mercoledì 16 settembre 2015

Il Polo e la simbologia del Centro

tratto da Centro Studi la Runa: http://www.centrostudilaruna.it/il-polo-e-la-simbologia-del-centro.html

di Giovanni Balducci

La visione generale della vita dei popoli tradizionali contemplò sempre due idee-chiave, quella dell’Origine e quella del Centro. L’Origine, fu intesa come il momento quasi atemporale in cui il cielo era così vicino alle cose terrestri da renderle per metà celesti; parafrasando Hölderlin si potrebbe indicare quest’epoca come il tempo in cui “gli dèi camminavano assieme agli uomini”. Il Centro parimenti fu inteso come il luogo in cui il mondo divino era entrato in contatto con quello umano per sancire l’Alleanza. Oltre al Centro poi si intese l’esistenza di altri centri spirituali minori, laddove s’era rinnovellata con un determinato ramo dell’umanità l’alleanza primordiale. Non altra cosa rappresentano il leggendario paradiso di Shambala, l’Aryavartha indù, la mitica terra d’origine dei Veda, il Paradiso Occidentale di Hsi Wang per la civiltà cinese, in Oriente, o Atlantide, il Regno del Prete Gianni, il castello di Camelot, l’isola di Avalon, il Montsalvat dei miti di Re Artù, il monte Olimpo, per l’Occidente, se non simboli del Centro primordiale, luoghi in cui la Terra s’era misteriosamente unita al Cielo.


Quanto all’Origine, il Polo Nord è stato da sempre tradizionalmente ritenuto il punto di congiunzione tra la Terra e il Cielo, e la porta degli dèi (1). Per le tradizioni indù, all’estremo Nord si eleva il monte Meru, soggiorno degli dèi, Asse del Mondo, eretto sull’ombelico della Terra, posto sotto la Stella Polare, ombelico del Cielo. Con la sua funzione di asse, di punto di congiunzione, di via verso il Cielo, il Polo rappresenta l’immutabile che si oppone al mutamento, l’Essere al divenire. Nell’esoterismo islamico, l’Asse dell’Universo, il Qutb (2) cosmico è indicato come la dimensione più elevata da dove origina il potere del Qutb temporale, secondo una gerarchia che assicura l’esistenza del potere spirituale attraverso il cosmo.

Per quel che concerne il Centro, nel tantra Kalachakra del buddhismo tibetano si fa riferimento ad una enclave nascosta in un punto imprecisato dell’Asia centrale, che prende il nome di Agarthi, ossia “l’Inaccessibile”. Secondo la descrizione fornita si tratterebbe di un regno protetto da una alta cintura montuosa, al cui interno avrebbe sede il palazzo del suo re-sacerdote, e questo regno è situato in India e coincidente col monte Meru o Polo Nord prima dello spostamento dell’asse terrestre, centro del mondo e terra originaria dell’umanità. Agharti costituirebbe il mozzo, immobile e immutabile, della Dharma Chakra, la Ruota della vita e della legge della tradizione induista e buddista, alla cui rotazione è legato il destino dei mortali. Essa esiste simultaneamente sia sul piano fisico sia sul piano spirituale e solo pochissimi Arhat (Illuminati) hanno la possibilità di accedervi. Ad Agharti si dice che sia nata la religione unica, primordiale e perfetta della cosiddetta “Età dell’Oro”, in grado di porre l’uomo in totale comunione con Dio. Tutte le grandi religioni attuali, infatti, trarrebbero le loro origini dalla religione primordiale di Agharti, così come tutte le tradizioni particolari sono in fondo solo adattamenti della grande tradizione primordiale.

bestie-uomini-deiIl sovrano che regna ad Agharti è chiamato dagli abitanti della superficie Chakravarti (lett. Signore della Ruota) ovvero “Il Re del Mondo” (3), mentre al suo popolo è noto come Brahmatma (colui che ha il potere di parlare con Dio). Egli regna per il periodo di un Manvatara, una delle quattordici ere da cui è composto un ciclo cosmico. Racconta Ossendowski nel suo celebre racconto Bestie, Uomini e Dèi, che “Vaivaswata, settimo e attuale Re del Mondo, è in comunione spirituale con tutti i Manu che hanno regnato prima di lui, tra cui il primo Brahmatma Swdyambhuva”.

La figura del Re del Mondo, da non confondersi con quella del Princeps huius mundi, stante ad indicare il signore di “questo mondo”, cioè Satana, è da riferirsi alla misteriosa figura biblica di Melchisedec, il re-sacerdote che benedisse Abramo. Melchisedec è presentato dalla tradizione giudeo-cristiana come re di “Salem”, nome che tuttavia non designa una città, ma è da intendersi simbolicamente come la residenza di Melchisedec, e dunque può ben indicare “Agarthi”. Melchisedec, che offre in sacrificio a Dio il pane ed il vino è l’istitutore del sacerdozio cristiano, ritenuto da San Paolo nel Nuovo Testamento, superiore al sacerdozio di Aronne, in quanto istituito da un uomo “vivente”, e non da mortali. Questo «uomo vivente», è “Melki- Tsedeq” (Il Re di Giustizia), il “Manu”, che sussiste «in perpetuo», cioè per la durata del suo ciclo (Manvantara). Per questo motivo Melchisedec è definito anche come «senza genealogia», infatti la sua origine «non è umana», rappresentando egli il prototipo dell’uomo; inoltre essendo il Legislatore del mondo (infatti ha una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice, tali funzioni essendo ben rese dal termine Dharma: con ciò si intende il riflesso nel mondo manifestato del Principio supremo) egli è immagine del Verbo divino, per questo è definito dalle scritture come «fatto simile al Figlio di Dio». È interessante notare come per le creazioni anteriori alla nostra sia stato fatto riferimento ai biblici «sette re di Edom» in rapporto con i sette «giorni» della Creazione, coincidenti con le ere dei sette “Manu” della tradizione indù, contate dall’inizio del “Kalpa” fino all’epoca attuale (4).

Il Re del Mondo non è da ritenersi dunque un semplice capo religioso, ma egli per la sua funzione regale, regge anche i destini materiali del pianeta, dettando il corso della storia secondo un preciso andamento, difficilmente comprensibile e non necessariamente positivo secondo i nostri canoni, in accordo con un ineffabile piano divino. In Mission de l’Inde en Europe (1910), lo scrittore Saint-Yves d’Alveydre sostiene che “il Re del Mondo è il più alto esponente della Sinarchia, una sorta di Governo centrale di uomini di scienza, potentissimo e ramificato, i cui esponenti terreni ispirano e controllano i grandi moti politici o d’altro genere che segnano l’evoluzione del genere umano. Al sovrano non mancano i mezzi per eseguire la propria missione: quando lo desidera egli può infatti mettersi in comunione con il pensiero di tutti gli uomini che hanno influenza sul destino e la vita dell’umanità: re, zar, khan, capi guerrieri, sacerdoti, scienziati. Egli conosce tutti i loro pensieri e i loro disegni; se questi sono graditi a Dio li asseconda, altrimenti li fa fallire”.

tradizione-tradizioniIl Centro di Agharti nel mondo fisico sorgerebbe sul principale incrocio delle correnti terrestri, o forse sarebbe esso stesso a generare questi canali di energia, che percorrono tutto il pianeta diffondendosi in superficie irraggiati dai megaliti. Del resto secondo la geografia sacra, esistono luoghi sul nostro pianeta che costituiscono punti nodali di un reticolo energetico che ricopre tutta la superficie terrestre. In questi luoghi sono stati eretti spesso dei menhir, dei luoghi di culto o santuari, in quanto ritenuti centri di connessione tra la terra, il cielo e gli inferi. Questi centri costituirebbero, infatti, portali di connessione con i mondi infra e super umani. Il principale polo della Grecia antica, Delfi, si presenta a tal proposito molto interessante. Alcune leggende narrano che prima che divenisse una delle dimore di Apollo, vi risiedesse il serpente-drago Pitone. Simbolicamente quest’ultimo rappresenta la materia indistinta primordiale, il caos antecedente la messa in ordine del cosmo. Ciò, simboleggiato astrologicamente dal viaggio di Apollo presso gli Iperborei, durante il periodo invernale, nel quale gli succede Dioniso, principio di vitalità caotica, significa che a Delfi sono presenti i due poli della manifestazione, quello della luce e quello delle tenebre, la cui alternanza indica la vittoria temporanea delle tenebre, prima della restaurazione apollinea. Al pari degli altri centri spirituali, l’ omphalos greco collega i tre mondi: quello dell’uomo, del soggiorno sotterraneo dei morti, e della divinità.

C’è da dire che il mito di una terra perfetta e del suo saggio re ha dato origine a molte delle mitologie evolutesi successivamente in Europa e in Medio Oriente: Manu sarebbe anche il Menes egizio, l’Artù bretone, il Menw celtico e persino l’Arcangelo Michele della tradizione ebraica e cristiana. A tal proposito analizzando il nome di “Melki-Tsedeq” nel suo significato più stretto, gli attributi propri del «Re di Giustizia» sono la bilancia e la spada; gli stessi di “Mikael”, l’«Angelo del Giudizio». Proprio all’Arcangelo Michele sono dedicati molti santuari con la funzione di centri spirituali, dei “betili”. A questo riguardo ci pare opportuno considerare etimologicamente la parola “betile”. “Beth-El” è stata chiamata la pietra che Giacobbe utilizzò per cuscino quando ebbe il sogno profetico, “beth-el” significa letteralmente “Casa di Dio”, un nome che poi verrà esteso all’intera località nella quale egli aveva pernottato. La pietra viene unta con l’olio sacro, “consacrata” ed eretta come stele. Dal termine “beth-el” è derivato poi il greco “betylos”, il latino “betilus” e il nostro “betilo”. Non vi sono dubbi sul fatto che questo betilo possa essere considerato come un omphalos, una pietra sacra eretta su di un luogo ritenuto carico di sacralità. Non è perciò un caso che i centri spirituali sorgano nei pressi di luoghi dedicati al culto di particolari “pietre nere”, ricordiamo a tal riguardo la Pietra Nera della Mecca, la Città Santa della religione musulmana, la pietra conica di Pessinunte, massimo centro del culto di Cibele, la Dea Madre, che fu poi portata a Roma, e posta al centro nel Foro, nel sito ancora oggi chiamato “Lapis Niger”. La pietra simbolicamente rappresenta la Montagna Sacra, o l’Asse del Mondo, ecco che ad essa si lega il significato della frase di Giacobbe «Terribilis est locus iste. Haec Domus Dei est et Porta Coeli» (“Questo è un luogo terribile. Questa è la Casa di Dio e la Porta dei Cieli”) che indicava il luogo dell’Alleanza, frase che per altro affatto casualmente appare scritta su frontoni e architravi di numerose chiese cattoliche, come il Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo in Puglia, ex luogo di culto mitraico (del resto l’apparizione dell’Angelo si racconta sia avvenuta proprio in una grotta, come in una grotta si celebravano i misteri di Mithra), dove è presente anche il simbolo della Triplice Cinta, dei cui significati si è detto in precedenza, e nei pressi del quale si trova un santuario dedicato alla Madonna Nera dell’Incoronata, assimilabile al culto delle “pietre nere”.

Tradizioni su luoghi o culti sotterranei esistono nella maggior parte delle civiltà, ciò ci induce a credere, seguendo anche ciò che costituisce il bagaglio sapienziale di alcune dottrine interiori, fra cui l’alchimia, che la grotta stia a simboleggiare l’interiorità dell’uomo, in cui, proprio secondo la scienza alchemica, bisogna discendere prima di aspirare all’evoluzione spirituale. Tale verità era rivelata dagli antichi alchimisti con l’acronimo V.I.T.R.I.O.L.: “Visita Interiora Terrae Rectificandoque Invenies Occultam Lapidem” (Visita l’interno della terra e rettificando troverai la pietra nascosta).

simbolismo-della-croceNel racconto della Genesi si afferma che il luogo nel quale Giacobbe aveva soggiornato, e che egli aveva poi chiamato “Beth-El”, casa di Dio, era in precedenza chiamato Luz. Questo accenno che sembra così inessenziale nell’economia del racconto biblico, assume invece un aspetto di natura fondamentale se ci si rifà alla tradizione giudaica che vorrebbe l’esistenza di una misteriosa città chiamata “Luz”, dove persino l’Angelo della Morte non ha potere di entrare. Secondo questa tradizione in questa misteriosa città vi sarebbe un mandorlo (è da notare che anche il nome del mandorlo in lingua ebraica è “luz”) nei pressi del quale si trovava l’accesso ad una enclave sotterranea. Il mandorlo produce ovviamente mandorle, frutti aventi la forma di noccioli; proprio il nome di “nocciolo” col significato di nucleo interiore, veniva dato nella tradizione cabalistica ad una particolare particella corporea ritenuta indistruttibile, rappresentata simbolicamente come un osso durissimo, al quale si avviluppava l’anima al momento del decesso. Tale particella veniva in genere localizzata all’interno della spina dorsale, in particolare nel coccige, non a caso chiamato anche “osso sacro”, sede del chakra muladhara, che per la sua importanza è anche detto “chakra della radice”. In questa parte del corpo, secondo la tradizione yogica, risiederebbe la Kundalini, l’energia divina che si ritiene presente in forma quiescente in ogni essere umano, tradizionalmente rappresentata da un serpente arrotolato su se stesso. Tale energia può essere risvegliata attraverso pratiche yogiche o attraverso un’iniziazione. Questo ci riporta alla tipica pratica della tradizione templare dell’osculum sub cauda, il bacio sull’osso sacro (letteralmente, “bacio sotto la coda”), che veniva effettuato durante le iniziazioni all’Ordine del Tempio. Questo rito come è risaputo fu considerato come la prova dello svolgimento di pratiche sodomite all’interno dell’Ordine Templare attraverso cui si giunse alla distruzione dell’Ordine stesso e all’uccisione di Jeacques De Molay, suo ultimo Gran Maestro e dei suoi uomini. Fu per altro proprio in questo frangente che si determinò fattivamente quella frattura profonda tra la tradizione exoterica rappresentata dalla Chiesa Cattolica e quella esoterica rappresentata dall’Ordine Templare, che ha contraddistinto in maniera determinante la storia occidentale dei secoli a venire.

