sabato 11 luglio 2015

L'uomo selvatico[1]

di Giorgio Borroni

L’Uomo Selvatico ha fatto la sua comparsa sin dalle culture più arcaiche, rivestendo con più o meno sfaccettature il ruolo dell’opposto, del contrario, che si ribella ad un sistema di regole che gli uomini di una determinata comunità si sono dati al fine di sceglierne uno più vicino all’animalità e alla natura; lo stesso aggettivo “selvaggio” o “ selvatico” identifica qualcosa di non addomesticato, incontrollabile e violento, (se riferito ai luoghi) impervio e inaccessibile, rozzo, che non ha a che fare con la civiltà urbana, contrapposto alle regole e soprattutto privo di controllo e di ragione.

Hayden White, in The forms of wildness ha fatto un’interessante comparazione tra la concezione di Uomo Selvatico degli ebrei, degli antichi greci e quella dei primi cristiani: sebbene vi siano alcune differenze di fondo, ciò che emerge è una sorta di opposizione, più o meno negativizzata o riguardante principi morali,  tra i cosiddetti uomini “civilizzati” e quelli “selvatici”; ciò che risulta da tale analisi è che il pensiero ebraico, che vede il Selvatico come una sorta di frutto di stirpe maledetta, ha la controparte nella cultura dell’antica Grecia, in cui esso era alla stregua di proiezione della paura della possessione demonica. In entrambe le culture la mente del Selvatico viene descritta o identificata con la follia e la depravazione, sebbene gli ebrei, al contrario degli antichi greci, tendano a dare un significato morale alle caratteristiche fisiche: in altre parole, la civiltà ebraica era incline a identificare attributi esterni come la manifestazione di quelli interiori e questa tendenza si riversò anche in futuro nei processi mentali dell’uomo occidentale.

Secondo White, queste condizioni che designeremmo con i termini di ferinità, insania o crudeltà furono tutte ideate dagli antichi ebrei per essere aspetti della stessa condizione morale malvagia. La relazione tra la condizione di grazia e quella di ferinità è perfettamente simmetrica: colui che è nello stato di grazia prospera e la sua condizione è riflessa nel benessere e nella salute, nel numero della prole, la longevità, e l’abilità di produrre. Il maledetto, invece, si corrompe e girovaga in luoghi aspri, deforme, violento, e la sua animalità, la sua bruttezza e la violenza sono prove della sua maledizione.

Gli Uomini Selvatici archetipi del Vecchio Testamento sono i grandi ribelli contro il Signore, coloro che sfidano Dio, gli anti-profeti, giganti, nomadi come Caino, Ham e Ismaele, proprio quei particolari “eroi” che, nella mitologia e nelle leggende della Grecia, avrebbero avuto un posto d’onore al fianco di Prometeo, Odisseo ed Edipo. Come gli angeli che si ribellarono contro il Signore e vennero scaraventati giù dal cielo, questi sono ribelli nei confronti del Signore e si potrebbe dire che continuano senza freno a commettere il peccato di Adamo. […] essi sono dipinti come Uomini Selvatici che abitano una terra selvatica, sopra a tutti come cacciatori, seminatori di confusione, dannati, e generatori di razze che vivono nell’ignoranza  irrimediabile o nella violazione delle leggi che Dio ha stilato per governare l’universo. La loro progenie sono i bambini di Babele, di Sodoma e Gomorra, una razza conosciuta per la sua corruzione. Ci sono uomini caduti al di sotto della stessa condizione di animalità; ogni uomo è contro di loro ed in generale (Caino è una notevole eccezione) possono essere uccisi impunemente.[2]



Questa forma mentis nei confronti della diversità dell’essere Selvatico rappresentò anche il seme per la concezione di “inquinamento” della stirpe e delle razze, con tutto quello che poi è conseguito nel pensiero occidentale nel corso delle epoche.

White continua la sua analisi descrivendo il concetto di ferinità che si era venuto a creare in epoche successive:

I pensatori medievali, così come quelli degli antichi romani, concepivano sia i barbari che gli Uomini Selvatici come schiavi della natura, come, similmente agli animali, schiavi del desiderio e incapaci di controllare le loro passioni; come volubili, mutevoli, confusi, caotici; incapaci di una esistenza sedentaria e di auto-discilplina  […] e ostili alla umanità “normale”[…].

Sebbene sia i barbari che gli Uomini Selvatici fossero supposti condividere queste qualità, una importante differenza rimase irrisolta tra loro: l’Uomo Selvatico vive sempre da solo, o al massimo con una compagna. Secondo il mito che prende forma nel Medioevo, l’Uomo Selvaggio è incapace di assumere le responsabilità di padre  e se la sua compagna ha bambini, essa li abbandona nel luogo in cui li partorisce […]. Il Selvatico è convenzionalmente rappresentato come […] abitante degli immediati confini della comunità, è lontano dalla vista, sull’orizzonte, nella foresta vicina, nel deserto, le montagne o le colline. Egli dorme negli anfratti, sotto grandi alberi, nelle caverne degli animali selvaggi in cui porta bambini indifesi o donne  per fare loro cose indicibili. Egli è pure scaltro: ruba le pecore dal recinto, i polli dal pollaio, beffa i pastori […]. Specialmente nel mito medievale l’Uomo Selvatico è detto essere coperto di peli, nero e deforme. Può essere un gigante o un nano oppure orribilmente sfigurato […]. Ma in qualunque modo egli è raffigurato, l’Uomo selvatico rappresenta sempre l’immagine dell’uomo  uscito dal controllo sociale, l’uomo su cui gli impulsi della libido hanno raggiunto una piena ascendenza.[3]

La concezione negativa dell’Uomo Selvatico come schiavo delle sue pulsioni dette però origine, nel Medioevo, anche ad un altro tipo di considerazioni su di esso che lo identificarono quale  simbolo dell’evasione da un sistema sociale chiuso e rigido: forse è questa una delle ragioni principali del suo successo o della sua presenza quasi obbligata nell’ambito delle feste di piazza; White, infatti, sostiene che, nel Medioevo cristiano, il Selvatico era una sorta di distillato delle specifiche ansietà che giacevano al disotto delle tre sicurezze date dalle istituzioni cristiane della vita civilizzata: questi principi si traducevano nella “sicurezza del sesso”, ovvero nell’istituzione della famiglia, nella “sicurezza del sostentamento”, provveduta dalle istituzioni sociali, politiche ed economiche, e la “sicurezza della salvezza”, data dalla religione.

L’Uomo Selvatico  non gode di nessuno dei vantaggi  del sesso civilizzato, né di una regolarizzata esistenza sociale, né della grazia istituzionalizzata. Ma, deve essere sottolineato, nell’immaginario dell’uomo del Medioevo, egli non soffre di nessuna delle imposizioni richieste dall’appartenenza a queste istituzioni. Egli è l’incarnazione del desiderio, possedendo la forza, l’astuzia e la furbizia per dare piena espressione alla sua lussuria. La sua vita è instabile come il suo carattere. Egli è un ghiotto, mangia per soddisfarsi un giorno e muore di fame il successivo; è lascivo e promiscuo, senza essere conscio di cosa sia il peccato o la perversione (e per questo motivo privato dei piaceri dei più sofisticati vizi[4]). La sua forza fisica e la sua agilità sono concepite in modo da sopperire alla diminuzione della sua coscienza.

Nella maggior parte delle credenze medievali sull’Uomo Selvatico, egli è forte come Ercole, veloce come il vento, astuto come il lupo e perverso come la volpe. In alcune storie questo essere imbroglione è tramutato in una sorta di saggezza popolare che lo rende un mago[5] o alla fin fine un creatore di confusione.[6]

Nell’ambito della concezione del vivere al di fuori degli schemi o di ogni regola e dello stato di ferinità rispetto a quello di civiltà, vennero accentuati, così come il carattere e le abilità, anche i tratti fisici: secondo la tradizione popolare il Selvatico è infatti irsuto o vestito di pelle e la sua arma caratteristica è una grossa clava o, in alcuni casi, un tronco d’albero sradicato come simbolo della sua forza spropositata.

Riguardo al suo carattere, in alcune tradizioni come quella della mitologia alpina, il modo di vivere del Selvatico è visto come letteralmente e totalmente “opposto” a quello dell’uomo civilizzato, così, questo personaggio è detto essere



[…] triste per il bel tempo e felice per il maltempo e per questa sua caratteristica è divenuto emblema, nella poesia cortese delle origini, dell’amante speranzoso nonostante la ritrosia dell’amata.

