venerdì 28 agosto 2015

ESAME DEI VERSI D’ORO DI PITAGORA*

In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito:

https://letteraespirito.wordpress.com/esame-dei-versi-doro-di-pitagora/

Antoine Fabre d’Olivet


(12) E quanto ai mali che comporta il Destino
Giudicali per quel che sono; sopportali; e cerca,
Per quanto lo potrai, di mitigarne i tratti.
Gli dei non hanno abbandonato i saggi ai più crudeli.

Ho detto che Pitagora ammetteva due agenti delle azioni umane, la potenza della Volontà e la necessità del Destino, e che li sottometteva l’uno e l’altro a una legge fondamentale chiamata la Provvidenza, dalla quale emanavano ugualmente. Il primo di questi agenti era libero, e il secondo costretto: di modo che l’uomo si trovava posto entro due nature opposte, ma non contrarie, indifferentemente buone o malvage, secondo l’uso che sapeva farne. La potenza della volontà s’esercitava sulle cose da fare o sull’avvenire; la necessità del destino, sulle cose fatte o sul passato: e l’una alimentava senza posa l’altra, lavorando sui materiale che si forniscono reciprocamente: giacché, secondo quest’ammirabile filosofo, è dal passato che nasce l’avvenire, dall’avvenire che si forma il passato, e dalla riunione dell’uno e dell’altro che si genera il presente sempre esistente, dal quale traggono ugualmente la loro origine: idea molto profonda, che gli stoici avevano adottata [1]. Così, secondo questa dottrina, la libertà regna nell’avvenire, la necessità nel passato, e la provvidenza sul presente. Niente di quel che esiste capita per caso, ma per l’unione della legge fondamentale e provvidenziale con la volontà umana che la segue o la trasgredisce, operando sulla necessità [2]. L’accordo della volontà e della provvidenza costituisce il Bene; il Male nasce dalla loro opposizione. L’uomo ha ricevuto, per condursi nel cammino che deve percorrere sulla terra, tre forze appropriate a ciascuna delle tre modificazioni del suo essere, e tutte tre concatenate alla sua volontà. La prima, legata al corpo, è l’istinto; la seconda, dedicata all’anima, è la virtù; la terza, appartenente all’intelligenza, è la scienza o la saggezza. Queste tre forze, indifferenti in se stesse, non prendono questo nome che per il buon uso che ne fa la volontà; giacché, nel cattivo uso, esse degenerano in abbruttimento, in vizio e in ignoranza. L’istinto percepisce il bene o il male fisico risultante dalla sensazione; la virtù conosce il bene e il male morali esistenti nel sentimento; la scienza giudica il bene o il male intelligibili che nascono dall’assentimento. Nella sensazione, il bene e il male si chiamano piacere o dolore; nel sentimento, amore o odio; nell’assentimento, verità o errore. La sensazione, il sentimento e l’assentimento, risiedendo nel corpo, nell’anima e nello spirito, formano un ternario che, sviluppandosi a favore di un’unità relativa, costituisce il quaternario umano, o l’Uomo considerato astrattamente. Le tre affezioni che compongono questo ternario agiscono e reagiscono le une sulle altre, e s’illuminano o s’oscurano mutualmente; e l’unità che le lega, vale a dire l’Uomo, si perfeziona o si deprava, a seconda che tenda a confondersi con l’Unità universale, o a distinguersene. Il mezzo che essa ha di confondervisi, di distinguersene, d’avvicinarvisi o di allontanarvisi, risiede tutta intera nella sua volontà, che, per l’uso che fa degli strumenti che le fornisce il corpo, l’anima e lo spirito, tende a divenire istintiva o s’abbruttisce, si rende virtuosa o viziosa, saggia o ignorante, e si mette nella condizione di percepire con maggior o minor energia, di conoscere e di giudicare con maggior o minor rettitudine quel che v’è di buono, di bello e di giusto nella sensazione, nel sentimento o nell’assentimento; di distinguere con maggior o minor forza e luminosità il bene e il male; e infine di non sbagliarsi affatto in quel che è realmente piacere o dolore, amore o odio, verità o errore.
Si coglie chiaramente che la dottrina metafisica che ho appena esposto brevemente, non si trova da nessuna parte così nettamente espressa, e così che non posso appoggiarla ad alcuna autorità diretta. Non è che partendo dai principi posti nei Versi d’Oro, e meditando lungamente su quel che è stato scritto di Pitagora, che se ne può concepire l’insieme. Essendo stati i discepoli di questo filosofo estremamente discreti, e sovente oscuri, non si può apprezzare bene le opinioni del loro maestro che chiarendole con quelle dei platonici e degli stoici, che le hanno adottate e diffuse senza tante riserve [3].
L’Uomo, quale vengo dal descrivere, secondo l’idea che Pitagora ne aveva concepito, posto sotto il dominio della Provvidenza, tra il passato e l’avvenire, dotato di una libera volontà per sua essenza, e volgendosi alla virtù o al vizio con proprio movimento, l’Uomo, dicevo, deve conoscere la fonte delle disgrazie che prova necessariamente; e lungi dall’accusarne questa stessa Provvidenza che dispensa i beni e i mali a ciascuno secondo il suo merito e le sue azioni anteriori, deve prendersela solo con se stesso se soffre, come conseguenza inevitabile dei suoi sbagli passati [4]. Giacché Pitagora ammetteva più esistenze successive [5], e sosteneva che il presente che ci colpisce, e l’avvenire che ci minaccia, non sono che l’espressione del passato che è stato opera nostra nei tempi anteriori. Diceva che la maggior parte degli uomini perdono, ritornando alla vita, il ricordo di queste esistenze passate; ma che, riferito a lui, doveva a un particolare favore degli Dei il conservarne la memoria [6]. Così, secondo la sua dottrina, questa Necessità fatale di cui l’uomo non cessa di lamentarsi, è lui stesso che l’ha creata con l’impiego della sua volontà; egli percorre, nella misura in cui avanza nel tempo, la ruota che lui stesso si è già tracciato; e, a seconda che la modifichi in bene o in male, che vi semini, per così dire, le sue virtù o i suoi vizi, la ritroverà più dolce o più faticosa, quando sarà venuto il tempo di ripercorrerla.
