di Giorgio Borroni
L’Uomo Selvatico ha fatto la sua comparsa sin dalle culture più arcaiche, rivestendo con più o meno sfaccettature il ruolo dell’opposto, del contrario, che si ribella ad un sistema di regole che gli uomini di una determinata comunità si sono dati al fine di sceglierne uno più vicino all’animalità e alla natura; lo stesso aggettivo “selvaggio” o “ selvatico” identifica qualcosa di non addomesticato, incontrollabile e violento, (se riferito ai luoghi) impervio e inaccessibile, rozzo, che non ha a che fare con la civiltà urbana, contrapposto alle regole e soprattutto privo di controllo e di ragione.
Hayden White, in The forms of wildness ha fatto un’interessante comparazione tra la concezione di Uomo Selvatico degli ebrei, degli antichi greci e quella dei primi cristiani: sebbene vi siano alcune differenze di fondo, ciò che emerge è una sorta di opposizione, più o meno negativizzata o riguardante principi morali, tra i cosiddetti uomini “civilizzati” e quelli “selvatici”; ciò che risulta da tale analisi è che il pensiero ebraico, che vede il Selvatico come una sorta di frutto di stirpe maledetta, ha la controparte nella cultura dell’antica Grecia, in cui esso era alla stregua di proiezione della paura della possessione demonica. In entrambe le culture la mente del Selvatico viene descritta o identificata con la follia e la depravazione, sebbene gli ebrei, al contrario degli antichi greci, tendano a dare un significato morale alle caratteristiche fisiche: in altre parole, la civiltà ebraica era incline a identificare attributi esterni come la manifestazione di quelli interiori e questa tendenza si riversò anche in futuro nei processi mentali dell’uomo occidentale.
Secondo White, queste condizioni che designeremmo con i termini di ferinità, insania o crudeltà furono tutte ideate dagli antichi ebrei per essere aspetti della stessa condizione morale malvagia. La relazione tra la condizione di grazia e quella di ferinità è perfettamente simmetrica: colui che è nello stato di grazia prospera e la sua condizione è riflessa nel benessere e nella salute, nel numero della prole, la longevità, e l’abilità di produrre. Il maledetto, invece, si corrompe e girovaga in luoghi aspri, deforme, violento, e la sua animalità, la sua bruttezza e la violenza sono prove della sua maledizione.
Gli Uomini Selvatici archetipi del Vecchio Testamento sono i grandi ribelli contro il Signore, coloro che sfidano Dio, gli anti-profeti, giganti, nomadi come Caino, Ham e Ismaele, proprio quei particolari “eroi” che, nella mitologia e nelle leggende della Grecia, avrebbero avuto un posto d’onore al fianco di Prometeo, Odisseo ed Edipo. Come gli angeli che si ribellarono contro il Signore e vennero scaraventati giù dal cielo, questi sono ribelli nei confronti del Signore e si potrebbe dire che continuano senza freno a commettere il peccato di Adamo. […] essi sono dipinti come Uomini Selvatici che abitano una terra selvatica, sopra a tutti come cacciatori, seminatori di confusione, dannati, e generatori di razze che vivono nell’ignoranza irrimediabile o nella violazione delle leggi che Dio ha stilato per governare l’universo. La loro progenie sono i bambini di Babele, di Sodoma e Gomorra, una razza conosciuta per la sua corruzione. Ci sono uomini caduti al di sotto della stessa condizione di animalità; ogni uomo è contro di loro ed in generale (Caino è una notevole eccezione) possono essere uccisi impunemente.[2]
Questa forma mentis nei confronti della diversità dell’essere Selvatico rappresentò anche il seme per la concezione di “inquinamento” della stirpe e delle razze, con tutto quello che poi è conseguito nel pensiero occidentale nel corso delle epoche.
White continua la sua analisi descrivendo il concetto di ferinità che si era venuto a creare in epoche successive:
I pensatori medievali, così come quelli degli antichi romani, concepivano sia i barbari che gli Uomini Selvatici come schiavi della natura, come, similmente agli animali, schiavi del desiderio e incapaci di controllare le loro passioni; come volubili, mutevoli, confusi, caotici; incapaci di una esistenza sedentaria e di auto-discilplina […] e ostili alla umanità “normale”[…].
Sebbene sia i barbari che gli Uomini Selvatici fossero supposti condividere queste qualità, una importante differenza rimase irrisolta tra loro: l’Uomo Selvatico vive sempre da solo, o al massimo con una compagna. Secondo il mito che prende forma nel Medioevo, l’Uomo Selvaggio è incapace di assumere le responsabilità di padre e se la sua compagna ha bambini, essa li abbandona nel luogo in cui li partorisce […]. Il Selvatico è convenzionalmente rappresentato come […] abitante degli immediati confini della comunità, è lontano dalla vista, sull’orizzonte, nella foresta vicina, nel deserto, le montagne o le colline. Egli dorme negli anfratti, sotto grandi alberi, nelle caverne degli animali selvaggi in cui porta bambini indifesi o donne per fare loro cose indicibili. Egli è pure scaltro: ruba le pecore dal recinto, i polli dal pollaio, beffa i pastori […]. Specialmente nel mito medievale l’Uomo Selvatico è detto essere coperto di peli, nero e deforme. Può essere un gigante o un nano oppure orribilmente sfigurato […]. Ma in qualunque modo egli è raffigurato, l’Uomo selvatico rappresenta sempre l’immagine dell’uomo uscito dal controllo sociale, l’uomo su cui gli impulsi della libido hanno raggiunto una piena ascendenza.[3]
La concezione negativa dell’Uomo Selvatico come schiavo delle sue pulsioni dette però origine, nel Medioevo, anche ad un altro tipo di considerazioni su di esso che lo identificarono quale simbolo dell’evasione da un sistema sociale chiuso e rigido: forse è questa una delle ragioni principali del suo successo o della sua presenza quasi obbligata nell’ambito delle feste di piazza; White, infatti, sostiene che, nel Medioevo cristiano, il Selvatico era una sorta di distillato delle specifiche ansietà che giacevano al disotto delle tre sicurezze date dalle istituzioni cristiane della vita civilizzata: questi principi si traducevano nella “sicurezza del sesso”, ovvero nell’istituzione della famiglia, nella “sicurezza del sostentamento”, provveduta dalle istituzioni sociali, politiche ed economiche, e la “sicurezza della salvezza”, data dalla religione.
L’Uomo Selvatico non gode di nessuno dei vantaggi del sesso civilizzato, né di una regolarizzata esistenza sociale, né della grazia istituzionalizzata. Ma, deve essere sottolineato, nell’immaginario dell’uomo del Medioevo, egli non soffre di nessuna delle imposizioni richieste dall’appartenenza a queste istituzioni. Egli è l’incarnazione del desiderio, possedendo la forza, l’astuzia e la furbizia per dare piena espressione alla sua lussuria. La sua vita è instabile come il suo carattere. Egli è un ghiotto, mangia per soddisfarsi un giorno e muore di fame il successivo; è lascivo e promiscuo, senza essere conscio di cosa sia il peccato o la perversione (e per questo motivo privato dei piaceri dei più sofisticati vizi[4]). La sua forza fisica e la sua agilità sono concepite in modo da sopperire alla diminuzione della sua coscienza.
Nella maggior parte delle credenze medievali sull’Uomo Selvatico, egli è forte come Ercole, veloce come il vento, astuto come il lupo e perverso come la volpe. In alcune storie questo essere imbroglione è tramutato in una sorta di saggezza popolare che lo rende un mago[5] o alla fin fine un creatore di confusione.[6]
Nell’ambito della concezione del vivere al di fuori degli schemi o di ogni regola e dello stato di ferinità rispetto a quello di civiltà, vennero accentuati, così come il carattere e le abilità, anche i tratti fisici: secondo la tradizione popolare il Selvatico è infatti irsuto o vestito di pelle e la sua arma caratteristica è una grossa clava o, in alcuni casi, un tronco d’albero sradicato come simbolo della sua forza spropositata.
Riguardo al suo carattere, in alcune tradizioni come quella della mitologia alpina, il modo di vivere del Selvatico è visto come letteralmente e totalmente “opposto” a quello dell’uomo civilizzato, così, questo personaggio è detto essere
[…] triste per il bel tempo e felice per il maltempo e per questa sua caratteristica è divenuto emblema, nella poesia cortese delle origini, dell’amante speranzoso nonostante la ritrosia dell’amata.
Fé com’omo selvaggio veramente / quand’ha rio tempo, forza lo cantare / co lo sperare / ca ‘l buon venga, ch’abassi sua doglianza; Con sì dolce parlar e con un riso / da far innamorare un uom selvaggio (C. Davanzati)[7].
Un altro modo di manifestare l’opposizione con il mondo civilizzato da parte del Selvatico è il suo essere depositario di conoscenze culturali dispensate ab origine agli uomini, che si possono tradurre ad esempio nel detenere il segreto dell’arte casearia o di quella della caccia: ed in questi casi spesso e volentieri, nel mito, si ha il contatto tra la cultura civilizzata e quella che segue la natura quando gli uomini civili imparano determinati segreti dal loro opposto; un simile tratto non può certo non ricordare, come già accennato da White nel suo saggio, una figura come quella di Prometeo, sacrilega ed innovatrice allo stesso modo, e forse capace di raggiungere una conoscenza di tipo diverso proprio grazie alla sua stranezza ed al suo modus vivendi al di fuori della norma:ciò è quanto di più simile allo status ambiguo del pazzo, la cui insania di volta in volta viene interpretata come la manifestazione del male ( ad esempio dettata da una possessione demoniaca) o come una sorta di stato di grazia, in cui la “sragione” diviene lo specchio inscindibile della ragione e sinonimo di verità altrimenti inespresse.[8]
Anche il Selvatico non si sottrae a queste apparenti contraddizioni ideologiche e diviene, a seconda delle epoche e delle occasioni, simbolo della malvagità, della ricerca di libertà o paradossalmente dell’innocenza, oppure, proprio come il pazzo, dispensatore di un tipo di saggezza “altra” che può essere molto utile all’uomo civilizzato (anche se la scienza di quest’ultimo in assai pochi casi è conveniente per i Selvatici).
L’Uomo Selvatico, al pari del pazzo e specialmente nella cultura del Medioevo, attraverso la sua stranezza rappresentava allo stesso modo il pericolo di un allontanamento dalle istituzioni civilizzate, con il suo aspetto bizzarro ed il suo modo di vivere animalesco, ma anche una sorta di traguardo irraggiungibile ed affascinante per evadere dalla chiusura della società.
Non è possibile quindi dare un valore totalmente negativo o totalmente positivo ad una tale figura che si collocava sempre in uno status di ambiguità: è però possibile considerarlo al pari di un elemento chiave di più di una cultura che riassume in sé la condizione dell’opposto, del reietto, e con tutti i limiti ed i pregi delle sue stranezze amplificati in caratteristiche sovrumane, o al di fuori di qualsiasi logica del vivere “civilizzato”, volte ad esaltare ora il lato più negativo , ora quello più positivo (a seconda che incutesse terrore o curiosa ammirazione nei “civilizzati”); questo il motivo per cui, in determinate opere letterarie, il Selvatico compare spesso in contrapposizione con personaggi legati alla società civilizzata o come metafora stessa dello stile di vita naturale selvaggio: si può dire che, in alcuni casi, sebbene determinati personaggi non siano dei veri e propri “Selvatici” tendono (a causa del loro stile di vita improntato sulla natura o semplicemente “ribelle”) ad assumere tratti propri dell’Uomo Selvatico, quasi a simboleggiare una sorta di schieramento o a richiamare una determinata condizione o uno status sociale di outsider.
Un vero e proprio Uomo Selvatico di epoca antica è presente nell’epopea di Gilgamesc, dove la descrizione del selvaggio Enkidu, aspro e dai capelli come quelli di una donna non lascia dubbi sugli elementi comuni a molti altri “Selvatici” mitologici e letterari:
[Enkidu] era coperto di pelo arruffato come quello di Sumuqan , dio del bestiame. Era ignaro dell’umanità, nulla sapeva della terra coltivata. Enkidu si pasceva dell’erba sulle colline assieme alle gazzelle, con le bestie selvatiche si appostava presso le pozze d’acqua; dell’acqua gioiva in compagnia di branchi di animali selvatici[9].
Anche in Daniele (4,22-30) un personaggio come Nabuconosor viene presentato con le caratteristiche più ricorrenti degli Uomini Selvaggi, essendo detto abitare con le bestie e le fiere e cibarsi di fieno come i buoi (un’assimiliazione estrema allo stato animale); riguardo all’aspetto fisico il suo corpo è coperto completamente di peli, mentre al posto delle unghie è munito di artigli. Nella Genesi (25,25), invece, Esaù, che letteralmente significa “mantello di pelo”, è detto essere ricoperto di peli rossicci sin dalla nascita.
Riconducibili al modello dell’Uomo Selvatico sono poi, nell’ambito della mitologia antica,
[…] gli esseri silvestri, spesso divinizzati e considerati profondi conoscitori dei misteri della natura. Il loro ambiente era il bosco o la foresta, e in questi ambienti trovarono una naturale amplificazione delle loro potenzialità innate, traendo ulteriori elementi significanti che hanno condizionato le riletture in chiave folklorica […]. Queste antiche divinità della natura sono state dunque chiamate in vari modi e dalla loro primitiva posizione sono lentamente decadute, vittime del vortice demonizzante ed esorcizzante del Cristianesimo. Il protagonista indiscusso, il predecessore assoluto dell’Uomo Selvaggio, da cui trovarono origine successive varianti e trasformazioni, è il dio Pan. Divinità dei pastori e delle greggi, quasi una sorta di antropomorfizzazione della natura. […] Il nome [Pan] deriva probabilmente da paon (colui che pascola), ma nella mitologia è anche chiamato sporcaccione dal pelo lucido […]. L’uomo-capro, con la sua inarrestabile sessualità, simboleggia la forza generatrice della natura[10], che nelle corna trova un ulteriore elemento per sottolineare la sua innata potenza virile.[11]
In ogni caso anche i satiri ed i centauri presentano dei tratti e attitudini simili al dio capro e anch’essi possono a buon diritto essere identificati come antecedenti del Selvaggio.
Passando in rassegna anche la letteratura pre-rinascimentale e rinascimentale, è possibile trovare il Selvatico in opere come il Dittamondo di Fazio degli Uberti (Come s’allegra e canta l’uom selvatico / quand’il mal tempo e tempestoso vede sperando nello buono, ond’egli è pratico.[12]) e nell’ Innamorato del Boiardo […]. Anche il epoche successive il selvatico sembrò essere oggetto di studio o di semplice curiosità, infatti nel 1667 il gesuita Scotto, nella sua Physica curiosa gli dedicò un capitolo intitolato De hominibus sylvestris ac pilosis; quest’opera fu probabilmente utilizzata come modello da Linneo, forse l’ultimo studioso a soffermarsi su tale materia, nel suo Homo sylvestris del Systema naturae: questi studi contribuirono a mantenere vivo per un certo tempo l’interesse per il Selvatico e a condizionare l’immagine collettiva, producendo miti ancora oggi molto diffusi, per utilizzare le medesime parole di Massimo Centini.
Non esistono prove a sufficienza per ipotizzare una parentela fra il mito dell’Uomo Selvatico e quello del guerriero berserk, anche se le somiglianze fra le due figure sono notevoli: entrambi hanno atteggiamenti animaleschi, se l’uno tende a comportarsi come un orso l’altro spesso viene confuso con esso, entrambi generalmente vivono isolati nei boschi e nelle foreste o lontano dalle comunità e sono dei reietti, il berserk a causa dell’irrefrenabile furia (che in frequenti tradizioni è attribuita anche al Wild Man), l’altro a causa del rifiuto dello stile di vita “civilizzato”; infine, entrambi sono sinonimo di follia. Una somiglianza, come è già stato ribadito, non dimostra una stretta parentela, ma può comunque essere una caratteristica appartenente ad un medesimo background culturale: quello del paganesimo nordico.
Sebbene Massimo Centini abbia tentato un avvicinamento fra il travestimento da animale totemico da parte dei berserk e particolari mascherate medievali a scopo ludico da Wild Man o proprio da orso, la direzione verso cui si può trovare più materia di approfondimento è orientandosi secondo l’analisi attuata dallo stesso autore di una tradizione mitologica e folcloristica diffusa nel nord Europa, tradizione che vede fra i suoi protagonisti proprio il Selvatico: “la Caccia Selvaggia” o “Infernale”; si tratta di
[…] una battuta molto rumorosa a cui partecipano esseri soprannaturali (Uomo Selvatico, Orco, streghe, folletti, demoni, ecc.) o fantasmi. In questa terribile orgia di rumori e di ferocia le leggende nordiche (in Italia la tradizione è viva in tutto l’arco alpino, in particolare però nella fascia centro-orientale) pongono anche cani ferocissimi e diabolici che con gli altri partecipanti rincorrono delle prede sconosciute. Imbattersi in tale orda può essere pericolosissimo, ma gli effetti dell’incontro variano in regione della provenienza del mito. In Inghilterra tale caccia è chiamata The Wilde Hunt , Sluagh in Scozia, Wütende heer in Germania , Chasse Arthur in Francia Struggele selvaggia , in Svizzera. Le leggende italiane ricordano la Caccia morta , la Caccia del diavolo (Lombardia), il Corteo della Berta , Casa dei canett (Piemonte) , la Cazza selvadega (Trentino), Kasa selvàdega (Valsassina). […] Dalla Caccia Selvaggia hanno trovato origine e attinto apporti anche altre tradizioni, come la processione delle anime, la discesa dell’Uomo Selvatico (e la sua conseguente cacciata) il volo notturno delle streghe (qui esiste anche una connessione con il Corteo di Diana). Il Cristianesimo trasformò il mito della Caccia Selvaggia, interpretando l’orda di cavalieri pagani lanciati nella sfrenata corsa come anime dannate senza pace. [13]
Una traccia significativa di questo mito, rivisto naturalmente in chiave cristiana, si può ritrovare anche nel Decameron di Boccaccio nella novella 8 della giornata V, in cui Nastagio degli Onesti è diretto testimone di una Caccia Infernale (a scopo espiatorio) da parte di un oscuro cavaliere che insegue lo spirito della donna che aveva amato in vita.
