Visualizzazione post con etichetta René Guénon. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta René Guénon. Mostra tutti i post

mercoledì 18 maggio 2016

Agarthi, il Re del Mondo e i centri spirituali universali

Di Salvatore Santoru

Nel 1927 l'esoterista e pensatore tradizionalista francese René Guénon diede alle stampe "Il Re del Mondo", che risultò una tra le sue opere più conosciute e apprezzate(1).
Per tale libro, Guenon prese spunto da "Bestie,  uomini e dèi"(2) di Ferdinand Ossendowski, un libro pubblicato nel 1924 in cui lo scrittore sosteneva di essere venuto a contatto con un misterioso centro iniziatico durante un viaggio in Asia, e il capo supremo di tale centro era noto come il "Re Del Mondo"(3).
Ossendowski, ingegnere e ministro delle finanze sotto il governo dell'ammiraglio Kolchak, aveva combattuto contro l'esercito bolscevico nella Divisione asiatica di cavalleria del barone Roman Fiodorovic von Ungern-Sternberg, e nell'ultimo rapporto ai suoi ufficiali dell'agosto del 1921, li aveva informati che invece di dirigersi verso Est intendeva proseguire verso il Tibet per raggiungere una fortezza spirituale dove riteneva che si manteneva viva la fiaccola della liberazione del mondo dalle forze del male, una cui incarnazione Ossendowski vedeva nella rivoluzione bolscevica(4).
In "Il Re del Mondo" Guenon cita diversi miti e dottrine incentrati sull'esistenza di "centri spirituali universali", a partire da Agarthi o Agartha, citando "Mission  de l'Inde", l'opera del 1910 di Saint-Yves  d'Alveydre in cui si parla della misteriosa civiltà sotteranea e del Re Del Mondo(5).
Per aprire un piccolo excursus, è opportuno sottolineare che il mito di Agarthi è stato di primaria impartanza nella letteratura esoterica occidentale di fine Ottocento e inizio Novecento, ed esso va a ricollegarsi nella credenza di Shambala(6), importante elemento del buddhismo tibetano.
Tornando all'opera di Guenon, molto interessante risulta il suo mettere in relazione il mito di Agarthi con quello di altri "centri spirituali universali" presenti nelle tradizioni orientali, come Paradˆsha o occidentali come Tula messicana e atlantidea, e Thule greca e iperborea(7).

Inoltre, Guenon mette anche in relazione la funzione di "Re Del Mondo" con quella di Melki-Tsedeq, che secondo l'autore svolge la stessa funzione del primo in ambito giudeo-cristiano.
Lo scrittore francese cita, a pagina 14, un passo della Bibbia in cui si parla dello stesso Melki-Tsedeq:
  «E "Melki-Tsedeq", re di "Salem",  fece  portare  del  pane  e  del  vino;  egli  era sacerdote  dell'Altissimo  ("El  Elion"):  E  benedisse  Abramo   (8),   dicendo: Benedetto sia Abramo dall'Altissimo,  signore dei Cieli e della Terra; e benedetto sia l'Altissimo,  che ha messo i  tuoi  nemici  nelle  tue mani. E Abramo gli diede le decime di tutto ciò che aveva preso».

Guenon scrive anche che "Melki-Tsedeq è dunque re e sacerdote insieme;  il suo nome significa «re di Giustizia»,  e nello stesso tempo è re di "Salem",  cioè  della «Pace»;  ritroviamo  dunque  qui,  innanzitutto,  la  «Giustizia» e la «Pace»,  cioè proprio i due attributi fondamentali del Re del Mondo"(9), e che Salem "contrariamente all'opinione comune,  in realtà non ha mai designato una città,  ma che,  se la  si prende  quale  nome  simbolico della residenza di "Melki-Tsedeq",  può essere considerata come un equivalente del termine Agarttha"(10).

Indubbiamente,l'opera di Guenon risulta assai interessante e fondamentale per chi vuole occuparsi della tematica relativa ad Agarthi e alla presunta esistenza di "centri spirituali universali"(simbolici o meno), di cui parlano diverse tradizioni orientali e occidentali.