Ecco i dogmi a mezzo dei quali Pitagora stabiliva la necessità del Destino, senza nuocere alla potenza della Volontà, e lasciava alla Provvidenza il suo impero universale, senz’essere obbligato, o di attribuirle l’origine del male, come coloro che non ammettono che un principio delle cose, o di dare al Male un’esistenza assoluta, come coloro che ammettono due principi. In questo egli era d’accordo con la dottrina antica, seguita dagli oracoli degli Dei [7]. I pitagorici, del resto, non consideravano i dolori, vale a dire, tutto ciò che affligge il corpo nella sua vita mortale, come dei mali veri; non chiamavano veri mali che i peccati, i vizi, gli errori, nei quali si cade volontariamente. Secondo loro, i mali fisici e inevitabili essendo illustrati dalla presenza della virtù, potevano trasformarsi in beni, e divenire brillanti e degni di desiderio [8]. Sono questi ultimi mali, dipendenti dalla necessità, che Liside raccomandava di giudicare per quel che sono; vale a dire, di considerare come una conseguenza inevitabile di qualche sbaglio, come il castigo o il rimedio di qualche vizio; e conseguentemente di sopportarli, e, lungi dall’inasprirli ancora con l’impazienza e la collera, al contrario addolcirli, con la rassegnazione e l’acquiescenza della volontà al giudizio della Provvidenza. Non vietava affatto, come si vede nei versi citati, di alleviarli con mezzi leciti; al contrario voleva che il saggio si sforzasse di evitarli, se poteva, e di guarirli. Così questo filosofo non cadeva affatto nell’eccesso che s’è giustamente rimproverato agli stoici [9]. Giudicava il dolore cattivo, non perché fosse della stessa natura del vizio, ma perché la sua natura purgativa del vizio lo rendeva una conseguenza necessaria di questo. Platone adottò quest’idea, e ne evidenziò tutte le conseguenze con la sua abituale eloquenza [10].
Quanto a quel che dice Liside, sempre secondo Pitagora, che il saggio non era affatto esposto ai mali più crudeli, ciò si può intendere, come l’ha inteso Hierocles, in una maniera semplice e naturale, o in una maniera più misteriosa che dirò. Innanzi tutto è evidente, secondo le conseguenze dei principi che sono stati esposti, che, in effetti, il saggio non è affatto abbandonato ai mali più duri, poiché non inasprendo affatto con i suoi comportamenti quelli che la necessità del destino gli infligge, e sopportandoli con rassegnazione, egli li addolcisce; vivendo felice, anche in mezzo alla sfortuna, nella ferma speranza che questi mali non turberanno più i suoi giorni, e certo che i beni divini che sono riservati alla virtù, l’attendono in un’altra vita [11]. Hierocles, dopo aver esposto questa prima maniera di spiegare il verso di cui si tratta, tocca leggermente la seconda, dicendo che la Volontà dell’uomo può influire sulla Provvidenza, quando, agendo in un’anima forte, essa è assistita dal soccorso del Cielo e opera con lui [12]. Questa era una parte della dottrina insegnata nei misteri, e di cui si vietava la divulgazione ai profani. Secondo questa dottrina, di cui si possono riconoscere delle tracce abbastanza forti in Platone [13], la Volontà “rafforzata” [14] dalla fede, poteva soggiogare la stessa Necessità, comandare alla Natura, e operare dei miracoli. Essa era il principio sul quale riposava la magia dei discepoli di Zoroastro [15]. Gesù, dicendo in parabole, che a mezzo della fede si potevano scuotere le montagne [16], non faceva che seguire la tradizione teosofica, conosciuta da tutti i saggi. «La rettitudine del cuore e la fede trionfano su tutti gli ostacoli, diceva Confucio [17]; ogni uomo può rendersi uguale ai saggi e agli eroi di cui le nazioni onorano la memoria, diceva Mencio; non è mai il potere che manca, è la volontà; ammesso lo si voglia, si riesce [18]». Queste idee dei teosofi cinesi si ritrovano negli scritti degli Indiani [19], e anche in quelli di alcuni Europei che, come ho già fatto osservare, non avevano affatto abbastanza erudizione per essere degli imitatori. «Più la volontà è grande, dice Bœhme, più l’essere è grande, più è potentemente ispirato [20]». «La volontà e la libertà sono una stessa cosa[21]». «È la fonte della luce, la magia che di niente fa qualcosa [22]», «La volontà che va risolutamente avanti, è la fede; essa modella la propria forma in spirito, e si sottomette tutte le cose; con essa, un’anima riceve il potere d’influenzare un’altra anima, e di penetrarla nelle sue essenze più recondite. Quand’essa agisce con Dio, può rovesciare le montagne, frantumare le rocce, confondere i complotti degli empi, soffiare su di loro il disordine e lo spavento; può operare tutti i prodigi, comandare ai cieli, al mare, incatenare la stessa morte; tutto le è sottomesso. Non si può menzionare niente che essa non possa comandare nel nome dell’Eterno. L’anima che esegue queste grandi cose, non fa che imitare i profeti e i santi, Mosè, Gesù e gli apostoli. Tutti gli eletti hanno una potenza simile. Il male scompare davanti a loro. Niente potrebbe nuocere a colui in cui Dio dimora [23]».
È partendo da questa dottrina, insegnata, come ho detto, nei misteri, che alcuni gnostici della scuola d’Alessandria pretesero che i mali non cogliessero mai i saggi veri, ammesso di trovare degli uomini che in effetti lo fossero; giacché la Provvidenza, immagine della giustizia divina, non permetterebbe mai che l’innocente soffrisse e fosse punito. Basilide che era uno di coloro che sostennero quest’opinione platonica [24], ne fu vivamente rimproverato dai cristiani ortodossi, che lo trattarono da eretico, portandogli l’esempio dei martiri. Basilide rispose che i martiri non sono affatto interamente innocenti, poiché non vi è nessun uomo esente da colpe; che Dio punisce in loro, o dei desideri malvagi, dei peccati attuali e segreti, o dei peccati che l’anima aveva commesso in un’esistenza anteriore: e siccome non si mancava di opporgli ancora l’esempio di Gesù, che, quantunque pieno d’innocenza, aveva tuttavia sofferto il supplizio della croce, Basilide rispondeva senza tentennare che Dio era stato giusto nei suoi confronti, e che Gesù, essendo uomo, non era più di un altro esente da macchie [25].