Ritornando alla Kundalini: si ritiene che una volta ridestata, questa forza comincerà a risalire attraverso la colonna vertebrale passando attraverso i sette chakras, giungendo fino all’ultimo di essi, situato all’interno del cranio in corrispondenza della ghiandola pineale, aprendo il Terzo Occhio generando l’Illuminazione interiore. Altresì, così come il nocciolo contiene in potenza la pianta, così il “luz”, l’osso di cui si è detto, conterrebbe in germe la ricostituzione del corpo dopo la resurrezione, costituendo il “nocciolo” dell’immortalità.

Note

1) Parimenti, secondo l’esoterismo islamico al Polo, Quth, si trova la montagna Qaf, il monte della rivelazione coranica. Secondo la tradizione cinese, a Nord-Ovest del mondo si trova il Kouen-Louen, la montagna del centro del mondo, che garantisce a chi vi accede di ottenere l’immortalità e di salire al firmamento. Uno dei nomi usati dai Maya per definire la terra originaria del loro popolo è Aztlan, ossia luogo dell’alba, luogo del biancore. Questo confermerebbe il ruolo del Polo come intermediario fra la Terra e il Cielo.

2) Il termine quṭb è utilizzato nel mondo arabo come termine astronomico, ma può essere inteso anche da un punto di vista spirituale, in via della già citata legge di analogia. Nel Sufismo, Qutb è l’essere umano perfetto, al-insān al-kāmil, che guida le sante gerarchie, il centro o il perno del mondo, ma sconosciuto ai più. C’è solo un Quṭb per ogni era che si pensa sia la guida universale di tutti i santi, il tramite tra il divino e l’umano, la cui presenza è necessaria per l’esistenza del mondo. Un’idea simile è rinvenibile anche nel cattolicesimo, in uno scritto San Bernardo di Chiaravalle afferma che: “L’umanità vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe o per un fulmine o per lo spalancarsi della terra”.

3) René Guénon sostiene che la figura del “Re del Mondo” non designa tanto un individuo in particolare, ma innanzitutto un principio. Questo principio si può poi manifestare in un determinato centro tradizionale e può essere effettivamente rappresentato da una persona: “Tale principio può essere manifestato da un centro spirituale stabilito nel mondo terrestre, da un’organizzazione incaricata di conservare integralmente il deposito della tradizione sacra, di origine «non umana» per mezzo della quale la sapienza primordiale si comunica attraverso le epoche a coloro che sono in grado di riceverla. Il capo di tale organizzazione, in quanto rappresenta Manu stesso potrà legittimamente portarne il titolo e gli attributi; inoltre, dato il grado di conoscenza che deve aver raggiunto per esercitare la sua funzione, si identifica realmente col principio di cui è in un certo modo l’espressione umana” (René Guénon, Il Re del Mondo).

4) Le creazioni anteriori al nostro ciclo cosmico sono tradizionalmente raffigurate mediante i “sette re di Edom” cui corrispondono i sette “giorni” della Genesi, ciò rassomiglia in maniera piuttosto evidente alle ere dei sette Manu avvicendatesi dall’inizio del Kalpa sino alla nostra epoca, di cui parla la tradizione indù. Ora, presso la tradizione ebraica la città di Roma è chiamata Edom, e noi sappiamo che nel leggendario periodo monarchico su Roma regnarono sette re, il secondo dei quali fu Numa che diede le leggi alla città, c’è da notare poi come il nome di questo re rappresenti il perfetto anagramma di Manu, e può accostarsi alla parola greca nomos che significa “legge”. Stando a queste premesse la leggenda dei sette re di Roma altro non sarebbe che un particolare riadattamento del mitologema dei sette Manu per quel che concerne la civiltà che da Roma prese vita, parimenti i sette saggi di Grecia rappresenterebbero i sette Rishi del ciclo precedente il nostro.

giovedì 10 settembre 2015

Non recensione de I Grandi Iniziati di Schuré

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da:

http://micheleleoneblog.blogspot.it/2014/12/non-recensione-de-i-grandi-iniziati-di.html



Questa mattina, ho ritrovato quasi per caso il volume di Schuré mentre cercavo altro nella mia biblioteca. E’ un autore a cui devo molto, la sua presenza entrò a scompigliare i miei giovani pensieri un paio di decenni orsono. Accadde in una di quelle torride estati meridionali, dove la terrà é rossa come il sangue e un po’ più a sud si balla la taranta. La ricordo ancora l’edizione economica proposta dalla Newton, con una copertina blu inguardabile e al costo di 3.900 lire. Schuré, come molti altri era in una qualche forme legato al sud ed alla Puglia, quando a Bari Laterza pubblicava per primo quest’opera. Tempi irripetibili, quelli nei quali Benedetto Croce raccomandava Julius Evola.

Il libro di Schuré, va letto senza pregiudizio, se possibile con lo stato d’animo di chi accoglie ed ascolta e valuta solo alla fine. In queste pagine dense, l’autore ripropone la storia del pensiero religioso ed esoterico. E’ un libro che se non risponde alle domande chi sono, da dove vengo, dove vado, offre la possibilità al ricercatore di trovare la sua propria strada.

“Tutte le grandi religioni hanno un storia esteriore ed una storia interiore; apparente una, nascosta l’altra. … Per storia interiore, intendo la sapienza profonda, la dottrina segreta, l’azione occulta dei grandi iniziati, profeti o riformatori che quelle stesse religioni hanno creato, sostenuto diffuso.



La seconda che io chiamo la tradizione esoterica o la dottrina dei Misteri, è assai difficile da dipanare. Essa infatti si svolge all’interno dei templi, delle confraternite segrete, e i suoi drammi più avvincenti si snodano nell’animo dei grandi profeti che non affidarono a pergamene o a discepoli il racconto delle loro crisi supreme, delle loro estasi divine. Bisogna intuirla. Ma, una volta arrivati a scorgerla, essa appara luminosa, organica, costantemente in armonia con se stessa. La si potrebbe definire storia della religione eterna e universale. In essa appare il retroscena delle cose, il diritto della coscienza umana, di cui la storia non ci offre che il tormentoso rovescio. In essa cogliamo l’epicentro generatore della Religione e della Filosofia cha, all’altro estremo dell’ellisse, si ricongiungono attraverso la sapienza integrale; questo epicentro corrisponde alle verità trascendentali; in esso troviamo la causa, il principio e la fine del prodigioso lavorio dei secoli. Questa è l’unica storia di cui mi occupo nel presente libro.”[1]


Un viaggio attraverso Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora, Platone e Gesù. Un viaggio del quale non voglio svelare nulla, poiché sarebbe come proporre a dei viaggiatori un tour in un villaggio vacanze. Questo libro, però, dovrebbe rimandarne ad un altro, il sogno della mia vita, sempre edito a Bari da Laterza. In questo secondo volume che forse dovrebbe essere letto per primo, l’autore racconta la sua vita, vi è un capitolo dedicato alla genesi de “I Grandi Iniziati”; soprattutto come nella migliore tradizione dell’amore cortese si parla di una donna che allo stesso tempo è reale ed è rimando al trascendentale. Perché ci sono delle donne, degli amori, che divengono altro dalla pura carne: ma questa è un’altra storia..

Gioia – Salute – Prosperità




martedì 8 settembre 2015

Appunti sulla conoscenza ed i daemon. Ovvero del sapere e del dolore

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleoneblog.blogspot.it/2013/06/appunti-sulla-consocenza-ed-i-daemon.html

di Michele Leone

I propri daemon vanno ri-conosciuti, di essi bisogna conoscerne le qualità e scrutando ciò che ognuno da solo più conoscere del proprio essere, capire e sapere quelli che vanno incatenati in oscure e profonde prigioni, quelli che vanno consultati e quelli che dobbiamo far emergere alla piena luce del mezzogiorno.
La conoscenza, il sapere e la verità, inevitabilmente implicano dolore e/o sofferenza, solo dopo il dolore che forse mai guarirà vi può essere l'alba della saggezza.
Non basta aver attraversato il roseto ed essersi punti con la rosa, non basta la volontà, la conoscenza quella più vera, più profonda ed intima ha bisogno di altri attributi per essere posseduta, la conoscenza è possesso quasi carnale attraverso un dolore che è fisico e mistico. Solo dopo tutto questo, può, potrebbe arrivare la saggezza che nel quotidiano è attribuita agli anziani, in quanto sono coloro che hanno vissuto ed esperito.

domenica 6 settembre 2015

Il mondiale insabbiato

È in uscita in tutte le librerie il primo saggio sul Mondiale insabbiato!


Il Campionato mondiale di calcio del 1942 non è mai stato riconosciuto dagli organi ufficiali dello sport ed è rimasto per innumerevole tempo avvolto nella leggenda. Si è davvero svolto? Oppure ciò che si conosce, tramandato oralmente, è pura fantasia? In bilico tra realtà e mito, con la drammaticità della guerra e la storia del XX secolo sullo sfondo, questo libro ci racconta come si svolsero i fatti. Reali o inventati che siano…
Indios Mapuche, squadre composte da missionari, portieri ipnotizzatori, giocatori circensi, arbitri che si presentano in campo con sombrero e pistole, donne fatali, amori impossibili, tentativi di corruzione, improbabili cineoperatori, furti della coppa e una bufera finale che spazza via tutto… siete pronti a questo epico viaggio?

L'AUTORE

Ferdinando Morabito è nato nel 1981 a Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria. Laureato in Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma, vive nella capitale, scrive e colleziona libri di letteratura straniera in lingua originale provenienti da tutto il mondo.

Autore: Ferdinando Morabito
Titolo: PATAGONIA 1942. Il mondiale insabbiato
ISBN: 9788867931736
Collana: ItaliaNascosta
Prezzo: € 14,00
Link sito ufficiale: http://www.edizionisensoinverso.it/catalogo_italia_nascosta_patagonia.htm

Convegno ufologico delle Marche



Vi segnaliamo il seguente convegno ufologico che si terrà nelle Marche:


sabato 5 settembre 2015

Odissee di sangue

Odissee di sangue. Vita, miti, leggende, vampirismo. Da Vlad l'impalatore a Erzsébet Bathory, da Gilles de Rais a Sawney Bean. E ben oltre... Un libro di Roberto Volterri, edito da Eremon Edizioni.



Se questo libro dovesse diventare un film, sarebbe forse “Vietato ai minori di anni 18” o per lo meno “che siano presenti degli adulti in caso di visione da parte di minori”. Perchè? Perché è un ‘viaggio’ tra alcune tra le più atroci nefandezze che l’homo homini lupus può avere commesso nel corso dei secoli. Il ‘viaggio’ parte con una lunga esplorazione – compiuta dall’Autore – della Transilvania e dei castelli in cui abitò Vlad III Tepes, l’Impalatore, personaggio al quale si è ispirato il romanziere irlandese Bram Stoker per il suo immortale ‘Dracula’. Prosegue nel castello di Csejthe dove la ‘Contessa sanguinaria’ Erzsébet Bathory assassinò decine e decine di innocenti fanciulle per bagnarsi nel loro rosso fl uido vitale alla ricerca di un’eternità che invece la condusse ad essere murata viva. Assisterete poi ad un vero e proprio ‘Synodus horrenda’ ovvero al processo al cadavere di Papa Formoso, conclusosi con la condanna ad essere gettato nel Tevere. Ma era morto da mesi… Vi interessa una rapida esplorazione del bosco in cui visse e compì sanguinosi eccidi Elly Kedward, la ‘Strega di Blair’? ‘Vampira’ realmente vissuta alla fi ne del XVIII secolo alle cui atroci gesta si ispirò il folle omicida Rustin Parr, reo confesso dell’omicidio di sette bambini perché ubbidiva ai comandi della ‘strega’ che in quello stesso bosco aveva ucciso quasi due secoli prima? E il nome di Gilles de Rais non vi dice nulla? Le sue folli gesta, le sue violenze su innocenti fanciulli compiute nei castelli in cui celebrava anche cerimonie ‘sataniche’ ispirarono Perrault per la stesura della celebre favola ‘Barbablù’. Ma il vostro ‘viaggio’ non termina certo qui, poiché vi attendono altre ‘odissee di sangue’, qualche interessante esperimento sul tema e un’interpretazione ‘scetticamente psicologica’ dell’umana follia…

venerdì 28 agosto 2015

ESAME DEI VERSI D’ORO DI PITAGORA*

In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito:

https://letteraespirito.wordpress.com/esame-dei-versi-doro-di-pitagora/

Antoine Fabre d’Olivet


(12) E quanto ai mali che comporta il Destino
Giudicali per quel che sono; sopportali; e cerca,
Per quanto lo potrai, di mitigarne i tratti.
Gli dei non hanno abbandonato i saggi ai più crudeli.

