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domenica 14 febbraio 2016

I CELTI IN PIEMONTE – PARTE 1

I COTII DELLA VAL DI SUSA : Dai Druidi a Maometto

Di Andrea Romanazzi

Il Piemonte, per la sua posizione, è stato da sempre terra di passaggio e dunque terra di colonizzatori. La regione alpina piemontese fu sicuramente abitata già 100.000 anni a.C. anche se la vera e propria colonizzazione avvenne attorno a 7000-6000 a.C. come testimoniano i ritrovamenti del sito La Maddalena, presso Chiomonte il cui museo, purtroppo, è chiuso. Il popolamento dell’arco alpino può essere diviso in tre fasi, una preindoeuropea, una uralo-altaica ed infine una indoeuropea. Fanno parte della prima fase i Liguri, una popolazione autoctona erroneamente collegata ai Celti. Questo gruppo di allevatori-agricoltori aveva origine mediterranea, forse legata ai mitici “Popoli del Mare” o comunque di origine mediorientale. Almeno fino al 500 a.C. i Liguri dominarono l’area. In realtà tale gruppo venne presto in contatto con popolazioni di provenienza uralica, quelle che antropologicamente oggi vengono definite “razze alpine”, che, fondendosi con le popolazioni liguri locali, portarono in dote le credenze animistico-sciamaniche tipiche dell’area della Mongolia. Solo successivamente arrivarono gli Indoeuropei, più noti come Celti, in realtà un insieme numeroso di popoli linguisticamente e culturalmente simili suddiviso in moltissime tribù. Questa nuova avanzata spinse i Liguri ad occupare le aree montuose mentre le popolazioni celtiche si posizionarono nelle pianure come testimoniano molti studi sulla toponomastica. Ad esempio la radice –asco indicherebbe le origini liguri, molto più diffuse in montagna, contro quella –ago ascrivibile alle origini celtiche.