Nell’ambito del mito, nell’area culturale germanico-tirolese, si verifica la fusione della figura del Wodan, signore della guerra, e il Wilder-Mann, una creatura molto vicina all’Uomo Selvatico delle leggende alpine.
L’essere assume caratteristiche eterogenee: da eroe culturale positivo a malvagio nemico dell’uomo; in genere si dice che si muova solo di notte[…]. Nel periodo delle dodici notti sante, le notti tra il Natale e l’Epifania, il Wilder-Mann cavalcherebbe con una muta di cani ferocissimi, rubando i bambini e causando sempre vittime fra quanti hanno la sfortuna di incrociarlo con la sua orda.[14]
Centini prosegue la sua indagine elencando altri Selvatici dalle caratteristiche affini nelle tradizioni popolari della Valsassina e della Val Ferina, con il suo Bilmon a capo della Caccia.
In genere, però,
L’uomo Selvatico in quasi tutte le vicende raccolte non è mai il protagonista della Caccia Selvaggia, e quasi sempre si limita a parteciparvi occupando una posizione periferica e comprimaria. Va ancora detto che in casi del genere la maschera del selvatico è molto complessa da decodificare, e pertanto è difficile isolare questa figura da tutte le molteplici influenze mitiche individuabili nella genesi del suo sviluppo simbolico.[15]
Il mito della Caccia Selvaggia, però, tradisce anche nelle sue versioni italiane una sorta di parentela con la religione pagana nordica: infatti, frequentemente, secondo le credenze popolari la battuta degli esseri sovrannaturali è posta in relazione alle violente manifestazioni atmosferiche (vento, temporale, tempesta, ecc.), ricordando molto da vicino il mito germanico in cui Odino, durante le tormente o i temporali, cavalcava il suo destriero nel cielo insieme alle anime dei guerrieri morti.
Sebbene lefantasie e superstizioni popolari o la religione cristiana abbiano contribuito alla sostituzione degli spiriti dei guerrieri inquieti con le anime dei morti senza pace, il sostrato pagano delle aree nordiche è ben delineato, di conseguenza esso è andato ad amalgamarsi con le remote leggende sul Wild Man o ha contribuito alla loro evoluzione mediante l’aggiunta di particolari.
Il motivo della Caccia Selvaggia […] conobbe nel periodo feudale uno sviluppo senza precedenti, il che contribuì a diffonderne l’eco ben oltre i confini della mitologia germanica in cui era riposta la sua genesi.[16]
Oltre al sostrato pagano presente nelle leggende sul Wild Man come quella della Caccia Selvatica, bisogna aggiungere che esso è presente anche in importantissime manifestazioni popolari che hanno un’origine precristiana: le feste di piazza ed il Carnevale.
Si parlerà più diffusamente in seguito dell’importanza delle feste di piazza nel Medioevo e nel Rinascimento, in questa sezione verrà mostrata solo la centralità del Wild Man in tali occasioni ed il suo significato.
Il Selvatico nell’ambito del Carnevale è un personaggio piuttosto frequente, in Italia soprattutto nelle alpi orientali ed è una maschera ombrosa ed a tratti indecifrabile nel suo ruolo allo stesso tempo comico e drammatico: una creatura temuta ma vinta, essere da schiacciare dal nucleo civile, o addirittura da sopprimere.
[Ad esempio, in Val di Fiemme,] il rito-spettacolo della battuta si pone sul modello dell’Uccisione del Carnevale, che in pratica costituisce la formula ricorrente in numerose tradizioni analoghe. […]
Le connessioni sono comunque moltissime e possono essere scorte in un ampio complesso di tradizioni che dal Chiarivari giungono alla danza delle corna di Abbats Brohley (Staffordshire) , fino alle tante tradizioni note come Feste dei pazzi. Nelle valli tirolesi, le maschere del Wilder-Mann e più raramente della Wilder-Frau sono inserite nelle tradizioni carnevalesche. […] L’essere non umano, dotato di una propria indipendenza ed eletto a sovrano, quasi divinizzato, viene, all’interno delle feste celebrato e poi immolato secondo una tradizione diffusa e ricorrente. Tra le feste della Germania vi era quella chiamata Espulsione dell’Uomo Selvaggio: in tale occasione un giovane veniva vestito con foglie e muschio e, alla fine di un preciso iter processionale, fuggiva nel bosco dove si nascondeva. Il giorno successivo si costruivano alcuni fantocci che ricordavano la maschera del Selvaggio e quindi si annegavano nel fiume. Secondo la psicoanalisi junghiana in questa tradizione sarebbe possibile scorgere l’affioramento della parte primitiva, inferiore: l’inconscio del suo aspetto pericoloso definito Ombra.
Esiste comunque un’archeologia della maschera del Selvaggio, di cui si possono individuare le radici più profonde già nell’arte del Paleolitico: ne abbiamo un esempio problematico nella pittura che raffigura un uomo-cervo[17] nella grotta dei Trois Frères, in Francia [18].
Centini nota che la figura del Selvatico legata a entità diaboliche o negative ricorre molto nei carnevali alpini, ma è singolare constatare come questo collegamento all’interno del rituale della festa non trovi riscontro nelle fonti orali, dove il Wild Man nell’espressione della sua negatività non va oltre il modello del Trickster;, dato che nella maggior parte dei casi è visto come eroe culturale e dispensatore di nuove conoscenze.
L’importanza del Selvatico nell’ambito della festa sin dall’antichità è testimoniata in importanti eventi riportati nelle cronache; a Parigi, nel 1431 presso il ponticello di Saint-Denius venne realizzato un vero e proprio bosco dove Uomini e Donne Selvagge giocavano, mentre nel 1486, in occasione dell’entrata di Carlo VIII a Troyes, furono utilizzate cento libbre di canapa per gli abiti di ventiquattro Uomini Selvatici che si esibivano gettando erba di fronte al re. Enrico II, invece, nel settembre del 1548, al momento di entrare a Saint-jeanne-de-Maurienne, ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte ad un gruppo di uomini travestiti da orso in maniera così realistica da destare meraviglia; il gruppo scortò il re fino dentro città in una sorta di “trionfo silvestre” e i finti orsi si esibirono in danze e balzi intrattenendo il sovrano.[19]
Come già notato a proposito delle Soties francesi, nonostante determinate feste all’inizio si svolgessero con il benestare dell’autorità e della Chiesa (che inizialmente ne tollerava gli eccessi), in sostanza esse rimanevano pur sempre reminescenze legate al mondo pagano e per questo considerate dalle alte sfere ecclesiastiche molto pericolose.
Sappiamo che queste manifestazioni pagane, come le feste delle calende, quelle dei pazzi, fino al laicissimo Chiavariri, furono considerate esperienze demoniache , movimento rituale blasfemo che poneva in relazione le istanze umane con le adulazioni di Satana. Nella maschera c’è quindi la metafora diabolica, che con la falsificazione della naturalità, cerca di abbattere i principi del bene, fondati sulla verità e sulle sue prerogative. Per risalire alle cause che condussero all’abbinamento maschera/fantasma/diavolo, non è sufficiente appellarsi alla questione etimologica [ che riconduce il termine di origine germanica “masca” a sinonimo di “stria” o “striga”]. Esistono infatti motivazioni più profonde, dovute sostanzialmente alla paura insita nell’uomo per quanto si nasconde dietro una raffigurazione che occulta l’aspetto primitivo dell’essere. La demonizzazione del travestimento andò accentuandosi in seno al cristianesimo delle origini, quando la maschera fu collegata al diavolo e ala sua capacità di mutarsi continuamente nei tentativi di traviare gli uomini.[…] La maschera animale, penetrando nel folklore, diventava segno del rinvigorirsi del paganesimo in seno alle tradizioni popolari che, nell’ottica della chiesa medievale, erano un autentico ricettacolo del demonio.[20]
Le tracce di paganesimo che erano evidenti nelle feste di piazza ed in qualsiasi credenza sul Selvatico finirono quindi essere l’oggetto di disapprovazione della Chiesa, che, […] cercò in tutti i modi di gettare sul Wild Man un’immagine negativa, in modo che, nell’ambito della festa, dall’avere un ruolo simile a quello di un fool del mondo naturale, esso finì sempre più per essere identificato come il Diavolo che presiede il Sabba.
Era già accaduto in passato che figure silvestri come Pan finissero a “prestare accessori” iconografici ai mille volti del Maligno, e neanche il Selvatico di sottrasse a questo destino:
Ad esempio nel 1233 papa Gregorio IX promulgò una bolla in cui si diceva che nelle riunioni sabbatiche Satana normalmente si presentava come un uomo coperto di peli con caratteristiche riconducibili al Wild Man tedesco. […] La connessione dell’Uomo Selvaggio con il diavolo trova ancora origine nelle figure silvestri, primarie protagoniste all’inferno di un mondo senza leggi, di godimento e di sfrenata selvatichezza. L’aspetto fisico della divinità boschiva [come il dio Pan,] è certamente legato all’iconografia infernale cristiana e […] presenta tutta una serie di legami con l’immagine ricorrente dell’essere silvestre descritto nella tradizione popolare. Il male eterno trova nella creatura selvatica un rifugio adatto, perché mediante il corpo non più umano ottiene un’estensione delle proprie capacità di azione che a quel punto diventano concretamente temibili per l’uomo. L’associazione silvestre-demonio è d’altronde comprovata nell’ambito cristiano dalla descrizione dell’indemoniato di cerasa da parte di Luca [( 8,27)]:
un uomo posseduto dai demoni. Da molto tempo non portava vestiti e non abitava in una casa ma tra i sepolcri. [21]
Anche l’arte medievale, nel rappresentare i diavoli dell’inferno, ha attinto molto all’immaginario popolare e folcloristico facendo in modo che i demoni fossero modellati sull’aspetto del Wild Man, calcando la mano ulteriormente sugli spiriti pagani dei boschi. Una strategia simile non poteva non ripercuotersi anche nelle opere letterarie.
Nella Storia Ecclesiatica [(Lib. XIII)], Oderico Vitale descrive la tradizione del corteo dei dannati e dei demoni, che nelle notti oscure come un turbine attraversavano boschi e campagne […]. A capo dell’orda , l’Uomo Selvaggio, qui chiamato Herlechinus , da cui prenderà forma la ben nota maschera di Arlecchino, figura ora comica ora inquieta, reinterpretata nella dialettica allegorica della Commedia dell’Arte.[22]
Per concludere, la Chiesa colse nel Wild Man delle implicazioni pagane e anche dei tratti che ne evidenziavano lo spirito libero e un’esaltazione delle pulsioni umane; entrambi i fattori erano pericolosi e contribuivano a distogliere forse i fedeli dalla religione:
L’immagine del male collegata alla creatura silvestre era prodotto cristiano, un’espressione sorta da intenzioni esorcizzanti, certamente non solo connesse all’Uomo Selvaggio in sé, ma piuttosto da un articolato processo di eliminazione del retaggio di antichi culti pagani. Un’ulteriore motivazione della demonizzazione dell’Uomo Selvaggio può poi essere individuata in una rilettura cristiana di quelle genti (selvatiche, appunto) che ancora non avevano abbandonato antiche forme di culto per avvicinarsi alla nuova religione. [23]
[1] Questo articolo è un breve estratto dalla mia tesi di laurea: “Tre prefigurazioni della follia di Orlando: il berserk, l’Uomo Selvatico, in trickster”.
[2] H. White, The forms of wildness. in Dudley E. e Novak M., The wild man within: an image in western thought from Reinassence to romanticism edited by E.Dudley and M.Novak London University of Pittsburg Press, c1972. p. 14 (trad. mia)
[3] Ivi, p.20-21 (trad. mia)
[4] Questo tema, ulteriormente sviluppato in epoche successive, andrà a costituire il “mito del buon selvaggio”.
[5] Ciò si ricollega alla figura del “Briccone”, che verrà analizzata in seguito.
[6] Ibid. (trad. mia)
[7] M.. Centini, L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna, Priuli e Verlucca editori 2000. p. 8 (citazione da S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, voce “ Selvaggio”)
[8] Il folle, nella sua innocente grullaggine, possiede questo sapere così inaccessibile e così temibile. Mentre l’uomo di ragione e di saggezza non ne percepice che degli aspetti frammentari, e perciò tanto più inquietanti, il folle lo porta tutto intero in una sfera intatta: questa palla di cristallo che per tutti è vuota, è piena ai suoi occhi di un sapere invisibile. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Bur saggi 1998, p.27
[9] Ivi. p.14
[10] In questo l’Uomo Selvatico non può non essere paragonato alla figura del trickster e per il suo sconvolgere l’ordine civilizzato in nome della forza generatrice della natura è comprensibile anche il suo ruolo nella festa di piazza medievale.
[11] Ivi. p.11-12.
[12] Ivi. p.12, nota 6
[13] M. Centini, L’uomo selvatico dalla “creatura silvestre” dei miti alpini allo Yeti nepalese, Oscar Mondadori 1992. pp. 209-210
[14] Ivi. pp. 210-211
[15] Ivi. p. 211
[16] Ivi, p. 213
[17] Uomini-cervo figurano anche nel Romanzo di Alessandro.
[18] M.Centini, L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna, Priuli e Verlucca editori 2000 pp. 68-69
[19] Centini riconduce questa particolare mascherata al filone del travestimento guerresco dei berserk: […] gli “uomini-orso” facevano parte di un gruppo […] di cui abbiamo numerose notizie nella tradizione folklorica, il loro ruolo era in genere quello di scandire ritualmente certe feste stagionali, o fare da cornice ad alcuni avvenimenti collettivi (in questo caso il passaggio del sovrano francese).Nell’episodio […] [riguardante Enrico II], troviamo un chiaro esempio della tradizione dei Berseker [sic] (letteralmente “veste d’orso” ber=orso; serker= veste), in cui gran parte dei rituali di origine germanica tipici dell’ideologia di molti popoli indoeuropei, erano accentrati attraverso il simbolismo del travestimento con pelli di animale (orso e lupo). da Ivi, p. 71.
[20] Ivi, pp.71-72
[21] M. Centini, L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna, Priuli e Verlucca editori 2000. pp. 12-13
[22] Ivi, p. 14
[23] Ibid.
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sabato 11 luglio 2015
giovedì 9 luglio 2015
Probabile nuovo film su Indiana Jones
Segnaliamo questo breve articolo in cui si parla di un possibile nuovo episodio di Indiana Jones:
http://www.badtaste.it/2015/05/05/kathleen-kennedy-conferma-un-nuovo-film-di-indiana-jones/126821/
http://www.badtaste.it/2015/05/05/kathleen-kennedy-conferma-un-nuovo-film-di-indiana-jones/126821/
Acerbi e il Graal
Tratto da http://www.centrostudilaruna.it
La più recente opera di Giuseppe Acerbi su "Merlino e Morgana" è parte di una ricerca ventennale condotta su fonti mitologiche vicino e medio orientali, tesa a disvelare in esse i paralleli e le analogie con i romanzi del ciclo graalico. Tale avvicinamento, apparentemente assurdo anche in una prospettiva fenomenologica, ha però un valido fondamento storico-archeologico: una mediazione tra Oriente ed Occidente in ciò che di recente il giovane studioso italiano Marco Moriggi ( in Avallon, 45 [ 2000 ] , pp. 47-58 ) ha ribattezzato essere le "radici iraniche del Graal". Chiunque legga con occhio filologico il Parzival di Wolfram von Eschenbach non può non notare infatti le fortissime affinità con il mondo iranico pre-islamico, che vanno dal nome del padre di Parzival, Gahmuret (e a loro volta rinviano all’Uomo Primigenio del mito mazdeo, Gayomart, il Gehmurd dei Manichei ), sino alla liturgia con l’"acqua di vita" tramite cui viene battezzato Feirefiz, il fratello levantino (e quindi "oscuro ") di Parzival.
Circa sessant’anni dopo Wolfram, ma sempre restando nell’ambito della medesima tradizione, il poeta germanico Albrecht von Scharffenberg scrisse (nel 1270) un’opera dal titolo Der jüngerer Titurel (Il giovane Titurel), che parla dell’antica famiglia del Graal; in particolare di Titurel, nonno di Parzival. Albrecht cosí descrive il Tempio del Graal: "Nella terra della salvezza, nella foresta della salvezza, si erge un monte solitario, la Montagna della Salvezza; il Re Titurel la cinse di mura e vi costruí un ricco castello perché fosse il Tempio del Graal: il Graal allora non aveva una sede fissa, ma vagava, invisibile, nell’aria." Albrecht passa quindi a descrivere la montagna: fatta di onice, la sua vetta è priva di terra; era stata talmente levigata e pulita che "risplendeva come la Luna". Il Tempio è alto, rotondo, a cupola, con il tetto d’oro; all’interno, il soffitto è incrostato di zaffiri a rappresentare il cielo azzurro, ed è incastonato di carbonchi raffiguranti le stelle. Un Sole d’oro ed una Luna d’argento, mossi artificialmente, percorrono gli emisferi, mentre i cembali vengono colpiti regolarmente per scandire il trascorrere delle ore. L’intero Tempio è colmo d’oro e tempestato di gemme preziose.