Fé com’omo selvaggio veramente / quand’ha rio tempo, forza lo cantare / co lo sperare / ca ‘l buon venga, ch’abassi sua doglianza; Con sì dolce parlar e con un riso / da far innamorare un uom selvaggio (C. Davanzati)[7].

Un altro modo di manifestare l’opposizione con il mondo civilizzato da parte del Selvatico è il suo essere depositario di conoscenze culturali dispensate ab origine agli uomini, che si possono tradurre ad esempio nel detenere il segreto dell’arte casearia o di quella della caccia: ed in questi casi spesso e volentieri, nel mito, si ha il contatto tra la cultura civilizzata e quella che segue la natura quando gli uomini civili imparano determinati segreti dal loro opposto; un simile tratto non può certo non ricordare, come già accennato da White nel suo saggio, una figura come quella di Prometeo, sacrilega ed innovatrice allo stesso modo, e forse capace di raggiungere una conoscenza di tipo diverso proprio grazie alla sua stranezza ed al suo modus vivendi  al di fuori della norma:ciò è quanto di più simile allo status ambiguo del pazzo, la cui insania di volta in volta viene interpretata come la manifestazione del male ( ad esempio dettata da una possessione demoniaca) o come una sorta di stato di grazia, in cui la “sragione” diviene lo specchio inscindibile della ragione e sinonimo di verità altrimenti inespresse.[8]

Anche il Selvatico non si sottrae a queste apparenti contraddizioni ideologiche e diviene, a seconda delle epoche e delle occasioni, simbolo della malvagità,  della ricerca di libertà o paradossalmente dell’innocenza, oppure, proprio come il pazzo, dispensatore di un tipo di saggezza “altra” che può essere molto utile all’uomo civilizzato (anche se la scienza di quest’ultimo in assai pochi casi è conveniente per i  Selvatici).

L’Uomo Selvatico, al pari del pazzo e specialmente nella cultura del Medioevo, attraverso la sua stranezza rappresentava allo stesso modo il pericolo di un allontanamento dalle istituzioni civilizzate, con il suo aspetto bizzarro ed il suo modo di vivere animalesco, ma anche una sorta di traguardo irraggiungibile ed affascinante per evadere dalla chiusura della società.

Non è possibile quindi dare un valore totalmente negativo o totalmente positivo ad una tale figura che si collocava sempre in uno status di ambiguità: è però possibile considerarlo al pari di un elemento chiave di più di una cultura che riassume in sé la condizione dell’opposto, del reietto, e con tutti i limiti ed i pregi delle sue stranezze amplificati in caratteristiche sovrumane, o al di fuori di qualsiasi logica del vivere “civilizzato”, volte ad esaltare ora il lato più negativo , ora quello più positivo (a seconda che incutesse terrore o curiosa ammirazione nei “civilizzati”); questo il motivo per cui, in determinate opere letterarie, il Selvatico compare spesso in contrapposizione con personaggi legati alla società civilizzata o come metafora stessa dello stile di vita naturale selvaggio: si può dire che, in alcuni casi, sebbene determinati personaggi non siano dei veri e propri “Selvatici” tendono (a causa del loro stile di vita improntato sulla natura o semplicemente “ribelle”) ad assumere tratti propri dell’Uomo Selvatico, quasi a simboleggiare una sorta di schieramento o a richiamare una determinata condizione o uno status sociale di outsider.

Un vero e proprio Uomo Selvatico di epoca antica è presente nell’epopea di Gilgamesc, dove la descrizione del selvaggio Enkidu, aspro e dai capelli come quelli di una donna non lascia dubbi sugli elementi comuni a molti altri “Selvatici” mitologici e letterari:

[Enkidu] era coperto di pelo arruffato come quello di Sumuqan , dio del bestiame. Era ignaro dell’umanità, nulla sapeva della terra coltivata. Enkidu si pasceva dell’erba sulle colline assieme alle gazzelle, con le bestie selvatiche si appostava presso le pozze d’acqua; dell’acqua gioiva in compagnia di branchi di animali selvatici[9].

Anche in Daniele (4,22-30) un personaggio come Nabuconosor viene presentato con le caratteristiche più ricorrenti degli Uomini Selvaggi, essendo detto abitare con le bestie e le fiere e cibarsi di fieno come i buoi (un’assimiliazione estrema allo stato animale); riguardo all’aspetto fisico il suo corpo è coperto completamente di peli, mentre al posto delle unghie è munito di artigli. Nella Genesi (25,25), invece,  Esaù, che letteralmente significa “mantello di pelo”, è detto essere ricoperto di peli rossicci sin dalla nascita.

Riconducibili al modello dell’Uomo Selvatico sono poi, nell’ambito della mitologia antica,

[…] gli esseri silvestri, spesso divinizzati e considerati profondi conoscitori dei misteri della natura. Il loro ambiente era il bosco o la foresta, e in questi ambienti trovarono una naturale amplificazione delle loro potenzialità innate, traendo ulteriori elementi significanti che hanno condizionato le riletture in chiave folklorica […]. Queste antiche divinità della natura sono state dunque chiamate in vari modi  e dalla loro primitiva posizione sono lentamente decadute, vittime del vortice demonizzante ed esorcizzante del Cristianesimo. Il protagonista indiscusso, il predecessore assoluto dell’Uomo Selvaggio, da cui trovarono origine successive varianti e trasformazioni, è il dio Pan. Divinità dei pastori e delle greggi, quasi una sorta di antropomorfizzazione della natura. […] Il nome [Pan] deriva probabilmente da paon  (colui che pascola), ma nella mitologia è anche chiamato sporcaccione dal pelo lucido […]. L’uomo-capro, con la sua inarrestabile sessualità, simboleggia la forza generatrice della natura[10], che nelle corna trova un ulteriore elemento per sottolineare la sua innata potenza virile.[11]

In ogni caso anche i satiri ed i centauri presentano dei tratti e attitudini simili al dio capro e anch’essi possono a buon diritto essere identificati come antecedenti del Selvaggio.

Passando in rassegna anche la letteratura pre-rinascimentale e rinascimentale, è possibile trovare il Selvatico in opere come il Dittamondo di Fazio degli Uberti (Come s’allegra e canta l’uom selvatico / quand’il mal tempo e tempestoso vede sperando nello buono, ond’egli è pratico.[12]) e nell’ Innamorato del Boiardo […]. Anche il epoche successive il selvatico sembrò essere oggetto di studio o di semplice curiosità, infatti nel 1667 il gesuita Scotto, nella sua Physica curiosa gli dedicò un capitolo intitolato De hominibus sylvestris ac pilosis; quest’opera fu probabilmente utilizzata come modello da Linneo, forse l’ultimo studioso a soffermarsi su tale materia, nel suo Homo sylvestris  del Systema naturae: questi studi contribuirono a mantenere vivo per un certo tempo l’interesse per il Selvatico e a condizionare l’immagine collettiva, producendo miti ancora oggi molto diffusi, per utilizzare le medesime parole di Massimo Centini.

Non esistono prove a sufficienza per ipotizzare una parentela fra il mito dell’Uomo Selvatico e quello del guerriero berserk, anche se le somiglianze fra le due figure sono notevoli: entrambi hanno atteggiamenti animaleschi, se l’uno tende a comportarsi come un orso l’altro spesso viene confuso con esso, entrambi generalmente vivono isolati nei boschi e nelle foreste o lontano dalle comunità e sono dei reietti, il berserk a causa dell’irrefrenabile furia (che in frequenti tradizioni è attribuita anche al Wild Man), l’altro a causa del rifiuto dello stile di vita “civilizzato”; infine, entrambi sono sinonimo di follia. Una somiglianza, come è già stato ribadito, non dimostra una stretta parentela, ma può comunque essere una caratteristica appartenente ad un medesimo background culturale: quello del paganesimo nordico.

