosi della sua scelta affettiva, si celò agli esseri umani.

Parlando dell’Atlantidi perdute, in un’altra narrazione, non si fa riferimento a Merope, bensì a Elettra, la quale, dopo la sconfitta di Troia, fondata da suo figlio Dardano, in preda alla disperazione si rifugiò nel circolo polare Artico da dove torna ciclicamente con i capelli scompigliati in segno di grande dolore, cioè come una stella cometa.

Alcuni miti narrano che queste siano state trasformate in stelle in segno di riconoscenza per la loro saggezza. 

Un’altra versione del mito si dice che esse piansero così tanto per la sorte del loro padre che per questo divennero stelle.

Infine in uno dei tanti racconti popolari nati intorno alle Pleiadi, si dice che un giorno Pleione e le sue figlie erano in Boezia quando furono aggredite da Orione, il grande cacciatore, che voleva abusare di loro esse, riuscirono miracolosamente a fuggire e stettero nascose per cinque anni finché Zeus non le trasformò in astri del firmamento.

Questo gruppo di stelle in realtà è composto da oltre novecento corpi celesti ma solo sei o sette sono visibili ad occhio nudo esse sono: la più scintillante Alcione, tempesta invernale, Taigete, ninfa della montagna, Asterope, Elettra, ombra,  Maja, fertilità, Merope, mortalità, e Celano, oscurità.

Il loro nome deriverebbe dalla parola “navigare” in quanto indicava il periodo dell’anno più adatto alla navigazione,  potrebbe derivare dalla parola “più” poiché ne sono tante, il loro nome greco, invece,  significa “stormo di colombe” perché sembra che prima di divenire stelle fossero colombe inseguite da Orione.  

L’insediamento di Monte Pallano, come si è detto precedentemente era strategicamente ottimo, per questo esso resistette a lungo alla colonizzazione forzata e violenta dei romani, che con tre Guerre Sociali,  assoggettarono  gli Italici.

Questa romanizzazione brutale e inevitabile portò anche all’urbanizzazione di quelle comunità tribali sparse in tutta la valle del Sangro;  le quali si aggregarono in vere e proprie città, come quella che nacque nella zona di Fonte Benedetti quasi alle falde di Monte Pallano.

Questa città, di cui ignoriamo il nome,  che era forse la Palacinum impressa in alcune monete ritrovate sul posto,  doveva essere molto ricca ed operosa dato che batteva moneta e si trovava in una posizione particolarmente favorevole al controllo dei traffici lungo il braccio  tratturale secondario Centurelle-Montesecco, rispetto al più importante tratturo Aquila – Foggia, oggi in parte inglobata nella strada a scorrimento veloce “Fondo Valle Sangro”.

Nonostante queste buone premesse questa comunità non divenne mai “Municipio Romano” e, così, gradatamente ma, inesorabilmente, la presenza antropica dei luoghi divenne sempre più rara e limitata solo ai Tholos, ripari in pietra usata dai pastori e greggi durante la transumanza.

Durante il Medioevo, molte furono le abbazie e luoghi di culto che si concentrarono a ridosso della zona pedemontana del monte in questione. Per una curiosa coincidenza, forse voluta dai suoi costruttori, lungo la strada che congiunge il mare Adriatico al Monte Pallano vi sono ben tre chiese dedicate a Santo Stefano: la prima Santo Stefano erga mare, nel territorio di Vasto, la seconda Santo Stefano rivum maris a Casalbordino, la terza Santo Stefano in Lucania a Tornareccio. A questa enigmatica casualità si aggiunge anche un destino comune che unì la storia di questi tre luoghi.

E’ notorio che questo protomartire morì lapidato per il suo eccessivo zelo nella diffusione del “Verbo” cristiano. Il suo culto dilagò prepotentemente, dall’oriente fino ad arrivare anche in Abruzzo, poiché esso si intrecciò indissolubilmente con l’agiografia di Santo Stefano in Lucania, parroco della zona Frentana, attuale Lanciano e dintorni, che fu ammazzato barbaramente insieme ai suoi figli dai mori di  Pallonio, despota saraceno che viveva nel castello di Monte Pallano, di cui oggi non si è trovata nessuna traccia se non nei toponimi. I resti del Santo e dei suoi figli furono trovati diversi secoli dopo grazie a un sogno premonitore e in quel luogo fu edificata la chiesa che porta il suo nome. In un'altra versione si dice che Pallonio, da qui, forse, il nome Pallano, avesse imprigionato i cristiani all’interno dei megaliti affinché abiurassero il loro credo, e quelli che non lo fecero furono trucidati.

Queste leggende nacquero in seguito alle scorrerie dei mori che terrorizzavano la costa adriatica e intorno alla prima metà dell’anno Mille, questa chiesa come le altre tre  dedicate al protomartire furono profanate, saccheggiate e distrutte dai saraceni, come in una sorta di invisibile e comune destino che associò questi luoghi di culto.

Santo Stefano in Lucania risorse molto lentamente e faticosamente, Santo Stefano ad rivum maris, invece ebbe un più rapida ripresa ma fu profanato per ben tre volte e  quando nel 1566 Pialy Pascià, mise a ferro e fuoco tutta la riviera adriatica, da Pescara a Termoli, distrusse definitivamente questo luogo sacro, nato su edifici romani preesistenti Egli, dopo aver preso prigionieri i monaci, li sevizio e impiccò sui ruderi della chiesa;  così si compì il tragico destino  della potente abbazia di Santo Stefano ad rivum maris.      

  Sempre durante l’Evo medio si svilupparono molti miti intorno a questa costruzione atipica, che venne chiamata anche con l’appellativo di “ Mura del Diavolo” , perché in alcune leggende si sosteneva che nelle viscere del monte vi fossero seppelliti ingenti tesori, tutti custoditi da demoni, imprigionati in quei luoghi da malefici; questa credenza popolare ricorda quella degli indiani d’America che costruivano le loro “ Ruote della Medicina”, una sorta di cerchi magici che si dipanavano a raggiera lungo i pendii delle alture, al cui interno vi erano rinchiusi entità malvagie. Il tesoro più cospicuo è composto da una gallina tutta d’oro e dai suoi pulcini, che razzolano nei vari cunicoli di Pallano.

Questa leggenda avvalorerebbe la tesi che queste mura megalitiche sarebbero in realtà osservatori astronomici orientati verso le Pleiadi in quanto, esse, erano conosciute dai nostri avi dediti all’agricoltura,  come le “Gallinelle”con le quali si misurava il tempo, così, quando esse sorgevano su Montepallano all’alba, erano circa le quattro di mattina, quando erano visibile sul far della sera erano foriere di pioggia. I francesi chiamano la gallina Alcione e,le sorelle, i pulcini.

Secondo alcune leggende queste mura megalitiche sono state costruite dalle fate; infatti, in molte tradizioni, queste costruzioni sono conosciute come “pietra delle fate”.



Di

Nicoletta  Camilla Travaglini

Fonti:

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TRAVAGLINI, Nicoletta in  Mystero la Rivista del Possibile anno II n. 16 ed. Mondo Ignoto srl. Roma.

TRAVAGLINI, Nicoletta, La Magna Mater, in Graal n. 7 Gennaio/Febbraio 2004.

PERILLI, Vinicio, PERILLI, Enrico Da Freud a Jung a Hillman  edizione Samizar 2003