Per lungo tempo, tutto quanto venne considerato un mero artificio letterario, nient’altro che una bella fiaba. Solo nel secolo ormai trascorso alcuni studiosi come Lars Ivar Ringbom o Henry Corbin hanno richiamato l’attenzione su una località realmente esistita, che possedeva una straordinaria rassomiglianza con la descrizione albrechtiana del Tempio del Graal.
Agli albori del VII secolo d.C. il re persiano Cosroe II edificò uno straordinario palazzo che chiamò Taxt-i Taqdis, "Trono degli Archi" - ora noto come Taxt-i Sulayman, "Trono di Salomone" - sulle alture sacre di Shiz nelle Media Atropatene, l’attuale Azerbaigian. Era il centro del culto mazdeo: in esso si ergeva un tempio del fuoco, ed era ritenuto un’immagine del centro del mondo. I re della dinastia sassanide, cui Cosroe apparteneva, ritenevano Shiz il luogo di nascita di Zoroastro e lí vi celebravano i riti ciclici che garantivano la fecondità del cosmo. Quando il santuario venne distrutto, in una serie di incursioni prima cristiane poi musulmane, l’intero paese parve morire sotto il giogo dell’oppressore, proprio al modo in cui nelle storie del Graal l’aridità della ’terra desolata‘ è considerata una diretta conseguenza della morte simbolica del Re del Graal.
Da fonti piú o meno contemporanee, sostenute da testimonianze archeologiche (in particolare l’ultimo lavoro di R. Naumann, Die Ruinen von Tacht-e Suleiman und Zendan-e Suleiman, Dietrich Reimer V., Berlin 1977) è stato possibile ricostruire una descrizione del Taxt: come il Tempio del Graal era la cupola, con il tetto d’oro rivestito completamente di pietre azzurre a rappresentare il Cielo; vi erano le Stelle, il Sole e la Luna. Le carte astrologiche e astronomiche erano contrassegnate da gemme, balaustre coperte d’oro, gradini dorati, addobbi munifici. Tutto rassomigliava al Tempio del Graal. L’intera struttura del Taxt si ergeva al di sopra di un pozzo nascosto, entro il quale pariglie di cavalli giravano in tondo provocando lo spostamento dell’edificio sul suo asse, in armonia con il variare delle stagioni, in tal modo facilitando i calcoli astrologici e le osservazioni astronomiche. Circostanza che ricorda l’isola ruotante sulla quale si trova Re Nascien, il Signore del Graal nel Giuseppe d’Arimatea di Robert de Boron, scritto oltre seicento anni dopo che il Taxt era stato raso al suolo.
Come in numerose descrizioni del Tempio del Graal, il Taxt si ergeva nei pressi di un grande lago, ritenuto senza fondo: uno specchio d’acqua scuro ed immoto che colmava uno spento cratere vulcanico. Secondo Albrecht, il Tempio del Graal aveva porte su tre dei suoi lati. Il Taxt-i Sulayman era difatti accessibile u nicamente da tre direzioni, due delle quali trovano rispondenza in un testo gallese del ciclo graalico, il Peredur : la prima conduce attraverso una prateria, l’altra segue un ruscello che percorre una vallata. Il Taxt era alimentato da due fiumi e circondato da possenti mura, inoltre vi erano istallati dei congegni che simulavano il variare delle stagioni e i mutamenti climatici; il tutto in armonia con l’idea cristiana di Paradiso, il Pairi.daêza iranico, altrimenti raffigurato come la sede del Graal.
Nel 1937 una spedizione dell’American Institute for Persian Art and Archaelogy scoprí sul sito del Taxt una luccicante incrostazione provocata dalle acque minerali del lago, la quale, soprattutto lungo i bordi rimasti esposti agli elementi, aveva assunto l’aspetto dell’onice. Come abbiamo visto, Albrecht affermava proprio che il Tempio del Graal era eretto su un basamento di onice. Esiste poi, allo Staatsmuseum di Berlino, un piatto di bronzo riportato nel libro di Ringbom (Graltempel und Paradies, Stockolm 1951) risalente al periodo sassanide, che raffigura il Taxt completo dei rulli di legno sui quali ruotava l’intero edificio; esso rivela come l’arcata centrale fosse circondata da ventidue archi, e ventidue erano anche i templi minori che circondavano la sala centrale del Castello del Graal descritto da Albrecht. Ma Albrecht come poteva, in pieno XIII secolo, descrivere con tanta esattezza un tempio mazdeo ormai distrutto da molti secoli? Forse ne aveva letto una descrizione relativa ad un evento cruciale della ierostoria cristiana: il "furto della croce". Nel 614 d.C. Cosroe II, il costruttore del Taxt, s’impadroní di Gerusalemme e ne sottrasse la reliquia piú sacra, la "vera croce"; che il re portò con sé proprio in quel tempio, successivamente descritto come la sede di un oggetto anch’esso sacro, il Santo Graal. In risposta a questo tremendo atto, nel 629 l’imperatore bizantino Eraclio organizzò una sorta di crociata ante litteram e marciò su Taxt-i Sulayman ritornando trionfalmente con la "vera croce". Questo episodio, sfumato nei toni del mito, venne descritto infinite volte e continuò ad essere ripetutamente narrato, con abbellimenti, fino al Tardo Medioevo; quando Albrecht o qualche suo ignoto precursore lo scoprí, probabilmente trasferendo la località da Oriente ad Occidente. L’immagine del centro del mondo mazdeo è quindi servita da modello nella fondazione del mito principale dell’esoterismo cristiano, il Santo Graal.
In tale dimensione ’comparativa‘ gli avvicinamenti e i paralleli dell’Acerbi assumono un significato completamente nuovo. Si pensi ad esempio ai cicli leggendari hindu e buddhisti legati alla versione medio orientale del Munsalwaesche graalico, il Monte Meru. Collocato al centro del mondo, il Meru viene talora raffigurato a gradini e circondato dall’acqua; intorno vi ruotano il Sole e la Luna. Su di esso è intronizzato il Buddha con i suoi Bodhisattva, mentre la Fenice vaga sotto gli alberi. In un altro mito c’imbattiamo nella figura del Pescatore associato al Monte, al modo che il ’Re Pescatore‘ lo è al Castello del Graal. È un motivo che l’Acerbi ha studiato esaustivamente in un lavoro di prossima pubblicazione. Basti qui ricordare l’iconografia del Monte Meru circondato dalle acque dell’Oceano, sulle quali il Pescatore naviga nella sua Barca: è l’Avatâra del dio Vishnu, noto talora come il ’Pesce d’Oro‘ o anche come il ’Pescatore di Luce‘. È il custode della Montagna Sacra, nonché il suo gnomone o dominatore.
Tutti questi esempi esprimono coerentemente un simbolismo unico: il ’ricordo‘ di una forma ideale di esistenza, poiché la ricerca del Graal è anche e soprattutto ricerca del Paradiso smarrito nel tempo primordiale.
Torino, 13 agosto 2000
Ezio Albrile
La più recente opera di Giuseppe Acerbi su "Merlino e Morgana" è parte di una ricerca ventennale condotta su fonti mitologiche vicino e medio orientali, tesa a disvelare in esse i paralleli e le analogie con i romanzi del ciclo graalico. Tale avvicinamento, apparentemente assurdo anche in una prospettiva fenomenologica, ha però un valido fondamento storico-archeologico: una mediazione tra Oriente ed Occidente in ciò che di recente il giovane studioso italiano Marco Moriggi ( in Avallon, 45 [ 2000 ] , pp. 47-58 ) ha ribattezzato essere le "radici iraniche del Graal". Chiunque legga con occhio filologico il Parzival di Wolfram von Eschenbach non può non notare infatti le fortissime affinità con il mondo iranico pre-islamico, che vanno dal nome del padre di Parzival, Gahmuret (e a loro volta rinviano all’Uomo Primigenio del mito mazdeo, Gayomart, il Gehmurd dei Manichei ), sino alla liturgia con l’"acqua di vita" tramite cui viene battezzato Feirefiz, il fratello levantino (e quindi "oscuro ") di Parzival.
Circa sessant’anni dopo Wolfram, ma sempre restando nell’ambito della medesima tradizione, il poeta germanico Albrecht von Scharffenberg scrisse (nel 1270) un’opera dal titolo Der jüngerer Titurel (Il giovane Titurel), che parla dell’antica famiglia del Graal; in particolare di Titurel, nonno di Parzival. Albrecht cosí descrive il Tempio del Graal: "Nella terra della salvezza, nella foresta della salvezza, si erge un monte solitario, la Montagna della Salvezza; il Re Titurel la cinse di mura e vi costruí un ricco castello perché fosse il Tempio del Graal: il Graal allora non aveva una sede fissa, ma vagava, invisibile, nell’aria." Albrecht passa quindi a descrivere la montagna: fatta di onice, la sua vetta è priva di terra; era stata talmente levigata e pulita che "risplendeva come la Luna". Il Tempio è alto, rotondo, a cupola, con il tetto d’oro; all’interno, il soffitto è incrostato di zaffiri a rappresentare il cielo azzurro, ed è incastonato di carbonchi raffiguranti le stelle. Un Sole d’oro ed una Luna d’argento, mossi artificialmente, percorrono gli emisferi, mentre i cembali vengono colpiti regolarmente per scandire il trascorrere delle ore. L’intero Tempio è colmo d’oro e tempestato di gemme preziose.
Per lungo tempo, tutto quanto venne considerato un mero artificio letterario, nient’altro che una bella fiaba. Solo nel secolo ormai trascorso alcuni studiosi come Lars Ivar Ringbom o Henry Corbin hanno richiamato l’attenzione su una località realmente esistita, che possedeva una straordinaria rassomiglianza con la descrizione albrechtiana del Tempio del Graal.
Agli albori del VII secolo d.C. il re persiano Cosroe II edificò uno straordinario palazzo che chiamò Taxt-i Taqdis, "Trono degli Archi" - ora noto come Taxt-i Sulayman, "Trono di Salomone" - sulle alture sacre di Shiz nelle Media Atropatene, l’attuale Azerbaigian. Era il centro del culto mazdeo: in esso si ergeva un tempio del fuoco, ed era ritenuto un’immagine del centro del mondo. I re della dinastia sassanide, cui Cosroe apparteneva, ritenevano Shiz il luogo di nascita di Zoroastro e lí vi celebravano i riti ciclici che garantivano la fecondità del cosmo. Quando il santuario venne distrutto, in una serie di incursioni prima cristiane poi musulmane, l’intero paese parve morire sotto il giogo dell’oppressore, proprio al modo in cui nelle storie del Graal l’aridità della ’terra desolata‘ è considerata una diretta conseguenza della morte simbolica del Re del Graal.
Da fonti piú o meno contemporanee, sostenute da testimonianze archeologiche (in particolare l’ultimo lavoro di R. Naumann, Die Ruinen von Tacht-e Suleiman und Zendan-e Suleiman, Dietrich Reimer V., Berlin 1977) è stato possibile ricostruire una descrizione del Taxt: come il Tempio del Graal era la cupola, con il tetto d’oro rivestito completamente di pietre azzurre a rappresentare il Cielo; vi erano le Stelle, il Sole e la Luna. Le carte astrologiche e astronomiche erano contrassegnate da gemme, balaustre coperte d’oro, gradini dorati, addobbi munifici. Tutto rassomigliava al Tempio del Graal. L’intera struttura del Taxt si ergeva al di sopra di un pozzo nascosto, entro il quale pariglie di cavalli giravano in tondo provocando lo spostamento dell’edificio sul suo asse, in armonia con il variare delle stagioni, in tal modo facilitando i calcoli astrologici e le osservazioni astronomiche. Circostanza che ricorda l’isola ruotante sulla quale si trova Re Nascien, il Signore del Graal nel Giuseppe d’Arimatea di Robert de Boron, scritto oltre seicento anni dopo che il Taxt era stato raso al suolo.
Come in numerose descrizioni del Tempio del Graal, il Taxt si ergeva nei pressi di un grande lago, ritenuto senza fondo: uno specchio d’acqua scuro ed immoto che colmava uno spento cratere vulcanico. Secondo Albrecht, il Tempio del Graal aveva porte su tre dei suoi lati. Il Taxt-i Sulayman era difatti accessibile u nicamente da tre direzioni, due delle quali trovano rispondenza in un testo gallese del ciclo graalico, il Peredur : la prima conduce attraverso una prateria, l’altra segue un ruscello che percorre una vallata. Il Taxt era alimentato da due fiumi e circondato da possenti mura, inoltre vi erano istallati dei congegni che simulavano il variare delle stagioni e i mutamenti climatici; il tutto in armonia con l’idea cristiana di Paradiso, il Pairi.daêza iranico, altrimenti raffigurato come la sede del Graal.
Nel 1937 una spedizione dell’American Institute for Persian Art and Archaelogy scoprí sul sito del Taxt una luccicante incrostazione provocata dalle acque minerali del lago, la quale, soprattutto lungo i bordi rimasti esposti agli elementi, aveva assunto l’aspetto dell’onice. Come abbiamo visto, Albrecht affermava proprio che il Tempio del Graal era eretto su un basamento di onice. Esiste poi, allo Staatsmuseum di Berlino, un piatto di bronzo riportato nel libro di Ringbom (Graltempel und Paradies, Stockolm 1951) risalente al periodo sassanide, che raffigura il Taxt completo dei rulli di legno sui quali ruotava l’intero edificio; esso rivela come l’arcata centrale fosse circondata da ventidue archi, e ventidue erano anche i templi minori che circondavano la sala centrale del Castello del Graal descritto da Albrecht. Ma Albrecht come poteva, in pieno XIII secolo, descrivere con tanta esattezza un tempio mazdeo ormai distrutto da molti secoli? Forse ne aveva letto una descrizione relativa ad un evento cruciale della ierostoria cristiana: il "furto della croce". Nel 614 d.C. Cosroe II, il costruttore del Taxt, s’impadroní di Gerusalemme e ne sottrasse la reliquia piú sacra, la "vera croce"; che il re portò con sé proprio in quel tempio, successivamente descritto come la sede di un oggetto anch’esso sacro, il Santo Graal. In risposta a questo tremendo atto, nel 629 l’imperatore bizantino Eraclio organizzò una sorta di crociata ante litteram e marciò su Taxt-i Sulayman ritornando trionfalmente con la "vera croce". Questo episodio, sfumato nei toni del mito, venne descritto infinite volte e continuò ad essere ripetutamente narrato, con abbellimenti, fino al Tardo Medioevo; quando Albrecht o qualche suo ignoto precursore lo scoprí, probabilmente trasferendo la località da Oriente ad Occidente. L’immagine del centro del mondo mazdeo è quindi servita da modello nella fondazione del mito principale dell’esoterismo cristiano, il Santo Graal.
In tale dimensione ’comparativa‘ gli avvicinamenti e i paralleli dell’Acerbi assumono un significato completamente nuovo. Si pensi ad esempio ai cicli leggendari hindu e buddhisti legati alla versione medio orientale del Munsalwaesche graalico, il Monte Meru. Collocato al centro del mondo, il Meru viene talora raffigurato a gradini e circondato dall’acqua; intorno vi ruotano il Sole e la Luna. Su di esso è intronizzato il Buddha con i suoi Bodhisattva, mentre la Fenice vaga sotto gli alberi. In un altro mito c’imbattiamo nella figura del Pescatore associato al Monte, al modo che il ’Re Pescatore‘ lo è al Castello del Graal. È un motivo che l’Acerbi ha studiato esaustivamente in un lavoro di prossima pubblicazione. Basti qui ricordare l’iconografia del Monte Meru circondato dalle acque dell’Oceano, sulle quali il Pescatore naviga nella sua Barca: è l’Avatâra del dio Vishnu, noto talora come il ’Pesce d’Oro‘ o anche come il ’Pescatore di Luce‘. È il custode della Montagna Sacra, nonché il suo gnomone o dominatore.
Tutti questi esempi esprimono coerentemente un simbolismo unico: il ’ricordo‘ di una forma ideale di esistenza, poiché la ricerca del Graal è anche e soprattutto ricerca del Paradiso smarrito nel tempo primordiale.