NOTE:
(1)https://it.wikipedia.org/wiki/Il Re del Mondo
(2)http://www.ibs.it/code/9788827208069/ossendowski-ferdinand-a-/bestie-uomini-dei.html
(3)René Guénon-Il Re Del Mondo, pg 2
(4)Giorgio Galli-Hitler e il Nazismo Magico, pg 31-32
(5)Idem (3)
(6)https://it.wikipedia.org/wiki/Shambhala
(7)René Guénon-Il Re Del Mondo, pg 23
(8)René Guénon-Il Re Del Mondo, pg 14
(9)Idem
(10)Idem

http://informazioneconsapevole.blogspot.it/2015/08/agarthi-il-re-del-mondo-e-i-centri.html

domenica 27 marzo 2016

Alcune considerazioni sulla fretta

 In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito:

https://drive.google.com/file/d/0BwS7BAey84TnM2M1Nk8tcWxQQTQ/view

di Bruno Montolio

Alcune considerazioni sulla fretta
Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,
lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.

Dante, Divina Commedia, Purgatorio, III, 10-15

Dio ha fatto il tempo, ma l’uomo ha fatto la fretta
Chi fa in fretta fa due volte
Ciò che in fretta si fa, presto si rovina
Minore il tempo, maggiore la fretta
Guardati dai consigli frettolosi, perché la fretta è una cattiva consigliera
Si morde la lingua chi parla in fretta
Cosa non pensata, non vuol fretta

Proverbi popolari

La calma viene da Allah e la fretta da Satana
Hadîth trasmesso da Abdullah-Muhaimin bin ’Abbas bin Sahl bin Sa’d As-Saidi