Sebbene Massimo Centini abbia tentato un avvicinamento fra il travestimento da animale totemico da parte dei berserk e particolari mascherate medievali a scopo ludico da Wild Man o proprio da orso, la direzione verso cui si può trovare più materia di approfondimento è orientandosi secondo l’analisi attuata dallo stesso autore di una tradizione mitologica e folcloristica diffusa nel nord Europa, tradizione che vede fra i suoi protagonisti proprio il Selvatico: “la Caccia  Selvaggia” o “Infernale”; si tratta  di

[…] una battuta molto rumorosa a cui partecipano esseri soprannaturali (Uomo Selvatico, Orco, streghe, folletti, demoni, ecc.) o fantasmi. In questa terribile orgia di rumori e di ferocia le leggende nordiche (in Italia la tradizione è viva in tutto l’arco alpino, in particolare però nella fascia centro-orientale) pongono anche cani ferocissimi e diabolici che con gli altri partecipanti rincorrono delle prede sconosciute. Imbattersi in tale orda può essere pericolosissimo, ma gli effetti dell’incontro variano in regione della provenienza del mito. In Inghilterra tale caccia è chiamata The Wilde Hunt , Sluagh in Scozia,  Wütende heer in Germania , Chasse Arthur in Francia Struggele selvaggia , in Svizzera. Le leggende italiane ricordano la Caccia morta , la Caccia del diavolo (Lombardia), il Corteo della Berta , Casa dei canett (Piemonte) , la Cazza selvadega (Trentino), Kasa selvàdega (Valsassina). […] Dalla Caccia Selvaggia hanno trovato origine e attinto apporti anche altre tradizioni, come la processione delle anime, la discesa dell’Uomo Selvatico (e la sua conseguente cacciata) il volo notturno delle streghe (qui esiste anche una connessione con il Corteo di Diana). Il Cristianesimo trasformò il mito della Caccia Selvaggia, interpretando l’orda di cavalieri pagani lanciati nella sfrenata corsa come anime dannate senza pace. [13]

Una traccia significativa di questo mito, rivisto naturalmente in chiave cristiana, si può ritrovare anche nel Decameron di Boccaccio nella novella 8 della giornata V, in cui Nastagio degli Onesti è diretto testimone di una Caccia Infernale (a scopo espiatorio) da parte di un oscuro cavaliere che insegue lo spirito della donna che aveva amato in vita.

Nell’ambito del mito, nell’area culturale germanico-tirolese, si verifica la fusione della figura del Wodan, signore della guerra, e il Wilder-Mann, una creatura molto vicina all’Uomo Selvatico delle leggende alpine.

L’essere assume caratteristiche eterogenee: da eroe culturale positivo a malvagio nemico dell’uomo; in genere si dice che si muova solo di notte[…]. Nel periodo delle dodici notti sante, le notti tra il Natale e l’Epifania, il Wilder-Mann cavalcherebbe con una muta di cani ferocissimi, rubando i bambini e causando sempre vittime fra quanti hanno la sfortuna di incrociarlo con la sua orda.[14]

Centini prosegue la sua indagine elencando altri Selvatici dalle caratteristiche affini nelle tradizioni popolari della Valsassina e della Val Ferina, con il suo Bilmon a capo della Caccia.

In genere, però,

L’uomo Selvatico in quasi tutte le vicende raccolte non è mai il protagonista della Caccia Selvaggia, e quasi sempre si limita a parteciparvi occupando una posizione periferica e comprimaria. Va ancora detto che in casi del genere la maschera del selvatico  è molto complessa da decodificare, e pertanto è difficile isolare questa figura da tutte le molteplici influenze mitiche individuabili nella genesi del suo sviluppo simbolico.[15]

Il mito della Caccia Selvaggia, però, tradisce anche nelle sue versioni italiane una sorta di  parentela con la religione pagana nordica: infatti, frequentemente, secondo le credenze popolari la battuta degli esseri sovrannaturali è posta in relazione alle violente manifestazioni atmosferiche (vento, temporale, tempesta, ecc.), ricordando molto da vicino il mito germanico in cui Odino, durante le tormente o i temporali, cavalcava il suo destriero nel cielo insieme alle anime dei guerrieri morti.

Sebbene lefantasie e superstizioni popolari o la religione cristiana abbiano contribuito alla sostituzione degli spiriti dei guerrieri inquieti con le anime dei morti senza pace, il sostrato pagano delle aree nordiche è ben delineato, di conseguenza esso è andato ad amalgamarsi con le remote leggende sul Wild Man o ha contribuito alla loro evoluzione mediante l’aggiunta di particolari.

Il motivo della Caccia Selvaggia […] conobbe nel periodo feudale uno sviluppo senza precedenti, il che contribuì a diffonderne l’eco ben oltre i confini della mitologia germanica in cui era riposta la sua genesi.[16]

Oltre al sostrato pagano presente nelle leggende sul Wild Man come quella della Caccia Selvatica, bisogna aggiungere che esso è presente anche in importantissime manifestazioni popolari che hanno un’origine precristiana: le feste di piazza ed il Carnevale.

Si parlerà più diffusamente in seguito dell’importanza delle feste di piazza nel Medioevo e nel Rinascimento, in questa sezione verrà mostrata solo la centralità del Wild Man in tali occasioni ed il suo significato.

Il Selvatico nell’ambito del Carnevale è un personaggio piuttosto frequente, in Italia soprattutto nelle alpi orientali ed è una maschera ombrosa ed a tratti indecifrabile nel suo ruolo allo stesso tempo comico e drammatico: una creatura temuta ma vinta, essere da schiacciare dal nucleo civile, o addirittura da sopprimere.

[Ad esempio, in Val di Fiemme,] il rito-spettacolo della battuta si pone sul modello dell’Uccisione del Carnevale, che in pratica costituisce la formula ricorrente in numerose tradizioni analoghe. […]

Le connessioni sono comunque moltissime e possono essere scorte in un ampio complesso di tradizioni che dal Chiarivari giungono alla danza delle corna di Abbats Brohley (Staffordshire) , fino alle tante tradizioni note come Feste dei pazzi. Nelle valli tirolesi, le maschere del Wilder-Mann e più raramente della Wilder-Frau sono inserite nelle tradizioni carnevalesche. […] L’essere non umano, dotato di una propria indipendenza ed eletto a sovrano, quasi divinizzato, viene, all’interno delle feste celebrato e poi immolato secondo una tradizione diffusa e ricorrente. Tra le feste della Germania vi era quella chiamata Espulsione dell’Uomo Selvaggio: in tale occasione un giovane veniva vestito con foglie e muschio e, alla fine di un preciso iter processionale, fuggiva nel bosco dove si nascondeva. Il giorno successivo si costruivano alcuni fantocci che ricordavano la maschera del Selvaggio e quindi si annegavano nel fiume. Secondo la psicoanalisi junghiana in questa tradizione sarebbe possibile scorgere l’affioramento della parte primitiva, inferiore: l’inconscio del suo aspetto pericoloso definito Ombra.

Esiste comunque un’archeologia della maschera del Selvaggio, di cui si possono individuare le radici più profonde già nell’arte del Paleolitico: ne abbiamo un esempio problematico nella pittura che raffigura un uomo-cervo[17] nella grotta dei Trois Frères, in Francia [18].

Centini nota che la figura del Selvatico legata a entità diaboliche o negative ricorre molto nei carnevali alpini, ma è singolare constatare come questo collegamento all’interno del rituale della festa non trovi riscontro nelle fonti orali, dove il Wild Man nell’espressione della sua negatività non va oltre il modello del Trickster;, dato che nella maggior parte dei casi è visto come eroe culturale e dispensatore di nuove conoscenze.

L’importanza del Selvatico nell’ambito della festa sin dall’antichità è testimoniata in importanti eventi riportati nelle cronache; a Parigi, nel 1431 presso il ponticello di Saint-Denius venne realizzato un vero e proprio bosco dove Uomini e Donne Selvagge giocavano, mentre nel 1486, in occasione dell’entrata di Carlo VIII a Troyes, furono utilizzate cento libbre di canapa per gli abiti di ventiquattro Uomini Selvatici che si esibivano gettando erba di fronte al re. Enrico II, invece, nel settembre del 1548, al momento di entrare a Saint-jeanne-de-Maurienne, ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte ad un gruppo di uomini travestiti da orso in maniera così realistica da destare meraviglia; il gruppo scortò il re fino dentro città in una sorta di “trionfo silvestre” e i finti orsi si esibirono in danze e balzi intrattenendo il sovrano.[19]

Come già notato a proposito delle Soties francesi, nonostante determinate feste all’inizio si svolgessero con il benestare dell’autorità e della Chiesa (che inizialmente ne tollerava gli eccessi), in sostanza esse rimanevano pur sempre reminescenze legate al mondo pagano e per questo considerate dalle alte sfere ecclesiastiche molto pericolose.