Ho detto che Pitagora ammetteva due agenti delle azioni umane, la potenza della Volontà e la necessità del Destino, e che li sottometteva l’uno e l’altro a una legge fondamentale chiamata la Provvidenza, dalla quale emanavano ugualmente. Il primo di questi agenti era libero, e il secondo costretto: di modo che l’uomo si trovava posto entro due nature opposte, ma non contrarie, indifferentemente buone o malvage, secondo l’uso che sapeva farne. La potenza della volontà s’esercitava sulle cose da fare o sull’avvenire; la necessità del destino, sulle cose fatte o sul passato: e l’una alimentava senza posa l’altra, lavorando sui materiale che si forniscono reciprocamente: giacché, secondo quest’ammirabile filosofo, è dal passato che nasce l’avvenire, dall’avvenire che si forma il passato, e dalla riunione dell’uno e dell’altro che si genera il presente sempre esistente, dal quale traggono ugualmente la loro origine: idea molto profonda, che gli stoici avevano adottata [1]. Così, secondo questa dottrina, la libertà regna nell’avvenire, la necessità nel passato, e la provvidenza sul presente. Niente di quel che esiste capita per caso, ma per l’unione della legge fondamentale e provvidenziale con la volontà umana che la segue o la trasgredisce, operando sulla necessità [2]. L’accordo della volontà e della provvidenza costituisce il Bene; il Male nasce dalla loro opposizione. L’uomo ha ricevuto, per condursi nel cammino che deve percorrere sulla terra, tre forze appropriate a ciascuna delle tre modificazioni del suo essere, e tutte tre concatenate alla sua volontà. La prima, legata al corpo, è l’istinto; la seconda, dedicata all’anima, è la virtù; la terza, appartenente all’intelligenza, è la scienza o la saggezza. Queste tre forze, indifferenti in se stesse, non prendono questo nome che per il buon uso che ne fa la volontà; giacché, nel cattivo uso, esse degenerano in abbruttimento, in vizio e in ignoranza. L’istinto percepisce il bene o il male fisico risultante dalla sensazione; la virtù conosce il bene e il male morali esistenti nel sentimento; la scienza giudica il bene o il male intelligibili che nascono dall’assentimento. Nella sensazione, il bene e il male si chiamano piacere o dolore; nel sentimento, amore o odio; nell’assentimento, verità o errore. La sensazione, il sentimento e l’assentimento, risiedendo nel corpo, nell’anima e nello spirito, formano un ternario che, sviluppandosi a favore di un’unità relativa, costituisce il quaternario umano, o l’Uomo considerato astrattamente. Le tre affezioni che compongono questo ternario agiscono e reagiscono le une sulle altre, e s’illuminano o s’oscurano mutualmente; e l’unità che le lega, vale a dire l’Uomo, si perfeziona o si deprava, a seconda che tenda a confondersi con l’Unità universale, o a distinguersene. Il mezzo che essa ha di confondervisi, di distinguersene, d’avvicinarvisi o di allontanarvisi, risiede tutta intera nella sua volontà, che, per l’uso che fa degli strumenti che le fornisce il corpo, l’anima e lo spirito, tende a divenire istintiva o s’abbruttisce, si rende virtuosa o viziosa, saggia o ignorante, e si mette nella condizione di percepire con maggior o minor energia, di conoscere e di giudicare con maggior o minor rettitudine quel che v’è di buono, di bello e di giusto nella sensazione, nel sentimento o nell’assentimento; di distinguere con maggior o minor forza e luminosità il bene e il male; e infine di non sbagliarsi affatto in quel che è realmente piacere o dolore, amore o odio, verità o errore.
Si coglie chiaramente che la dottrina metafisica che ho appena esposto brevemente, non si trova da nessuna parte così nettamente espressa, e così che non posso appoggiarla ad alcuna autorità diretta. Non è che partendo dai principi posti nei Versi d’Oro, e meditando lungamente su quel che è stato scritto di Pitagora, che se ne può concepire l’insieme. Essendo stati i discepoli di questo filosofo estremamente discreti, e sovente oscuri, non si può apprezzare bene le opinioni del loro maestro che chiarendole con quelle dei platonici e degli stoici, che le hanno adottate e diffuse senza tante riserve [3].
L’Uomo, quale vengo dal descrivere, secondo l’idea che Pitagora ne aveva concepito, posto sotto il dominio della Provvidenza, tra il passato e l’avvenire, dotato di una libera volontà per sua essenza, e volgendosi alla virtù o al vizio con proprio movimento, l’Uomo, dicevo, deve conoscere la fonte delle disgrazie che prova necessariamente; e lungi dall’accusarne questa stessa Provvidenza che dispensa i beni e i mali a ciascuno secondo il suo merito e le sue azioni anteriori, deve prendersela solo con se stesso se soffre, come conseguenza inevitabile dei suoi sbagli passati [4]. Giacché Pitagora ammetteva più esistenze successive [5], e sosteneva che il presente che ci colpisce, e l’avvenire che ci minaccia, non sono che l’espressione del passato che è stato opera nostra nei tempi anteriori. Diceva che la maggior parte degli uomini perdono, ritornando alla vita, il ricordo di queste esistenze passate; ma che, riferito a lui, doveva a un particolare favore degli Dei il conservarne la memoria [6]. Così, secondo la sua dottrina, questa Necessità fatale di cui l’uomo non cessa di lamentarsi, è lui stesso che l’ha creata con l’impiego della sua volontà; egli percorre, nella misura in cui avanza nel tempo, la ruota che lui stesso si è già tracciato; e, a seconda che la modifichi in bene o in male, che vi semini, per così dire, le sue virtù o i suoi vizi, la ritroverà più dolce o più faticosa, quando sarà venuto il tempo di ripercorrerla.
Ecco i dogmi a mezzo dei quali Pitagora stabiliva la necessità del Destino, senza nuocere alla potenza della Volontà, e lasciava alla Provvidenza il suo impero universale, senz’essere obbligato, o di attribuirle l’origine del male, come coloro che non ammettono che un principio delle cose, o di dare al Male un’esistenza assoluta, come coloro che ammettono due principi. In questo egli era d’accordo con la dottrina antica, seguita dagli oracoli degli Dei [7]. I pitagorici, del resto, non consideravano i dolori, vale a dire, tutto ciò che affligge il corpo nella sua vita mortale, come dei mali veri; non chiamavano veri mali che i peccati, i vizi, gli errori, nei quali si cade volontariamente. Secondo loro, i mali fisici e inevitabili essendo illustrati dalla presenza della virtù, potevano trasformarsi in beni, e divenire brillanti e degni di desiderio [8]. Sono questi ultimi mali, dipendenti dalla necessità, che Liside raccomandava di giudicare per quel che sono; vale a dire, di considerare come una conseguenza inevitabile di qualche sbaglio, come il castigo o il rimedio di qualche vizio; e conseguentemente di sopportarli, e, lungi dall’inasprirli ancora con l’impazienza e la collera, al contrario addolcirli, con la rassegnazione e l’acquiescenza della volontà al giudizio della Provvidenza. Non vietava affatto, come si vede nei versi citati, di alleviarli con mezzi leciti; al contrario voleva che il saggio si sforzasse di evitarli, se poteva, e di guarirli. Così questo filosofo non cadeva affatto nell’eccesso che s’è giustamente rimproverato agli stoici [9]. Giudicava il dolore cattivo, non perché fosse della stessa natura del vizio, ma perché la sua natura purgativa del vizio lo rendeva una conseguenza necessaria di questo. Platone adottò quest’idea, e ne evidenziò tutte le conseguenze con la sua abituale eloquenza [10].
Quanto a quel che dice Liside, sempre secondo Pitagora, che il saggio non era affatto esposto ai mali più crudeli, ciò si può intendere, come l’ha inteso Hierocles, in una maniera semplice e naturale, o in una maniera più misteriosa che dirò. Innanzi tutto è evidente, secondo le conseguenze dei principi che sono stati esposti, che, in effetti, il saggio non è affatto abbandonato ai mali più duri, poiché non inasprendo affatto con i suoi comportamenti quelli che la necessità del destino gli infligge, e sopportandoli con rassegnazione, egli li addolcisce; vivendo felice, anche in mezzo alla sfortuna, nella ferma speranza che questi mali non turberanno più i suoi giorni, e certo che i beni divini che sono riservati alla virtù, l’attendono in un’altra vita [11]. Hierocles, dopo aver esposto questa prima maniera di spiegare il verso di cui si tratta, tocca leggermente la seconda, dicendo che la Volontà dell’uomo può influire sulla Provvidenza, quando, agendo in un’anima forte, essa è assistita dal soccorso del Cielo e opera con lui [12]. Questa era una parte della dottrina insegnata nei misteri, e di cui si vietava la divulgazione ai profani. Secondo questa dottrina, di cui si possono riconoscere delle tracce abbastanza forti in Platone [13], la Volontà “rafforzata” [14] dalla fede, poteva soggiogare la stessa Necessità, comandare alla Natura, e operare dei miracoli. Essa era il principio sul quale riposava la magia dei discepoli di Zoroastro [15]. Gesù, dicendo in parabole, che a mezzo della fede si potevano scuotere le montagne [16], non faceva che seguire la tradizione teosofica, conosciuta da tutti i saggi. «La rettitudine del cuore e la fede trionfano su tutti gli ostacoli, diceva Confucio [17]; ogni uomo può rendersi uguale ai saggi e agli eroi di cui le nazioni onorano la memoria, diceva Mencio; non è mai il potere che manca, è la volontà; ammesso lo si voglia, si riesce [18]». Queste idee dei teosofi cinesi si ritrovano negli scritti degli Indiani [19], e anche in quelli di alcuni Europei che, come ho già fatto osservare, non avevano affatto abbastanza erudizione per essere degli imitatori. «Più la volontà è grande, dice Bœhme, più l’essere è grande, più è potentemente ispirato [20]». «La volontà e la libertà sono una stessa cosa[21]». «È la fonte della luce, la magia che di niente fa qualcosa [22]», «La volontà che va risolutamente avanti, è la fede; essa modella la propria forma in spirito, e si sottomette tutte le cose; con essa, un’anima riceve il potere d’influenzare un’altra anima, e di penetrarla nelle sue essenze più recondite. Quand’essa agisce con Dio, può rovesciare le montagne, frantumare le rocce, confondere i complotti degli empi, soffiare su di loro il disordine e lo spavento; può operare tutti i prodigi, comandare ai cieli, al mare, incatenare la stessa morte; tutto le è sottomesso. Non si può menzionare niente che essa non possa comandare nel nome dell’Eterno. L’anima che esegue queste grandi cose, non fa che imitare i profeti e i santi, Mosè, Gesù e gli apostoli. Tutti gli eletti hanno una potenza simile. Il male scompare davanti a loro. Niente potrebbe nuocere a colui in cui Dio dimora [23]».
È partendo da questa dottrina, insegnata, come ho detto, nei misteri, che alcuni gnostici della scuola d’Alessandria pretesero che i mali non cogliessero mai i saggi veri, ammesso di trovare degli uomini che in effetti lo fossero; giacché la Provvidenza, immagine della giustizia divina, non permetterebbe mai che l’innocente soffrisse e fosse punito. Basilide che era uno di coloro che sostennero quest’opinione platonica [24], ne fu vivamente rimproverato dai cristiani ortodossi, che lo trattarono da eretico, portandogli l’esempio dei martiri. Basilide rispose che i martiri non sono affatto interamente innocenti, poiché non vi è nessun uomo esente da colpe; che Dio punisce in loro, o dei desideri malvagi, dei peccati attuali e segreti, o dei peccati che l’anima aveva commesso in un’esistenza anteriore: e siccome non si mancava di opporgli ancora l’esempio di Gesù, che, quantunque pieno d’innocenza, aveva tuttavia sofferto il supplizio della croce, Basilide rispondeva senza tentennare che Dio era stato giusto nei suoi confronti, e che Gesù, essendo uomo, non era più di un altro esente da macchie [25].

* Estratto da A. Fabre d’Olivet, Les Vers dorés de Pythagore, expliqués. Paris, Treuttel e Würtz, 1813.

1. Seneca, De Senectute, L, VI, cap. 2.

2. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.

3. Giamblico, De vita Pythagorica. Porfirio, De abstinentia; Vita Pythagoræ. Fozio, Codice 259. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm. Filostrato, in Vita Apollonii. Plutarco, De Placita philosophorum; De Animæ procreatione. Apuleio, Florida. Macrobio, Saturnalia; Somnius Scipionis. Clemente di Alessandria, Stromata.

4. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 14. Fozio, Codice 242 e 214.

5. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII.

6. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII, §. 4.