La parola “fretta” deriva dal latino frictare, “fregare”. Giacché si ha frizione solamente tra elementi mobili discordanti, si può desumere come la radice della fretta sia la mancanza d’unitarietà dell’essere. Sinonimo di fretta è il termine “premura” (cfr. il francese être pressé), dal quale emerge come la fretta affligga coloro che sono schiacciati e oppressi dal tempo. «Talvolta si dice, forse senza comprenderne la vera ragione, che oggi gli uomini vivono più in fretta di una volta, e ciò è letteralmente vero; la fretta caratteristica che i moderni mettono in tutte le cose non è d’altronde, in fondo, che la conseguenza dell’impressione che ne provano confusamente»(1). «La fretta febbrile che i nostri contemporanei apportano a tutto ciò che fanno […] non può che produrre agitazione e disordine»(2). L’umanità è preda di tale malattia cosmica che la colpisce in modo generalizzato, e non casuale, bensì provocata da forze ostili rappresentate da Satana, l’Avversario, per loro natura portate a distogliere l’attenzione degli esseri dal proprio “centro”. Il detto “La calma viene da Allah e la fretta da Satana”(3) e i numerosi proverbi popolari sulla fretta contengono un avvertimento chiaro per chi voglia cercare di vincere questo grave vizio insito nella natura umana e che in questa fase di discesa ciclica impregna inevitabilmente tutti gli esseri dalla loro radice.
La fretta induce chi ne è afflitto a una sempre maggiore superficialità e approssimazione, portandolo a perdere gli aspetti qualitativi e profondi della realtà. Non bisogna tuttavia confondere la “calma” con la passività di chi non utilizza in modo corretto il proprio tempo4, che non domina ma dal quale è dominato(5).
«Il tempo è una spada, se non lo si taglia con la Verità (al-haqq), esso taglia con il falso (albâtil)! Tutti gli istanti sono stati impegnati per la loro ragione d’essere. Giacché gli istanti sono tre: “Il passato, ed è quello che hai vissuto; il presente, ed è quello che tu occupi con ciò che ti reclama; e l’avvenire: esso ti è nascosto, quindi non occupartene!”. Colui che s’assorbe nel passato e nell’avvenire perde il tempo del quale gli sarà chiesto conto, il presente, che non si rimpiazza(6). Se vuoi compiere più tardi ciò che per te è allora spirato, il momento che avrai scelto per adempierlo ti apostroferà dicendoti: “Io, non sono stato creato per niente. Cerca un altro momento libero. Se lo trovi, compi ciò che devi! Ma non lo troverai”. Perciò si dice: “Il tempo, è quello che tu vivi nel presente. Non è né passato né avvenire”»(7).
La fretta non permette d’attualizzare la vocazione dell’essere, giacché indebolisce il retto comportamento in ogni atto (“la fretta, | che l’onestade ad ogn’atto dismaga”)(8), sia esso esteriore o interiore, e ottenebra l’intelletto: solamente rinunciandovi e vincendola, la percezione del proprio orizzonte intellettuale può allargarsi e raggiungere i limiti massimi concessi dalla propria natura. Fretta e concentrazione sono dunque inconciliabili(9), la prima è dovuta alla dispersione, mentre la seconda induce l’azione precisa e sollecita(10), ossia la solerzia. Da ciò emerge come fretta e sollecitudine non siano affatto sinonimi(11): la prima tende verso l’esteriore, rende schiavi dell’illusione del “fare” e provoca soltanto agitazione e disordine, la seconda, orientata verso l’interiore, può generare concentrazione, base indispensabile per l’accesso a ogni conoscenza; la prima caratterizza l’individuo preso nell’impossibile compito d’esaurire le possibilità insite nell’ipotenusa del triangolo pitagorico(12), la seconda è propria dell’essere che tende al centro sul cateto(13).
Come l’idea precede necessariamente l’atto, la predisposizione dell’essere, ossia il suo corretto orientamento, è indispensabile affinché l’azione sia proficua14; solo così, nel suo agire, esso potrà tendere con la concentrazione al proprio centro. L’illusione che le cose possano essere fatte più velocemente senza mettersi prima nella condizione ideale per compierle porta alla fretta, che spinge l’essere ad agire senza riflettere su ciò che fa, mettendolo così in balia di chi ha gli strumenti per manipolarlo (e questo può farci intuire uno dei motivi per cui questa malattia cosmica è oggigiorno così diffusa).
In sintesi si può dire che la fretta è generata e alimentata da diversi vizi, cui ci si può opporre adeguatamente: alla quantità va opposta la qualità, alla velocità la calma, alla dispersione e agli attaccamenti all’ambiente la concentrazione e il ricordo del divino, all’angoscia la tranquillità, all’agitazione e alla mancanza di controllo la pazienza e la disciplina, al perdersi nel passato o in fantasmagoriche previsioni sul futuro la presenza ai propri atti, al disordine l’ordine che si fonda sul metodo e che permette di fare le cose al momento giusto; in quest’ottica sarebbe opportuno gerarchizzare le proprie attività in modo da concedere il legittimo spazio alle più importanti, eliminare quelle superflue(15) e ridurre quelle alle quali si concede colpevolmente troppo spazio(16).
La tensione dell’essere verso il proprio centro comincia dall’occuparsi solo di ciò che lo riguarda sfrondando il resto(17).
Questo lavoro di sgrossatura della pietra che porta a contrastare la fretta dovrebbe essere condotto senza cadere nello schematismo, ma cercando di essere ricettivi alle qualità del momento che si sta vivendo(18). Così come v’è un’orientazione spaziale che dirige verso il centro, ve n’è una temporale che coincide con una tensione verso l’eterno di cui la coscienza del presente è un riflesso. Per liberarsi dai nefasti influssi della fretta è necessaria una continua discriminazione, un lavoro “contro corrente” che deve costantemente essere rinnovato e che richiede attenzione e dedizione, vigilanza e perseveranza; tuttavia non ci sono alternative, è indispensabile farlo se si vuole uscire dalla follia organizzata che ci circonda e dirigersi verso la stabilità dell’Eterno(19).