Torino, 13 agosto 2000
Ezio Albrile
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lunedì 6 luglio 2015
NOMI PROFANI E NOMI INIZIATICI *
in collaborazione con la rivista Lettera E Spirito:
https://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-nomi-profani-e-nomi-iniziatici/
René Guénon
Parlando precedentemente dei diversi generi di segreti d’ordine più o meno esteriore che possono esistere in certe organizzazioni, iniziatiche o no, abbiamo menzionato tra gli altri il segreto riguardante i nomi dei loro membri; e può ben sembrare, a prima vista, che sia un segreto da considerare tra le semplici misure di precauzione destinate a proteggersi contro i pericoli derivanti da eventuali nemici, senza che occorra cercarvi una ragione più profonda. In realtà, è sicuramente così in molti casi, e per lo meno in quelli nei quali si ha a che fare con organizzazioni segrete puramente profane; tuttavia, quando si tratta d’organizzazioni iniziatiche, è possibile vi sia altro, e che questo segreto, come tutto il resto, rivesta un carattere veramente simbolico. Vi è tanto più interesse a soffermarsi un po’ su tale punto, quanto la curiosità dei nomi è una delle manifestazioni più ordinarie dell’“individualismo” moderno, e, quando si pretenda applicarla alle cose del dominio iniziatico, testimonia inoltre una grave ignoranza delle realtà di quest’ordine, e una deprecabile tendenza a volerle ricondurre al livello delle contingenze profane. Lo “storicismo” dei nostri contemporanei non è soddisfatto che mettendo dei nomi propri su tutte le cose, vale a dire attribuendole a individualità umane definite, secondo la concezione più limitata che ci si possa fare d’esse, quella che ha corso nella vita profana e che non tiene conto se non della sola modalità corporea. Tuttavia, il fatto che l’origine delle organizzazioni iniziatiche non possa mai essere ricondotta a tali individualità dovrebbe già far riflettere a proposito; e, quando si tratti di quelle dell’ordine più profondo, i loro stessi membri non possono essere identificati, non tanto perché si dissimulino, il che, per quanta cura vi pongano, potrebbe non essere sempre efficace, ma perché, rigorosamente parlando, non sono dei “personaggi” nel senso che vorrebbero gli storici, al punto che chiunque crederà di poterli nominare cadrà, con ciò stesso, inevitabilmente in errore [1]. Prima di passare a spiegazioni più ampie sull’argomento, diremo che qualcosa d’analogo si ritrova, mantenendo le proporzioni, a tutti i gradi della scala iniziatica, anche ai più elementari, di modo che, se un’organizzazione iniziatica è realmente quel che dev’essere, la designazione d’uno qualunque dei suoi membri con un nome profano, quand’anche sia “materialmente” esatta, sarà sempre intaccata da falsità, quasi come lo sarebbe la confusione tra un attore e un personaggio di cui reciti la parte e del quale ci si ostinasse ad attribuirgli il nome in tutte le circostanze della sua esistenza.
Abbiamo già insistito sulla concezione dell’iniziazione come “seconda nascita”; è precisamente come conseguenza logica immediata di questa concezione che, in numerose organizzazioni, l’iniziato riceve un nuovo nome, differente dal suo nome profano; e non si tratta d’una semplice formalità, giacché tale nome deve corrispondere a una modalità parimenti differente del suo essere, quella la cui realizzazione è resa possibile dall’azione dell’influenza spirituale trasmessa dall’iniziazione; si può inoltre osservare che, anche dal punto di vista exoterico, la stessa pratica esiste, con una ragione analoga, in taluni ordini religiosi. Avremo dunque per lo stesso essere due modalità distinte, una che si manifesta nel mondo profano, e l’altra all’interno dell’organizzazione iniziatica [2]; e, normalmente, ciascuna d’esse deve avere il suo nome proprio, quello dell’una non convenendo all’altra, poiché si situano in due ordini realmente differenti. Ci si può spingere più lontano: a ogni grado d’iniziazione effettiva corrisponde ancora un’altra modalità dell’essere; questi dovrebbe dunque ricevere un nuovo nome per ognuno di tali gradi, e, quand’anche non gli venga di fatto attribuito, ciò nondimeno esiste, si può dire, quale espressione caratteristica di questa modalità, giacché un nome non è altro che questo in realtà. Ora, come queste modalità sono gerarchizzate nell’essere, così è ugualmente dei nomi che li rappresentano rispettivamente; un nome sarà dunque tanto più vero quanto più corrisponderà a una modalità d’ordine più profondo, poiché, con ciò stesso, esprimerà qualcosa di più vicino alla vera essenza dell’essere. Contrariamente all’opinione volgare, è dunque il nome profano che, legato alla modalità più esteriore e alla manifestazione più superficiale, è il meno vero di tutti; e così è soprattutto in una civiltà che abbia perduto qualsiasi carattere tradizionale, e in cui un nome simile non esprime pressoché più nulla della natura dell’essere. Quanto a quello che si può chiamare il vero nome dell’essere umano, il più vero di tutti, nome che è d’altronde propriamente un “numero”, nel senso pitagorico e qabbalistico della parola, è quello che corrisponde alla modalità centrale della sua individualità, ossia alla sua restaurazione nello “stato primordiale”, giacché è quello che costituisce l’espressione integrale della sua essenza individuale.
Da queste considerazioni risulta che un nome iniziatico non ha da essere conosciuto nel mondo profano, poiché rappresenta una modalità dell’essere che non potrebbe manifestarsi in questo, di modo che la sua conoscenza cadrebbe in qualche modo nel vuoto, non trovando nulla a cui possa applicarsi realmente. Inversamente, il nome profano rappresenta una modalità di cui l’essere deve spogliarsi quando entra nel dominio iniziatico, e che allora non è più per lui se non una semplice parte che recita all’esterno; questo nome non potrebbe dunque valere in tale dominio, in rapporto al quale quel ch’esprime è in qualche modo inesistente. D’altra parte, va da sé che tali ragioni profonde della distinzione e per così dire della separazione del nome iniziatico e del nome profano, come designanti “entità” effettivamente differenti, possono non essere coscienti in tutti gli ambiti in cui il cambiamento di nome è praticato di fatto; può accadere che, in seguito a una degenerazione di talune organizzazioni iniziatiche, si giunga in esse al punto di tentare di spiegarlo con motivi del tutto esteriori, ad esempio presentandolo come una semplice misura di prudenza, cosa che, insomma, ha più o meno lo stesso valore delle interpretazioni del rituale e del simbolismo in senso morale o politico, e non impedisce affatto che vi sia stato tutt’altro all’origine. Per converso, se si tratta solo d’organizzazioni profane, questi stessi motivi esteriori sono ben realmente valevoli, e non vi sarebbe nulla di più, a meno tuttavia che non vi sia anche, in certi casi, come abbiamo già detto a proposito dei riti, il desiderio d’imitare gli usi delle organizzazioni iniziatiche, ma, naturalmente, senza che ciò possa allora rispondere alla minima realtà; e questo mostra ancora una volta che apparenze simili possono, di fatto, celare le cose più differenti.
Ora, tutto quel che abbiamo detto finora di questa molteplicità di nomi, rappresentanti altrettante modalità dell’essere, si riferisce unicamente a estensioni dell’individualità umana, comprese nella sua realizzazione integrale, ossia, iniziaticamente, al dominio dei “piccoli misteri”, come spiegheremo in seguito in modo più preciso. Quando l’essere passa ai “grandi misteri”, vale a dire alla realizzazione di stati sovra-individuali, passa con ciò stesso di là del nome e della forma, poiché, come insegna la dottrina indù, queste (nâma-rûpa) sono le espressioni rispettive dell’essenza e della sostanza dell’individualità. Un tale essere, veramente, non ha dunque più alcun nome, poiché quella è una limitazione dalla quale si è ormai liberato; potrà, se è opportuno, assumere non importa quale nome per manifestarsi nel dominio individuale, ma tale nome non l’intaccherà in alcun modo e sarà per lui tanto “accidentale” quanto un semplice vestito che si può togliere o cambiare a volontà. È questa la spiegazione di quanto dicevamo più sopra: quando si tratta d’organizzazioni di quest’ordine, i loro membri non hanno nome, né hanno un nome esse stesse; in tali condizioni, che vi è ancora che possa offrirsi alla curiosità profana? Quand’anche questa arrivi a scoprire qualche nome, essi non avranno che un valore del tutto convenzionale; e questo, spesso, può verificarsi già per organizzazioni d’ordine inferiore a quello, nelle quali saranno ad esempio utilizzate “firme collettive”, rappresentanti, sia tali organizzazioni nel loro insieme, sia delle funzioni intese indipendentemente dalle individualità che le ricoprono. Tutto ciò, lo ripetiamo, discende dalla natura stessa delle cose d’ordine iniziatico, in cui le considerazioni individuali non contano nulla, e non ha affatto come fine quello di sviare certe ricerche, sebbene questo ne sia una conseguenza di fatto; ma come potrebbero i profani supporre altro dalle intenzioni che essi stessi potrebbero avervi?
Da là viene anche, in molti casi, la difficoltà o addirittura l’impossibilità d’identificare gli autori d’opere aventi un certo carattere iniziatico [3]: o esse sono del tutto anonime, o, ed è lo stesso, non hanno per firma che un marchio simbolico o un nome convenzionale; non vi è d’altronde alcuna ragione perché i loro autori abbiano giocato nel mondo profano un ruolo apparente qualunque. Quando invece opere del genere portano il nome d’un individuo noto per aver effettivamente vissuto, non per questo si è molto più facilitati, giacché non è per questo che si saprà esattamente con chi o con cosa si ha a che fare: tale individuo può benissimo essere stato soltanto un portaparola, perfino una maschera; in un caso simile, la sua opera presunta potrà comportare conoscenze che egli non avrà mai avuto realmente; egli potrebbe essere solo un iniziato di grado inferiore, o anche un semplice profano che sarebbe stato scelto per ragioni contingenti qualunque [4]; e allora non è evidentemente l’autore che ha importanza, ma unicamente l’organizzazione che l’ha ispirato.
Del resto, anche nell’ordine profano, ci si può stupire dell’importanza attribuita oggigiorno all’individualità d’un autore e a tutto quel lo riguarda da vicino o da lontano; forse che il valore dell’opera dipende in qualche modo da queste cose? D’altro lato, è facile costatare che la preoccupazione di dare il proprio nome a un’opera qualsiasi si incontra tanto meno in una civiltà quanto più questa è strettamente legata ai principi tradizionali, di cui, infatti, l’“individualismo” sotto tutte le sue forme è la negazione vera e propria. Si può comprendere senza difficoltà che tutte queste cose sono legate tra di loro, e non vogliamo insistervi ulteriormente, tanto più che su di esse ci siamo sovente già spiegati altrove; ma non era inutile sottolineare ancora, in quest’occasione, il ruolo dello spirito antitradizionale, caratteristico dell’epoca moderna, come causa principale dell’incomprensione delle realtà iniziatiche e della tendenza a ridurle ai punti di vista profani. È questo spirito che, sotto nomi come “umanesimo” e “razionalismo”, si sforza costantemente, da diversi secoli, di ricondurre tutto alle proporzioni dell’individualità umana volgare, intendiamo la porzione ristretta che ne conoscono i profani, e di negare tutto quel che supera tale dominio strettamente limitato, dunque in particolare tutto quel che ha attinenza con l’iniziazione, a qualunque grado. C’è appena bisogno di far rilevare come le considerazioni che abbiamo qui esposto si basano essenzialmente sulla dottrina metafisica degli stati molteplici dell’essere, della quale sono un’applicazione diretta [5]; come potrebbe una simile dottrina essere compresa da chi abbia la pretesa di fare dell’uomo individuale, e addirittura della sua sola modalità corporea, un tutto completo e chiuso, un essere sufficiente a se stesso, invece di vedervi solo quel che esso è in realtà, la manifestazione contingente e transitoria d’un essere in un dominio molto particolare nella moltitudine indefinita di quelli il cui insieme costituisce l’Esistenza universale, e ai quali corrispondono, per questo stesso essere, altrettante modalità e stati differenti, di cui gli sarà possibile prender coscienza precisamente seguendo la via che gli è aperta dall’iniziazione?
* R. Guénon, Aperçus sur l’Initiation, Éditions Traditionnelles, Paris, 1946, cap. XXVII.
1. Questo caso è segnatamente, in Occidente, quello dei veri Rosa-Croce.↩
2. La prima deve d’altronde essere considerata come se avesse un’esistenza illusoria in rapporto alla seconda, non solo in ragione della differenza dei gradi di realtà ai quali esse si riferiscono rispettivamente, ma anche perché, come abbiamo spiegato poco sopra, la “seconda nascita” implica necessariamente la “morte” dell’individualità profana, che così non può più sussistere se non a titolo di semplice apparenza esteriore.↩
3. Ciò è d’altronde suscettibile d’una applicazione molto generale in tutte le civiltà tradizionali, a motivo del carattere iniziatico inerente ai mestieri stessi, di modo che ogni opera d’arte (o quel che i moderni chiamerebbero così), di qualunque genere sia, ne partecipa necessariamente in una certa misura. Su tale questione, che è quella del senso superiore e tradizionale dell’“anonimato”, si veda Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. IX.↩
4. Ad esempio, sembra che questo sia stato, almeno in parte, il caso dei romanzi del Santo Graal; è pure a una questione di questo genere che si riferiscono, in fondo, tutte le discussioni alle quali ha dato origine la “personalità” di Shakespeare, sebbene, di fatto, coloro che vi si sono applicati non hanno mai saputo portare questa questione sul suo vero terreno, di modo che non han fatto altro che ingarbugliarla in modo pressoché inestricabile.↩
5. Si veda, per l’esposizione completa della dottrina in questione, il nostro studio Gli Stati molteplici dell’Essere.↩
https://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-nomi-profani-e-nomi-iniziatici/
René Guénon
Parlando precedentemente dei diversi generi di segreti d’ordine più o meno esteriore che possono esistere in certe organizzazioni, iniziatiche o no, abbiamo menzionato tra gli altri il segreto riguardante i nomi dei loro membri; e può ben sembrare, a prima vista, che sia un segreto da considerare tra le semplici misure di precauzione destinate a proteggersi contro i pericoli derivanti da eventuali nemici, senza che occorra cercarvi una ragione più profonda. In realtà, è sicuramente così in molti casi, e per lo meno in quelli nei quali si ha a che fare con organizzazioni segrete puramente profane; tuttavia, quando si tratta d’organizzazioni iniziatiche, è possibile vi sia altro, e che questo segreto, come tutto il resto, rivesta un carattere veramente simbolico. Vi è tanto più interesse a soffermarsi un po’ su tale punto, quanto la curiosità dei nomi è una delle manifestazioni più ordinarie dell’“individualismo” moderno, e, quando si pretenda applicarla alle cose del dominio iniziatico, testimonia inoltre una grave ignoranza delle realtà di quest’ordine, e una deprecabile tendenza a volerle ricondurre al livello delle contingenze profane. Lo “storicismo” dei nostri contemporanei non è soddisfatto che mettendo dei nomi propri su tutte le cose, vale a dire attribuendole a individualità umane definite, secondo la concezione più limitata che ci si possa fare d’esse, quella che ha corso nella vita profana e che non tiene conto se non della sola modalità corporea. Tuttavia, il fatto che l’origine delle organizzazioni iniziatiche non possa mai essere ricondotta a tali individualità dovrebbe già far riflettere a proposito; e, quando si tratti di quelle dell’ordine più profondo, i loro stessi membri non possono essere identificati, non tanto perché si dissimulino, il che, per quanta cura vi pongano, potrebbe non essere sempre efficace, ma perché, rigorosamente parlando, non sono dei “personaggi” nel senso che vorrebbero gli storici, al punto che chiunque crederà di poterli nominare cadrà, con ciò stesso, inevitabilmente in errore [1]. Prima di passare a spiegazioni più ampie sull’argomento, diremo che qualcosa d’analogo si ritrova, mantenendo le proporzioni, a tutti i gradi della scala iniziatica, anche ai più elementari, di modo che, se un’organizzazione iniziatica è realmente quel che dev’essere, la designazione d’uno qualunque dei suoi membri con un nome profano, quand’anche sia “materialmente” esatta, sarà sempre intaccata da falsità, quasi come lo sarebbe la confusione tra un attore e un personaggio di cui reciti la parte e del quale ci si ostinasse ad attribuirgli il nome in tutte le circostanze della sua esistenza.
Abbiamo già insistito sulla concezione dell’iniziazione come “seconda nascita”; è precisamente come conseguenza logica immediata di questa concezione che, in numerose organizzazioni, l’iniziato riceve un nuovo nome, differente dal suo nome profano; e non si tratta d’una semplice formalità, giacché tale nome deve corrispondere a una modalità parimenti differente del suo essere, quella la cui realizzazione è resa possibile dall’azione dell’influenza spirituale trasmessa dall’iniziazione; si può inoltre osservare che, anche dal punto di vista exoterico, la stessa pratica esiste, con una ragione analoga, in taluni ordini religiosi. Avremo dunque per lo stesso essere due modalità distinte, una che si manifesta nel mondo profano, e l’altra all’interno dell’organizzazione iniziatica [2]; e, normalmente, ciascuna d’esse deve avere il suo nome proprio, quello dell’una non convenendo all’altra, poiché si situano in due ordini realmente differenti. Ci si può spingere più lontano: a ogni grado d’iniziazione effettiva corrisponde ancora un’altra modalità dell’essere; questi dovrebbe dunque ricevere un nuovo nome per ognuno di tali gradi, e, quand’anche non gli venga di fatto attribuito, ciò nondimeno esiste, si può dire, quale espressione caratteristica di questa modalità, giacché un nome non è altro che questo in realtà. Ora, come queste modalità sono gerarchizzate nell’essere, così è ugualmente dei nomi che li rappresentano rispettivamente; un nome sarà dunque tanto più vero quanto più corrisponderà a una modalità d’ordine più profondo, poiché, con ciò stesso, esprimerà qualcosa di più vicino alla vera essenza dell’essere. Contrariamente all’opinione volgare, è dunque il nome profano che, legato alla modalità più esteriore e alla manifestazione più superficiale, è il meno vero di tutti; e così è soprattutto in una civiltà che abbia perduto qualsiasi carattere tradizionale, e in cui un nome simile non esprime pressoché più nulla della natura dell’essere. Quanto a quello che si può chiamare il vero nome dell’essere umano, il più vero di tutti, nome che è d’altronde propriamente un “numero”, nel senso pitagorico e qabbalistico della parola, è quello che corrisponde alla modalità centrale della sua individualità, ossia alla sua restaurazione nello “stato primordiale”, giacché è quello che costituisce l’espressione integrale della sua essenza individuale.