7. Massimo di Tiro aveva fatto una dissertazione sull’origine del Male, nella quale pretendeva che gli oracoli fatidici consultati a questo proposito, rispondessero con questi due versi d’Omero:
Noi accusiamo gli Dei dei nostri mali; e, noi stessi,
Con i nostri propri errori, li produciamo tutti.

8. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.

9. Plutarco, De Stoicorum repugnantiis.

10. Platone, in Gorgia e Filebo.

11. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.

12. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18, 49 e 62.

13. Platone, Fedone; Ipparco; Teeteto, La Repubblica, L. IV, ecc.

14. Il termine utilizzato da Fabre d’Olivet, “évertuée”, richiama l’idea di “dotare di virtù”.

15. Thomas Hyde, Historia religionis veterum Persarum, p. 298.

16. Matteo, XVII, v. 19.

17. Vie de Kong-Tzée (Confucius), p. 324, in Mémoires concernant l’histoire, les sciences, les arts, les mœurs, les usages, &c. des Chinois, Paris, vol. I, 1776.

18. Meng-Tzée, citato da Jean-Baptiste Du Halde, Description de l’empire de la Chine, tomo II, Parigi, 1735..

19. Bhagavat-Gita, lett. II.

20. Jakob Böhme, Quaranta Questioni sull’origine, l’essenza, l’essere, la natura e le proprietà dell’Anima (Viertzig Fragen von der Seelen Orstand, Essentz, Wesen, Natur und Eigenschafft, ecc. Amsterdam, 1682), quest. I.

21. Ibid.

22. Jakob Böhme, Nove Testi, test. 1 e 2.

23. Jakob Böhme, Quaranta Questioni, quest. 6.

24. Platone, in Teage.

25. Clemente di Alessandria, Stromata, L. IV, p. 506. Isaac de Beausobre, Histoire critique de Manichée et du Manichéisme, t. II, p. 28.

martedì 25 agosto 2015

Siva, la tradizione segreta, la montagna e la gnosi

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleoneblog.blogspot.it/2015/08/siva-la-tradizione-segreta-la-montagna.html

di Michele Leone

“Ora che l’umanità è quasi tutta fissata in concezioni di carattere dualistico, bisogna che la tradizione segreta non si interrompa”. Questo si proponeva il supremo Siva, allorché un giorno, mosso dal desiderio di soccorrere gli uomini, si chinò grazioso sopra Vasugupta in sogno e ne dischiuse l’intuizione. “Su questa montagna, in una grande roccia, è custodito l’insegnamento segreto. Dopo averlo penetrato manifestalo a quelli che sono atti a ricevere la grazia”. Vasugupta, risvegliatosi, si mise in cerca sino a che giunse al cospetto di questa grane roccia la quale, a conferma del sogno, al solo tocco della mano ruotò su se stessa. In questo modo entrò in possesso degli Sivasutrà, compendio delle dottrine segrete di Siva. Dopo averli penetrati fino in fondo li rivelò ai suoi degni discepoli, primo tra tutti Bhatta Kallata, e li riassunse nelle Spandakarika. (Vasugupta, Sivasutra, con il commento di Ksemaraja, trad. it. intr. e commento di Raffaele Torella, Ubaldini Editore, Roma 1979)
Se sostituissimo i nomi, che per l’occidente sono esotici con nomi più vicini al nostro immaginario, non sarebbe difficile far passare questo testo per un racconto medievale o anteriore. La vicinanza con lo Mazdismo o lo Gnosticismo possono essere evidenti. Questa, è solo una ipotesi, quasi un gioco. Il “mito” della montagna e di una o più pietre con su incisi, comandamenti, aforismi, epigrammi ecc., non è cosa nuova come non lo è la ricerca dell’unità che trascende i movimenti dualistici. Se i simboli della pietra e della montagna sono simboli Archetipici, senza voler entrare in questa sede nel significato attribuito al simbolo o a ciò che è archetipico è importante rilevare un elemento comune a molte culture, elemento che soprattutto in occidente e nella decadente cultura contemporanea è il grimaldello dei detrattori delle scienze ermetiche: il segreto.
            Il segreto, quello della Tradizione è un segreto che per sua natura non può essere svelato ma, al massimo tramandato. Coloro che sono chiamati a detenerlo, gli eletti, nel senso di scelti, hanno tutti superato delle prove od hanno delle determinate caratteristiche psichiche o animiche a seconda del vocabolario o della formazione culturale di riferimento. Detenere il segreto, che per estensione è segreto iniziatico, impone la sua penetrazione. Per penetrare il Segreto sono necessarie la coscienza, la consapevolezza, l’unione di quanto è frammentato nell’individuo (altrove tornerò a più riprese sul rapporto “erotico” tra maschile e femminile). Solo dopo aver compreso e compenetrato il segreto si assume una seconda obbligazione tradizionale, che non è come molti immaginano la sua custodia, ma piuttosto la sua trasmissione.
            Che si volga lo sguardo ad Oriente o ad Occidente, che si guardino le stelle o le profondità della coscienza/anima degli uomini, il segreto che si rischia di scoprire è così destabilizzante, che non può essere una via seguita dai più.
            In questi ultimi decenni, forse per coloro che camminano la Via, sono diminuiti i pericoli ma, per certo sono aumentate le difficoltà e le distrazioni.
Gioia – Salute – Prosperità

domenica 23 agosto 2015

Ercole e il gigante Anteo

Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Lex Aurea n. 46 (http://www.fuocosacro.com/pagine/lexaurea/lexaurea46.pdf)

di Vito Foschi

Affresco su palazzo del centro di Trento
Ercole è una figura che troviamo in un’ampia serie di miti il cui aspetto iniziatico è piuttosto chiaro. L’avventura, che anche ad una vista superficiale evidenzia simile aspetto, è quella delle 12 fatiche. Nella decima fatica, l’eroe, si deve recare in Occidente per rubare i rossi buoi di Gerione affrontando un pericoloso viaggio; giunto in Libia, affronta il gigante Anteo che secondo alcune tradizioni è re della regione.
La sfida degli eroi con i giganti simboleggia la lotta contro l’orgoglio e il dominio degli istinti, simbolismo che si ritrova anche nella letteratura cavalleresca. Anteo è figlio di Gea e Poseidone; Gea è la madre terra, Poseidone il dio dell’abisso, ambedue a rappresentare il dominio degli istinti e gli stati inferiori dell’essere. Il gigante è piuttosto brutale, avendo l’abitudine di tagliare la testa degli avversari di cui colleziona le teste.

Il gigante oltre a rappresentare gli istinti, simboleggia anche la forza e la brutalità legata alla materia. In Anteo questo legame con la materia è reso più evidente da una sua particolare caratteristica, che è quella di perdere la forza quando non ha più contatti con la terra. Ha i piedi ben piantati a terra e in qualche modo questo legame lo fa assomigliare ad una pianta, che sradicata, muore. Anteo in questa accezione partecipa della natura vegetale. La sua stessa uccisione ricorda lo sradicamento di un albero, perché Ercole lo uccide soffocandolo tenendolo sollevato in alto senza la possibilità di toccare terra: le radici non alimentano più la pianta.
Normalmente l’albero può rappresentare l’asse del mondo, ma in questo caso non è questa la valenza, ma semplicemente la rescissione dei legami materiali. Il gigante muore perché legato al cordone ombelicale della madre: è un mai nato. L’uccisione di Anteo è un staccarsi dalla madre è quindi un rinascere. La Madre terra, rappresenta la natura e il regno delle forme, che come specchio possono rimandare al principio superiore, ma allo stesso tempo possono ingannare o accecare e far permanere l’anima dell’iniziato nel mondo delle illusioni e non evolvere verso uno stato superiore. L’essere legati a terra come una pianta è un tirare giù e per questo l’eradicazione ovvero il tenere sollevato in alto il gigante, vuol dire partecipare dell’elemento aereo, sollevarsi per toccare il cielo. Sradicare, eliminare il legame con gli aspetti terreni per poter ascendere rompendo i legami con la materia.


Altro aspetto simbolico è l’uso di Anteo di decapitare i nemici. La testa è il centro dell’essere e lo staccarsi dal corpo sta a simboleggiare la separazione dagli aspetti materiali. In questo caso il simbolismo ha una valenza negativa, perché le teste sono collezionate dal gigante che le tiene nella sua dimora a significare il legame di quei sfidanti con la terra. La sconfitta non ha permesso loro di superare la prova e il loro essere è prigioniero della terra, del regno delle forme.

venerdì 21 agosto 2015

Le guerre stellari dell’induismo

tratto da "Il Giornale" del 21 giugno 2010

di Davide Brullo

Gli antichissimi poemi del profondo Oriente hanno ispirato legioni di scrittori italiani e anticipato perfino le saghe fantascientifiche. Nei Meridiani una raccolta con novità


Il primo è stato Arthur Schopenhauer. La memorabile chiusura del Mondo come volontà e rappresentazione, teatrale e perfino shakespeariana («per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla»), è condita con gli odori dell’India. È lo stesso Re Arthur a dircelo: oltre ai visionari dei paesi suoi, Angelo Silesio («mistico mirabile di eccezionale profondità») e Meister Eckhart («mistico ancora più grande» e dagli «scritti meravigliosi»), adopera e s’imbeve dei Veda («frutto della più alta dottrina e della più profonda saggezza umana») e delle Upanishad («il dono più prezioso»). Da filosofo tragico Schopenhauer fatica ad attraversare il deserto della Bibbia, adora smarrirsi nei ghirigori metafisici, nei labirintici laboratori della mente indù. Schopenhauer apre l’agenzia viaggi per l’India che sarà presa d’assalto nel Sessantotto: tutto l’Occidente si precipita laggiù a scoprire la via, la verità e la vita. C’è poco da stupirsi, anche Lev Tolstòj riteneva che i Vangeli trovassero compimento grazie a una risciacquatura nel profondo Oriente, riscritti da Confucio e da Krishna.
Signori, risparmiate il biglietto aereo per l’India, non la conquisterete mai. Tanto per mettere le cose in chiaro, «in nessun caso - stando almeno alla più comune e ortodossa delle formulazioni - si può diventare hindu, perché l’appartenenza allo hinduismo dipende innanzitutto da un fattore etnico» (Francesco Sferra). Di conseguenza, evitate di farvi traviare da un guru di passaggio, scansate i ristoranti tipici, scavalcate i paladini della New Age. Invece, risparmiate i vostri santi soldini e spendeteli per lo straordinario Meridiano Mondadori dedicato all’Hinduismo antico (pagg. CCXXXI+1636, euro 55) curato da Francesco Sferra, aiutato da una équipe di superesperti come Carlo Della Casa, Raniero Gnoli, Stefano Piano e molti altri. Evito di raccontarvi la storiella sull’hinduismo: l’introduzione di Sferra ci mette sul chi va là scansando ogni forma di semplificazione, mostrandoci che i rivoli del pensiero indiano sono poliedrici e polimorfici, a volte perfino contraddittori. Ci sono però alcuni punti primordiali specificati nelle Upanishad (la stordente raccolta di testi filosofici, che pur tuttavia, composti dal VII secolo a.C. fino ad oggi, «testimoniano filoni di pensiero anche contrastanti»), ad esempio che «la vita, di per sé, non costituisce un bene ma è anzi radicalmente male» e che l’uomo, dacché «la nascita in forma umana è reputata un’occasione pressoché unica al fine d’incamminarsi lungo il cammino della liberazione dal fenomenico», attraverso la conoscenza, l’esilio dai desideri e dalle illusioni, la retta azione e il retto pensiero, deve sganciarsi dal ciclo delle rinascite. Il punto è sottrarsi alla fatale legge del karma, per cui ogni azione, indimenticabile, ha i suoi effetti in eterno - e viene scontata nelle successive, concatenate nascite, infatti «per chi abbia attinto la cosiddetta “liberazione in vita”, le azioni che verranno a svolgersi nel tempo che resta da vivere prima della morte fisica son dette non produrre più alcun frutto o “seme” karmico: è come uno “scrivere sull’acqua” che non lascia traccia». Rispetto al cristianesimo, che anela alla resurrezione dei corpi, essendo la vita umana unica e irripetibile, l’hinduismo trascende ogni traccia corporea; se il cristianesimo vuole salvare il mondo, la vita e l’uomo, l’hinduismo vuole salvarsi dal mondo, dalla vita e dall’uomo. Per questo nelle mirabolanti testimonianze letterarie dell’hinduismo, fitte di mondi, cosmi, ere intricate e catastrofici versetti, l’uomo non c’è, svanisce nell’alveo della sua meschinità.
In fondo, disarcionati da ogni possibilità religiosa, l’importanza memorabile del Meridiano (che è il primo di due volumi) sta nella sua siderale altezza letteraria: al di là di alcune Upanishad, dei magnifici inni vedici («di una tale antichità possediamo solo la porzione antica dell’Avesta iranico e alcuni testi ittiti») e della indispensabile Bhagavadgita (nella versione di Raniero Gnoli), tutti disponibili in altre traduzioni ed edizioni, sono raccolti finalmente alcuni densi passaggi del Mahabarata, l’oceanico poema epico che narra la guerra definitiva tra Kaurava e Pandava per la conquista del mondo, che ha lo struggente clangore dell’Iliade e la sapienza di Platone, che prevede Blade Runner e Star Wars e assembla in sé ogni possibile parola, verso, concetto (contempla perfino Shakespeare, leggete qui: «Hai tu forse stipulato un patto con il Tempo,/ che alato pone termine a ogni cosa,/ infinito e incommensurabile, torrente/ che trascina via tutto con sé?»). Davvero il Mahabarata è «l’opera più importante dell’India brahmanica» che «si è rivelata capace di comunicare dei valori e una visione del mondo e della vita che si può dire a ragione appartengano all'intera umanità» (così Stefano Piano ne Le letterature dell’India, Utet, coordinato con Giuliano Boccali e Saverio Sani, un valido strumento per approfondire).
I mastodontici testi indù hanno sedotto orde d’intellettuali italici, da Giorgio Manganelli e Pier Paolo Pasolini, fino a Mario Luzi (entusiasta lettore di Sri Aurobindo all’epoca della svolta di Nel magma) e ad Alessandro Ceni (la cui opera più importante, Mattoni per l’altare del fuoco, Jaca Book, nasce sotto l’egida della Upanishad), e c’insegnano una cosa scandalosa: la grande letteratura è sempre «sacra», comunque religiosa. I grandi libri vanno letti come testi salvifici, assoluti, estremi. La prospettiva la derubo ad Harold Bloom, dal suo saggio Rovinare le sacre verità (Garzanti), dove molto ci dice che Franz Kafka, ad esempio, «esercita un’autorità spirituale unica» e che il cosmo edificato da Samuel Beckett «assomiglia alla creazione del Demiurgo nello gnosticismo antico». Pochissimi scrittori assurgono all’altezza di un testo sacro: si chiamano Dante e Shakespeare, John Milton e Leopardi, qualcosa di Tolstòj, qualcosa di Melville e poco altro. Non si tratta d’intuire la tragedia dietro l’angolo o ripetere in versi o in una prosa inimitabile il già noto, ma squarciare vie ignote dello spirito.