 
Il nostro viaggio nel Piemonte celtico parte dunque dall’area della Val di Susa, dominata delle Alpi Cozie, il cui nome deriva, appunto, dalla popolazione celtica dei Cotii. Il regno dei Cotii era forse quello più geograficamente definito, questo, forse, a causa degli ottimi rapporti con i Romani che lasciarono a tale popolo il governo dell’area in cambio di un appoggio politico-militare. Simbolo di tale collaborazione è l’arco di “trionfo” realizzato a Susa, eretto tra il 9 e l’8 a.C. con lo scopo di onorare Augusto il conquistatore e sigillare il patto tra Cesare e Cozio. E’ però già in questo luogo che troviamo le prime tracce degli antichi culti celtici: rocce coppellate legate al culto delle acque sono presenti infatti proprio sotto l’arco romano. Il territorio si estendeva da una non meglio identificata Ocelum, presumibilmente borgo nei pressi dell’attuale Avigliana, fino ad Exilles, il cui nome poverrebbe da Exingomagus, ovvero borgo degli Exingi, una importante popolazione della valle. Interessiamoci ora della religione dei Cotii. Come per le altre popolazioni celtiche, i culti, officiati dai sacerdoti, chiamati druidi, erano legati alla Natura. Alberi, fonti, rocce e montagne erano espressione della divinità. Ovviamente ogni popolazione aveva i suoi nomi peculiari, nell’area dei Cotii, ovvero la regione alpina occidentale, ad esempio era Albiorix il dio dei monti, come testimoniano numerose iscrizioni ritrovate nell’area e il tempio che presumibilmente doveva sorgere a Sauze d’Oulx, alle pendici del monte Genevris. Era sicuramente la divinità più venerata della zona, successivamente poi soppiantata da Apollo che ne prenderà il posto. Insieme alla divinità dei monti era poi diffuso il culto di Belenos, il dio solare, come testimonia un’iscrizione ritrovata a Bardonecchia o testimoniato a Sarre, Oropa. E’ suo il simbolo solare della “stella delle Alpi”, detto anche rosa celtica, oggi divenuto un simbolo politico. Infine altro culto fortemente diffuso era quello delle tre Matrone, divinità femminili dalle caratteristiche non perfettamente definite ma che dovevano avere legami con il culto della Grande Madre di diffusione mediterranea. Il nome Mons Matrona, dato al Monginevro ne attesta il culto nella zona. Se vogliamo però raggiungere uno dei tanti luoghi sacri ai Cotii dobbiamo seguire le orme dei Saraceni che, dalle loro basi in Provenza, cercavano di espugnare il Piemonte. Infatti a Bussoleno, proprio nell’area che fu dei Cotii si parla del castello Saraceno, la cui leggenda vuole realizzato proprio da tali invasori. Un po’ più a sud troviamo il borgo di Frassinello, considerato il quartier generale dei Saraceni e Mandrogne, colonia araba, giusto per fare due esempi. Approfondiremo in una successiva parte questa “invasione araba”, ma ora questo cosa centra con i culti dei celti? Ebbene, se volete raggiungere il sacro luogo del quale mi accingo a parlare, dovete chiedere del “Maometto” di Borgone. Il “Maometto” si trova in un’area boschiva su uno sperone roccioso in gneiss e ridosso del massiccio montuoso che a nord chiude la val di Susa. Si tratta di un’edicola rupestre  80x60 cm circa scolpita a bassorilievo sulla parete rocciosa, con all’interno raffigurato un personaggio che la tradizione popolare ha voluto identificare con Maometto. Piuttosto curioso visto che i mussulmani, per tradizione, non possono raffigurare i loro idoli religiosi e questo esclude che si possa davvero trattare del profeta. Si tratta ovviamente di una chiara demonizzazione di un luogo sacro pagano a cui la Chiesa ha associato un culto demoniaco ovvero infedele. Di esempi simili è ricchissima l’Italia e rimando ad un mio libro “Guida ai luoghi della Dea Madre in Italia” per approfondirlo.
Se osserviamo bene il bassorilievo, danneggiato fortemente dagli agenti atmosferici e dall’incuria dell’uomo, possiamo riconoscere una sorta di piccolo tempio con due colonne ai fianchi e una figura maschile al centro, con un mantello e con in mano due oggetti non facilmente identificabili. In particolare nella mano destra sembra essere presente uno strumento sottile e ricurvo, una sorta di falcetto, mentre ai piedi è presente una figura animale che potrebbe essere identificata come un cane. Sul sito comunale questa figura viene descritta come legata a Giove Dolicheno, un dio venerato dai militi romani, nel I° e II° secolo d.C.. Infatti proprio attorno all'attuale Borgone, sorgeva il confine tra l'Impero romano e il Regno di Re Cozio, sulla via che portava alle Gallie. Il culto di “Maometto” sarebbe legato ai contingenti mercenari che,  provenendo dalla città di Doliche in Siria, adoravano per l'appunto Dolicheno, divinità ittita, il cui culto si fuse con quello del romano Giove. Una visione che mi sento di non condividere, perché “scomodare” antiche divinità lontane? La figura infatti è sicuramente legata al culto di Silvano, di cui mi sono già occupato nel saggio “Il ritorno del Dio che Balla”. La divinità per l’Antico è concepita come immanente, essa permea tutto ciò che circonda l’uomo e dunque essa è anche dendromorfa. Se però all’inizio l’albero stesso è la divinità, successivamente, non viene più visto come essa ma come sua dimora, lo spirito arboreo invece di essere considerato l’anima di ogni albero, diventa la divinità della foresta, si passa così da una fase animista ad una politeista. In seguito allo spirito arboreo viene associato un aspetto antropico, anche a causa della semplicità da parte dell’Antico di associare ad una divinità sembianze umane. Iniziano così a nascere figure di divinità silvane, spesso rappresentate con un volto umano e con attributi agresti, come il bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro e spesso con un enorme fallo. E’ questo il nostro “Maometto”. La sacralità dell’area è poi attestata da tutto ciò che circonda la figura. Sono infatti presenti molteplici rocce con scavate delle nicchie semisferiche, probabilmente il luogo ove venivano riposte delle offerte.





Continuando il nostro excursus piemontese, procedendo verso est, incontriamo le Valli di Lanzo tre valli delle Alpi Graie piemontesi, comprese tra la Valle dell'Orco a Nord e la Val di Susa a Sud, che prendono il nome dalla cittadina di Lanzo Torinese, posta su un'antica morena glaciale al termine delle valli…
….continua a breve

sabato 25 agosto 2012

VENEZIA: I MISTERI DELLA LAGUNA

Tra spettri, Graal e magi occultisti

di Andrea Romanazzi

Quando si parla di Venezia vengono subito in mente le immagini delle bellissime gondole che vagano per i canali e la dolce atmosfera romantica che la avvolge, ma tra i campi e i calli gremiti di turisti si nascondono antiche leggende, misteri insoluti, ombre di antichi personaggi che rendono la città fortemente inquietante in questa sua gotica disinvoltura. Sarà seguendo così le tracce di questi enigmi che si perdono nella notte dei tempi che riusciremo ad entrare in contatto con il genius urbis che come novello Virgilio ci porterà tra le pieghe del tempo al cospetto di tradizioni mai dimenticate come il Graal e Cagliostro, Casanova e l’Inquisizione che ci faranno cambiare idea sul comune soprannome di "Serenissima".