Da queste considerazioni risulta che un nome iniziatico non ha da essere conosciuto nel mondo profano, poiché rappresenta una modalità dell’essere che non potrebbe manifestarsi in questo, di modo che la sua conoscenza cadrebbe in qualche modo nel vuoto, non trovando nulla a cui possa applicarsi realmente. Inversamente, il nome profano rappresenta una modalità di cui l’essere deve spogliarsi quando entra nel dominio iniziatico, e che allora non è più per lui se non una semplice parte che recita all’esterno; questo nome non potrebbe dunque valere in tale dominio, in rapporto al quale quel ch’esprime è in qualche modo inesistente. D’altra parte, va da sé che tali ragioni profonde della distinzione e per così dire della separazione del nome iniziatico e del nome profano, come designanti “entità” effettivamente differenti, possono non essere coscienti in tutti gli ambiti in cui il cambiamento di nome è praticato di fatto; può accadere che, in seguito a una degenerazione di talune organizzazioni iniziatiche, si giunga in esse al punto di tentare di spiegarlo con motivi del tutto esteriori, ad esempio presentandolo come una semplice misura di prudenza, cosa che, insomma, ha più o meno lo stesso valore delle interpretazioni del rituale e del simbolismo in senso morale o politico, e non impedisce affatto che vi sia stato tutt’altro all’origine. Per converso, se si tratta solo d’organizzazioni profane, questi stessi motivi esteriori sono ben realmente valevoli, e non vi sarebbe nulla di più, a meno tuttavia che non vi sia anche, in certi casi, come abbiamo già detto a proposito dei riti, il desiderio d’imitare gli usi delle organizzazioni iniziatiche, ma, naturalmente, senza che ciò possa allora rispondere alla minima realtà; e questo mostra ancora una volta che apparenze simili possono, di fatto, celare le cose più differenti.
Ora, tutto quel che abbiamo detto finora di questa molteplicità di nomi, rappresentanti altrettante modalità dell’essere, si riferisce unicamente a estensioni dell’individualità umana, comprese nella sua realizzazione integrale, ossia, iniziaticamente, al dominio dei “piccoli misteri”, come spiegheremo in seguito in modo più preciso. Quando l’essere passa ai “grandi misteri”, vale a dire alla realizzazione di stati sovra-individuali, passa con ciò stesso di là del nome e della forma, poiché, come insegna la dottrina indù, queste (nâma-rûpa) sono le espressioni rispettive dell’essenza e della sostanza dell’individualità. Un tale essere, veramente, non ha dunque più alcun nome, poiché quella è una limitazione dalla quale si è ormai liberato; potrà, se è opportuno, assumere non importa quale nome per manifestarsi nel dominio individuale, ma tale nome non l’intaccherà in alcun modo e sarà per lui tanto “accidentale” quanto un semplice vestito che si può togliere o cambiare a volontà. È questa la spiegazione di quanto dicevamo più sopra: quando si tratta d’organizzazioni di quest’ordine, i loro membri non hanno nome, né hanno un nome esse stesse; in tali condizioni, che vi è ancora che possa offrirsi alla curiosità profana? Quand’anche questa arrivi a scoprire qualche nome, essi non avranno che un valore del tutto convenzionale; e questo, spesso, può verificarsi già per organizzazioni d’ordine inferiore a quello, nelle quali saranno ad esempio utilizzate “firme collettive”, rappresentanti, sia tali organizzazioni nel loro insieme, sia delle funzioni intese indipendentemente dalle individualità che le ricoprono. Tutto ciò, lo ripetiamo, discende dalla natura stessa delle cose d’ordine iniziatico, in cui le considerazioni individuali non contano nulla, e non ha affatto come fine quello di sviare certe ricerche, sebbene questo ne sia una conseguenza di fatto; ma come potrebbero i profani supporre altro dalle intenzioni che essi stessi potrebbero avervi?
Da là viene anche, in molti casi, la difficoltà o addirittura l’impossibilità d’identificare gli autori d’opere aventi un certo carattere iniziatico [3]: o esse sono del tutto anonime, o, ed è lo stesso, non hanno per firma che un marchio simbolico o un nome convenzionale; non vi è d’altronde alcuna ragione perché i loro autori abbiano giocato nel mondo profano un ruolo apparente qualunque. Quando invece opere del genere portano il nome d’un individuo noto per aver effettivamente vissuto, non per questo si è molto più facilitati, giacché non è per questo che si saprà esattamente con chi o con cosa si ha a che fare: tale individuo può benissimo essere stato soltanto un portaparola, perfino una maschera; in un caso simile, la sua opera presunta potrà comportare conoscenze che egli non avrà mai avuto realmente; egli potrebbe essere solo un iniziato di grado inferiore, o anche un semplice profano che sarebbe stato scelto per ragioni contingenti qualunque [4]; e allora non è evidentemente l’autore che ha importanza, ma unicamente l’organizzazione che l’ha ispirato.
Del resto, anche nell’ordine profano, ci si può stupire dell’importanza attribuita oggigiorno all’individualità d’un autore e a tutto quel lo riguarda da vicino o da lontano; forse che il valore dell’opera dipende in qualche modo da queste cose? D’altro lato, è facile costatare che la preoccupazione di dare il proprio nome a un’opera qualsiasi si incontra tanto meno in una civiltà quanto più questa è strettamente legata ai principi tradizionali, di cui, infatti, l’“individualismo” sotto tutte le sue forme è la negazione vera e propria. Si può comprendere senza difficoltà che tutte queste cose sono legate tra di loro, e non vogliamo insistervi ulteriormente, tanto più che su di esse ci siamo sovente già spiegati altrove; ma non era inutile sottolineare ancora, in quest’occasione, il ruolo dello spirito antitradizionale, caratteristico dell’epoca moderna, come causa principale dell’incomprensione delle realtà iniziatiche e della tendenza a ridurle ai punti di vista profani. È questo spirito che, sotto nomi come “umanesimo” e “razionalismo”, si sforza costantemente, da diversi secoli, di ricondurre tutto alle proporzioni dell’individualità umana volgare, intendiamo la porzione ristretta che ne conoscono i profani, e di negare tutto quel che supera tale dominio strettamente limitato, dunque in particolare tutto quel che ha attinenza con l’iniziazione, a qualunque grado. C’è appena bisogno di far rilevare come le considerazioni che abbiamo qui esposto si basano essenzialmente sulla dottrina metafisica degli stati molteplici dell’essere, della quale sono un’applicazione diretta [5]; come potrebbe una simile dottrina essere compresa da chi abbia la pretesa di fare dell’uomo individuale, e addirittura della sua sola modalità corporea, un tutto completo e chiuso, un essere sufficiente a se stesso, invece di vedervi solo quel che esso è in realtà, la manifestazione contingente e transitoria d’un essere in un dominio molto particolare nella moltitudine indefinita di quelli il cui insieme costituisce l’Esistenza universale, e ai quali corrispondono, per questo stesso essere, altrettante modalità e stati differenti, di cui gli sarà possibile prender coscienza precisamente seguendo la via che gli è aperta dall’iniziazione?
* R. Guénon, Aperçus sur l’Initiation, Éditions Traditionnelles, Paris, 1946, cap. XXVII.
1. Questo caso è segnatamente, in Occidente, quello dei veri Rosa-Croce.↩
2. La prima deve d’altronde essere considerata come se avesse un’esistenza illusoria in rapporto alla seconda, non solo in ragione della differenza dei gradi di realtà ai quali esse si riferiscono rispettivamente, ma anche perché, come abbiamo spiegato poco sopra, la “seconda nascita” implica necessariamente la “morte” dell’individualità profana, che così non può più sussistere se non a titolo di semplice apparenza esteriore.↩
3. Ciò è d’altronde suscettibile d’una applicazione molto generale in tutte le civiltà tradizionali, a motivo del carattere iniziatico inerente ai mestieri stessi, di modo che ogni opera d’arte (o quel che i moderni chiamerebbero così), di qualunque genere sia, ne partecipa necessariamente in una certa misura. Su tale questione, che è quella del senso superiore e tradizionale dell’“anonimato”, si veda Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. IX.↩
4. Ad esempio, sembra che questo sia stato, almeno in parte, il caso dei romanzi del Santo Graal; è pure a una questione di questo genere che si riferiscono, in fondo, tutte le discussioni alle quali ha dato origine la “personalità” di Shakespeare, sebbene, di fatto, coloro che vi si sono applicati non hanno mai saputo portare questa questione sul suo vero terreno, di modo che non han fatto altro che ingarbugliarla in modo pressoché inestricabile.↩
5. Si veda, per l’esposizione completa della dottrina in questione, il nostro studio Gli Stati molteplici dell’Essere.↩
venerdì 3 luglio 2015
Atlantide e altri non-luoghi Alla ricerca del mito perduto
tratto da Il Giornale del 22 febbraio 2010
di Gianfranco de Turris
Il 26 dicembre 2004 sul fondo dell’Oceano indiano, a 200 km a Ovest di Sumatra, la Placca indiana all’improvviso scivolava rapidamente sotto la Placca birmana spingendola verso l’alto di cinque metri e spostando l’isola indonesiana verso Est di una ventina di metri. Il risultato di questo terremoto sottomarino di magnitudo 9,3 e di 8,5 gradi della Scala Richter e del successivo spostamento della massa d’acqua superiore, era un’onda anomala che si propagava alla velocità di 850 chilometri l’ora per tutto l’Oceano Indiano raggiungendo con uno tsunami dai dieci ai trenta metri di altezza a oriente le coste di Indonesia, Malaysia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh, e ad occidente quelle di Sri Lanka, India e Maldive, sommergendo tutte le piccole isole che si trovava davanti. Coste devastate, isole sommerse, intere popolazioni scomparse su quelle più piccole, danni incalcolabili. I morti e i dispersi accertati hanno superato i trecentomila, anche se una cifra esatta non si saprà mai. Il maggior disastro dell’epoca moderna.
Se tutto questo è avvenuto nel XXI secolo, perché non potrebbe essere avvenuto anche 9mila anni prima di Platone che ci racconta nel Timeo e nel Crizia come nel corso di «una notte tremenda» terremoti e maremoti sommersero l’isola di Atlantide che sprofondò nell’oceano? Questo solo per dire che dal punto di vista «scientifico» la storia che ci racconta il filosofo greco può non essere considerata una fandonia agli occhi dei «moderni». Il fatto è che, esistito o meno nella realtà il regno di Atlantide, esso servì a Platone per lanciare nel tempo il suo mythos, la sua fabula, che contiene degli insegnamenti in positivo e in negativo: al tempo stesso la sua «utopia» e la sua «antiutopia», descrivendoci una società perfetta di discendenza divina che diventa arrogante ed «empia» nel momento in cui dimentica o perde, appunto, quella «scintilla divina» che aveva dentro di sé.
Un mito così affascinante che nell’arco di due millenni e mezzo è giunto sino a noi, un mito a cui molti hanno creduto e che si è andato arricchendo e ampliando a seconda del periodo storico in cui venne accolto. Di tutta questa affascinante storia ci parla Davide Bigalli, che insegna storia della filosofia all’Università di Milano ne Il mito della terra perduta (Bevivino, pagg. 226, euro 20) che segue passo passo il tema dalle origini ai nostri giorni.
Il professor Bigalli scrive dunque che Atlantide «appartiene al mondo del pensiero», è «un consapevole mythos, volto a delineare, in una remota antichità, modelli di civiltà, dove le costruzioni politiche, a misura che si distaccano dall’immagine ideale, corrono a catastrofe divenendo esemplari di una contro utopia». Nello stesso tempo, l’autore fa notare, credo per primo, come questo mito, quando su quella ideale/filosofica/simbolica prevale la parte della narrazione, del racconto, della elaborazione fantastica (del resto il termine greco mythos proprio questo vuol dire) «diventa una esemplare non-luogo, il regno di una alterità che non può rinchiudersi né venire raggiunta per entro i termini di realismo geografico. Diventa un altro mondo».
Ecco perché nel corso dei secoli ha appassionato anche esploratori, avventurieri, geografi, personaggi folli e bizzarri che ne sono andati concretamente alla ricerca tentando di localizzare Atlantide qui e la, in quasi tutte le parti del mondo. E perché il suo archetipo abbia dato vita ad altre «terre perdute» di cui sempre parla Bigalli: Mu e Lemuria, ad esempio, ma anche Agartha e Shamballah, forse anche l’Eldorado, e addirittura la fantastica teoria ottocentesca della Terra Cava.
Un libro denso, zeppo di riferimenti e di citazioni tratte dai testi più singolari e sconosciuti che ci dimostra come anche di miti viva il genere umano, ancorché sempre più dotto e scettico. È sufficiente che questo mito da pura idea filosofica esemplare sia trasformato in riferimento storico-geografico, come in effetti è avvenuto.
di Gianfranco de Turris
Il 26 dicembre 2004 sul fondo dell’Oceano indiano, a 200 km a Ovest di Sumatra, la Placca indiana all’improvviso scivolava rapidamente sotto la Placca birmana spingendola verso l’alto di cinque metri e spostando l’isola indonesiana verso Est di una ventina di metri. Il risultato di questo terremoto sottomarino di magnitudo 9,3 e di 8,5 gradi della Scala Richter e del successivo spostamento della massa d’acqua superiore, era un’onda anomala che si propagava alla velocità di 850 chilometri l’ora per tutto l’Oceano Indiano raggiungendo con uno tsunami dai dieci ai trenta metri di altezza a oriente le coste di Indonesia, Malaysia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh, e ad occidente quelle di Sri Lanka, India e Maldive, sommergendo tutte le piccole isole che si trovava davanti. Coste devastate, isole sommerse, intere popolazioni scomparse su quelle più piccole, danni incalcolabili. I morti e i dispersi accertati hanno superato i trecentomila, anche se una cifra esatta non si saprà mai. Il maggior disastro dell’epoca moderna.
Se tutto questo è avvenuto nel XXI secolo, perché non potrebbe essere avvenuto anche 9mila anni prima di Platone che ci racconta nel Timeo e nel Crizia come nel corso di «una notte tremenda» terremoti e maremoti sommersero l’isola di Atlantide che sprofondò nell’oceano? Questo solo per dire che dal punto di vista «scientifico» la storia che ci racconta il filosofo greco può non essere considerata una fandonia agli occhi dei «moderni». Il fatto è che, esistito o meno nella realtà il regno di Atlantide, esso servì a Platone per lanciare nel tempo il suo mythos, la sua fabula, che contiene degli insegnamenti in positivo e in negativo: al tempo stesso la sua «utopia» e la sua «antiutopia», descrivendoci una società perfetta di discendenza divina che diventa arrogante ed «empia» nel momento in cui dimentica o perde, appunto, quella «scintilla divina» che aveva dentro di sé.
Un mito così affascinante che nell’arco di due millenni e mezzo è giunto sino a noi, un mito a cui molti hanno creduto e che si è andato arricchendo e ampliando a seconda del periodo storico in cui venne accolto. Di tutta questa affascinante storia ci parla Davide Bigalli, che insegna storia della filosofia all’Università di Milano ne Il mito della terra perduta (Bevivino, pagg. 226, euro 20) che segue passo passo il tema dalle origini ai nostri giorni.
Il professor Bigalli scrive dunque che Atlantide «appartiene al mondo del pensiero», è «un consapevole mythos, volto a delineare, in una remota antichità, modelli di civiltà, dove le costruzioni politiche, a misura che si distaccano dall’immagine ideale, corrono a catastrofe divenendo esemplari di una contro utopia». Nello stesso tempo, l’autore fa notare, credo per primo, come questo mito, quando su quella ideale/filosofica/simbolica prevale la parte della narrazione, del racconto, della elaborazione fantastica (del resto il termine greco mythos proprio questo vuol dire) «diventa una esemplare non-luogo, il regno di una alterità che non può rinchiudersi né venire raggiunta per entro i termini di realismo geografico. Diventa un altro mondo».
Ecco perché nel corso dei secoli ha appassionato anche esploratori, avventurieri, geografi, personaggi folli e bizzarri che ne sono andati concretamente alla ricerca tentando di localizzare Atlantide qui e la, in quasi tutte le parti del mondo. E perché il suo archetipo abbia dato vita ad altre «terre perdute» di cui sempre parla Bigalli: Mu e Lemuria, ad esempio, ma anche Agartha e Shamballah, forse anche l’Eldorado, e addirittura la fantastica teoria ottocentesca della Terra Cava.
Un libro denso, zeppo di riferimenti e di citazioni tratte dai testi più singolari e sconosciuti che ci dimostra come anche di miti viva il genere umano, ancorché sempre più dotto e scettico. È sufficiente che questo mito da pura idea filosofica esemplare sia trasformato in riferimento storico-geografico, come in effetti è avvenuto.