mercoledì 19 agosto 2015

Che cos’altro vediamo nel Graal, se non un mucchio di paradossi?

"Che cos’altro vediamo nel Graal, se non un mucchio di paradossi? È visibile e invisibile; un oggetto – coppa, vaso o pietra – e un non oggetto; una persona e una non persona, né uomo né donna; dispensa nutrimento terreno e celeste; ispira amore, ispira terrore; incarna la predestinazione ma richiede, ciò nonostante, uno sforzo individuale. Questi, naturalmente, sono i paradossi del Divino, che hanno trovato nel simbolo del Graal una perfetta rappresentazione…così perfetta che il Graal, come il Divino, sfugge a qualsiasi descrizione, restando un’immagine senza immagine."

Helen Adolf, da Visio Pacis

lunedì 17 agosto 2015

E.V.P. (Electronic Voice Phenomena)

In collaborazione con Hesperya

tratto da: http://www.hesperya.net/il-ghost-hunting/e-v-p-electronic-voice-phenomena/

di Stefano Urso

Sono voci elettroniche, registrazioni di voci misteriose di cui non si sa né l'origine né da dove provengano. Spieghiamo cosa sono e come si può sperimentare con esse. Nel corso dei secoli la comunicazione con gli spiriti, sempre che di questo si tratti, sono state eseguite attraverso oracoli, sedute spiritiche, medium e sensitivi. Oggi invece, con una varietà di apparecchiature elettroniche a disposizione, esisterebbe un modo più efficace.

LA METAFONIA

I fenomeni delle voci elettroniche sono un evento misterioso in cui voci umane provenienti da fonti sconosciute, vengono impressionate su digital recorder, su nastri magnetici di registrazione, o udibili attraverso il rumore delle radio, detto anche white noise (rumore bianco) e altri media elettronici. La maggior parte delle volte le voci misteriose non si sentono al momento della registrazione, ma è solo quando il file/nastro viene riprodotto che le voci si possono ascoltare. Spesso sono di frequenza molto bassa e quindi bisogna pulire l'audio filtrando il rumore di fondo.

Non tutte le E.V.P. sono uguali: alcune sono comprensibili e chiare, altre udite anche ad orecchio nudo quando molto forti, altre ancora molto compresse e disturbate. Variano per genere (uomini e donne), età (adulti e bambini), per tono e intenzione. Di solito si tratta di singole parole o brevi frasi. A volte sono solo grugniti, gemiti, o rumori di altro genere.

La qualità delle E.V.P. viene così classificata dai seri ricercatori:
- Classe A: facilmente comprensibile da chiunque con poca o nessuna controversia. Queste sono di solito le E.V.P. più forti.
- Classe B: Di solito caratterizzata dalla deformazione della voce in alcune sillabe. Hanno volume inferiore e un suono molto distante. Quelle di Classe B sono il tipo più comune.
- Classe C: voce caratterizzata da un'eccessiva deformazione. Queste E.V.P. sono le più basse in termini di volume (spesso sussurrate) e sono le più difficili da capire.

L'aspetto più affascinante delle voci elettroniche è che a volte rispondono direttamente alle persone che effettuano la registrazione. I ricercatori pongono una domanda, per esempio, e la voce risponde o commenta.

DA DOVE ARRIVANO QUESTE VOCI?

E' questo il vero mistero. Nessuno lo sa. Esistono al momento solo alcune teorie:
- Sono voci di persone morte. Questo è il motivo per cui molti ricercatori vanno nei cimiteri (noi di hesperya no) in cerca di E.V.P.. In questo contesto, il fenomeno è talvolta chiamato transcomunicazione strumentale o ITC.
- Provengono da un'altra dimensione. Si teorizza che ci possono essere molte dimensioni di esistenza, e in qualche modo esseri provenienti da qualche altra dimensione sono in grado di parlare e comunicare con la nostra dimensione attraverso questo metodo. Ma c'è da chiedersi: come fanno a sapere le lingue della nostra dimensione?
- Le voci provengono dal subconscio dei ricercatori stessi. Si suppone che in qualche modo i pensieri dei ricercatori sono proiettati sul nastro.
- Voci appartenenti ad angeli o demoni che ingannano i ricercatori.
- Questa la aggiungiamo noi di hesperya: buchi spazio-temporali in cui per ragioni a noi ancora sconosciute, ci sono delle condizioni in cui il nostro spazio-tempo è in comunicazione con un altro spazio-tempo. Ovvero: loro fantasmi per noi e noi fantasmi per loro.

Gli scettici affermano che non c'è nulla, che le E.V.P. sono frode o pareidolia acustica o voci reali impressionati già precedentemente sul nastro, o voci prese dalla radio, cellulari e altre fonti.

Troppe varianti anche nelle affermazioni degli scettici. Se i cellulari sono spenti, se la corrente elettrica è assente, se i nastri sono vergini, se non si usano radio (un motivo in più per cui noi di hesperya NON utilizziamo lo Spirit Box) e ci si trova molto distante da centri abitati e in piena notte, queste voci da dove arrivano?

BREVE STORIA SULLE E.V.P.

1920. Non tutti sanno che Thomas Edison cercò di inventare una macchina che comunicare con i morti. Lo stesso Edison scrisse: "Se la nostra personalità sopravvive, allora è strettamente logico o scientifico supporre che essa conservi memoria, intelletto, e altre facoltà, e la conoscenza che acquisiamo su questa Terra ... Quindi se possiamo evolvere uno strumento così delicato da essere influenzata dalla nostra personalità, deve sopravvivere nella prossima vita. Un tale strumento, se messo a disposizione, dovrebbe registrare qualcosa."
Edison non riuscì a portare a termine l'esperimento e quindi a terminare l'invenzione, ovviamente, ma sembra che lui credesse fosse possibile catturare voci disincarnate, con una macchina.

1939. Attila von Szalay, un fotografo americano, sperimentò un fonografo per tentare di catturare le voci degli spiriti. Si dice che ottenne un certo successo con questo metodo e i risultati migliori arrivarono negli anni successivi con un registratore a filo. Alla fine del 1950, i risultati dei suoi esperimenti sono stati documentati in un articolo per la American Society for Psychical Research. 

1940. Verso la fine degli anni '40 a Grosseto, Marcello Bacci ha affermato di essere in grado di raccogliere le voci dei defunti attraverso l'uso di una radio a valvole.

1952. Due sacerdoti cattolici, Padre Ernetti e Padre Gemelli, raccolsero involontariamente delle E.V.P. durante la registrazione di canti gregoriani attraverso un magnetofono. Durante le registrazioni il filo della macchina continuava a rompersi, così Padre Gemelli guardò al cielo chiedendo a suo padre morto di aiutarlo. Nel nastro registrato si udì la voce del padre del sacerdote che diceva "Certo che vi aiuterò. Sono sempre con te." Ulteriori esperimenti hanno confermato il fenomeno. Padre Ernetti, ricordiamo, presentà al pubblico il leggendario Crononovisore, uno strumento capace di captare immagini dal passato o da altre dimensioni.

Nel 1959, Friedrich Juergenson, un produttore cinematografico svedese, registrò alcuni canti di uccelli. Durante la riproduzione, si ascoltava la voce di sua madre dire in tedesco "Friedrich, mi vedi? Friedel, mio piccolo Friedel, puoi sentirmi?". Così la madre chiamava Juergesnson, quindi lui fu sicuro che potesse essere indiscutibilmente lei. Da quel giorno il produttore continuò la ricerca sulla metafonia registrando centinaia di E.V.P. guadagnandosi l'appellativo di "Padre delle E.V.P.". Juergenson ha scritto due libri sul tema: Voci dall'Universo e Radio: contatto con i morti.

1960. L'opera di Juergenson influenzò lo psicologo lettone Dr. Konstantin Raudive. In un primo momento scettico, Raudive iniziò i suoi esperimenti nel 1967. Anche lui registrò la voce della madre defunta che diceva: "Kostulit, questa è tua madre." Kostulit era come la madre lo chiamava da ragazzo. Raudive registrò migliaia di voci elettroniche fino alla sua scomparsa nel 1974.

1970 e 1980. I coniugi, nonché ricercatori spirituali George e Jeanette Meek, in collaborazione con lo psichico William O'Neil, registrarono E.V.P. raccogliendone un campionario: più di cento ore di materiale. Nell'esperimento usarono oscillazioni radio. Parrebbe che siano stati in grado di catturare conversazioni con lo spirito del Dr. George Jeffries Mueller, un professore universitario nonché scienziato della NASA.

1990 ad oggi. Le E.V.P. continuano ad essere sperimentate da molte persone, da organizzazioni e società di ricerca sui fenomeni paranormali.

venerdì 14 agosto 2015

Santuari à répit. Il rito del «ritorno alla vita» o «doppia morte» nei santuari alpini

Vi segnaliamo questo libro che ci informa su una curiosa usanza medievale per elaborare il lutto degli infanti, evento purtroppo frequente in tempi addietro. Vi lasciamo alla presentazione:

"Un tempo la morte di un bambino era frequente ed elaborata dalla mentalità di allora. Ma il decesso prima del battesimo condannava il piccolo defunto al limbo, spazio dell'Aldilà mai veramente accettato dai fedeli. A queste creature non era concessa neppure la sepoltura in terra consacrata; interrate in luoghi incolti, lungo i fiumi, fra le rocce dei monti, il loro spirito secondo le leggende - vagava in cerca di pace e tornava a tormentare i viventi. Il desiderio di dare ai propri figli la salvezza dell'anima è all'origine del rito e dei santuari del "ritorno alla vita", che gli studiosi francesi hanno chiamato à répit, del respiro, e altri della "doppia morte" o della "morte sospesa". I santuari del ritorno alla vita sono piuttosto rari in Italia, ma le Alpi occidentali ne annoverano diversi, dedicati alla Madonna e ad alcuni santi. Davanti alla santa immagine che "abitava" il luogo, si posava - con infinita speranza - il piccolo morto e - fra preghiere e promesse - si imploravano i celesti protettori perché ottenessero da Dio un "miracolo di tenerezza", che attuasse il rovesciamento della situazione, permettendo al bambino di tornare in vita, soltanto il tempo di un respiro. Breve istante fra morte e morte, sufficiente per entrare nella luce dei beati."


giovedì 13 agosto 2015

Turchia: Un villaggio usa ancora il greco di Giasone

Tratto da "il Giornale" del 4 gennaio 2010


di Redazione

Il greco di Giasone e degli Argonauti sopravvive ancora oggi in un dialetto parlato da poche migliaia di persone in un’isolata comunità nel nord-est della Turchia, in quella che durante l’antica Grecia era la colonia di Pontus. In una scoperta senza precedenti per i linguisti, il dialetto Romeyka, una varietà del greco di Pontus che veniva parlato nella zona migliaia di anni fa, è più simile al greco antico nel suo vocabolario e nella sua struttura di qualsiasi altra lingua parlata oggi. Secondo gli studiosi, potrebbe servire a meglio comprendere l’evoluzione della lingua di Omero dalla sua forma antica a quella odierna. «Il Romeyka conserva un numero sorprendente di caratteristiche grammaticali che danno un sapore greco-antico alla struttura del dialetto», ha dichiarato Ioanna Sitaridou, docente di filologia romanza dell’università di Cambridge. Un’analisi della grammatica Romeyka mostra come il dialetto sia per molti versi simile alla lingua parlata quando l’influenza della Grecia sull’Asia minore era al suo apice, tra il quarto secolo prima di Cristo ed il quarto secolo dopo Cristo. A preservare il dialetto per così tanti tempo è stato il profondo isolamento della comunità che lo parla: stretti in un piccolo gruppo di villaggi nei pressi della cittadina di Trabzon - in un’area che circa 1.000 anni prima di Cristo sarebbe stata per l’appunto visitata dall’equipaggio della nave Argo nel suo mitico viaggio per il recupero del vello d’oro in Colchide - i parlanti Romeyka raramente si sposano al di fuori dei loro clan e ancora oggi suonano uno strumento molto simile alla lira. Il dialetto è tuttavia in pericolo, a causa dell’emigrazione dei giovani e dell’influenza turca. Con soltanto 5mila persone a parlarla, il Romeyka potrebbe diventare una lingua tradizionale, non più una lingua viva. Con la sua scomparsa se ne andrebbe un’opportunità di svelare come la lingua greca si è evoluta.

mercoledì 12 agosto 2015

Le Magie del Simbolo – Dall'Anhk al Tatuaggio

Cosa unisce i misteri dell’antico Egitto alla Gioconda di Leonardo? Cosa hanno in
comune Petrarca con il Giorgione? La città di Dio e Rimbaud? Apparentemente nulla,
eppure il mondo dell’esoterismo e dei simboli sono comuni alle più diverse culture ed
artisti. In queste pagine Michele Leone e Giovanni Zosimo ripercorrono alcune tappe
salienti del rapporto tra esoterismo ed arte, in un susseguirsi di suggestioni e ipotesi
alla stregua di investigatori sulla “scena del crimine”.