IL GRAAL E I MISTERI DI SAN MARCO

La città di Venezia è ricca di leggende su antiche reliquie cristiane dato anche gli stretti rapporti economici con il mondo orientale e così ovviamente non potevano mancare storie sui Templari e il mistico Graal, la coppa nella quale, secondo la leggenda, Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo.
La via che porta questa favolosa reliquia in città è quella che conduce a Costantinopoli, l’odierna Istambul, città conquistata dai Crociati e strettamente legata al capoluogo veneto. In particolare proprio durante la Quarta Crociata cavalieri e mercanti portarono in città cultura e tradizioni mediorientali oltre ai moltissimi tesori provenienti dalla città turca come i quattro cavalli in rame presenti sulla Basilica di San Marco e che tradizione vuole avessero al posto degli occhi degli splendidi rubini. Si sa ancora che da Costantinopoli sarebbe provenuta la Corona di Spine di Gesù che Luigi IX di Francia riuscì a sottrarre alla città per portarla in Francia, presso la Sainte Chapelle, dunque non sarebbe impensabile che, nel caso fosse davvero esistito, il Graal nel suo mistico cammino fosse davvero giunto nella città.
La tradizione lo vuole nascosto nel trono di San Pietro, il sedile ove si sarebbe davvero seduto l’Apostolo durante i suoi anni ad Antiochia costituito da una stele funeraria mussulmana e decorato con i versetti del Corano oggi presente nella chiesa di San Pietro in Castello. Si narra che questa poi sarebbe stata trasferita successivamente a Bari, città legata a quella veneta da interessanti tradizioni comuni come il santo Nicola le cui due città si spartiscono le sacre reliquie. Alcune tradizioni locali, poi, vogliono che nella chiesa di San Barnaba fosse stato seppellito il corpo mummificato di un cavaliere crociato francese dal nome di Nicodemè de Besant-Mesurier, legato alla vicenda della traslazione della mistica coppa ritrovato nella zona nel 1612. In realtà non sono mai stati trovati documenti che parlassero di questo cavaliere.

I misteri legati alla religione Cristiana non trattano solo di reliquie, ma diverse sono anche le tradizioni legate a l’Inquisizione e piazza San Marco, tracce di angusti ricordi sparsi in una delle più belle piazze d’Italia e spesso celati agli occhi del comune viaggiatore. All’angolo destro della Basilica, ad esempio, è presente un cippo che la tradizione vuole utilizzato per le esecuzioni, mentre guardando le colonne del primo loggiato del vicino Palazzo Ducale, ne possiamo scorgere due di colore differente dalle altre ove, secondo la tradizione, venivano lette le sentenze di morte poi eseguite nella piazzetta antistante o nel vicino Campanile. Ecco così che il meraviglioso Campanile che svetta nella piazza nasconde anch’esso macabri ricordi, infatti è legato alla tradizione del supplizio di cheba, una gabbia in ferro sospesa nel vuoto nella quale i condannati venivano esposti al pubblico ludibrio anche per lunghi periodi sfidando le intemperie e dunque la morte che presto sopraggiungeva quasi come liberazione. Sempre tra le colonne del Palazzo Ducale, poi, era offerta l’ultima speranza di salvezza, e infatti, sul lato della costruzione che si offre al mare era presente una colonna che ancora oggi appare con il basamento consumato. Ai condannati era offerta una ultima grazia: se fossero riusciti a girar intorno alla stessa senza cadere mai dallo strettissimo basamento sulla quale poggia, operazione davvero impossibile.

I PALAZZI STREGATI E LE CORRENTI TELLURICHE
Interessanti poi sono le tradizioni legate ai palazzi stregati come Ca’ Dario e Ca’ Mocenigo Vecchia.
La fama del primo sinistramente conosciuta da tutta la città, esso fu costruito dal mercante Giovanni Dario e dedicato al genio della città come testimonia l’iscrizione "Genio urbis Joannes Dario", scritta che, secondo alcuni studiosi, nasconderebbe, anagrammata, enigmatici quanto orribili segreti: "SUB RUINA INSIDIOSA GENERO" e cioè colui che abiterà sotto questa casa andrà in rovina. Per alcuni la costruzione sorgerebbe su un nodo di energie negative che si trasferirebbero all’intera dimora, quella che Fulcanelli definirebbe una vera e propria dimora filosofale. In realtà l’intera città sorgerebbe su una rete di correnti telluriche, positive e negative, che caratterizzerebbero così la sua urbanizzazione, lo stesso Canal Grande sarebbe la rappresentazione del temibile serpente, simbolo delle enigmatiche forze che in alcuni punti diventerebbero fortemente palesi. Del resto nel passato era normale che ci fossero luoghi benefici e malefici, in oriente ove si pratica il feng shui, cioè una disciplina che permette di costruire una casa recependo le onde benefiche del "grande drago" che dorme nel sottosuolo. Sarà proprio il drago a caratterizzare la città, infatti esaminiamo una qualunque cartina di Venezia vediamo il Canal Grande snodarsi come un serpente o un dragone, tagliando esattamente in due parti la città. Abbiamo così la testa, "caput draconis", ed una coda "cauda draconis".
Alla fine di quest’ultima troviamo l’isola di san Giorgio, con l’omonima chiesa, scelta non casuale se pensiamo che nella tradizione cristiana san Giorgio è il santo che uccide il drago, e quindi che esorcizza il serpente veneziano, mentre dalla parte opposta vi è la Basilica di San Marco, quasi un modo per esorcizzare queste energie.
E’ proprio posizionato nella "cauda" che troviamo Ca’ Dario, il misterioso palazzo la cui maledizione colpisce tutti i proprietari che sono morti suicidi o comunque di morte violenta, tra i quali ultimamente Raul Gardini e il tenore Mario del Monaco.
Per quanto riguarda invece la seconda costruzione, è silente testimone della visita del filosofo Giordano Bruno in città, ospite proprio della famiglia di Mongenigo che, dopo aver cercato di carpire le sue conoscenze alchemiche, lo denunciarono come stregone alle autorità veneziane costringendolo a riparare a Roma ove poi sarà giustiziato. Tradizione vuole che ancora in quell’edificio si manifesti il fantasma dell’eretico in cerca di giustizia.