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sabato 27 giugno 2015
INSEDIAMENTI EREMITICI NELLA TOSCANA MEDIEVALE
di Aldo Favini
La Toscana è stata uno dei luoghi d’Europa in cui maggiormente, e forse con uno specifico successo, le regioni metafisiche dell’eremitismo dei Padri si sono fuse con l’ambiente reale, diocesano e comunale. Attraverso lo studio degli insediamenti eremitici del medioevo toscano, così raramente trattati nella loro integrale complessità, emerge la profondità delle discussioni che si animarono attorno ad assunti filosofici di portata universale e i modi in cui essi determinarono scelte architettoniche e insediative specifiche.
La Toscana è stata uno dei luoghi d’Europa in cui maggiormente, e forse con uno specifico successo, le regioni metafisiche dell’eremitismo dei Padri si sono fuse con l’ambiente reale, diocesano e comunale. Attraverso lo studio degli insediamenti eremitici del medioevo toscano, così raramente trattati nella loro integrale complessità, emerge la profondità delle discussioni che si animarono attorno ad assunti filosofici di portata universale e i modi in cui essi determinarono scelte architettoniche e insediative specifiche.
Per
approcciarsi ad una così vasta tematica, fertile di una quantità
insospettabile di curiosità, Aldo Favini ha costituito un ampio archivio
d’informazioni raccolte in molti anni di studio ed escursioni.
Incrociati i dati e stabilite le tendenze, questo testo risulta la
piattaforma ideale per qualsiasi futura interpretazione delle
architetture eremitiche di Toscana.
tra gli argomenti trattati:
LA STORIA DEGLI INSEDIAMENTI EREMITICI TOSCANI
L'ARCHITETTURA DELLE CHIESE EREMITICHE
LA POSIZIONE, LA DEDICAZIONE, LA TOPONOMASTICA
DECADENZA E SOPPRESSIONII
REPERTORIO DEGLI EREMI SUDDIVISI PER DIOCESI
EREMITISMO OGGI
(...)
sabato 20 giugno 2015
MISTERI ANTICHI E MODERNI. INDAGINE SULLE SOCIETÁ SEGRETE
Ogni società segreta è una pallida famiglia di vendicatori. Quegli uomini sono stretti da infrangibile giuramento; i loro riti si direbbero il programma dello sterminio; ma la loro amicizia è tenera e soave. Guardateli in viso; scuri e smorti: ma parlate loro della patria, della libertà, della verità, e il loro volto si rasserena,ride d’una luce ineffabile.
Giovanni De Castro
Società segrete, sette, consorterie: cosa evocano in voi? Riuscite ad immaginare qualcosa che vada al di là dell’effetto facile, da film di serie B, a scavalcare la facile sfumatura horror? Se ci riuscite, o se volete riuscirci, se non volete insomma essere turisti che pensano solo a un selfie da brivido, se desiderate invece essere viaggiatori, persone che da un’esperienza desiderano un cambiamento, o perlomeno un arricchimento, questo libro è il treno che dovete prendere. I suoi scompartimenti si chiamano Cavalieri Templari, Carboneria, Beati Paoli, Scamiciati. Qualcuno di questi nomi forse vi dirà qualcosa, altri magari no. L’importante è sedersi, con la curiosità di chi vuole conoscere senza pregiudizi, lasciandovi trasportare dalla prosa di Michele Leone, che prima di voi ha affrontato questo viaggio e così bene lo sa raccontare.
Basterebbe già l’introduzione, che apre la porta nascosta in ogni parola italiana per arrivare all’antenato greco o latino. Una società segreta (da secretum, quindi da secernere, mettere da parte, separare) è un insieme di persone legate da un’idea o esperienza comune che agiscono separatamente dalla società civile comunemente intesa ed accettano nuovi membri solo ed esclusivamente attraverso riti o cerimonie di iniziazione o promesse solenni e giuramenti. A partire da questa definizione, volutamente generica, ma soprattutto priva di giudizio di valore (perché solo senza giudizio si dà la vera conoscenza), l’autore ricostruisce la storia di molte società segrete attraverso fonti storiche documentate, senza dedicarsi a quelle sette o società dedite a culti neo religiosi, satanici o di complotto, riscoprendone il significato originale. Giovanni De Castro afferma infatti che “uno dei più ovvi sentimenti, ispiratori delle società segrete, è quello della vendetta, ma della buona e provvida vendetta, aliena dai rancori personali, assente ove si discute un interesse volgare, che vuol punire le istituzioni e non gli individui, colpire le idee e non gli uomini”.
Ora che vi siete messi comodi, vi basti sapere che la prima fermata si chiama Pitagora, e l’ultima, Carboneria. Se avrete gli occhi bene aperti, ma soprattutto la mente, potrete trovare in queste pagine moltissimi spunti di riflessione, che vi porterà a camminare in un corridoio pieno di porte socchiuse verso Storia, Tradizione e Iniziazione. Chissà quali e quanti altri viaggi avrete voglia di fare, dopo aver sfogliato l’ultima pagina.
Michele Leone
MISTERI ANTICHI E MODERNI. INDAGINE SULLE SOCIETÁ SEGRETE
Yume Edizioni 2015
Pagine 192
Euro 15,00
Laureato in Lettere e Filosofia presso l’università degli studi di Bari, Leone inizia il suo percorso con la poesia, suo primo grande e intramontabile amore:
Dervisci
ballo oscuri versetti
in vite altre
vissute altrove
da te
ch’aspetti
l’ultimo tramonto
con tre monete
davanti al mare
Poi si avvicina alla narrativa per curiosità di sperimentare e sperimentarsi: la sua giovane penna dà vita ai deliri, forme brevi, flussi di coscienza e di emozioni che spalancano finestre sull’ignoto, su quanto è nascosto e che nel buio aspetta un traghettatore.
Dalla fine degli anni ’90, Leone ha indirizzato le sue ricerche prevalentemente verso la tradizione ermetica e la massoneria, diventandone un esperto conoscitore e divulgatore, grazie anche alla sua capacità di trasmettere passione e interesse. Chi è affascinato dall’ignoto, e desidera avvicinarsi, conoscere, troverà nelle parole di Michele Leone una guida capace di descriverne in modo affascinante ed invitante complessità e bellezza. Ne sono testimonianza alcuni dei suoi testi, come Il linguaggio simbolico dell’esoterismo e Le Magie del simbolo. Dall’Anhk al tatuaggio per Mondi Velati Editore.
Recentemente ha iniziato ad affrontare tematiche legate all’alchimia spirituale, percorso che partendo dalla alchimia classica e passando da Jung permette di approfondire la conoscenza di se stessi e della propria interiorità.
La passione di Michele Leone non si ferma alle sole sue parole. La sua passione per la conoscenza lo ha portato a diventare responsabile della collana I Ritrovati per Mondi Velati Editore, vice direttore di redazione di Delta, Rassegna di Cultura Massonica, e da poco direttore della collana Misteri Antichi e Moderni di Yume Edizioni. Collabora, inoltre, con le testate periodiche IlCervoBianco e Ouroboros.
Giovanni De Castro
Società segrete, sette, consorterie: cosa evocano in voi? Riuscite ad immaginare qualcosa che vada al di là dell’effetto facile, da film di serie B, a scavalcare la facile sfumatura horror? Se ci riuscite, o se volete riuscirci, se non volete insomma essere turisti che pensano solo a un selfie da brivido, se desiderate invece essere viaggiatori, persone che da un’esperienza desiderano un cambiamento, o perlomeno un arricchimento, questo libro è il treno che dovete prendere. I suoi scompartimenti si chiamano Cavalieri Templari, Carboneria, Beati Paoli, Scamiciati. Qualcuno di questi nomi forse vi dirà qualcosa, altri magari no. L’importante è sedersi, con la curiosità di chi vuole conoscere senza pregiudizi, lasciandovi trasportare dalla prosa di Michele Leone, che prima di voi ha affrontato questo viaggio e così bene lo sa raccontare.
Basterebbe già l’introduzione, che apre la porta nascosta in ogni parola italiana per arrivare all’antenato greco o latino. Una società segreta (da secretum, quindi da secernere, mettere da parte, separare) è un insieme di persone legate da un’idea o esperienza comune che agiscono separatamente dalla società civile comunemente intesa ed accettano nuovi membri solo ed esclusivamente attraverso riti o cerimonie di iniziazione o promesse solenni e giuramenti. A partire da questa definizione, volutamente generica, ma soprattutto priva di giudizio di valore (perché solo senza giudizio si dà la vera conoscenza), l’autore ricostruisce la storia di molte società segrete attraverso fonti storiche documentate, senza dedicarsi a quelle sette o società dedite a culti neo religiosi, satanici o di complotto, riscoprendone il significato originale. Giovanni De Castro afferma infatti che “uno dei più ovvi sentimenti, ispiratori delle società segrete, è quello della vendetta, ma della buona e provvida vendetta, aliena dai rancori personali, assente ove si discute un interesse volgare, che vuol punire le istituzioni e non gli individui, colpire le idee e non gli uomini”.
Ora che vi siete messi comodi, vi basti sapere che la prima fermata si chiama Pitagora, e l’ultima, Carboneria. Se avrete gli occhi bene aperti, ma soprattutto la mente, potrete trovare in queste pagine moltissimi spunti di riflessione, che vi porterà a camminare in un corridoio pieno di porte socchiuse verso Storia, Tradizione e Iniziazione. Chissà quali e quanti altri viaggi avrete voglia di fare, dopo aver sfogliato l’ultima pagina.
Michele Leone
MISTERI ANTICHI E MODERNI. INDAGINE SULLE SOCIETÁ SEGRETE
Yume Edizioni 2015
Pagine 192
Euro 15,00
Notizie sull'autore
Michele Leone è un personaggio poliedrico che si autodefinisce curioso, ma allo stesso tempo ignorante, studioso scientifico, ma contemporaneamente ametodico. E neppure si proclama scrittore, ma un artigiano del pensiero, di un pensiero occulto e misterioso, capace di passare con destrezza da una forma all’altra, senza vincolarsi a nessuna, lasciandosi guidare dal sotterraneo fil rouge dell’esoterismo. Laureato in Lettere e Filosofia presso l’università degli studi di Bari, Leone inizia il suo percorso con la poesia, suo primo grande e intramontabile amore:
Dervisci
ballo oscuri versetti
in vite altre
vissute altrove
da te
ch’aspetti
l’ultimo tramonto
con tre monete
davanti al mare
Poi si avvicina alla narrativa per curiosità di sperimentare e sperimentarsi: la sua giovane penna dà vita ai deliri, forme brevi, flussi di coscienza e di emozioni che spalancano finestre sull’ignoto, su quanto è nascosto e che nel buio aspetta un traghettatore.
Dalla fine degli anni ’90, Leone ha indirizzato le sue ricerche prevalentemente verso la tradizione ermetica e la massoneria, diventandone un esperto conoscitore e divulgatore, grazie anche alla sua capacità di trasmettere passione e interesse. Chi è affascinato dall’ignoto, e desidera avvicinarsi, conoscere, troverà nelle parole di Michele Leone una guida capace di descriverne in modo affascinante ed invitante complessità e bellezza. Ne sono testimonianza alcuni dei suoi testi, come Il linguaggio simbolico dell’esoterismo e Le Magie del simbolo. Dall’Anhk al tatuaggio per Mondi Velati Editore.
Recentemente ha iniziato ad affrontare tematiche legate all’alchimia spirituale, percorso che partendo dalla alchimia classica e passando da Jung permette di approfondire la conoscenza di se stessi e della propria interiorità.
La passione di Michele Leone non si ferma alle sole sue parole. La sua passione per la conoscenza lo ha portato a diventare responsabile della collana I Ritrovati per Mondi Velati Editore, vice direttore di redazione di Delta, Rassegna di Cultura Massonica, e da poco direttore della collana Misteri Antichi e Moderni di Yume Edizioni. Collabora, inoltre, con le testate periodiche IlCervoBianco e Ouroboros.
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michele leone,
MISTERI ANTICHI E MODERNI. INDAGINE SULLE SOCIETÁ SEGRETE,
società segrete,
templari,
torino
domenica 7 giugno 2015
La Soluzione ai Superbatteri in un Manoscritto?
Segnaliamo questo interessante articolo su una possibile soluzione antibatterica ricavata da un manoscritto medievale
https://enricosanna.wordpress.com/2015/04/23/la-soluzione-ai-superbatteri-in-un-manoscritto/#more-452
https://enricosanna.wordpress.com/2015/04/23/la-soluzione-ai-superbatteri-in-un-manoscritto/#more-452
lunedì 11 maggio 2015
Una riflessione sui testimoni di casi inspiegabili
di
Vito Foschi
Sabato
scorso guardavo Unexplained Files su Deejay Tv e fra i vari argomenti è
capitato anche quello di un Ufo avvistato da un pilota militare; ciò mi ha
fatto nascere una riflessione sui testimoni di casi cosiddetti inspiegabili. I
testimoni singoli a volte vengono accusati di essere solo persone in cerca di
notorietà o attenzione, mentre nel caso di una pluralità di testimoni si parla
di isteria collettiva.
Indubbiamente
esistono episodi di vere e proprie truffe o di persone disturbate o in cerca
del famoso quarto d’ora di notorietà, però in altri non si capisce perché una
persona dovrebbe inventarsi una storia incredibile e poi andarla a raccontare
in giro. Facendo un lavoro da impiegato con annesso capoufficio, sono in
qualche modo vincolato ad una certa disciplina e a vincoli “sociali”. Ciò
accade in un normale luogo di lavoro e si immagina che in ambienti come quelli
militari, medici o professionali in cui conta gerarchia e reputazione la
situazione sia ancora più rigida. Andreste da un medico che va in giro a
raccontare che vede gli Ufo? O un militare potrebbe continuare a fare carriera
se va in tv a dire che vede i fantasmi? In breve, è un po’ difficile credere
che tutti i testimoni di casi inspiegabili non siano credibili e lo facciano
solo per notorietà. Tranne chi può ricavarci una professione, non pare che ci
siano tutti questi vantaggi ad andare in tv a dire di essere testimoni di casi
inspiegabili, specialmente per alcune persone. Si immagini un piccolo paese di
provincia dove si conoscono tutti, quanto una persona possa venire etichettata
negativamente, se denuncia di essere stato testimone di un qualche fenomeno
inspiegabile. Certo, un individuo può fraintendere ciò che ha visto, ma non si
può sempre dubitare della buona fede.
L’altra
questione è l’isteria collettiva. Sicuramente un singolo immerso in una folla è
soggetto alle influenze del gruppo, ma sembra difficile credere che queste
influenze possano arrivare al punto che una persona possa vedere cose che non
esistono. Questo dubbio viene ampliato dalla presenza di individui eterogenei e
persino scettici come capitato a Fatima con il fenomeno del sole ballerino. Una
folla omogenea è diversa da una eterogenea. Provo a spiegare. Una folla di
tifosi è legata dall’interesse per quel particolare sport e per la propria
squadra, e sicuramente un singolo in tale circostanze può subire una forte
influenza. Diverso pare il caso di un gruppo di persone che per accidente
assiste ad un fenomeno inspiegabile, o come nei fatti di Fatima quando si
radunano sia chi vuole credere e sia chi sta lì proprio per smentire il
fenomeno. Indubbiamente un gruppo di credenti che vuole vedere un miracolo può
essere soggetto ad una influenza, ma risulta difficile credere che un semplice
curioso venga così influenzato da vedere ciò che vedono gli altri.
giovedì 7 maggio 2015
La Termocamera e le Variazioni di Temperatura
In collaborazione con Hesperya
tratto da: http://www.hesperya.net/il-ghost-hunting/la-termocamera/
di Roberta Faliva
La termo-camera è una particolare telecamera, sensibile alla radiazione infrarossa, capace di ottenere immagini termografiche. A partire dalla radiazione rilevata si ottengono dunque delle mappe di temperatura delle superfici esposte spesso utilizzate a fini scientifici o anche militari. Questi strumenti consentono di misurare il valore di temperatura assoluto di ogni punto dell’immagine. L’immagine, infatti, è costruita su una matrice di un certo numero di pixel per un certo numero di righe. L’elettronica dello strumento “legge” velocemente il valore di energia immagazzinata da ogni singolo pixel e genera un’immagine, in bianco e nero o in falsi colori, dell’oggetto osservato.
Esistono numerose teorie che associano fenomeni paranormali a fenomeni termici, sottolineando come questi ultimi risultino sempre essere caratterizzati da un repentino abbassamento della temperatura nell’ambiente di indagine. Proprio perché il calore è energia, si può avvertire la diminuzione della temperatura poiché l’energia disponibile viene assorbita ed utilizzata dall’entità che fa manifestare il fenomeno paranormale stesso.
mercoledì 22 aprile 2015
Roba da matti
di Marcello Vicchio
Non sembri strano che spesso il cercatore di Luce ritorni alla poesia, perché questa è forse il veicolo più potente di trasmissione del Messaggio. Quando gli uomini hanno scelto di indagare il sovra-umano, di narrare imprese tali da annichilire le loro piccole forze, di cantare le glorie celesti o la sapienza, spesso il linguaggio scelto è stato quello della poesia, il più simile alla "lingua degli uccelli".
L’impareggiabile libertà creatrice contenuta nella parola ( In principio era il verbo.), fa sì che tutto l’universo materiale e spirituale, e ogni attività o momento dello spirito umano, possano rientrare nel dominio della poesia e in questa riverberino quelle immagini, simboli, allegorie capaci di impossessarsi della mente e del cuore di chi legge, ascolta e si ascolta, e condurlo laddove la potenza dell’espressione desideri.