Titolo: "Le Magie del Simbolo – Dall'Anhk al Tatuaggio”
Autori: Michele Leone e Giovanni Zosimo
Editore: Mondi Velati Editore
Referente stampa: Marco Frullanti (frullo18@gmail.com)
Genere: Saggio
Temi: Esoterismo, misteri, simbologia
Prezzo: 3.99€ Formato: ebook (epub, mobi)
Lunghezza: 110 pagine

L'autore

Michele Leone (1973), laureato in Lettere e Filosofia presso l’università degli studi di Bari. Dalla fine degli anni ’90 ha indirizzato le sue ricerche prevalentemente nell’ambito delle “scienze tradizionali”, con particolare riferimento alla tradizione ermetica e misterica ed alla massoneria e alle società segrete. E’ responsabile della collana I Ritrovati per Mondi Velati Editore srl. Collabora con alcune testate periodiche e dal 2014 per Delta, Rassegna di Cultura Massonica, della quale è vice direttore di redazione. Partecipa come relatore a conferenze su argomenti vicini al pensiero ermetico e simbolico adatte sia ad un pubblico specialistico che ad un pubblico generico. Tra i suoi principali scopi è la divulgazione del pensiero tradizionale. Così lo definisce Luigi Pruneti: “Michele Leone, valente ricercatore interessato a combattere l’asfissia del panorama culturale italiano odierno.” Tra i suoi lavori ricordiamo:
- Enrico Queto, Cenni importanti sull’origine e scopo della massoneria, a c. di Michele Leone, Mondi Velati Editore, Chivasso 2013.
- Massimo Centini – Michele Leone, Il linguaggio simbolico dell’esoterismo, Mondi Velati Editore, Chivasso 2013, per l’edizione cartacea Tipheret 2014
- Papus, Ciò che deve sapere un maestro massone, a c. di Michele Leone, Mondi Velati Editore, Chivasso 2013, per l’edizione cartacea Tipheret 2014
- Giovanni DE CASTRO, Il Mondo Secreto vol. I, a c. di Michele Leone, Mondi Velati Editore, Chivasso 2014, per l’edizione cartacea Tipheret 2014
- Michele Leone – Giovanni Zosimo, I percorsi del simbolo. Scritti sull’esoterismo dell’arte e della letteratura, Mondi Velati Editore, Chivasso 2014

Pagine di Michele Leone:
- Pagina Facebook Personale https://www.facebook.com/pages/Pensieri-vari-edavariati-appunti-ed-Ebook-di-Michele/193691477470689
- Blog Personale http://micheleleoneblog.blogspot.it/
- Pagina Facebook dedicata a “Le Magie del Simbolo”: https://www.facebook.com/MagieDelSimbolo

lunedì 10 agosto 2015

MARTINISMO E VIA MARTINISTA

Segnaliamo con piacere l'uscita del nuovo libro di Filippo Goti che ha come tema il martinismo, dal titolo “MARTINISMO E VIA MARTINISTA”.



Un breve presentazione fatta dall'autore:

Martinismo e Via Martinista"Martinismo e Via Martinista"In questo libro, di 224 pagine, cercherò di mostrare l'essenza del martinismo, attraverso riflessioni e pensieri dei Maestri Passati, gli scontri docetici, le relazioni con le altre strutture iniziatiche. In modo da comprendere gli elementi caratterizzanti del Nostro Venerabile Ordine, e la sua capacità di rispondere alle esigenze spirituali dell'Uomo del Terzo Millennio.
INDICE:
Introduzione - Cos’è il martinismo - La natura del rapporto iniziatico martinista - Chi ha fondato il martinismo - Il martinismo è ordine cristiano - Martinismo e massoneria - L’archetipo sacerdotale martinista - Le donne iniziatrici - La formula pentagrammatica - Chiesa gnostica e martinismo - L’ermetismo kremmerziano e il martinismo - La questione Eletti Cohen - I colori del martinismo - Eggregore martinista - Conclusioni"

E’ possibile acquistare il libro al seguente indirizzo internet:

http://www.lulu.com/shop/filippo-goti/martinismo-e-via-martinista/paperback/product-22303363.html

sabato 8 agosto 2015

Jung oltre Jung

tratto da L'Opinione del 28 luglio 2015: http://www.opinione.it/cultura/2015/07/28/ricci_cultura-28-07.aspx

di Paolo Ricci

Si intitola “Jung il mistico. Dimensioni esoteriche della vita e degli insegnamenti di Carl G. Jung” il libro di Gary Lachman (Edizioni Mediterranee). Un testo molto interessante che racconta la vita dello studioso narrandola secondo una prospettiva nuova, sconosciuta, fortemente legata agli aspetti esoterici delle riflessioni di Jung.
A differenza di una biografia convenzionale, quella di Lachman affronta in maniera chiara e nei particolari la dimensione meno nota e occulta dell’opera del grande psicanalista, narrando di eventi personali dello studioso che in qualche modo hanno favorito riflessioni profonde, mistiche, esplicitandone i contenuti secondo un’ottica che non può essere fraintesa. La figura di Jung appare anche fragile, conflittuale, ma viene messa in risalto la personalità fortemente creativa che lo fa discostare dalle regole dell’ambiente freudiano e che lo porterà a fondare la sua psicologia analitica, e proprio da qui l’opera dello studioso spazierà poi nei campi inesplorati e spesso negati.
Come scrive Paolo Crimaldi nella prefazione, questa biografia “possiede un valore aggiunto che è quello di far comprendere e portare alla luce la complessità delle idee junghiane - soprattutto di quelle non legate strettamente alla psicoterapia - e il forte conflitto con cui esse furono elaborate (...)”.
Discostandosi in parte da un approccio psicologico, pur sempre tenendone conto, Lachman raccoglie gli aspetti meno noti della vita e delle esperienze di Jung e di come questi fosse interessato a una comprensione psicologica dei processi di trasformazione della personalità che sono alla base, secondo lo studioso, delle pratiche religiose, ermetiche, gnostiche e alchemiche. Jung è sia lo scienziato positivista, sia il cercatore instancabile che si allontana dai dogmi scientifici per addentrarsi nell’alchimia, nell’astrologia. Oltre il corpo e la psiche, ma sempre con lo sguardo verso l’anima dell’essere umano.


giovedì 6 agosto 2015

MOSTRA INFERNO FRESCO NUOVE ILLUSTRATRICI DANTESCHE

Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi di Torino 25 settembre - 31 ottobre 2015

L’ALIGHIERI HORROR

Pablo Echaurren, Mutilati ignavi
(Dante’s Inferno Canto XXVIII), 2004,
tarsia di panni e plastiche imbottite
eseguita da Marta Pederzoli, 113x66 cm.
Courtesy MIAAO.
Nel 2015 ricorre il 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri. Un avvenimento che andava per forza celebrato da un progetto come Il cuNeo gotico, promosso dalla Fondazione CRC con la direzione artistica di Enzo Biffi Gentili, direttore del MIAAO, e dedicato a varie manifestazioni di revival neogotico, dalle architetture ottocentesche in quello stile ad attuali ricerche visive di “sottoculture” goth e dark giovanili. E l’Alighieri va oggi, a giudizio di Biffi Gentili, “illustrato” anche nel contesto di questi nuovi immaginari, sulla scorta di un’opinione originale espressa anni fa da un celebre lettore della Commedia, Vittorio Sermonti: “I giovani capiscono Dante meglio di tanti accademici (…) L’Inferno è più splatter di certi fumetti o videogiochi.” (Roberta Scorranese, Vittorio Sermonti. L’Alighieri? Più splatter di fumetti e videogiochi in “Corriere della Sera”, 30 marzo 2006). Sermonti è stato profeta: quattro anni dopo la sua intervista, nel 2010, esce infatti il noto videogioco Dante's Inferno, sviluppato da Visceral Games per PlayStation 3, Xbox 360 e per PlayStation Portable (e oggi il regista Fede Alvarez, già autore nel 2013 di Evil Dead, remake de La Casa di Sam Raimi, un classico del cinema horror, sta lavorando alla trasposizione cinematografica del videogame Dante’s Inferno…). Per quanto invece riguarda la pittura e l’illustrazione, questa lettura truculenta dell’opera dell’Alighieri era stata prefigurata da una serie di opere dantesche grottesche, quasi tutte inedite, iniziata nel 2004 da un eccentrico maestro come Pablo Echaurren.

Alice Richard aka Pole Ka,
Lucifer (Dante’s Inferno Canto XXXIV), 2014,
grafite e inchiostri di china su carta, 42x29 cm

TRA BEATRICI E FURIE

Nell’ambito dello sviluppo del progetto Il cuNeo gotico è stato quindi affidato a una giovane curatrice, Lorenza Bessone, il compito dell’ordinamento di una mostra di nuove illustrazioni dell’Inferno sulla base degli approcci spregiudicati sopraricordati.
Giorgio Finamore, Le feroci Erine
 (Dante’s Inferno Canto IX)
, 2015, matita su carta,
 editing e pittura digitale, 42x29,5 cm
 La curatrice ha accentuato la curiosità del mandato con la scelta di invitare soprattutto illustratrici -di certo non tutte definibili come Beatrici- per riferire di una particolare fioritura femminile, soprattutto a Torino, in questo campo delle arti del disegno. Tra le invitate vanno ricordate le subalpine, quasi tutte note a livello nazionale, Ilaria Clari, Loredana Fulgori, Cristina Mandelli, Tania Piccolo aka Storm Neverland, Vanessa Rubino, Elisa Scesa Seitzinger, Elisa Talentino; la loro perturbante “cugina transalpina” Alice Richard aka Pole Ka, la toscana Eleonora Guastapaglia aka Helbones, la lombarda Patrizia Beretta, la “deviante” Ire-Ne… Infine Bessone, per simbolica concessione alla politica delle pari opportunità, ha accolto in mostra accanto agli exempla di Echaurren i lavori virili di tre illustratori: Carlo Pastore, che affronta tematiche di genere gay serpeggianti in Dante; Giorgio Finamore, che evidenzia tra le peggiori figure dell’orrore nell’Alighieri le Furie, femminili; infine Marco Corona aka Marcio Cancrena, partito da Cuneo per un trip fantastico, superando passaggi di livello europei.

LA MISTURA DEGLI STILI

Elisa Scesa aka Elisa Ada Seitzinger,
Aracne (Dante’s Inferno Canto XVII,
Purgatorio Canto XII), 2015,
tecnica mista su carta, 42x29,5 cm
A proposito degli esiti di questa dantesca chiamata alle arti, si anticipa una interessante riflessione della curatrice Lorenza Bessone, che appartiene alla stessa generazione di molte tra le disegnatrici invitate, tutte under 40: “nonostante l’approccio oltranzista del brief di progetto, che si riferiva all’ horror-splatter anche per evitare ogni insopportabile visione ‘benigna’ di Dante, molti elaborati sono sorprendenti pure per la sofisticazione nelle scelte di alcuni personaggi e la dissimmetria delle varie referenze culturali, tra pop e top”. A esempio la francesina Pole Ka, a partire da Semiramis lussuriosa compone una suite perturbante, fondata anche su una sua dichiarazione di poetica: L’Enfer est intime, ed è la ricorrente rappresentazione dell’apparato uterino come luogo di destino ferale. Oppure Beatrice è ritratta da Helbones all’età del primo incontro con Dante, a 9 anni, caratterizzata da Big Eyes, evidente citazione di pittura Lowbrow, con però delle stelline di dentro a cinque punte, e un’iscrizione in provenzale che presuppone frequentazioni di filologia romanza…E ancora un’altra subalpina, Elisa Scesa, con una sua araldica Aracne provoca il brivido dell’ibrido, gemmato da accoppiamenti assolutamente non giudiziosi… E così via, con prove tutte, ci si sente persino di azzardare, di nuova Stilmischung, di quella mescolanza di stili sublimi, medi, e umili che secondo un altro grande lettore di Dante, Erich Auerbach, caratterizza anche la Commedia dantesca.