ALCHIMIA VENEZIANA

Moltissimi sono stati i maghi, stregoni e alchimisti presenti nella laguna, tra i quali spiccano, oltre al già citato Giordano Bruno, Casanova e Cagliostro. Dati gli stretti rapporti con il Medioriente, Venezia è stata da sempre crogiuolo di culture, il toponimo del quartiere "Giudecca" sembrerebbe proprio segnalarci la presenza dei suoi primi abitanti, i giudei, da sempre maestri di alchimia e studiosi di Cabala. Moltissime sono così le leggende presenti nell’antico e nuovo ghetto che riguardano gli rabbini e i loro studi di alchimia.
Nella città, poi, sono presenti le conoscenze alchemiche degli arabi le cui tracce ritroviamo nel quadrante della torre dell’orologio ove, tra simboli astronomici e astrologici sono presenti raffigurazioni di mori. Più sconcertanti ed evidenti sono però le simbologie arabe presenti nelle vicinanze della porta della carta vicino la Basilica di San Marco. Qui sono rappresentati in un angolo i così detti "quattro mori", i tetrarchi Diocleziano, Galerio, Massimiliano e Costanzo.
In realtà la tradizione lega queste figure all’alchimia come testimoniato da un fregio alla base dello stesso raffigurante due putti e due draghi intrecciati che portano un cartiglio con la scritta in veneziano arcaico "uomo faccia e dica pure ciò che gli passa per la testa e veda ciò che po’ capitargli".
Sempre sullo stesso lato della Basilica sono presenti due colonne provenienti da Acri ove cultura cristiana e mora si mescolano in una mistica commistione di immagini tra le quali spiccano tre enigmatici criptogrammi per alcuni invocazioni al dio del mussulmani Allah.
Tra i personaggi più enigmatici, però, sicuramente spicca Casanova, mago e scrittore nato nella città il 2 Aprile 1725 e sepolto nella chiesa di San Barnaba anche se della sua tomba sono state perse le tracce. La sua storia "misteriosa" parte all’età di otto anni quando, per guarirlo da un male che gli costringeva a tenere sempre la bocca aperta, la zia lo portò da una strega guaritrice. Sarà da allora che lo scrittore iniziò ad interessarsi alle arti magiche che gli procurarono problemi con l’Inquisizione e che lo portarono ad esser imprigionato nei famosi "piombi" veneziani dai quale riuscì in una clamorosa fuga. Sicuramente egli ebbe contatti con la massoneria e con Amadeus Mozart per la realizzazione del suo "Don Giovanni" ispirato anche alla vita del veneziano e con il famoso Giuseppe Balsamo, noto come Conte di Cagliostro proveniente da Aix de Provence. Secondo la tradizione i due si incontrarono nella città nel 1769 per scambiarsi formule e magici rituali e le formule per l’elisir di eterna giovinezza.