La comprensione piena, poi, della vera opera d’arte è legata strettamente al grado di sintonia interiore, culturale e intellettuale, uguale nella trama ma sempre diversa nei contenuti, che si instaura nel momento in cui il prodotto del genio creativo investe l’animo dello spettatore, con tutte le limitazioni sottintese. Limitazioni, sì, perché tra artista e osservatore deve crearsi un processo di osmosi continua (sono loro due gli unici attori del personalissimo "dramma" che scaturisce dal confronto) e non sempre chi osserva è capace di vedere.
Del resto dramma deriva dal greco drama, che significa azione, partecipazione emotiva, e se capita di essere indifferenti o distratti alla voce della Natura e anche a quella delle Muse, le nostre vite saranno condannate a scorrere sui livelli elementari dell’essere, su piani paralleli rispetto alle Forme e senza mai intersecarsi con queste. Continueremo a dormire a occhi aperti, ciechi ai sottilissimi fili che si snodano da altri gradi di realtà e che i saggi, gli iniziati dell’antichità, qualche volta ci hanno indicato. Legati agli alberi maestri delle nostre navi, sordi al richiamo delle sirene, mai riusciremo ad afferrare altro che non sia il subito e l’adesso.
"Accade" così che alcuni versi del Purgatorio dantesco, la cantica più squisitamente esoterica dell’opera perché simboleggia l’anima che sta ritrovando faticosamente la Luce dopo il travaglio infernale, improvvisamente lascino trasparire significati reconditi ma invisibili a uno sguardo superficiale, perfetti emblemi di quel "parlar sottile" del quale Dante è inimitabile maestro.
Ingannato dal significato letterale di un paio di terzine, perché mai prima d’ora era scoccata in me l’alchemica fusione artista-osservatore alla quale accennavo prima, per difetto non certamente dell’artista, non avevo notato quel quid che costringe la mente a fare un altro piccolo passo nella comprensione dell’opera. e dell’Opera.
"Tutto accade", soleva ripetere un grande Maestro, senza che siamo noi a scegliere. E ogni cosa accade quando deve accadere.
Vediamo allora che cosa succede nel 3° canto del Purgatorio, tra i versi 33 e 39.
Dante e Virgilio sono ai piedi del monte del Purgatorio, stanno cioè iniziando la scalata che porterà il Poeta, gradualmente, a raggiungere il Paradiso Terrestre ( la Gerusalemme Celeste). Dante vede sul terreno, dinnanzi a sé, solo la sua ombra e sussulta, temendo di essere stato abbandonato dal Maestro. Questi lo rimprovera e lo ammonisce a non essere diffidente, perché continuerà a essergli vicino. Il suo corpo è seppellito a Napoli, sulla via per Pozzuoli, per questo non proietta ombre, ma la sua anima è con lui, diafana e incorporea. Non è dato sapere come "accade" che le anime si incarnino nei corpi.
Poi Virgilio s-vela:
"Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via,
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti , umana gente al quia;
ché, se possuto aveste veder tutto,
mestier non era partorir Maria"
Il significato letterale è evidente: è pazzo chi crede di poter giungere con la ragione a comprendere la Trinità e la consustanzialità, perciò è meglio che l’umanità si accontenti della prova testimoniata dalla nascita del Figlio.
Spiegazione plausibilissima, canonica e quasi scontata.
Però.però c’era qualcosa. Mi ricordavo di aver letto da qualche parte una definizione del Matto che mi aveva "instillato" molta curiosità e che, riportata alla terzina dantesca, apriva uno scenario del tutto nuovo.
" La Via del Matto è la via del viaggiatore solitario in cammino verso l’iniziazione. Questo viaggiatore può anche studiare sotto la guida di uno o più maestri, ma cercherà in ogni maniera di conservare la propria identità. Dire che il Matto è sulla Via, equivale a dire che percorre la strada dell’esperienza. Quella del Matto è la via dello sviluppo dell’ego. Nel linguaggio esoterico l’ego è l’io; e questo io è una gocciolina delle Mente universale di Dio. E’ quella goccia di divinità che ha cercato l’esperienza attraverso il coinvolgimento nella materia. Questa minuscola particella viene calata nella materia affinché possa percepire se stessa, ossia acquisire esperienza nel regno della creazione divina." (Hedsel-L’iniziato).
Il Matto, dunque, spogliato delle apparenze, è colui che percorre la via dell’iniziazione!
Ed è colui che ha scelto la Via Umida, fatta di esperienze, di errori e rettificazioni continue.
" L’altra , per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda"
(Par. XX, 118-120)
La figura del Matto ricorre in molte tradizioni ( nel Medio Evo era molto diffusa la Festa dei Pazzi, in seguito proibita dalla Chiesa) e si ripresenta, di tanto in tanto, nella letteratura e nell’arte con significati molto spesso occulti, basti ricordare i quadri di Hieronymus Bosch o La nave dei folli di Sebastian Brandt.
Sotto il cappello a tre punte ( a simboleggiare corpo, spirito e anima; il fisico, l’eterico, l’astrale; il passato, il presente, il futuro, insomma una trinità), il Matto dei Tarocchi cammina, lo sguardo rivolto in alto ( magari inciampando come Talete, che poi doveva subire i cachinni - come dice un mio amico - della servetta tracia. lo tuo riso sia sanza cachinni), portando un bastone e un fagotto sulla spalla, a rappresentare il fardello delle sue follie visionarie, e un altro bastone in mano, sul quale spesso inciampa. Certo, la rettitudine spesso lo fa inciampare, perché non si possono chiedere compromessi all’anima di un Matto.
La lince che gli addenta il polpaccio, simile alla lonza dantesca, animale dalla "gaietta pelle" chiazzata di Bianco e di Nero, non dà tregua al suo spirito inquieto, tormentandolo di continuo, sicché Oswald Wirth può legittimamente affermare : <<.Il saggio non si lascia ingannare dalle parole; invece di oggettivare esteriormente la negazione verbale dell’essere, cerca il Matto in se stesso, prendendo coscienza della ristretta personalità umana, che ha un posto tanto grande nelle nostre misere preoccupazioni.>>.
Ben strano, dunque, questo Matto che, a ben vedere, dà l’impressione di essere più savio di molti altri.
<< Qualsiasi cosa dicano di me i mortali, >> scrive Erasmo da Rotterdam nell’ incipit dell’ Elogio della follia << .ecco qui la prova che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli Dei e gli uomini>>. E conclude << Ricordate però il detto greco : "spesso anche un pazzo parla a proposito">>.
Se, dunque, il Matto è colui, e non altri, che percorre un proprio viatico iniziatico, egli spera davvero che la nostra ragione sia in grado di indagare la infinita via del mistero della Trinità, che poi è anche il mistero del corpo, dello spirito e dell’anima umana. Il suo cammino forse potrà rivelarsi alla fine infruttuoso, ma non sarà mai inutile perché l’importante è il viaggio in sé, con fardello e bastone in spalla: il Matto mercenario di se stesso. Abituati come siamo a dare alla ragione il freddo attributo della concatenazione di causa ed effetto, retaggio di una certa concezione materialistica della realtà, spesso dimentichiamo di tornare alle origini e indagare sul concetto originario del verbo reri, che ha il doppio significato di ‘credere e pensare’.
Il vero Matto spera, crede, pensa e, appunto per questo, non delega ad altri il suo fagotto. E non delega né il fare, né l’essere, né il sentire, come Dante non ha affidato ad altri che a se stesso il travaglio della propria anima alla ricerca della Luce.
L’umana gente può accontentarsi del quia.
domenica 19 aprile 2015
Torna X-files
La Fox ha annunciato una nuova serie di X-Files di sei episodi sempre con gli attori David Duchovny e Gillian Anderson:
http://it.ibtimes.com/x-files-fox-mulder-e-dana-scully-ritornano-con-i-nuovi-episodi-dopo-13-anni-lannuncio-della-fox
http://it.ibtimes.com/x-files-fox-mulder-e-dana-scully-ritornano-con-i-nuovi-episodi-dopo-13-anni-lannuncio-della-fox
martedì 14 aprile 2015
Majorana visse in un convento del Sud Italia. Ecco le prove
Segnaliamo questo articolo de "Il Giornale" che si occupa di Rolando Pelizza e del caso Majorana:
http://www.ilgiornale.it/news/politica/majorana-visse-convento-sud-italia-ecco-prove-1116241.html
http://www.ilgiornale.it/news/politica/majorana-visse-convento-sud-italia-ecco-prove-1116241.html
giovedì 9 aprile 2015
Tra la Squadra e il Compasso
in collaborazione con la rivista Lettera E Spirito: https://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-tra-la-squadra-e-il-compasso/
René Guénon
Un punto che dà luogo a un accostamento particolarmente notevole tra la tradizione estremo-orientale e le tradizioni iniziatiche occidentali, è quello che concerne il simbolismo del compasso e della squadra: questi, come abbiamo già indicato, corrispondono manifestamente al cerchio e al quadrato [1], ossia alle figure geometriche che rappresentano rispettivamente il Cielo e la Terra [2]. Nel simbolismo massonico, conformemente a questa corrispondenza, il compasso è normalmente posto in alto e la squadra in basso [3]; tra i due è raffigurata generalmente la Stella fiammeggiante, che è un simbolo dell’Uomo [4] e più precisamente dell’“uomo rigenerato” [5], e che completa così la rappresentazione della Grande Triade. Per di più, è detto che «un Maestro Massone si trova sempre tra la squadra e il compasso», ossia nel “luogo” stesso in cui s’inscrive la Stella fiammeggiante, e che è propriamente l’“Invariabile Mezzo” [6]; con ciò il Maestro è dunque assimilato all’“uomo vero”, posto tra la Terra e il Cielo ed esercitante la funzione di “mediatore”; e questo è tanto più esatto in quanto, simbolicamente e “virtualmente” perlomeno, se non effettivamente, la Maestria rappresenta il completamento dei “piccoli misteri”, di cui lo stato dell’“uomo vero” è il termine stesso [7]; si vede che abbiamo qui un simbolismo rigorosamente equivalente a quello da noi incontrato in precedenza, sotto parecchie forme differenti, nella tradizione estremo-orientale.
A proposito di quel che abbiamo appena detto sul carattere della Maestria, faremo incidentalmente un’osservazione: questo carattere, appartenente all’ultimo grado della Massoneria propriamente detta, s’accorda bene con il fatto che, come abbiamo indicato altrove [8], le iniziazioni di mestiere e quelle che ne sono derivate si riferiscono propriamente ai “piccoli misteri”. Bisogna peraltro aggiungere che, in quelli che sono chiamati “alti gradi” e che sono formati da elementi di provenienza abbastanza diversa, vi sono certi riferimenti ai “grandi misteri”, tra i quali ve n’è almeno uno che si ricollega direttamente all’antica Massoneria operativa, il che indica che questa apriva perlomeno certe prospettive su ciò che è oltre il termine dei “piccoli misteri”: vogliamo parlare della distinzione che è fatta, nella Massoneria anglosassone, tra la Square Masonry e l’Arch Masonry. Infatti, nel passaggio “from square to arch”, o, come si diceva in modo equivalente nella Massoneria francese del XVIII secolo, “dal triangolo al cerchio” [9], si ritrova l’opposizione tra le figure quadrate (o più in generale rettilinee) e le figure circolari, in quanto corrispondenti rispettivamente alla Terra e al Cielo; non può quindi trattarsi che di un passaggio dallo stato umano, rappresentato dalla Terra, agli stati sopra-umani, rappresentati dal Cielo (o dai Cieli [10]), ossia di un passaggio dal dominio dei “piccoli misteri” a quello dei “grandi misteri” [11].
Per tornare all’accostamento che segnalavamo all’inizio, dobbiamo ancora dire che, nella tradizione estremo-orientale, il compasso e la squadra non soltanto sono supposti implicitamente come atti a tracciare il cerchio e il quadrato, ma vi appaiono essi stessi espressamente in certi casi, e segnatamente quali attributi di Fo-hi e di Niu-kua, come abbiamo già segnalato in altra occasione [12]; ma allora non abbiamo tenuto conto di una particolarità che, a prima vista, può sembrare un’anomalia a tale riguardo, e che ci resta da spiegare adesso. Infatti, il compasso, simbolo “celeste”, e quindi yang o maschile, appartiene propriamente a Fo-hi, e la squadra, simbolo “terrestre”, e quindi yin o femminile, a Niu-kua; ma, quando sono rappresentati insieme e uniti per le loro code di serpente (corrispondendo così esattamente ai due serpenti del caduceo), è al contrario Fo-hi a portare la squadra e Niu-kua il compasso [13]. Ciò in realtà si spiega con uno scambio paragonabile a quello di cui è stata questione sopra per quanto concerne i numeri “celesti” e “terrestri”, scambio che, in simili casi, si può qualificare assai propriamente come “ierogamico” [14]; non si vede come, senza un simile scambio, il compasso potrebbe appartenere a Niu-kua, tanto più che le azioni che le sono attribuite la rappresentano soprattutto nell’esercizio della funzione d’assicurare la stabilità del mondo [15], funzione che si riferisce bene al lato “sostanziale” della manifestazione, e che la stabilità è espressa nel simbolismo geometrico dalla forma cubica [16]. Per contro, in un certo senso, la squadra appartiene proprio a Fo-hi in quanto “Signore della Terra”, che essa gli serve a misurare [17], e, sotto quest’aspetto, egli corrisponde, nel simbolismo massonico, al “Venerabile Maestro che governa con la squadra” (the Worshipful Master who rules by the square [18]); ma, se è così, è che, in se stesso e non più nella sua relazione con Niu-kua, egli è yin-yang in quanto reintegrato nello stato e nella natura dell’“uomo primordiale”. Sotto questo nuovo rapporto, la stessa squadra prende un altro significato, giacché, dal fatto che è formata da due bracci rettangolari, si può allora considerarla come la riunione dell’orizzontale e della verticale, che, in uno dei loro sensi, corrispondono rispettivamente, come abbiamo visto in precedenza, alla Terra e al Cielo, come pure allo yin e allo yang in tutte le loro applicazioni; ed è peraltro così che, nel simbolismo massonico ancora, la squadra del Venerabile è considerata infatti come l’unione o la sintesi della livella e del filo a piombo [19].
Aggiungeremo un’ultima osservazione per quanto concerne la raffigurazione di Fo-hi e di Niu-kua: il primo è posto a sinistra e la seconda a destra , il che corrisponde bene alla preminenza che la tradizione estremo-orientale attribuisce abitualmente alla sinistra sulla destra [20], e di cui abbiamo dato la spiegazione sopra [21]. Allo stesso tempo, Fo-hi regge la squadra con la mano sinistra, e Niu-kua regge il compasso con la mano destra; qui, dato il rispettivo significato degli stessi compasso e squadra, occorre ricordarsi di queste parole che abbiamo già riportato: «La Via del Cielo preferisce la destra, la Via della Terra preferisce la sinistra» [22]. Si vede perciò molto nettamente, in un siffatto esempio, che il simbolismo tradizionale è sempre perfettamente coerente, ma anche che esso non saprebbe prestarsi ad alcuna “sistematizzazione” più o meno ristretta, poiché deve rispondere alla moltitudine dei diversi punti di vista sotto i quali le cose possono essere considerate, e che è per questo che esso apre possibilità di concezione realmente illimitate.
R. Guénon, La Grande Triade, Revue de la Table Ronde, Paris/Nancy, 1946, cap. XV.
1. Faremo notare che, in inglese, la stessa parola square designa allo stesso tempo la squadra e il quadrato; in cinese ugualmente, la parola fang ha i due significati.
2. Il modo in cui il compasso e la squadra sono disposti uno rispetto all’altra, nei tre gradi della Craft Masonry,
mostra gli influssi celesti prima dominati dagli influssi terrestri,
poi liberandosene gradualmente e finendo per dominarli a loro volta.
3. Quando questa
posizione è invertita, il simbolo prende un particolare significato che
dev’essere accostato all’inversione del simbolo alchemico dello Zolfo
per rappresentare il compimento della “Grande Opera”, come pure al
simbolismo della 12a lamina dei Tarocchi.
4. La Stella
fiammeggiante è una stella a cinque branche, e 5 è il numero del
“microcosmo”; quest’assimilazione è peraltro indicata espressamente nel
caso in cui la figura stessa dell’uomo è rappresentata nella stella (la
testa, le braccia e le gambe identificandosi alle sue cinque branche),
come si vede segnatamente nel pentagramma di Agrippa.
5. Secondo un
antico rituale, «la Stella fiammeggiante è il simbolo del Massone (si
potrebbe dire più generalmente dell’Iniziato) risplendente di luce in
mezzo alle tenebre (del mondo profano)». – Vi è qui un’evidente
allusione a queste parole del Vangelo di san Giovanni (I, 5): «Et Lux in tenebris lucet, et tenebræ eam non comprehenderunt».
7. In rapporto con la formula massonica che abbiamo appena citato, si può notare che l’espressione cinese “sotto il Cielo” (Tien-hia),
che abbiamo già menzionato e che designa l’insieme del Cosmo, è
suscettibile d’assumere, dal punto di vista propriamente iniziatico, un
particolare senso, corrispondente al “Tempio dello Spirito Santo, che è
dappertutto”, e dove si riuniscono i Rosa-Croce, che sono anche gli
“uomini veri” (cf. Aperçus sur l’Initiation, cap. XXXVII e
XXXVIII). A questo proposito ricorderemo anche che “il Cielo copre”, e
che precisamente i lavori massonici devono effettuarsi “al coperto”, la
Loggia essendo d’altronde un’immagine del Cosmo (cf. Le Roi du Monde, cap. VII).