Sappiamo che queste manifestazioni pagane, come le feste delle calende, quelle dei pazzi, fino al laicissimo Chiavariri, furono considerate esperienze demoniache , movimento rituale blasfemo che poneva in relazione le istanze umane con le adulazioni di Satana. Nella maschera c’è quindi la metafora diabolica, che con la falsificazione della naturalità, cerca di abbattere i principi del bene, fondati sulla verità e sulle sue prerogative. Per risalire alle cause che condussero all’abbinamento maschera/fantasma/diavolo, non è sufficiente appellarsi alla questione etimologica [ che riconduce il termine di origine germanica “masca”  a sinonimo di “stria” o “striga”]. Esistono infatti motivazioni più profonde, dovute sostanzialmente alla paura insita nell’uomo per quanto si nasconde dietro una raffigurazione che occulta l’aspetto primitivo dell’essere. La demonizzazione del travestimento andò accentuandosi in seno al cristianesimo delle origini, quando la maschera fu collegata al diavolo e ala sua capacità di mutarsi continuamente nei tentativi di traviare gli uomini.[…] La maschera animale, penetrando nel folklore, diventava segno del rinvigorirsi del paganesimo in seno alle tradizioni popolari che, nell’ottica della chiesa medievale, erano un autentico ricettacolo del demonio.[20]

Le tracce di paganesimo che erano evidenti nelle feste di piazza ed in qualsiasi credenza sul Selvatico finirono quindi essere l’oggetto di disapprovazione della Chiesa, che, […] cercò in tutti i modi di gettare sul Wild Man un’immagine negativa, in modo che, nell’ambito della festa, dall’avere un ruolo simile a quello di un fool del mondo naturale, esso finì sempre più per essere identificato come il Diavolo che presiede il Sabba.

Era già accaduto in passato che figure silvestri come Pan finissero a “prestare accessori” iconografici ai mille volti del Maligno, e neanche il Selvatico di sottrasse a questo destino:

Ad esempio nel 1233 papa Gregorio IX promulgò una bolla in cui si diceva che nelle riunioni sabbatiche Satana normalmente si presentava come un uomo coperto di peli con caratteristiche riconducibili al Wild Man tedesco. […] La connessione dell’Uomo Selvaggio con il diavolo trova ancora origine nelle figure silvestri, primarie protagoniste all’inferno di un mondo senza leggi, di godimento e di sfrenata selvatichezza. L’aspetto fisico della divinità boschiva [come il dio Pan,] è certamente legato all’iconografia infernale cristiana e […] presenta tutta una serie di legami con l’immagine ricorrente dell’essere silvestre descritto nella tradizione popolare. Il male eterno trova nella creatura selvatica un rifugio adatto, perché mediante il corpo non più umano ottiene un’estensione delle proprie capacità di azione che a quel punto diventano concretamente temibili per l’uomo. L’associazione silvestre-demonio è d’altronde comprovata nell’ambito cristiano dalla descrizione dell’indemoniato di cerasa da parte di Luca [( 8,27)]:

un uomo posseduto dai demoni. Da molto tempo non portava vestiti e non abitava in una casa ma tra i sepolcri. [21]

Anche l’arte medievale, nel rappresentare i diavoli dell’inferno, ha attinto molto all’immaginario popolare e folcloristico  facendo in modo che i demoni fossero modellati sull’aspetto del Wild Man, calcando la mano ulteriormente sugli spiriti pagani dei boschi. Una strategia simile non poteva non ripercuotersi anche nelle opere letterarie.

Nella Storia Ecclesiatica [(Lib. XIII)], Oderico Vitale descrive la tradizione del corteo dei dannati e dei demoni, che nelle notti oscure come un turbine attraversavano boschi e campagne […]. A capo dell’orda , l’Uomo Selvaggio, qui chiamato Herlechinus , da cui prenderà forma la ben nota maschera di Arlecchino, figura ora comica ora inquieta, reinterpretata nella dialettica allegorica della Commedia dell’Arte.[22]

Per concludere, la Chiesa colse nel Wild Man delle implicazioni pagane e anche dei tratti che ne evidenziavano lo spirito libero e un’esaltazione delle pulsioni umane; entrambi i fattori erano pericolosi e contribuivano a distogliere forse i fedeli dalla religione:

L’immagine del male collegata alla creatura silvestre era prodotto cristiano, un’espressione sorta da intenzioni esorcizzanti, certamente non solo connesse all’Uomo Selvaggio in sé, ma piuttosto da un articolato processo di eliminazione del retaggio di antichi culti pagani. Un’ulteriore motivazione della demonizzazione dell’Uomo Selvaggio può poi essere individuata in una rilettura cristiana di quelle genti (selvatiche, appunto) che ancora non avevano abbandonato antiche forme di culto per avvicinarsi alla nuova religione. [23]

[1] Questo articolo è un breve estratto dalla mia tesi di laurea: “Tre prefigurazioni della follia di Orlando: il berserk, l’Uomo Selvatico, in trickster”.

[2] H. White, The forms of wildness. in Dudley E. e Novak M., The wild man within: an image in western thought from Reinassence to romanticism edited by E.Dudley and M.Novak London University of Pittsburg Press, c1972. p. 14 (trad. mia)

[3] Ivi, p.20-21 (trad. mia)

[4] Questo tema, ulteriormente sviluppato in epoche successive, andrà a costituire il “mito del buon selvaggio”.

[5] Ciò si ricollega alla figura del “Briccone”, che verrà analizzata in seguito.

[6] Ibid. (trad. mia)

[7] M.. Centini, L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna, Priuli e Verlucca editori 2000. p. 8 (citazione da S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, voce “ Selvaggio”)

[8] Il folle, nella sua innocente grullaggine, possiede questo sapere così inaccessibile e così temibile. Mentre l’uomo di ragione e di saggezza non ne percepice che degli aspetti frammentari, e perciò tanto più inquietanti, il folle lo porta tutto intero in una sfera intatta: questa palla di cristallo che per tutti è vuota, è piena ai suoi occhi di un sapere invisibile. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Bur saggi 1998, p.27

[9] Ivi. p.14

[10] In questo l’Uomo Selvatico non può non essere paragonato alla figura del trickster e per il suo sconvolgere l’ordine civilizzato in nome della forza generatrice della natura è comprensibile anche il suo ruolo nella festa di piazza medievale.

[11] Ivi. p.11-12.

[12] Ivi. p.12, nota 6

[13] M. Centini, L’uomo selvatico dalla “creatura silvestre” dei miti alpini allo Yeti nepalese, Oscar Mondadori 1992. pp. 209-210

[14] Ivi. pp. 210-211

[15] Ivi. p. 211

[16] Ivi, p. 213

[17] Uomini-cervo figurano anche nel Romanzo di Alessandro.

[18] M.Centini, L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna, Priuli e Verlucca editori 2000 pp. 68-69

[19] Centini riconduce questa particolare mascherata al filone del travestimento guerresco dei berserk: […] gli “uomini-orso” facevano parte di un gruppo […] di cui abbiamo numerose notizie nella tradizione folklorica, il loro ruolo era in genere quello di scandire ritualmente certe feste stagionali, o fare da cornice ad alcuni avvenimenti collettivi (in questo caso il passaggio del sovrano francese).Nell’episodio […] [riguardante Enrico II], troviamo un chiaro esempio della tradizione dei Berseker [sic] (letteralmente “veste d’orso” ber=orso; serker= veste), in cui gran parte dei rituali di origine germanica tipici dell’ideologia di molti popoli indoeuropei, erano accentrati attraverso il simbolismo del travestimento con pelli di animale (orso e lupo). da Ivi, p. 71.

[20] Ivi, pp.71-72

[21] M. Centini, L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna, Priuli e Verlucca editori 2000. pp. 12-13

[22] Ivi, p. 14

[23] Ibid.

giovedì 9 luglio 2015

Probabile nuovo film su Indiana Jones

Segnaliamo questo breve articolo in cui si parla di un possibile nuovo episodio di Indiana Jones:

http://www.badtaste.it/2015/05/05/kathleen-kennedy-conferma-un-nuovo-film-di-indiana-jones/126821/

Acerbi e il Graal

Tratto da http://www.centrostudilaruna.it


La più recente opera di Giuseppe Acerbi su "Merlino e Morgana" è parte di una ricerca ventennale condotta su fonti mitologiche vicino e medio orientali, tesa a disvelare in esse i paralleli e le analogie con i romanzi del ciclo graalico. Tale avvicinamento, apparentemente assurdo anche in una prospettiva fenomenologica, ha però un valido fondamento storico-archeologico: una mediazione tra Oriente ed Occidente in ciò che di recente il giovane studioso italiano Marco Moriggi ( in Avallon, 45 [ 2000 ] , pp. 47-58 ) ha ribattezzato essere le "radici iraniche del Graal". Chiunque legga con occhio filologico il Parzival di Wolfram von Eschenbach non può non notare infatti le fortissime affinità con il mondo iranico pre-islamico, che vanno dal nome del padre di Parzival, Gahmuret (e a loro volta rinviano all’Uomo Primigenio del mito mazdeo, Gayomart, il Gehmurd dei Manichei ), sino alla liturgia con l’"acqua di vita" tramite cui viene battezzato Feirefiz, il fratello levantino (e quindi "oscuro ") di Parzival.