domenica 13 maggio 2012

LE NOTTI DI SAMHAIN

Un Viaggio nelle Tradizioni Popolari alla ricerca di antichi Culti Pagani

di Andrea Romanazzi

Ancora una volta, come ogni anno, ci stiamo apprestando ad esser bombardati da pubblicità, magazine, network che parlano di Halloween, il "carnevale" novembrino vera e propria festa del consumistico mondo occidentale. Per molti la ricorrenza è estranea alla nostra cultura italiana, un chiaro esempio dell’effetto della globalizzazione e dell’assorbimento di usi e costumi del mondo anglosassone. In realtà, celate da maschere e vetrine scintillanti ecco trasparire antichi ricordi di tradizioni mai del tutto scomparse e ancora insite nel folklore popolare che contraddistingue la nostra nazione.
Sarà così seguendo gli indizi nascosti nelle pieghe del tempo che arriveremo ad un culto molto antico, il culto della Dea Madre, regina di questa mistica notte ove ancora oggi il velo della reminescenza è così leggero da permetterci di guardar attraverso.
Secondo il Dizionario McBeain di Lingua Gaelica Samhain (pronunciato "sow-in"), forse la più importante tra le festività celtiche, deriverebbe da "samhuinn" e significherebbe "summer’s End", la fine dell’estate e l’inizio della stagione invernale. In realtà i festeggiamenti non duravano una sola giornata ma iniziavano una settimana prima e si concludevano una settimana dopo, così è molto più probabile che il giorno più importante dei festeggiamenti non fosse il primo del mese di Novembre, bensì l’11, data coincidente con quella che oggi viene definita estate di San Martino. Successivamente, nei paesi di origine anglosassone, Samhain fu trasformata in All Hallow’Eve, ove "Eve" sta per "vigilia" o ancora Halloween.
Questa data coincideva con l’inizio dell’anno celtico, il momento in cui la natura inizia il suo riposo e il primitivo, spaurito dalla morte della propria "mater", già preparava la sua rinascita. Da qui il collegamento di Samhain come festa dei morti, ma in realtà essa non è una festività legata ai defunti, esattamente il contrario, è legata alla vita, alla grande dea che muore per poter rinascere.
Ai primordi infatti la divinità è immaginata come la sovrana dei boschi e della natura selvaggia, essa da sostentamento agli uomini ma ne può causare anche la morte, successivamente il passaggio dal nomadismo all’agricoltura impone al selvaggio un più attento esame delle stagioni e dei cicli naturali, egli si accorge che la terra non è sempre fertile, la dea, resasi immanente nei campi, nelle piante di grano e di orzo muore per poter rinascere nuovamente e così assicurare, con i suoi eterni cicli, la novella vita. Il concetto di morte e resurrezione ha così da sempre permeato le credenze e i miti degli uomini, nel mondo greco ad esempio essa è ben descritta dalla storia di Demetra e Persefone, la leggenda narra che un giorno la bella Presefone, figlia di Demetra, mentre raccoglieva dei fiori con delle amiche, si allontanò nel bosco e così Ade, la divinità dell’oltretomba, da tempo perdutamente innamorato della fanciulla, decise di rapirla con il beneplacito di Zeus. La Dea Madre accortasi della scomparsa della figlia iniziò a cercarla ma, vedendo vani i suoi tentativi, decise che fin quando non le sarebbe stata restituita la terra non avrebbe prodotto più i suoi frutti. Zeus ordinò così ad Ade di lasciar libera la fanciulla ma il dio, con un sotterfugio, costrinse la stessa a ritornare ogni sei mesi nel suo regno. Demetra allora infuriata decise che nel periodo in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, sul mondo sarebbe calato l’inverno e la terra non avrebbe prodotto i suoi magnifici frutti, una metaforica morte in attesa del risveglio. E’ in questa ottica che la festa di Halloween assume un nuovo significato, esso diventa il giorno in cui il velo che separa il mondo dei vivi da quello del soprannaturale si fa molto sottile, tanto da poter facilmente trapassarlo, nasce così l’idea che le anime dei morti proprio in questo giorno riescon più facilmente a raggiungere e far visita ai loro cari ancora in vita. Da questa credenza nasce l’usanza di lasciare frutti o latte sugli usci delle porte, in modo che gli spiriti, durante le loro visite potessero ristorarsi o ancora accendere torce e fiaccole per segnalare il cammino e agevolare loro il ritorno.
Con l’avvento del Cristianesimo, la Chiesa cercò di appropriarsi della festività troppo radicata nella cultura popolare per esser cancellata e così il 1° Novembre diventava la festa di Ognissanti, le figure fatate e gli spiriti della tradizione celtica, a loro volta immagine di un oltremodo di morte e rigenerazione, furono demonizzati, le stesse donne il cui ruolo nei rituali di fertilità era fondamentale furono trasformate in streghe e i falò di "gioia" tradotti in roghi. Anche le lanterne e le luci giuda subirono una ugual sorte, quelle che all’inizio avevano proprio il compito di indicare ai propri defunti la "via di casa" divennero "lanterne scaccia streghe" con un uso completamente differente.