UNA MOSTRA IN DUE TAPPE

La mostra Inferno fresco sarà allestita nella Galleria Sottana del MIAAO Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi di Torino dal 25 settembre al 31 ottobre 2015. Una selezione dei migliori lavori presentati in mostra costituirà una sezione del secondo volume della collana Il cuNeo gotico, intitolato Neogotico tricolore, che sarà edito e presentato a novembre 2015 nel corso della manifestazione scrittorincittà a Cuneo presso lo Spazio incontri Cassa di Risparmio 1855.

SCHEDA DI MOSTRA

Inferno fresco. Nuove illustratrici dantesche
direzione artistica Enzo Biffi Gentili / a cura di Lorenza Bessone
Sede: MIAAO Galleria Sottana. via Maria Vittoria 5. 10123 Torino. Italia
Periodo di svolgimento: dal 25 settembre al 31 ottobre 2015
Orari di apertura: sabato ore 15-19.30, domenica ore 11-19

Inaugurazione venerdì 25 settembre 2015 alle ore 12

INGRESSO LIBERO

Info: T 011 561 11 61 M miaao.museo@gmail.com

mercoledì 5 agosto 2015

Non ci sarà l'apocalisse. Ma i veri anticristo sono dentro la Chiesa

tratto da Il Giornale del 07/07/2015: http://www.ilgiornale.it/news/cultura/non-ci-sar-l-apocalisse-i-veri-anticristo-sono-chiesa-1149086.html

Non bisogna temere una singola entità malvagia. Ma i tanti cattivi maestri

di Camillo Langone

Siamo, siamo stati e saremo sempre circondati da Anticristi, questo ho scoperto leggendo L'Anticristo di Marco Vannini (Mondadori, pagg. 216, euro 20). Vannini è un filosofo che scrive come Emanuele Severino e quindi con stile apodittico, dritto come un treno e senza mai l'ombra di un dubbio.


Per rendere l'idea: definisce Sigmund Freud un bugiardo e Roman Polanski un pedofilo e si può anche essere d'accordo però aggettivi così pesanti andrebbero un minimo motivati. Fra l'altro Polanski sembra parecchio fuori tema ma Vannini ne sa una più dell'Anticristo e i nessi li trova, magari forzando un poco dati e date: il famoso regista nel 1968 girò a New York un film sul satanismo, Rosemary's baby , ed è originario di Cracovia, città dove nel 1898 nacque il movimento artistico-letterario della Giovane Polonia, che predicava adulterio e pansessualismo. Va be'.

A questo punto non vorrei si credesse che sto parlando di una collezione di malignità: trattasi invece di libro storico e teologico, biblicamente fondato, altrimenti non lo avrei letto fino in fondo, note comprese. Ne è valsa la pena perché di cose se ne imparano. Ecco i tre virgolettati cruciali. Primo virgolettato: «L'Anticristo non è l'Avversario nella battaglia finale del Bene contro il Male, non ha niente a che vedere con le fantasie apocalittiche dei tempi ultimi». Secondo virgolettato: «L'Anticristo - anzi, gli Anticristi, al plurale - compaiono solo nelle Lettere di Giovanni, e sono propriamente coloro che, all'interno della comunità cristiana, non confessano l'incarnazione del Verbo, la divinità del Cristo». Terzo virgolettato, il più problematico per un cattolico qual sono: «Gli Anticristi hanno preso il sopravvento all'interno del cristianesimo, negandolo alla radice. Alcuni teologi, vescovi, papi vogliono così riportarci a quella che Porfirio chiamava àlogos pístis , credenza irrazionale. Sono questi, che, pur presentandosi come cristiani, negano la realtà dell'uomo e di Dio come spirito. Questi, propriamente questi, sono gli Anticristi oggi tra noi».

Che l'Anticristo non coincida con la Bestia dell' Apocalisse , col quale spesso e volentieri è stato confuso, prima di Vannini lo pensavano già san Policarpo di Smirne e Sant'Agostino. Lo immaginavano non come una singola personalità, svettante e sommamente malefica (non il solito Nerone, quindi), bensì come l'insieme degli iniqui, la schiera dei negatori del Cristo, disgraziati senza alcun potere prodigioso e senza alcuna prossimità con la fine del mondo. È probabile che il mondo pulluli di Anticristi ma questo non significa che stiano per squillare le trombe dell'Apocalisse. Bisognerebbe tornare al saggio Agostino che smontò le allucinazioni apocalittiche poi purtroppo rimesse in circolo da Gioacchino da Fiore e da altri visionari eretizzanti o proprio protestanti. Con questa razza Vannini è durissimo, scrive che «il libero esame apre la porta a ogni sciocchezza: il protestantesimo lasciò, e lascia tuttora, via libera a tutte le fantasie escatologiche millenaristiche». Fantasie non innocue visto che produssero un tot di guerre di religione e che una volta ateizzate non smisero di far danni, anzi: magari non produssero ma certo alimentarono, ingrossarono, comunismo e nazismo. Il comunismo fu (ed è ancora oggi, anche quando travestito da sinistra moderna) intrinsecamente dualista, manicheo, incapace di apprezzare le mille sfumature della realtà, e ringrazio il filosofo per avermi mostrato i legami fra Lenin e alcuni eretici particolarmente fanatici del Cinquecento tedesco quali Thomas Müntzer e Giovanni di Leida.

Fin qui tutto bene, ma il terzo virgolettato antipapista? Qui Vannini cerca di scaricare la responsabilità delle sue affermazioni su Sebastian Franck, un mistico del passato remoto usato per giudicare il passato prossimo: «Franck non avrebbe avuto esitazione nel considerare Anticristo il cosiddetto “papa buono”, Giovanni XXIII, che pensò di convocare un concilio per aggiornare l'insegnamento della Chiesa come se il Vangelo avesse bisogno di adeguarsi ai tempi». E il presente: «Frank non avrebbe dubbi sul fatto che anche oggi la Chiesa, anzi, le Chiese, siano abitate più che mai dagli Anticristi, dal momento che prevalgono in esse il dialogo e la conciliazione col mondo, la ricerca dell'accordo col mondo». Sapendo, stavolta direttamente da Cristo, chi è il principe di questo mondo, ognuno tragga le sue conclusioni: io ho pensato a tutti quei cardinali, Kasper, Marx, eccetera, a tutti quei vescovi, Galantino, Mogavero, eccetera, visibilmente bramosi di benedire il peccato, di chiamare bene il male.


giovedì 30 luglio 2015

Del Pellicano

tratto dal sito http://www.centrostudilaruna.it

".. il nostro pellicano" (Dante, Paradiso, XXV, 113)

"Pie Pelicane, Jesu Domine" (Antico canto sacro citato da H. Biedermann)


La Simbologia.
Sembra che l'uccello bianco d'Egitto con questo nome, dal caratteristico lungo becco, nutrendo attraverso un'apertura del collo i suoi piccoli, abbia dato luogo alla leggenda del sacrificio delle proprie carni per la vita dei figli fino a divenire "emblema di carità" (O. Wirth) ovvero di devozione parentale fino al sacrificio. Più realisticamente, l'incurvare del becco verso il petto per cibare i piccoli con pesci trasportati nella sacca indusse a credere che addirittura l'animale si squarciasse il petto per dare loro nutrimento col proprio sangue. L'analogia di forme e affilatura del becco e scure, l'assonanza con le parole greche e sanscrite con il significato di ascia (pelekus e paraçu rispettivamente), segno simbolico del sacrificio di sangue, potrebbe far risalire l'origine della leggenda a tempi antichissimi. Il reperimento di sue rappresentazioni in epoche assai diverse, dalla scultura messicana in pietra vulcanica del 600-1000 d.C. ai numerosi riscontri europei non solo medievali, dimostra la sua rilevanza simbolica.

Dal Bestiarum Christianum.
Il pellicano compare solo una volta nell'Antico Testamento (Salmi, 102.7) e non viene mai nominato nei Vangeli. Troppo poco forse per meritare la citazione nel Dizionario delle immagini e dei simboli biblici delle Edizioni Paoline, che non ne riporta alcun cenno. Si deve soprattutto al Physiologus (II-IV secolo?) - il pellicano è al n°4 del suo inventario - la diffusione della leggenda, in termini alquanto più complessi; narrando della resurrezione dei piccoli (dopo tre giorni) ad opera della madre, che li ha uccisi, vi è l'adattamento diretto alla simbologia di Cristo "che è salito alle altezze della Croce e dal suo fianco aperto sono sgorgati il sangue e l'acqua per la salvezza e la vita eterna". Oltre a Dante, anche S.Tommaso d'Aquino ("il pio pellicano") usa l'allegoria. Ulteriori riscontri si reperiscono in Michael Glychas e in vari "bestiari" medievali, fino alle ultime rivisitazioni del XVIII secolo (cfr stampa a colori dell'epoca pag, 155, L'Arte dorata, A. de Pascalis). Echi dell'antica credenza si possono ancora trovare in alcuni adornamenti dell'arte religiosa cristiana nei luoghi più vari, come, ad esempio, in un rilievo del Duomo di Münster (1235) e, più vicino a noi, in una statua sul frontone della Chiesa della Maddalena in Castelnuovo Magra. Un'incisione - suggestiva nella sua essenzialità - su un elemento lapideo del cornicione dell'abside della Chiesa di S. Felicita, in località Prelerna nel Comune di Solignano (PR) riproduce con chiarezza il pellicano nell'atteggiamento più classico del becco contro il petto. Probabilmente la pietra è stata riutilizzata dai resti di un antico convento di Gesuati e, quindi, può farsi risalire circa al 1400. Anche opere di arredo sacro contemporanee a carattere artigianale rappresentano il pellicano (Chiesa di Valletti nel Comune di Varese Ligure). Un'estensione ermetica della leggenda, attraverso la simbologia della materia humida, che scompare con il calore solare per rinascere d'inverno, ricollega il pellicano al sacrificio di Cristo ed alla sua resurrezione, ma anche a quella di Lazzaro, tanto da accoppiare talora l'immagine del pellicano con quella della fenice. Ciò avviene anche per i Moderni. E. Minguzzi (Alchimia, il cammino della potenza) illustra il mito della Fenice con con la stessa immagine rosicruciana del pellicano impiegata per ben due volte nello stesso testo da O. Wirth (Il simbolismo ermetico) per commentare il significato del pellicano. Ma i molti figli possono essere scambiati per fiamme... Peraltro nella Sapientia veterum philosophorum sive doctrina eorundem de summa et universali medicina del XVIII secolo pellicano e fenice compaiono rispettivamente nella figura XXVII e XXVIII per rappresentare exaltatio essentiae e essentia exaltata. Analoga contiguità e consequenzialità si notano fra il pellicano e la fenice, rispettivamente immagini n° 46 e 47 nella decima delle diciassette figure attribuite a J. C. Barchusen (databili tra il 1615 e il 1635) e nella tavola "Basilicae Philosophicae" della "Cosmologia alchemico-rosacruciana sulla visione dell'unità", Museum Hermeticum, Frankfurt a.M., 1677. Come dice il Fisiologo, dal fianco aperto del Cristo sono sgorgati il sangue e l'acqua per la salvezza eterna. Tale analogia tra piaga del Crocefisso e petto squarciato del pellicano sono stati ripresi anche da Silesius. Si riscontrano echi anche al di fuori della simbologia religiosa. In letteratura, il mito viene ripreso dal Pulci mentre a Palazzo Ducale di Venezia gli intarsi del capitello della penultima colonna verso il ponte della Paglia rappresentano pellicani. Di tutto ciò ben poco permano in quella che oggi chiamano coscienza collettiva.