Circa sessant’anni dopo Wolfram, ma sempre restando nell’ambito della medesima tradizione, il poeta germanico Albrecht von Scharffenberg scrisse (nel 1270) un’opera dal titolo Der jüngerer Titurel (Il giovane Titurel), che parla dell’antica famiglia del Graal; in particolare di Titurel, nonno di Parzival. Albrecht cosí descrive il Tempio del Graal: "Nella terra della salvezza, nella foresta della salvezza, si erge un monte solitario, la Montagna della Salvezza; il Re Titurel la cinse di mura e vi costruí un ricco castello perché fosse il Tempio del Graal: il Graal allora non aveva una sede fissa, ma vagava, invisibile, nell’aria." Albrecht passa quindi a descrivere la montagna: fatta di onice, la sua vetta è priva di terra; era stata talmente levigata e pulita che "risplendeva come la Luna". Il Tempio è alto, rotondo, a cupola, con il tetto d’oro; all’interno, il soffitto è incrostato di zaffiri a rappresentare il cielo azzurro, ed è incastonato di carbonchi raffiguranti le stelle. Un Sole d’oro ed una Luna d’argento, mossi artificialmente, percorrono gli emisferi, mentre i cembali vengono colpiti regolarmente per scandire il trascorrere delle ore. L’intero Tempio è colmo d’oro e tempestato di gemme preziose.

Per lungo tempo, tutto quanto venne considerato un mero artificio letterario, nient’altro che una bella fiaba. Solo nel secolo ormai trascorso alcuni studiosi come Lars Ivar Ringbom o Henry Corbin hanno richiamato l’attenzione su una località realmente esistita, che possedeva una straordinaria rassomiglianza con la descrizione albrechtiana del Tempio del Graal.

Agli albori del VII secolo d.C. il re persiano Cosroe II edificò uno straordinario palazzo che chiamò Taxt-i Taqdis, "Trono degli Archi" - ora noto come Taxt-i Sulayman, "Trono di Salomone" - sulle alture sacre di Shiz nelle Media Atropatene, l’attuale Azerbaigian. Era il centro del culto mazdeo: in esso si ergeva un tempio del fuoco, ed era ritenuto un’immagine del centro del mondo. I re della dinastia sassanide, cui Cosroe apparteneva, ritenevano Shiz il luogo di nascita di Zoroastro e lí vi celebravano i riti ciclici che garantivano la fecondità del cosmo. Quando il santuario venne distrutto, in una serie di incursioni prima cristiane poi musulmane, l’intero paese parve morire sotto il giogo dell’oppressore, proprio al modo in cui nelle storie del Graal l’aridità della ’terra desolata‘ è considerata una diretta conseguenza della morte simbolica del Re del Graal.

Da fonti piú o meno contemporanee, sostenute da testimonianze archeologiche (in particolare l’ultimo lavoro di R. Naumann, Die Ruinen von Tacht-e Suleiman und Zendan-e Suleiman, Dietrich Reimer V., Berlin 1977) è stato possibile ricostruire una descrizione del Taxt: come il Tempio del Graal era la cupola, con il tetto d’oro rivestito completamente di pietre azzurre a rappresentare il Cielo; vi erano le Stelle, il Sole e la Luna. Le carte astrologiche e astronomiche erano contrassegnate da gemme, balaustre coperte d’oro, gradini dorati, addobbi munifici. Tutto rassomigliava al Tempio del Graal. L’intera struttura del Taxt si ergeva al di sopra di un pozzo nascosto, entro il quale pariglie di cavalli giravano in tondo provocando lo spostamento dell’edificio sul suo asse, in armonia con il variare delle stagioni, in tal modo facilitando i calcoli astrologici e le osservazioni astronomiche. Circostanza che ricorda l’isola ruotante sulla quale si trova Re Nascien, il Signore del Graal nel Giuseppe d’Arimatea di Robert de Boron, scritto oltre seicento anni dopo che il Taxt era stato raso al suolo.

Come in numerose descrizioni del Tempio del Graal, il Taxt si ergeva nei pressi di un grande lago, ritenuto senza fondo: uno specchio d’acqua scuro ed immoto che colmava uno spento cratere vulcanico. Secondo Albrecht, il Tempio del Graal aveva porte su tre dei suoi lati. Il Taxt-i Sulayman era difatti accessibile u nicamente da tre direzioni, due delle quali trovano rispondenza in un testo gallese del ciclo graalico, il Peredur : la prima conduce attraverso una prateria, l’altra segue un ruscello che percorre una vallata. Il Taxt era alimentato da due fiumi e circondato da possenti mura, inoltre vi erano istallati dei congegni che simulavano il variare delle stagioni e i mutamenti climatici; il tutto in armonia con l’idea cristiana di Paradiso, il Pairi.daêza iranico, altrimenti raffigurato come la sede del Graal.

Nel 1937 una spedizione dell’American Institute for Persian Art and Archaelogy scoprí sul sito del Taxt una luccicante incrostazione provocata dalle acque minerali del lago, la quale, soprattutto lungo i bordi rimasti esposti agli elementi, aveva assunto l’aspetto dell’onice. Come abbiamo visto, Albrecht affermava proprio che il Tempio del Graal era eretto su un basamento di onice. Esiste poi, allo Staatsmuseum di Berlino, un piatto di bronzo riportato nel libro di Ringbom (Graltempel und Paradies, Stockolm 1951) risalente al periodo sassanide, che raffigura il Taxt completo dei rulli di legno sui quali ruotava l’intero edificio; esso rivela come l’arcata centrale fosse circondata da ventidue archi, e ventidue erano anche i templi minori che circondavano la sala centrale del Castello del Graal descritto da Albrecht. Ma Albrecht come poteva, in pieno XIII secolo, descrivere con tanta esattezza un tempio mazdeo ormai distrutto da molti secoli? Forse ne aveva letto una descrizione relativa ad un evento cruciale della ierostoria cristiana: il "furto della croce". Nel 614 d.C. Cosroe II, il costruttore del Taxt, s’impadroní di Gerusalemme e ne sottrasse la reliquia piú sacra, la "vera croce"; che il re portò con sé proprio in quel tempio, successivamente descritto come la sede di un oggetto anch’esso sacro, il Santo Graal. In risposta a questo tremendo atto, nel 629 l’imperatore bizantino Eraclio organizzò una sorta di crociata ante litteram e marciò su Taxt-i Sulayman ritornando trionfalmente con la "vera croce". Questo episodio, sfumato nei toni del mito, venne descritto infinite volte e continuò ad essere ripetutamente narrato, con abbellimenti, fino al Tardo Medioevo; quando Albrecht o qualche suo ignoto precursore lo scoprí, probabilmente trasferendo la località da Oriente ad Occidente. L’immagine del centro del mondo mazdeo è quindi servita da modello nella fondazione del mito principale dell’esoterismo cristiano, il Santo Graal.

In tale dimensione ’comparativa‘ gli avvicinamenti e i paralleli dell’Acerbi assumono un significato completamente nuovo. Si pensi ad esempio ai cicli leggendari hindu e buddhisti legati alla versione medio orientale del Munsalwaesche graalico, il Monte Meru. Collocato al centro del mondo, il Meru viene talora raffigurato a gradini e circondato dall’acqua; intorno vi ruotano il Sole e la Luna. Su di esso è intronizzato il Buddha con i suoi Bodhisattva, mentre la Fenice vaga sotto gli alberi. In un altro mito c’imbattiamo nella figura del Pescatore associato al Monte, al modo che il ’Re Pescatore‘ lo è al Castello del Graal. È un motivo che l’Acerbi ha studiato esaustivamente in un lavoro di prossima pubblicazione. Basti qui ricordare l’iconografia del Monte Meru circondato dalle acque dell’Oceano, sulle quali il Pescatore naviga nella sua Barca: è l’Avatâra del dio Vishnu, noto talora come il ’Pesce d’Oro‘ o anche come il ’Pescatore di Luce‘. È il custode della Montagna Sacra, nonché il suo gnomone o dominatore.