LA ZUCCA COME SIMBOLO DELLA DEA MADRE

La tradizione vuole che solo verso il 1700 iniziò a sorgere l’usanza di intagliare strani e spaventosi volti nelle rape e di inserire nel loro interno delle candele illuminate proprio per far allontanare gli spiriti maligni, nel 1845 però, una spaventosa carestia in Irlanda obbligò moltissime persone a immigrare in America portando con loro anche queste tradizioni. La difficoltà di reperire rape nel nuovo continente fece si che il tubero fosse sostituito dalle molto più diffuse zucche gialle che ancor oggi sono uno dei simboli più ricorrenti di Samhain. Se così ci racconta la storia non possiamo far a meno di soffermarci sulla scelta del frutto-simbolo della festa, trovando molte altre antiche tradizioni che riportano alla zucca. Essa è infatti da sempre legata a rituali di morte e rigenerazione che contraddistinguono il culto della dea, infatti il fiore, chiamato giglio, era legato di solito ai morti, il suo colore giallo pallido ricordava appunto il colore delle ossa dei defunti, mentre il frutto, appunto la zucca, era associato alla procreazione e alla fertilità.
Se così immaginiamo che la lanterna di Halloween abbia origini moderne basta sfogliare il Corpus Hippocraticum del 400-300 a.C. per leggere che


"…se la donna ha la stanguria tagliare la testa e il fondo di una zucca, metterci sotto del carbone, gettare sul fuoco della mierra triturata, la donna si sieda sulla zucca e faccia entrare quanto più possibile i suoi organi genitali, affinché le parti genitali ricevano più vapore possibile…"


Ai nostri occhi la descrizione sempre perfettamente coincidere con la lanterna cacciastreghe simbolo della festività. La zucca è così lo strumento per assicurare la procreazione, essa è il priapos primordiale, l’elemento ingravidatore che nasce dalla stessa terra e assicura, nel periodo più oscuro e buio la vita. Del resto la zucca era anche associata al dio Priapo, divinità di origine greca poi successivamente "adottata" dai romani. Il dio, spesso rappresentato con un volto umano e le orecchie di una capra, tiene in mano un bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro. Sua caratteristica più evidente è l’enorme o addirittura il doppio fallo, simbolo proprio della sua natura feconda, aspetto per il quale era anche rappresentato da un pilastrino verticale con sopra scolpita la sua testa e il suo fallo eretto, simbolo appunto della fecondazione.
Ebbene il dio era anche strettamente collegato alla zucca come possiamo leggere dai Carme Priapei


"…io sono invocato come custode ligneio delle zucche…"


E ancora il ricordo della zucca come frutto legato ai rituali di fertilità lo ritroviamo in molti autori latini che la associano al parto e alla gravidanza


" …intortus cucumis praegnansque cucurbita serpit… "


o ancora in Propezio che scrive


" ...caerules cucumis tumidoque cucurbita ventre... "


Così la zucca è simbolo fallico ma al tempo stesso essa stessa "madre", portando nel suo ventre fruttifero i semi, come la donna e la dea essa assicura la vita per la sua specie e il sostentamento per gli uomini.


La Processione dei Morti dal mondo celtico alle tradizioni Italiane

Altra interessante tradizione è legata al famoso Trick or Treak, la mascherata di bambini che attraversano le vie della città cercando dolciumi e regalini. In realtà per scoprire cosa si cela dietro questa usanza dovremo attraversare i sentieri del folklore italiano alla ricerca delle "processioni dei morti" fino ad imbatterci nel mitico Artù, espressione dell’Ankou bretone, ma anche e soprattutto della "morte birichina" delle tradizioni popolari italiane.