9. Il triangolo
tiene qui il posto del quadrato, essendo come lui una figura rettilinea,
e ciò non cambia niente nel simbolismo di cui si tratta.
10. A rigore, non
si tratta qui degli stessi termini che sono così designati nella Grande
Triade, ma di qualcosa che vi corrisponde a un certo livello e che è
compreso all’interno dell’Universo manifestato, come nel caso del Tribhuvana,
ma con questa differenza che la Terra, in quanto rappresenta lo stato
umano nella sua integralità, dev’essere considerata come comprendente
allo stesso tempo la Terra e l’Atmosfera o “regione intermedia” del Tribhuvana.
11. La volta
celeste è la vera “volta di perfezione” cui si fa allusione in certi
gradi della Massoneria scozzese; speriamo peraltro di poter sviluppare
in un altro studio le considerazioni di simbolismo architettonico che si
riferiscono a questa questione.
13. Per contro, una simile inversione degli attributi non esiste nella raffigurazione del Rebis
ermetico, in cui il compasso è tenuto dalla metà maschile, associata al
Sole, e la squadra dalla metà femminile, associata alla Luna. – A
proposito delle corrispondenze del Sole e della Luna, ci si potrà
riferire qui a quanto abbiamo detto in una nota precedente a proposito
dei numeri 10 e 12, e anche, d’altra parte, alle parole della Tabula Smaragdina: «Il Sole è suo padre, la Luna è sua madre», che si riferiscono precisamente al Rebis
o all’“Androgino”, questo essendo la “cosa unica” nella quale sono
riunite le “virtù del Cielo e della Terra” (unica in effetti nella sua
essenza, sebbene doppia, res bina, quanto ai suoi aspetti
esteriori, come la forza cosmica di cui abbiamo parlato sopra e che
richiamano simbolicamente le code di serpente nella raffigurazione di
Fo-hi e di Niu-kua).
14. Il sig. Granet riconosce espressamente questo scambio per il compasso e la squadra (La Pensée chinoise,
p. 363) come pure per i numeri dispari e pari; ciò avrebbe dovuto
evitargli l’increscioso errore di qualificare il compasso un “emblema
femminile” come egli fa in altra parte (nota della p. 267)..
16.
All’inversione degli attributi tra Fo-hi e Niu-kua si può accostare il
fatto che, nella 3a e 4a lamina dei Tarocchi, un simbolismo celeste
(stelle) è attribuito all’Imperatrice e un simbolismo terrestre (pietra
cubica) all’Imperatore; inoltre, numericamente e per il rango di queste
due lamine, l’Imperatrice risulta essere in corrispondenza con il 3,
numero dispari, e l’Imperatore con il 4, numero pari, il che riproduce
ancora la stessa inversione.
17. Ritorneremo più avanti su questa misura della Terra, a proposito della disposizione del Ming-tang.
18. L’Impero
organizzato e retto da Fo-hi e dai suoi successori era costituito in
modo da essere, come la Loggia nella Massoneria, un’immagine del Cosmo
nel suo insieme.
19. La livella e
il filo a piombo sono i rispettivi attributi dei due Sorveglianti
(Wardens), e sono con ciò messi in diretta relazione con i due termini
del complementarismo rappresentato dalle due colonne del Tempio di
Salomone. – È opportuno rilevare ancora che, mentre la squadra di Fo-hi
sembra essere a bracci uguali, quella del Venerabile deve al contrario
avere regolarmente dei bracci disuguali; questa differenza può
corrispondere, in modo generale, a quella delle forme del quadrato e di
un rettangolo più o meno allungato; ma, inoltre, la disuguaglianza dei
bracci della squadra si riferisce più precisamente a un “segreto” della
Massoneria operativa concernente la formazione del triangolo rettangolo i
cui lati siano rispettivamente proporzionali ai numeri 3, 4 e 5,
triangolo di cui d’altronde ritroveremo il simbolismo nel seguito del
presente studio.
20. In questo caso, si tratta naturalmente della destra e della sinistra degli stessi personaggi, e non di quelle dello spettatore.
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sabato 4 aprile 2015
Dante esoterico
Segnaliamo questa interessante recensione al libro "Evola e Dante. Ghibellinismo ed esoterismo" di Sandro Consolato, che si occcupa del Dante segreto con la prospettiva del grande esoterista Julius Evola:
http://www.ilfoglio.it/cultura/2015/04/02/limperialismo-esoterico-di-un-fedele-damore-che-devi-tra-feltro-e-feltro___1-v-127358-rubriche_c656.htm
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domenica 15 marzo 2015
La simbologia del cuore e la leggenda del Graal
di Vito Foschi
Il geroglifico egizio che indica il cuore è
costituito da un piccolo vaso e per gli antichi egizi il cuore era la
sede dell’anima(1); alla morte il cuore veniva pesato dal dio Anubi(2) e
da questa pesa veniva decisa la sorte dell’anima del defunto.
Geroglifico egizio rappresentante il cuore
Il testo da cui inizia la leggenda del Graal, è
il Perceval di Chrétien de Troyes. In tale racconto, il Graal non ha
ancora una forma definita. Viene descritto come preziosissimo, fatto in
oro e tempestato di pietre preziose. Non si accenna alla sua forma, si
intuisce che è un contenitore perché "il giovane non domanda a chi lo si
serva" e poco dopo "Ma non sa a chi lo si serva". Il Graal viene
portato in processione e viene preceduto da altri oggetti simbolici, tra
cui la lancia sanguinante. Già in questo primo racconto si fa accenno
al sangue. In un passo successivo Perceval incontra lo zio Eremita che
gli spiega il significato del Graal. Il Graal serve l’ostia, unico
nutrimento da dodici anni, al padre del Re Pescatore. Da questo
riferimento eucaristico è quasi immediato pensare al Graal come ad un
calice.
Dopo pochi anni dalla diffusione dell’opera di
Chrétien, Robert de Boron con il suo Giuseppe d’Arimatea spiega
l’origine del Graal identificandolo con il calice dell’Ultima Cena che
poi serve a Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue sgorgato dalle
ferite di Cristo in croce.
Questa versione del calice contenente sangue fa
tornare in mente il geroglifico egizio del cuore, ed è facile
identificare il Graal al cuore.
Il calice di Cristo contiene il sangue di Cristo
in due modi diversi: nel corso dell’Ultima Cena, quando il vino è il Suo
sangue e successivamente quando è raccolto dal Suo corpo sulla croce.
Ricordiamo anche il simbolo del Cristo come un
pellicano che si strappa il cuore per nutrire o ridare vita ai figli.(3)
Il collegamento col simbolo cristiano del Sacro Cuore di Gesù è
evidente.
Citiamo un passo di un articolo in cui si discute
sul significato simbolico del cuore:"Il simbolo del cuore indica il
centro dell’essere, il luogo in cui si svelano i significati profondi,
al di là delle connessioni stabilite dalla razionalità."(4)
Riportiamo un passo di un librino dedicato al
Sacro Cuore di Gesù, che mette in evidenza come anche nella tradizione
cattolica il cuore è associato al centro dell’essere:"È il nostro centro
nascosto, irraggiungibile dalla nostra ragione e dagli altri; solo lo
Spirito di Dio può scrutarlo o conoscerlo. È il luogo della decisione,
che sta nel più profondo delle nostre facoltà psichiche. È il luogo
della verità, là dove scegliamo la vita o la morte. È il luogo
dell’incontro, poiché, ad immagine di Dio, viviamo in relazione: è il
luogo dell’Alleanza". E ribadisce al n. 368: "La tradizione spirituale
della Chiesa insiste anche sul cuore, nel senso biblico di ‘profondità
dell’essere’, dove la persona si decide o no per Dio".
Dio parla al cuore dell’uomo, il centro
dell’essere, non al suo orecchio, non alla sua mente. Si legga il
seguente passo della Bibbia:"Anzi, questa (sua) parola è molto vicina a
te, è nella tua bocca e nel tuo cuore"(Dt 30,14).
Si noti lo stesso significato nella seguente
citazione:"Il termine arabo per indicare il cuore è, Qalb, che indica
l’atto di ricevere ‘da bocca ad orecchio’ (da cui Qabbalah), e significa
un’intuizione intellettuale, che è prima di tutto un ascoltare."(5)
Un’altra assonanza tra cuore e coppa si ritrova
nella tradizione islamica quando paragona il cuore dell’arif(il saggio,
l’iniziato) ad una coppa contenente potenza e sapienza.
Il simbolo del cuore ha quindi un profondo
significato spirituale. Rappresenta il centro dell’essere, la sua anima
ed il luogo dell’"incontro" e dell’"Alleanza".
In questa accezione la cerca del Graal è una
ricerca eminentemente spirituale e i luoghi che attraversa il cavaliere
non sono luoghi fisici, ma luoghi dell’anima. Alcuni episodi delle
avventure dei cavalieri partiti alla ricerca del Graal, sono palesemente
delle prove dello spirito perché si trovano ad affrontare demoni o
sortilegi approntati dal Demonio. Il pericolo di perdersi prima del
raggiungimento della meta, è il pericolo di perdere la via che porta a
Dio. Non a caso gli eroi si muovono senza un’apparente via da seguire
come se fossero in un labirinto, quei labirinti che ricoprono il
pavimento di alcune cattedrali medievali che stanno lì a simboleggiare
il percorso dell’anima deve affrontare per raggiungere la grazia di Dio.
Inoltre il simbolo del cuore è equivalente a
quello del sole. Il primo centro dell’essere, il secondo centro del
cielo. Tutte e due simboli positivi della vita. Il sole ha un ulteriore
aspetto: è il simbolo della regalità. Il re come centro del regno da cui
tutto dipende tutto. I suoi raggi arrivano ovunque a portare la sua
presenza. È naturale pensare a Luigi XIV, detto Re Sole, ed al suo
motto: "Io sono lo stato".
Nel Perlesvaus, romanzo anonimo ma di area
cistercense, Parsifal recupera il Graal diventando Re del Graal e
divenendone custode. I due significati si sommano: il cuore puro
permette la conquista del centro.
Note
- "…Thoth aveva la testa di un ibis perché l’uccello, quando piegava l’ala, assumeva la forma di un cuore, la sede della vita e della vera intelligenza." Peter Tompkins – "La magia degli obelischi" – Marco Tropea Editore 2001;
- La stessa funzione nella tradizione ebraica è attribuita all’angelo Mikael, divenuto il nostro S. Michele arcangelo. Un suo attributo è proprio la bilancia; anche nell’iconografia cristiana del Giudizio Universale è raffigurato con spada e bilancia, attributi della giustizia;
- J. L. Borges e M. Guerriero – "Manuale di zoologia fantastica" – Einaudi 1998;
- G.C. – "Il simbolo del cuore", da Massoneria Oggi – n. 2 – luglio 1994 – Soc. Erasmo Roma; reperibile nel sito di Esoteria al seguente indirizzo: http://www.esoteria.org/;
- Ibidem.
domenica 1 marzo 2015
I Catari, il Vaticano e l'11 settembre all'ennesima potenza
tratto da Il Giornale del 19/02/2015
di Gianfranco de Turris
di Gianfranco de Turris
Ma
che vuol dire il titolo Undicimila settembre (Fratini Editore, pagg.
192, euro 16, anche in formato elettronico) che campeggia sulla
copertina dell'ultimo romanzo di Pierfrancesco Prosperi? Terminato il
libro lo si può ritenere un titolo simbolico: l'attentato dell'11
settembre, il più clamoroso di sempre, portato all'ennesima potenza in
una diversa linea temporale rispetto alla nostra.
Il romanzo dimostra molte cose. La prima che è possibile scrivere una storia avvincente, piena di tensione, ben congegnata, originale in meno di 400 o 500 pagine. La seconda è che si può essere innovativi in un genere consunto e abusato come il thriller, ben miscelando «generi» diversi: il poliziesco (l'indagine), l'ucronia (la vicenda non si svolge nella realtà che conosciamo), il fantastico (il sovrannaturale), lo storico (un complotto religioso che parte da molto lontano). La terza che l'ambientazione «vaticana» non deve per forza essere quella famigerata e malamente scopiazzata «alla Dan Brown». Insomma, Prosperi continua a essere uno dei più validi, se non il più valido, scrittore italiano dell'Immaginario (fantascienza, fantastico, orrore ecc.). L'architetto-scrittore è sulla breccia da 55 anni, avendo esordito quindicenne nel '60 sulle pagine della pionieristica rivista romana Oltre il cielo , e ha alle spalle una carriera con una quindicina di romanzi e almeno centocinquanta racconti, il meglio dei quali riunito in Il futuro è passato (Bietti, 2013). Undicimila settembre è la storia del più grande attentato di tutti i tempi che si svolge in una realtà diversa. Sino alle ore 12 e 42 di venerdì 8 aprile 2005 la storia è quella che noi abbiano conosciuto. Da quel momento in poi tragicamente cambia. E il recensore viene messo a dura prova nel dover parlare della trama senza dire di cosa si tratti esattamente, altrimenti la curiosità del lettore sarebbe delusa. Perché una delle caratteristiche di questo romanzo è il progressivo aumento della tensione: a momenti di accelerazione seguono momenti di pause in apparenza descrittive e divaganti, ma utili all'economia della storia.
Tutto comincia con il ritrovamento del cadavere di un uomo nel Tevere. Incaricato delle indagine è il vicecommissario Renato Faranda. Al primo morto se ne aggiungono altri due, l'ultimo dei quali scrive con il proprio sangue la parola PERFAI, che sta per perfait , perfetto, uno dei gradi del catarismo. Contemporaneamente, a monsignor Domenico Aldobrandi, che fa parte dell'Entità, il servizio segreto vaticano, incaricato di indagare sui fenomeni paranormali, arrivano le segnalazioni di una serie di visioni apocalittiche a occhi aperti avute da cinque monaci e monache sparsi in conventi italiani. Le due questioni si intrecciano, sino a che, dopo altre morti atroci, Faranda scopre che è in atto un complotto contro la Chiesa da parte di una setta di Catari dei nostri giorni, occulti e sommersi, i quali quasi fossero manovrati dal Maligno, vogliono dare un colpo mortale all'istituzione che cercò di cancellarli dalla storia sette secoli prima.
L'interpretazione che Prosperi dà delle famose Profezie di Malachia è diversa dal solito: l'ultimo Papa, il famoso Pietro Romano, che si metterà a capo del proprio gregge in un momento di catastrofi e persecuzioni, sarà chi porterà la Chiesa verso una nuova rinascita superando l'Apocalisse.
Il romanzo dimostra molte cose. La prima che è possibile scrivere una storia avvincente, piena di tensione, ben congegnata, originale in meno di 400 o 500 pagine. La seconda è che si può essere innovativi in un genere consunto e abusato come il thriller, ben miscelando «generi» diversi: il poliziesco (l'indagine), l'ucronia (la vicenda non si svolge nella realtà che conosciamo), il fantastico (il sovrannaturale), lo storico (un complotto religioso che parte da molto lontano). La terza che l'ambientazione «vaticana» non deve per forza essere quella famigerata e malamente scopiazzata «alla Dan Brown». Insomma, Prosperi continua a essere uno dei più validi, se non il più valido, scrittore italiano dell'Immaginario (fantascienza, fantastico, orrore ecc.). L'architetto-scrittore è sulla breccia da 55 anni, avendo esordito quindicenne nel '60 sulle pagine della pionieristica rivista romana Oltre il cielo , e ha alle spalle una carriera con una quindicina di romanzi e almeno centocinquanta racconti, il meglio dei quali riunito in Il futuro è passato (Bietti, 2013). Undicimila settembre è la storia del più grande attentato di tutti i tempi che si svolge in una realtà diversa. Sino alle ore 12 e 42 di venerdì 8 aprile 2005 la storia è quella che noi abbiano conosciuto. Da quel momento in poi tragicamente cambia. E il recensore viene messo a dura prova nel dover parlare della trama senza dire di cosa si tratti esattamente, altrimenti la curiosità del lettore sarebbe delusa. Perché una delle caratteristiche di questo romanzo è il progressivo aumento della tensione: a momenti di accelerazione seguono momenti di pause in apparenza descrittive e divaganti, ma utili all'economia della storia.
Tutto comincia con il ritrovamento del cadavere di un uomo nel Tevere. Incaricato delle indagine è il vicecommissario Renato Faranda. Al primo morto se ne aggiungono altri due, l'ultimo dei quali scrive con il proprio sangue la parola PERFAI, che sta per perfait , perfetto, uno dei gradi del catarismo. Contemporaneamente, a monsignor Domenico Aldobrandi, che fa parte dell'Entità, il servizio segreto vaticano, incaricato di indagare sui fenomeni paranormali, arrivano le segnalazioni di una serie di visioni apocalittiche a occhi aperti avute da cinque monaci e monache sparsi in conventi italiani. Le due questioni si intrecciano, sino a che, dopo altre morti atroci, Faranda scopre che è in atto un complotto contro la Chiesa da parte di una setta di Catari dei nostri giorni, occulti e sommersi, i quali quasi fossero manovrati dal Maligno, vogliono dare un colpo mortale all'istituzione che cercò di cancellarli dalla storia sette secoli prima.
L'interpretazione che Prosperi dà delle famose Profezie di Malachia è diversa dal solito: l'ultimo Papa, il famoso Pietro Romano, che si metterà a capo del proprio gregge in un momento di catastrofi e persecuzioni, sarà chi porterà la Chiesa verso una nuova rinascita superando l'Apocalisse.
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