* Estratto da A. Fabre d’Olivet, Les Vers dorés de Pythagore, expliqués. Paris, Treuttel e Würtz, 1813.

1. Seneca, De Senectute, L, VI, cap. 2.

2. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.

3. Giamblico, De vita Pythagorica. Porfirio, De abstinentia; Vita Pythagoræ. Fozio, Codice 259. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm. Filostrato, in Vita Apollonii. Plutarco, De Placita philosophorum; De Animæ procreatione. Apuleio, Florida. Macrobio, Saturnalia; Somnius Scipionis. Clemente di Alessandria, Stromata.

4. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 14. Fozio, Codice 242 e 214.

5. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII.

6. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII, §. 4.

7. Massimo di Tiro aveva fatto una dissertazione sull’origine del Male, nella quale pretendeva che gli oracoli fatidici consultati a questo proposito, rispondessero con questi due versi d’Omero:
Noi accusiamo gli Dei dei nostri mali; e, noi stessi,
Con i nostri propri errori, li produciamo tutti.

8. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.

9. Plutarco, De Stoicorum repugnantiis.

10. Platone, in Gorgia e Filebo.

11. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.

12. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18, 49 e 62.

13. Platone, Fedone; Ipparco; Teeteto, La Repubblica, L. IV, ecc.

14. Il termine utilizzato da Fabre d’Olivet, “évertuée”, richiama l’idea di “dotare di virtù”.

15. Thomas Hyde, Historia religionis veterum Persarum, p. 298.

16. Matteo, XVII, v. 19.

17. Vie de Kong-Tzée (Confucius), p. 324, in Mémoires concernant l’histoire, les sciences, les arts, les mœurs, les usages, &c. des Chinois, Paris, vol. I, 1776.

18. Meng-Tzée, citato da Jean-Baptiste Du Halde, Description de l’empire de la Chine, tomo II, Parigi, 1735..

19. Bhagavat-Gita, lett. II.

20. Jakob Böhme, Quaranta Questioni sull’origine, l’essenza, l’essere, la natura e le proprietà dell’Anima (Viertzig Fragen von der Seelen Orstand, Essentz, Wesen, Natur und Eigenschafft, ecc. Amsterdam, 1682), quest. I.

21. Ibid.

22. Jakob Böhme, Nove Testi, test. 1 e 2.

23. Jakob Böhme, Quaranta Questioni, quest. 6.

24. Platone, in Teage.

25. Clemente di Alessandria, Stromata, L. IV, p. 506. Isaac de Beausobre, Histoire critique de Manichée et du Manichéisme, t. II, p. 28.

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