L’Ankou e il culto dei morti in Bretagna

Dal XI secolo moltissimi sono i racconti popolari e i testi letterari in Europa che parlano dell’apparizione dell’"esercito furioso", nome con il quale è conosciuto, nell’area centro europea, una strana processione di misteriose creature fantastiche, poi evolutesi nel loro aspetto, in streghe e stregoni pronti al viaggio verso il sabba.
Questa schiera di esseri, composta indifferentemente da uomini e donne, spesso a cavallo di animali in qualche modo legati ai culti totemici pagani, come capre, cavalli o strani rapaci, era di solito guidata da un essere mitico, una antica divinità pagana autoctona come ad esempio Wotan o Odino dell’area nordica o da strane creature, spesso dalle fattezze femminili, che trasportavano, non di rado, un carro rituale.
Una interessante area da esaminare, proprio perché ancora oggi è visibile nel folklore locale lo strano rapporto tra viventi e defunti, è la Bretagna, luogo ove alla religione ufficiale si mescolano vorticosamente antiche tradizioni pagane mai cancellate.
Un esempio ancora ben visibile nelle leggende e nei racconti popolari, è ad esempio quello dell’Ankou. Si tratta di una figura locale raffigurata come la "morte", sotto forma di scheletro con la falce che però non è semplice espressione della stessa, in realtà si tratta solo di un suo messaggero, una strana figura che giunge ad avvisare le persone, e spesso a consigliare di portare subito a termine faccende personali in sospeso prima del loro trapasso.
Questo però non è l’unico esempio, altra interessante informazione sul mondo bretone dei trapassati può esser desunta, poi, dal racconto di Procopio di Cesarea nella sua Guerra Gotica. Parlando della Brittia ci racconta che "…giunto a questo punto della storia mi sembra inevitabile raccontare un fatto che ha piuttosto attinenza con la superstizione…". Ecco così che lo storico narra delle strane abitudini di alcuni abitanti di borghi di pescatori situati dall’altra parte del mare, in quell’area che oggi è appunto nota come la Bretagna. Alcuni di questi individui avevano un compito strano, quello di traghettare le anime dei morti nella "…A tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta e odono una voce soffocata che li chiama all’opera. Senza esitazione saltano giù dal letto e si recano sulla riva del mare…sulla riva trovano barche speciali, vuote. Ma quando vi salgono sopra le barche affondano fin quasi al pelo dell’acqua come se fossero cariche…dopo aver lasciato i passeggeri ripartono con le navi leggere…".
Se questo racconto sembra incredibile basta giungere ancora oggi in Bretagna per ritrovare, arenate nelle sacche di sabbia dovute alla marea, vecchie barche oramai in disuso. Nessuno però si azzarda a spostarle o portarle via, ancora oggi queste sono le barche che traghettano i morti.
E’ questa l’espressione della comunicazione locale con un aldilà mai visto come luogo tenebroso come dimostrerebbero i numerosi cimiteri mai isolati dai luoghi abitati.
Del resto è già dai tempi di Claudiano, V secolo, che l’area bretone era nota come il luogo dei morti, era qui, infatti, che si identificava il luogo ove Ulisse aveva incontrato i morti e ove "i contadini vedono vagare le ombre pallide dei morti", una affermazione che ritroveremo in seguito proprio legata al territorio italiano. Ma questo non basta, oramai è ben dimostrato come alcuni viaggi compiuti da cavalieri delle saghe bretoni, come Parsifal o Lancillotto, in terre desolate o verso castelli misteriosi altro non sono che viaggi nel mondo dei defunti come poi testimonierebbero toponimi come Limors o il Schastel le mort.
Lo stesso Artù, in varie raffigurazioni, altro non sarebbe che il traghettatore delle processioni dei morti, come nel mosaico pavimentale di Otranto, ove il sovrano è raffigurato con uno scettro in mano in groppa ad un caprone, seguito da una schiera di uomini.

La Processione dei morti nella tradizione italiana

Anche il folklore italico però, come si potrebbe pensare, non è estraneo al mondo dei trapassati, come mi sono occupato in un altro mio lavoro proprio sul culto dei morti.
La tradizione della Processione dei defunti e la visione degli stessi da parte della gente contadina non è però patrimonio esclusivamente bretone, anche se ancora oggi in quelle terre tale tradizione resiste fortemente, ma in tutta Europa sono fortemente diffusi racconti popolari di gente che periodicamente assisteva a tali apparizioni.
In realtà questo "spettacolo" non era riservato a tutti, ma solo a persone dai particolari poteri o nati in ben precisi giorni.
Così, ad esempio, in Friuli, il Ginzburg parla dei Beneandanti, uomini dai particolari "poteri", nati con la "camicia", un parte della placenta che, proprio per questa loro "stranezza" saranno poi gli attori, in particolari periodi dell’anno, di una lotta contro le forze maligne per assicurare fertilità ai campi.
Sono loro che possono aver rapporto con i defunti dato che "chi vede i morti, cioè va con loro, è un Benandante".
Moltissimi poi sono i racconti popolari di incredibili incontri nelle campagne con schiere di defunti. Sempre in Friuli interessante è l’avventura capitata ad un povero monaco nel 1091. Mentre questi camminava lungo un sentiero di campagna viene attratto da strani lamenti e così scorge una processione tra la quale riconosce alcuni uomini suoi conoscenti morti da poco tempo. Se però potremmo pensare che simili visioni sono relegate ad un lontano passato ecco presenti numerose testimonianze di donne lucane che durante il secolo scorso si imbatterono in quella che è la "messa dei morti". Così lungo le buie vie che conducono le contadine del sud nei campi da lavoro, capita spesso di vedere una chiesa aperta e illuminata e all’interno anime dannate che allontanano subito le viandante o le comunicano un messaggio per il mondo dei vivi.
"…una volta un forese [abitante del paese di Forenza, in Lucania N.d.A] commise con il suo padrone di andar ad attingere acqua ad una fontana lontano dal paese…il forese si mise in cammino ma giunto nei pressi della fontana di Tromacchio vide quattro persone che portavano a spalla una bara…decise di andare alla fontana di spando ma anche qui il cammino era sbarrato dai quattro…allora gli venne incontro un sacerdote morto da qualche tempo che lo prese per mano e gli disse "queste scommesse non le devi fare"…"
La strana fila tanto ricorda quelle raffigurazioni rinascimentali, chiamate "Danze Macabre", che iniziano ad apparire attorno al 1400, interpretate successivamente con il motivo della morte "livellatrice". Sicuramente queste attingerebbero da ben più antichi ricordi, come testimonierebbe la primitiva guida delle fila.
Sempre nella regione lucana, fortemente legata al mondo contadino, pullulano storie di donne che, mentre raccoglievano l’acqua, nel riflesso del catino, scorgevano strane processioni tra le quali individuavano alcuni loro defunti, tradizione presente anche nel Sud Italia. Anche in questo caso le "visioni" sono accomunate da un particolare: avvengono solo in particolari momenti della vita dell’individuo o in particolari periodi dell’anno, spesso coincidenti con festività agrarie, come ad esempio la Festa di Onnissanti o la notte di San Giovanni.