Dal Bestiarium Alchemicum
Il Bestiario Alchemico offre numerosi riferimenti al pellicano, alcuni dianzi citati, sia per indicare gli strumenti dell'Arte sia per la simbologia delle fasi dell'Opera, sia, ancora, per quella elementale. Nei simboli alchimici (P. Bornia, La Porta magica di Roma), il Pellicano indica il matraccio, con il caratteristico piede di collegamento alla testa della cucurbita e con il capitello che rientrava con un tubo a becco nella parte inferiore dell'apparecchio (pallone). Il tubo poteva essere raddoppiato, modificando lo strumento in due palloni comunicanti per ottenere la "circolatio" doppia. Il Pellicano, o Pelicano, serviva dunque nella coobazione di un liquido. Una precisa definizione si trova anche in Alchimia Spirituale di R. Ambelain, ove, per la sua funzione, viene anche chiamato "circolatorio". Trattasi tuttavia di strumento non comune, certo non impiegato dai soffiatori. Infatti non è rintracciabile nelle immagini pervenuteci dei laboratori alchimisici, quali il disegno di Bruegel il vecchio (1558) e di H. Weiditz (1520), la tela di H. Heerschop (1687), il dipinto di J. Van Der Straet detto Stradanio (1570) nè nelle tavole illustranti la strumentazione chimica antiquaria, nè nella farmacia spagiria (Castel S. Angelo, 1600). Il Wirth spiega il simbolo del pellicano come emblema di generosità assoluta "in mancanza della quale, nell'iniziazione, tutto resterebbe irrimediabilmente vano". Per altri sarebbe un'immagine delle pietra filosofale che si dissolve per far nascere l'oro dal piombo allo stato fluido, cui corrisponde l'aspirazione non egoistica (il pellicano divora il pesce strettamente necessario alla vita). Con ciò sono da riconnettere, forse, antichi gradi di società iniziatiche come il cavaliere di pellicano (cfr. H. Biedermann, Enciclopedia dei Simboli), e la sua effige nel Capitolo dei Rosacroce (L. Troisi, Dizionario dell'esoterismo e delle religioni). Il pellicano compare tra altri simboli nella sintesi dell'Opera illustrata dalla f.92 del Rosarium philosophorum di Arnaldo da Villanova. I Saggi preferiranno meditare sulla figura 6 di J. D. Mylius (Philosophia reformata, Francoforte, 1622), ove un pellicano con i figli è prossimo a un pozzo in cui stanno immergendosi (o da cui stanno fuoriuscendo?) bizzarre figure solari; nello sfondo centri edificati. Esse richiamano al Filosofo il terzo sonetto di Frate Elia (Biblioteca nazionale, manoscritto Magliabechiano, II-III-308 a carte 39) "...in humidum ponite ut unidetur optime". In effetti il pellicano simboleggia anche il Mercurio dei Filosofi, "il solfo precipitato, ovvero il principio dello stato liquido della materia" (G. Testi), ovvero "l'acqua segreta". Osservazioni conclusive Un panorama vasto di iconografia e di arte, cronologicamente estesa su vari secoli, si richiama all'immagine del pellicano, con simbologie dai molteplici significati. Uno sguardo più attento sulle vestigia d'arte, non solo sacra, potrebbe far riscoprire al Saggio qualche altro pellicano, rimasto inosservato, strumento di Tradizione.

A.B.
Da Algiza 6

mercoledì 22 luglio 2015

LA MELENCOLIA 1 DI DURER

(ossia lo specchio delle disillusioni dell’uomo)

di Marcello Vicchio



Albrecht Dürer - Melencolia I - Google Art Project ( AGDdr3EHmNGyA).jpg
immagine presa da Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Melencolia_I#/media/File:Albrecht_D%C3%BCrer_-_Melencolia_I_-_Google_Art_Project_%28_AGDdr3EHmNGyA%29.jpg)

Albrecht Durer è senza dubbio il più grande pittore tedesco e uno dei principali protagonisti del Rinascimento, sia dal punto di vista artistico che culturale. La sua figura si staglia gigantesca nel panorama dei movimenti intellettuali dei primi decenni del Cinquecento, epoca foriera di profondi rinnovamenti sociali e inquietudini morali e religiose.

Durer è stato il primo a rivoluzionare il ruolo dell’artista: non più un artigiano dotato di particolare abilità ma privo di identità e peso sociale, ma un uomo immerso nei problemi del suo tempo, intellettualmente all’avanguardia, punto di riferimento culturale e morale per i suoi concittadini.

Le monografie dicono che della sua vita si conosce quasi tutto per via della fitta corrispondenza da lui tenuta, dei suoi diari e dei suoi appunti, tuttavia è proprio quel "quasi" a stimolare la nostra curiosità ed è una delle sue incisioni più celebri ad alimentarla ulteriormente : la Melencolia 1. Comprendere bene l’ambito storico nel quale è nata l’enigmatica incisione di Durer contribuisce, probabilmente, a renderla un po’ meno misteriosa e avvicinarla ancor di più alla nostra sensibilità, sottolineando da un lato come alcune opere siano davvero universali e sempre attuali, perché universali e sempre uguali a se stesse sono le azioni dell’uomo, e dall’altro suscitandoci a volte il dubbio che il lavoro di perfezionamento esoterico ( e dunque massonico) sia una specie di chimera sfuggente o un supplizio di Tantalo, perseguito tutta la vita ma che tramonta inevitabilmente quando questa tramonta, lasciando agli altri il carico di un nuovo, forse inutile ciclo.

Il capolavoro è stato realizzato nel 1514, in un momento storico e personale particolarissimo. La madre di Durer era appena morta, gettando il pittore nello sconforto, mentre già numerose nubi si profilavano all’orizzonte. La peste mieteva vittime in tutta Europa, tanto che l’artista era stato costretto a lasciare Norimberga qualche tempo prima. Mancavano meno di tre anni all’inizio della rivoluzione protestante e ovunque serpeggiavano i malumori e le tensioni che avrebbero precipitato gli stati in lotte sanguinosissime. Solo poco tempo prima, nel 1499, Stoeffler e Pfaum avevano pubblicato un Almanacco nel quale i due matematici e astrologi facevano una previsione terrificante: la straordinaria congiunzione di Saturno, Giove e Marte nel segno dei Pesci, avrebbe provocato un raffreddamento generale dell’atmosfera, piogge eccezionali e un nuovo diluvio a flagello del mondo. Il mondo conosciuto, d’altra parte, era improvvisamente diventato molto più vasto a causa dei navigatori che avevano aperto rotte verso paesi fino allora sconosciuti, aprendo orizzonti prima inimmaginabili. Il vecchio mondo cambiava e uno nuovo stava per subentrare e sostituirsi ad esso, anche se pochi se ne rendevano ancora conto. Tra questi pochi vi era Albrecht Durer, spirito acuto e sensibilissimo.

Probabilmente in questo momento a qualcuno saranno venuti in mente paralleli tra la nostra epoca e l’alba di quel 1500: la vecchia Terra non basta più, i nuovi confini sono quelli dello spazio, la minaccia atomica e le guerre batteriologiche, odierni diluvi universali, sono eventi più che mai possibili e i fondamentalismi religiosi si radicano sempre più profondamente nell’animo degli uomini. La religione della ragione non soddisfa più e, d’altra parte, l’irrazionalità porta come dote lo scatenamento delle passioni e la follia.

L’angelo della Melencolia, lo sguardo perso nel vuoto e gli arnesi di mestiere abbandonati ai suoi piedi, ritrae meglio di mille parole la doppia disillusione dell’umanità che aveva e ha lasciato da parte l’Arte. Nell’incisione i lutti e le tragedie sono simboleggiate dalla cometa che si scorge nello sfondo ed è rivolta verso la città che si specchia nel mare. Saturno, oltre che dal carattere melanconico che dà il nome all’opera e che è assimilato astrologicamente col segno di questo pianeta, è riprodotto dalla clessidra che si vede dietro l’angelo e Giove dal quadrato magico appeso al muro. Il quadrato magico di 4, con i numeri da 1 a 16, è infatti il quadrato che corrisponde a Giove. E’ probabile che Durer abbia scelto questi simboli ispirandosi all’Almanacco. La scala appoggiata all’edificio ricorda la scala di Giacobbe, ma l’asse tra uomo e cielo sembra giacere abbandonato, la bilancia penzola inutilizzata e perfino Cupido è ripiegato, pensoso, su se stesso. La parte sinistra dell’incisione è molto suggestiva per la presenza di alcuni simboli messi fortemente in risalto: la curiosissima pietra lavorata, il fornello che brucia dietro di essa, il cane addormentato e la sfera. Soffermiamoci brevemente su di essi, dando solo qualche piccolo spunto di riflessione e lasciando all’intelligenza di ognuno l’ulteriore indagine simbologica.

La pietra lavorata attira immediatamente la nostra attenzione, sia per le dimensioni veramente imponenti che per la forma particolarissima. Si tratta di un octaedro composto da sei pentagoni irregolari e due triangoli equilateri. I significati del triangolo e del pentagono sono ben conosciuti ( il primo è la figura elementare della geometria, alla quale ogni altra figura può essere ricondotta; il pentagono è in rapporto con Pentalfa), ma qui voglio far notare che i pentagoni hanno ciascuno tre angoli retti e due angoli di 135° e dunque : 3x90 = 270 e 135x2 = 270. La riduzione teosofica dà in ogni caso 9, simbolo di rigenerazione e immortalità. Altri rapporti numerici sono possibili, ma già questo mi sembra sufficiente a dimostrare, assieme agli altri simboli, che Durer non era a digiuno di nozioni esoteriche, ma anzi faceva parte a pieno titolo dell’ inesauribile fiume di pensiero che ha la sua sorgente nella filosofia perenne . E, se è vero com’è vero che il fornello è l’atanor dell’alchimista e che l’umor nero rappresentato nella Melencolia è la prima fase del processo alchemico che conduce alla Pietra Filosofale, è del pari vero che questa Pietra è null’altro che la riscoperta dell’immortalità dell’anima umana e della conoscenza.

Il cane addormentato riporta immediatamente alla nostra memoria un altro famosissimo "cane" riformatore dell’umanità: il Veltro di Dante Alighieri. Di passaggio, e senza addentrarmi in un campo che esula da questo studio, faccio notare un particolare molto curioso: un anagramma di Veltro è… Lutero! Ma come e perché lo stato melanconico dovrebbe elevarci alla contemplazione dell’anima e alla riconquista di quell’Uno messo così bene in evidenza dalla sfera ai piedi dell’octaedro? Durer certamente non si discostava dal concetto,caro agli antichi, della conoscenza come facoltà dell’anima. L’anima, prima di incarnarsi nel corpo, conosceva e ricordava tutte le cose. Con il suo precipitare nel corpo queste facoltà si sono oscurate e il processo della riconquista della conoscenza è legato, dunque, alla memoria più che ad ogni altra cosa. Secondo la teoria degli umori, in auge da Aristotele in poi, dei quattro tipi fondamentali di caratteri quello malinconico secco-caldo (ossia di malinconia intellettuale, ispirata), è il temperamento più adatto alla reminiscenza, cioè alla conoscenza. Sull’arte della memoria esiste un ottimo trattato di F. Yates ( L’arte della memoria, Ed. Einaudi) che illustra dettagliatamente quali fossero le tecniche mnemoniche e i risvolti di tale arte nella filosofia antica, rinascimentale e moderna, ma qui mi preme sottolineare come i rapporti tra ermetismo, arte, filosofia, alchimia e religione siano spesso più stretti di quello che non appare a prima vista e riaffiorino, a volte, là dove meno ci si aspetti di trovarli.

Alberto Magno, maestro di san Tommaso d’Aquino, nel suo trattato De memoria et reminiscentia , pone, come già Aristotele, una differenza tra memoria e reminiscenza. La prima, sebbene più legata alle sensazioni, è sempre connaturata alla parte sensitiva dell’anima, mentre la seconda è nella parte intellettiva di questa, sebbene conservi ancora tracce delle forme corporee. Il processo di conoscenza, allora, esige che si oltrepassino le facoltà sensitive e si arrivi al dominio più puro dell’intelletto. Ma Alberto Magno, ed ecco dove il legame al quale facevamo riferimento si manifesta, scrive anche : "… coloro che desiderano rievocare [ da reminisci, ossia fare qualcosa di più spirituale e intellettuale del semplice ricordare] si ritraggono dalla pubblica luce in un’oscura intimità: poiché nella pubblica luce le immagini delle cose sensibili sono sparpagliate e il loro movimento è confuso. Nell’oscurità, invece, sono compatte e si muovono con ordine ". E’, questa, una descrizione dal sapore pre-romantico che si adatta perfettamente allo spirito e al messaggio della Melencolia I ma anche all’Arte alchemica e a quelle filosofie le quali, sebbene non disprezzino i valori dell’esperienza, delle sensazioni e della scienza, dovrebbero infine trascenderli e trasformarli in vera consapevolezza del sapere, e del potere del sapere, a beneficio dell’umanità. L’inquietudine che mosse Durer all’alba del 1500 è la medesima che affligge l’uomo moderno, ma i risvolti esistenziali, oggi più di allora, sono amplificati, stritolati e consumati dall’indifferenza e dalla fretta di dimenticare per passare ad altro, né si vede all’orizzonte un ritorno di ideologie che pure possano dare sapore alla vita. Si ha la sensazione che non resti altro che ripiegarsi su se stessi e ritornare al passato.

Il problema, per quel che riguarda gli Ordini Iniziatici, è capire ora se questi siano solo un ritorno al passato, un orpello, un retaggio culturale bloccato nell’anodino binomio segreto iniziatico –vita civile ( quella che al tempo di Alberto Magno veniva chiamata vita contemplativa e vita attiva), oppure filosofie in grado di offrire qualcosa di sempre nuovo ed efficace. Per intenderci, all’epoca delle monarchie europee un Ordine come la massoneria predicava libertà, uguaglianza , fratellanza e il suo messaggio era rivoluzionario. Oggi che questi concetti sembrano essere accettati, perlomeno in Occidente, lo stesso Ordine, e anche altri, hanno solo il ruolo di memoria storica e di guardiani dottrinali, abdicando al compito di avanguardia ideologica (come sembra stia accadendo), oppure sono in grado di riproporre nuovi modelli di società?

Dove poserebbe oggi lo sguardo la figura alata di Durer?