Tutti questi esempi esprimono coerentemente un simbolismo unico: il ’ricordo‘ di una forma ideale di esistenza, poiché la ricerca del Graal è anche e soprattutto ricerca del Paradiso smarrito nel tempo primordiale.


Torino, 13 agosto 2000


Ezio Albrile

lunedì 6 luglio 2015

NOMI PROFANI E NOMI INIZIATICI *

in collaborazione con la rivista Lettera E Spirito:

https://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-nomi-profani-e-nomi-iniziatici/

René Guénon

Parlando precedentemente dei diversi generi di segreti d’ordine più o meno esteriore che possono esistere in certe organizzazioni, iniziatiche o no, abbiamo menzionato tra gli altri il segreto riguardante i nomi dei loro membri; e può ben sembrare, a prima vista, che sia un segreto da considerare tra le semplici misure di precauzione destinate a proteggersi contro i pericoli derivanti da eventuali nemici, senza che occorra cercarvi una ragione più profonda. In realtà, è sicuramente così in molti casi, e per lo meno in quelli nei quali si ha a che fare con organizzazioni segrete puramente profane; tuttavia, quando si tratta d’organizzazioni iniziatiche, è possibile vi sia altro, e che questo segreto, come tutto il resto, rivesta un carattere veramente simbolico. Vi è tanto più interesse a soffermarsi un po’ su tale punto, quanto la curiosità dei nomi è una delle manifestazioni più ordinarie dell’“individualismo” moderno, e, quando si pretenda applicarla alle cose del dominio iniziatico, testimonia inoltre una grave ignoranza delle realtà di quest’ordine, e una deprecabile tendenza a volerle ricondurre al livello delle contingenze profane. Lo “storicismo” dei nostri contemporanei non è soddisfatto che mettendo dei nomi propri su tutte le cose, vale a dire attribuendole a individualità umane definite, secondo la concezione più limitata che ci si possa fare d’esse, quella che ha corso nella vita profana e che non tiene conto se non della sola modalità corporea. Tuttavia, il fatto che l’origine delle organizzazioni iniziatiche non possa mai essere ricondotta a tali individualità dovrebbe già far riflettere a proposito; e, quando si tratti di quelle dell’ordine più profondo, i loro stessi membri non possono essere identificati, non tanto perché si dissimulino, il che, per quanta cura vi pongano, potrebbe non essere sempre efficace, ma perché, rigorosamente parlando, non sono dei “personaggi” nel senso che vorrebbero gli storici, al punto che chiunque crederà di poterli nominare cadrà, con ciò stesso, inevitabilmente in errore [1]. Prima di passare a spiegazioni più ampie sull’argomento, diremo che qualcosa d’analogo si ritrova, mantenendo le proporzioni, a tutti i gradi della scala iniziatica, anche ai più elementari, di modo che, se un’organizzazione iniziatica è realmente quel che dev’essere, la designazione d’uno qualunque dei suoi membri con un nome profano, quand’anche sia “materialmente” esatta, sarà sempre intaccata da falsità, quasi come lo sarebbe la confusione tra un attore e un personaggio di cui reciti la parte e del quale ci si ostinasse ad attribuirgli il nome in tutte le circostanze della sua esistenza.

Abbiamo già insistito sulla concezione dell’iniziazione come “seconda nascita”; è precisamente come conseguenza logica immediata di questa concezione che, in numerose organizzazioni, l’iniziato riceve un nuovo nome, differente dal suo nome profano; e non si tratta d’una semplice formalità, giacché tale nome deve corrispondere a una modalità parimenti differente del suo essere, quella la cui realizzazione è resa possibile dall’azione dell’influenza spirituale trasmessa dall’iniziazione; si può inoltre osservare che, anche dal punto di vista exoterico, la stessa pratica esiste, con una ragione analoga, in taluni ordini religiosi. Avremo dunque per lo stesso essere due modalità distinte, una che si manifesta nel mondo profano, e l’altra all’interno dell’organizzazione iniziatica [2]; e, normalmente, ciascuna d’esse deve avere il suo nome proprio, quello dell’una non convenendo all’altra, poiché si situano in due ordini realmente differenti. Ci si può spingere più lontano: a ogni grado d’iniziazione effettiva corrisponde ancora un’altra modalità dell’essere; questi dovrebbe dunque ricevere un nuovo nome per ognuno di tali gradi, e, quand’anche non gli venga di fatto attribuito, ciò nondimeno esiste, si può dire, quale espressione caratteristica di questa modalità, giacché un nome non è altro che questo in realtà. Ora, come queste modalità sono gerarchizzate nell’essere, così è ugualmente dei nomi che li rappresentano rispettivamente; un nome sarà dunque tanto più vero quanto più corrisponderà a una modalità d’ordine più profondo, poiché, con ciò stesso, esprimerà qualcosa di più vicino alla vera essenza dell’essere. Contrariamente all’opinione volgare, è dunque il nome profano che, legato alla modalità più esteriore e alla manifestazione più superficiale, è il meno vero di tutti; e così è soprattutto in una civiltà che abbia perduto qualsiasi carattere tradizionale, e in cui un nome simile non esprime pressoché più nulla della natura dell’essere. Quanto a quello che si può chiamare il vero nome dell’essere umano, il più vero di tutti, nome che è d’altronde propriamente un “numero”, nel senso pitagorico e qabbalistico della parola, è quello che corrisponde alla modalità centrale della sua individualità, ossia alla sua restaurazione nello “stato primordiale”, giacché è quello che costituisce l’espressione integrale della sua essenza individuale.

Da queste considerazioni risulta che un nome iniziatico non ha da essere conosciuto nel mondo profano, poiché rappresenta una modalità dell’essere che non potrebbe manifestarsi in questo, di modo che la sua conoscenza cadrebbe in qualche modo nel vuoto, non trovando nulla a cui possa applicarsi realmente. Inversamente, il nome profano rappresenta una modalità di cui l’essere deve spogliarsi quando entra nel dominio iniziatico, e che allora non è più per lui se non una semplice parte che recita all’esterno; questo nome non potrebbe dunque valere in tale dominio, in rapporto al quale quel ch’esprime è in qualche modo inesistente. D’altra parte, va da sé che tali ragioni profonde della distinzione e per così dire della separazione del nome iniziatico e del nome profano, come designanti “entità” effettivamente differenti, possono non essere coscienti in tutti gli ambiti in cui il cambiamento di nome è praticato di fatto; può accadere che, in seguito a una degenerazione di talune organizzazioni iniziatiche, si giunga in esse al punto di tentare di spiegarlo con motivi del tutto esteriori, ad esempio presentandolo come una semplice misura di prudenza, cosa che, insomma, ha più o meno lo stesso valore delle interpretazioni del rituale e del simbolismo in senso morale o politico, e non impedisce affatto che vi sia stato tutt’altro all’origine. Per converso, se si tratta solo d’organizzazioni profane, questi stessi motivi esteriori sono ben realmente valevoli, e non vi sarebbe nulla di più, a meno tuttavia che non vi sia anche, in certi casi, come abbiamo già detto a proposito dei riti, il desiderio d’imitare gli usi delle organizzazioni iniziatiche, ma, naturalmente, senza che ciò possa allora rispondere alla minima realtà; e questo mostra ancora una volta che apparenze simili possono, di fatto, celare le cose più differenti.

Ora, tutto quel che abbiamo detto finora di questa molteplicità di nomi, rappresentanti altrettante modalità dell’essere, si riferisce unicamente a estensioni dell’individualità umana, comprese nella sua realizzazione integrale, ossia, iniziaticamente, al dominio dei “piccoli misteri”, come spiegheremo in seguito in modo più preciso. Quando l’essere passa ai “grandi misteri”, vale a dire alla realizzazione di stati sovra-individuali, passa con ciò stesso di là del nome e della forma, poiché, come insegna la dottrina indù, queste (nâma-rûpa) sono le espressioni rispettive dell’essenza e della sostanza dell’individualità. Un tale essere, veramente, non ha dunque più alcun nome, poiché quella è una limitazione dalla quale si è ormai liberato; potrà, se è opportuno, assumere non importa quale nome per manifestarsi nel dominio individuale, ma tale nome non l’intaccherà in alcun modo e sarà per lui tanto “accidentale” quanto un semplice vestito che si può togliere o cambiare a volontà. È questa la spiegazione di quanto dicevamo più sopra: quando si tratta d’organizzazioni di quest’ordine, i loro membri non hanno nome, né hanno un nome esse stesse; in tali condizioni, che vi è ancora che possa offrirsi alla curiosità profana? Quand’anche questa arrivi a scoprire qualche nome, essi non avranno che un valore del tutto convenzionale; e questo, spesso, può verificarsi già per organizzazioni d’ordine inferiore a quello, nelle quali saranno ad esempio utilizzate “firme collettive”, rappresentanti, sia tali organizzazioni nel loro insieme, sia delle funzioni intese indipendentemente dalle individualità che le ricoprono. Tutto ciò, lo ripetiamo, discende dalla natura stessa delle cose d’ordine iniziatico, in cui le considerazioni individuali non contano nulla, e non ha affatto come fine quello di sviare certe ricerche, sebbene questo ne sia una conseguenza di fatto; ma come potrebbero i profani supporre altro dalle intenzioni che essi stessi potrebbero avervi?