Dolcetto o Scherzetto? I Prolegomeni del cibo del mondo Ctonio
Allo stesso modo si innesta la tradizione del cibo dei defunti, trasformato poi nelle leccornie e dolciumi per i giovani bambini.
Da sempre l’uomo ha avuto timore del ritorno del defunto, l’untore che può portare morte tra i vivi. Secondo così il principio della magia simpatica, ponendo del cibo nelle tombe si sarebbe placata la fame del trapassato impedendogli così di ritornare sul mondo terreno. Che il cibo reale fosse davvero utilizzato nei sepolcri è dimostrato da diversi testi come il "De Masticazione Mortuorum in Tumulis" di Michel Raufft o la "Dissertatio Historico-Philosophica de Masticatione Mortorum" di Philip Rohr. Qui si descriveva come il morto, le cui scorte alimentari erano insufficienti, iniziava a nutrirsi masticando il sudario e le sue stesse carni. Anche il cannibalismo diventa un modo per assicurare la seconda morte al defunto, infatti lo stomaco diventa suo definitivo sepolcro e sarebbe da questa interpretazione che deriverebbero diverse espressioni popolari Italiane come "bere i morti" o "mangiare i morti"(E. De Martino, 1959) e l’usanza del banchetto funebre. Ecco così che nel giorno dei morti, quasi riproponendo il tema della necrofagia, in molti paesi della Penisola vengono preparati strani dolcetti a forma di ossa chiamati appunto "ossa dei morti"(A. Romanazzi, 2003) che vengono poi regalati ai fanciulli.
Cibo rituale sono le fave e i ceci, da sempre presenti nei convivi funebri e nelle "merende" che si tenevano tra i parenti del defunto immediatamente dopo il funerale. La motivazione potrebbe essere che la fava è stata da sempre considerata come il mezzo per comunicare con l’Aldilà, esse erano presenti nelle cerimonie funebri nell’antico Egitto ed in Grecia mentre a Roma erano il simbolo della resurrezione dalla morte.
Cicerone ci informa dell’uso ateniese di spargere granaglie sulle tombe, e legumi cotti in enormi pentole venivano offerti ad Hermes Ctonio. Ancora fino al secolo scorso in vari paesi grandi bigonci erano posti agli angoli delle strade in modo che le anime vaganti, ma anche i poveri, potessero rifocillarsi.
Il seme, poi, nasconde anche un’altra motivazione, esso è alimento molto gradito ai defunti perché, secondo l’immaginario popolare, deriverebbe proprio da quello stesso mondo conio al quale il trapassato apparterrebbe. Non solo però, il seme è simbolo del continuo ciclo di morte e rinascita, esso infatti viene mietuto proprio per poter ricrescere e non dobbiamo dimenticare che etimologicamente la dea Cerere sembrerebbe provenire proprio da "Madre del grano" identificata spesso con l’ultimo covone della raccolta e destinato a rituali di fertilità, infatti era riservato alle vacche gravide proprio per assicurare loro fertilità o alle stesse donne che si dovevano garantire un parto felice.
Il seme diventa così anche simbolo della rinascita, una novella speranza per il defunto, dunque.
Non dobbiamo poi dimenticarci della tradizione del melograno come altro alimento importante, esso è un frutto di speranza, ricco di semi e da sempre albero di fertilità.
Così, ad esempio, è sulla tomba di Osiride che germoglia un melograno dopo che esso viene ricomposto da Iside, o ancora raffigurazioni del frutto le troviamo sulle pareti tombali di varie tombe etrusche o romane.

Ecco così che le numerose tradizioni legate alle schiere dei morti propongono una nuova ed interessante interpretazione delle schiere di ragazzini, mascherati da esseri demoniaci o semplicemente da strane creature animalesche, che girano per le città al grido di "trick or treak". Guidati da un mitico "traghettatore", conosciuto ad esempio nel mondo celtico come "cenmad y meirew", ma la cui figura come abbiamo visto non è estranea al patrimonio folklorico italiano, questi bambini, vestiti a maschera come i vetusti sciamani altro non sarebbero che i defunti che tornano tra i vivi e chiedendo loro in offerta cibo rituale destinato in cambio di tranquillità: solo una volta sazio il defunto potrà ritrovare la pace dell’aldilà.