Da là viene anche, in molti casi, la difficoltà o addirittura l’impossibilità d’identificare gli autori d’opere aventi un certo carattere iniziatico [3]: o esse sono del tutto anonime, o, ed è lo stesso, non hanno per firma che un marchio simbolico o un nome convenzionale; non vi è d’altronde alcuna ragione perché i loro autori abbiano giocato nel mondo profano un ruolo apparente qualunque. Quando invece opere del genere portano il nome d’un individuo noto per aver effettivamente vissuto, non per questo si è molto più facilitati, giacché non è per questo che si saprà esattamente con chi o con cosa si ha a che fare: tale individuo può benissimo essere stato soltanto un portaparola, perfino una maschera; in un caso simile, la sua opera presunta potrà comportare conoscenze che egli non avrà mai avuto realmente; egli potrebbe essere solo un iniziato di grado inferiore, o anche un semplice profano che sarebbe stato scelto per ragioni contingenti qualunque [4]; e allora non è evidentemente l’autore che ha importanza, ma unicamente l’organizzazione che l’ha ispirato.

Del resto, anche nell’ordine profano, ci si può stupire dell’importanza attribuita oggigiorno all’individualità d’un autore e a tutto quel lo riguarda da vicino o da lontano; forse che il valore dell’opera dipende in qualche modo da queste cose? D’altro lato, è facile costatare che la preoccupazione di dare il proprio nome a un’opera qualsiasi si incontra tanto meno in una civiltà quanto più questa è strettamente legata ai principi tradizionali, di cui, infatti, l’“individualismo” sotto tutte le sue forme è la negazione vera e propria. Si può comprendere senza difficoltà che tutte queste cose sono legate tra di loro, e non vogliamo insistervi ulteriormente, tanto più che su di esse ci siamo sovente già spiegati altrove; ma non era inutile sottolineare ancora, in quest’occasione, il ruolo dello spirito antitradizionale, caratteristico dell’epoca moderna, come causa principale dell’incomprensione delle realtà iniziatiche e della tendenza a ridurle ai punti di vista profani. È questo spirito che, sotto nomi come “umanesimo” e “razionalismo”, si sforza costantemente, da diversi secoli, di ricondurre tutto alle proporzioni dell’individualità umana volgare, intendiamo la porzione ristretta che ne conoscono i profani, e di negare tutto quel che supera tale dominio strettamente limitato, dunque in particolare tutto quel che ha attinenza con l’iniziazione, a qualunque grado. C’è appena bisogno di far rilevare come le considerazioni che abbiamo qui esposto si basano essenzialmente sulla dottrina metafisica degli stati molteplici dell’essere, della quale sono un’applicazione diretta [5]; come potrebbe una simile dottrina essere compresa da chi abbia la pretesa di fare dell’uomo individuale, e addirittura della sua sola modalità corporea, un tutto completo e chiuso, un essere sufficiente a se stesso, invece di vedervi solo quel che esso è in realtà, la manifestazione contingente e transitoria d’un essere in un dominio molto particolare nella moltitudine indefinita di quelli il cui insieme costituisce l’Esistenza universale, e ai quali corrispondono, per questo stesso essere, altrettante modalità e stati differenti, di cui gli sarà possibile prender coscienza precisamente seguendo la via che gli è aperta dall’iniziazione?

* R. Guénon, Aperçus sur l’Initiation, Éditions Traditionnelles, Paris, 1946, cap. XXVII.

1. Questo caso è segnatamente, in Occidente, quello dei veri Rosa-Croce.↩

2. La prima deve d’altronde essere considerata come se avesse un’esistenza illusoria in rapporto alla seconda, non solo in ragione della differenza dei gradi di realtà ai quali esse si riferiscono rispettivamente, ma anche perché, come abbiamo spiegato poco sopra, la “seconda nascita” implica necessariamente la “morte” dell’individualità profana, che così non può più sussistere se non a titolo di semplice apparenza esteriore.↩

3. Ciò è d’altronde suscettibile d’una applicazione molto generale in tutte le civiltà tradizionali, a motivo del carattere iniziatico inerente ai mestieri stessi, di modo che ogni opera d’arte (o quel che i moderni chiamerebbero così), di qualunque genere sia, ne partecipa necessariamente in una certa misura. Su tale questione, che è quella del senso superiore e tradizionale dell’“anonimato”, si veda Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. IX.↩

4. Ad esempio, sembra che questo sia stato, almeno in parte, il caso dei romanzi del Santo Graal; è pure a una questione di questo genere che si riferiscono, in fondo, tutte le discussioni alle quali ha dato origine la “personalità” di Shakespeare, sebbene, di fatto, coloro che vi si sono applicati non hanno mai saputo portare questa questione sul suo vero terreno, di modo che non han fatto altro che ingarbugliarla in modo pressoché inestricabile.↩

5. Si veda, per l’esposizione completa della dottrina in questione, il nostro studio Gli Stati molteplici dell’Essere.↩

venerdì 3 luglio 2015

Atlantide e altri non-luoghi Alla ricerca del mito perduto

tratto da Il Giornale del 22 febbraio 2010

di Gianfranco de Turris

Il 26 dicembre 2004 sul fondo dell’Oceano indiano, a 200 km a Ovest di Sumatra, la Placca indiana all’improvviso scivolava rapidamente sotto la Placca birmana spingendola verso l’alto di cinque metri e spostando l’isola indonesiana verso Est di una ventina di metri. Il risultato di questo terremoto sottomarino di magnitudo 9,3 e di 8,5 gradi della Scala Richter e del successivo spostamento della massa d’acqua superiore, era un’onda anomala che si propagava alla velocità di 850 chilometri l’ora per tutto l’Oceano Indiano raggiungendo con uno tsunami dai dieci ai trenta metri di altezza a oriente le coste di Indonesia, Malaysia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh, e ad occidente quelle di Sri Lanka, India e Maldive, sommergendo tutte le piccole isole che si trovava davanti. Coste devastate, isole sommerse, intere popolazioni scomparse su quelle più piccole, danni incalcolabili. I morti e i dispersi accertati hanno superato i trecentomila, anche se una cifra esatta non si saprà mai. Il maggior disastro dell’epoca moderna.
Se tutto questo è avvenuto nel XXI secolo, perché non potrebbe essere avvenuto anche 9mila anni prima di Platone che ci racconta nel Timeo e nel Crizia come nel corso di «una notte tremenda» terremoti e maremoti sommersero l’isola di Atlantide che sprofondò nell’oceano? Questo solo per dire che dal punto di vista «scientifico» la storia che ci racconta il filosofo greco può non essere considerata una fandonia agli occhi dei «moderni». Il fatto è che, esistito o meno nella realtà il regno di Atlantide, esso servì a Platone per lanciare nel tempo il suo mythos, la sua fabula, che contiene degli insegnamenti in positivo e in negativo: al tempo stesso la sua «utopia» e la sua «antiutopia», descrivendoci una società perfetta di discendenza divina che diventa arrogante ed «empia» nel momento in cui dimentica o perde, appunto, quella «scintilla divina» che aveva dentro di sé.
Un mito così affascinante che nell’arco di due millenni e mezzo è giunto sino a noi, un mito a cui molti hanno creduto e che si è andato arricchendo e ampliando a seconda del periodo storico in cui venne accolto. Di tutta questa affascinante storia ci parla Davide Bigalli, che insegna storia della filosofia all’Università di Milano ne Il mito della terra perduta (Bevivino, pagg. 226, euro 20) che segue passo passo il tema dalle origini ai nostri giorni.
Il professor Bigalli scrive dunque che Atlantide «appartiene al mondo del pensiero», è «un consapevole mythos, volto a delineare, in una remota antichità, modelli di civiltà, dove le costruzioni politiche, a misura che si distaccano dall’immagine ideale, corrono a catastrofe divenendo esemplari di una contro utopia». Nello stesso tempo, l’autore fa notare, credo per primo, come questo mito, quando su quella ideale/filosofica/simbolica prevale la parte della narrazione, del racconto, della elaborazione fantastica (del resto il termine greco mythos proprio questo vuol dire) «diventa una esemplare non-luogo, il regno di una alterità che non può rinchiudersi né venire raggiunta per entro i termini di realismo geografico. Diventa un altro mondo».
Ecco perché nel corso dei secoli ha appassionato anche esploratori, avventurieri, geografi, personaggi folli e bizzarri che ne sono andati concretamente alla ricerca tentando di localizzare Atlantide qui e la, in quasi tutte le parti del mondo. E perché il suo archetipo abbia dato vita ad altre «terre perdute» di cui sempre parla Bigalli: Mu e Lemuria, ad esempio, ma anche Agartha e Shamballah, forse anche l’Eldorado, e addirittura la fantastica teoria ottocentesca della Terra Cava.
Un libro denso, zeppo di riferimenti e di citazioni tratte dai testi più singolari e sconosciuti che ci dimostra come anche di miti viva il genere umano, ancorché sempre più dotto e scettico. È sufficiente che questo mito da pura idea filosofica esemplare sia trasformato in riferimento storico-geografico, come in effetti è avvenuto.


sabato 27 giugno 2015

INSEDIAMENTI EREMITICI NELLA TOSCANA MEDIEVALE

di Aldo Favini

La Toscana è stata uno dei luoghi d’Europa in cui maggiormente, e forse con uno specifico successo, le regioni metafisiche dell’eremitismo dei Padri si sono fuse con l’ambiente reale, diocesano e comunale. Attraverso lo studio degli insediamenti eremitici del medioevo toscano, così raramente trattati nella loro integrale complessità, emerge la profondità delle discussioni che si animarono attorno ad assunti filosofici di portata universale e i modi in cui essi determinarono scelte architettoniche e insediative specifiche.
Per approcciarsi ad una così vasta tematica, fertile di una quantità insospettabile di curiosità, Aldo Favini ha costituito un ampio archivio d’informazioni raccolte in molti anni di studio ed escursioni. Incrociati i dati e stabilite le tendenze, questo testo risulta la piattaforma ideale per qualsiasi futura interpretazione delle architetture eremitiche di Toscana.
     
tra gli argomenti trattati:
LA STORIA DEGLI INSEDIAMENTI EREMITICI TOSCANI
L'ARCHITETTURA DELLE CHIESE EREMITICHE
LA POSIZIONE, LA DEDICAZIONE, LA TOPONOMASTICA
DECADENZA E SOPPRESSIONII
REPERTORIO DEGLI EREMI SUDDIVISI PER DIOCESI
EREMITISMO OGGI
(...)

 

sabato 20 giugno 2015

MISTERI ANTICHI E MODERNI. INDAGINE SULLE SOCIETÁ SEGRETE

Ogni società segreta è una pallida famiglia di vendicatori. Quegli uomini sono stretti da infrangibile giuramento; i loro riti si direbbero il programma dello sterminio; ma la loro amicizia è tenera e soave. Guardateli in viso; scuri e smorti: ma parlate loro della patria, della libertà, della verità, e il loro volto si rasserena,ride d’una luce ineffabile.

Giovanni De Castro

Società segrete, sette, consorterie: cosa evocano in voi? Riuscite ad immaginare qualcosa che vada al di là dell’effetto facile, da film di serie B, a scavalcare la facile sfumatura horror? Se ci riuscite, o se volete riuscirci, se non volete insomma essere turisti che pensano solo a un selfie da brivido, se desiderate invece essere viaggiatori, persone che da un’esperienza desiderano un cambiamento, o perlomeno un arricchimento, questo libro è il treno che dovete prendere. I suoi scompartimenti si chiamano Cavalieri Templari, Carboneria, Beati Paoli, Scamiciati. Qualcuno di questi nomi forse vi dirà qualcosa, altri magari no. L’importante è sedersi, con la curiosità di chi vuole conoscere senza pregiudizi, lasciandovi trasportare dalla prosa di Michele Leone, che prima di voi ha affrontato questo viaggio e così bene lo sa raccontare.

Basterebbe già l’introduzione, che apre la porta nascosta in ogni parola italiana per arrivare all’antenato greco o latino. Una società segreta (da secretum, quindi da secernere, mettere da parte, separare) è un insieme di persone legate da un’idea o esperienza comune che agiscono separatamente dalla società civile comunemente intesa ed accettano nuovi membri solo ed esclusivamente attraverso riti o cerimonie di iniziazione o promesse solenni e giuramenti. A partire da questa definizione, volutamente generica, ma soprattutto priva di giudizio di valore (perché solo senza giudizio si dà la vera conoscenza), l’autore ricostruisce la storia di molte società segrete attraverso fonti storiche documentate, senza dedicarsi a quelle sette o società dedite a culti neo religiosi, satanici o di complotto, riscoprendone il significato originale.  Giovanni De Castro afferma infatti che “uno dei più ovvi sentimenti, ispiratori delle società segrete, è quello della vendetta, ma della buona e provvida vendetta, aliena dai rancori personali, assente ove si discute un interesse volgare, che vuol punire le istituzioni e non gli individui, colpire le idee e non gli uomini”.

Ora che vi siete messi comodi, vi basti sapere che la prima fermata si chiama Pitagora, e l’ultima, Carboneria. Se avrete gli occhi bene aperti, ma soprattutto la mente, potrete trovare in queste pagine moltissimi spunti di riflessione, che vi porterà a camminare in un corridoio pieno di porte socchiuse verso Storia, Tradizione e Iniziazione. Chissà quali e quanti altri viaggi avrete voglia di fare, dopo aver sfogliato l’ultima pagina.

Michele Leone
MISTERI ANTICHI E MODERNI. INDAGINE SULLE SOCIETÁ SEGRETE
Yume Edizioni 2015
Pagine 192
Euro 15,00





Notizie sull'autore
 
Michele Leone è un personaggio poliedrico che si autodefinisce curioso, ma allo stesso tempo ignorante, studioso scientifico, ma contemporaneamente ametodico. E neppure si proclama scrittore, ma un artigiano del pensiero, di un pensiero occulto e misterioso, capace di passare con destrezza da una forma all’altra, senza vincolarsi a nessuna, lasciandosi guidare dal sotterraneo fil rouge dell’esoterismo.
Laureato in Lettere e Filosofia presso l’università degli studi di Bari, Leone inizia il suo percorso con la poesia, suo primo grande e intramontabile amore:

Dervisci
ballo oscuri versetti
in vite altre
vissute altrove
da te
ch’aspetti
l’ultimo tramonto
con tre monete
davanti al mare

Poi si avvicina alla narrativa per curiosità di sperimentare e sperimentarsi: la sua giovane penna dà vita ai deliri, forme brevi, flussi di coscienza e di emozioni che spalancano finestre sull’ignoto, su quanto è  nascosto e che nel buio aspetta un traghettatore.
Dalla fine degli anni ’90, Leone ha indirizzato le sue ricerche prevalentemente verso la tradizione ermetica e la massoneria, diventandone un esperto conoscitore e divulgatore, grazie anche alla sua capacità di trasmettere passione e interesse. Chi è affascinato dall’ignoto, e desidera avvicinarsi, conoscere, troverà nelle parole di Michele Leone una guida capace di descriverne in modo affascinante ed invitante complessità e bellezza. Ne sono testimonianza alcuni dei suoi testi, come Il linguaggio simbolico dell’esoterismo e  Le Magie del simbolo. Dall’Anhk al tatuaggio per Mondi Velati Editore.
Recentemente ha iniziato ad affrontare tematiche legate all’alchimia spirituale, percorso che partendo dalla alchimia classica e passando da Jung permette di approfondire la conoscenza di se stessi e della propria interiorità.
La passione di Michele Leone non si ferma alle sole sue parole. La sua passione per la conoscenza lo ha portato a diventare responsabile della collana I Ritrovati per Mondi Velati Editore, vice direttore di redazione di Delta, Rassegna di Cultura Massonica, e da poco direttore della collana Misteri Antichi e Moderni di Yume Edizioni. Collabora, inoltre,  con le testate periodiche IlCervoBianco e Ouroboros.