1) R. Guénon, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Éditions Gallimard, Paris, 1945, cap. XXIII: Le temps changé en espace. Per comodità del lettore, riproduciamo per esteso il paragrafo che contiene il passo citato: «Il tempo consuma in un certo qual modo lo spazio, per un effetto della potenza di contrazione che rappresenta e che tende a ridurre sempre più l’espansione spaziale alla quale s’oppone; ma, in quest’azione contro il principio antagonista, il tempo stesso si svolge con una velocità sempre crescente, giacché, lungi dall’essere omogeneo come suppongono coloro che non lo considerano che dal solo punto di vista quantitativo, è al contrario “qualificato” in maniera differente a ogni istante dalle condizioni cicliche della manifestazione alla quale appartiene. Quest’accelerazione diviene più apparente che mai alla nostra epoca, poiché essa assume proporzioni esagerate negli ultimi periodi del ciclo, ma, in realtà, essa esiste costantemente dall’inizio alla fine di questo; si potrebbe dunque dire che il tempo non contrae solamente lo spazio, ma che contrae anche progressivamente se stesso; questa contrazione s’esprime con la proporzione decrescente dei quattro Yuga, con tutto ciò che implica, compresa la diminuzione corrispondente della durata della vita umana. cit. Al suo grado estremo, la contrazione del tempo arriverà a ridurlo finalmente a un unico istante, e allora la durata avrà veramente cessato d’esistere, giacché è evidente che, nell’istante, non può più esservi alcuna successione. È così che “il tempo divoratore finisce col divorare se stesso”, in modo che, alla “fine del mondo”, vale a dire al limite stesso della manifestazione ciclica, “non v’è più tempo”».
2) R. Guénon, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, ibid., Avant-propos. «L’incremento della velocità degli avvenimenti, con l’avvicinarsi della fine del ciclo, può essere paragonato all’accelerazione che esiste nel movimento di caduta dei corpi pesanti; il cammino dell’attuale umanità assomiglia proprio a quella d’un mobile lanciato su una discesa tanto più velocemente quanto più s’avvicina al basso» (ibid., cap. V: Les déterminations qualitatives du temps).
3) Hadîth trasmesso da Abdullah-Muhaimin bin ’Abbas bin Sahl bin Sa’d As-Saidi che lo ha ricevuto da suo padre a cui è stato trasmesso da suo nonno (cfr. English traslation of Jâmi‘ At-Tirmidhî, Vol. 4, Chapters on Righteousness and Maintaining Good Relations with Relatives, Darussalam, Riyadh, 2007).
4) “La Regola v’insegni il corretto utilizzo del Tempo” ammonisce un rituale massonico.
5) Attitudine passiva che ricorda quella degli ignavi, incapaci di prendere partito e d’agire; Dante li presenta nel III canto dell’Inferno costretti in eterno a rincorrere un’insegna che gira in tondo senza senso:
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;

Non avendo fatto uso in vita del loro libero arbitrio, è come se questi dannati non fossero mai vissuti e
sono ora continuamente pungolati da mosconi e vespe:
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi
.
6) Chiaro l’invito a cogliere l’attimo fuggente nel quale gli aspetti qualitativi si manifestano. Per questo, e per non essere inesorabilmente sopraffatti e schiacciati dal tempo come detto nell’incipit di questo passo, è necessaria un’attitudine attiva e vigile (Shaikh ‘Ali al-Jamal scrive: «L’intuizione è molto sottile e fuggitiva; se l’uomo non sta in guardia, scapperà dalle sue mani senza che se ne accorga», cfr. Lettres d’un maître soufi: le Sheikh al-‘Arabî ad-Darqâwî, Lettera 22, Archè, Milano, 1978).
7) Shaikh Tadili, La vie traditionelle c’est la sincérité. Anche nella Bibbia viene evidenziato come ogni momento abbia una sua qualità propria: «Per tutto c’è un momento e un tempo per ogni azione sotto il sole. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sbarbare il piantato. C’è un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costrui re. C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. C’è un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per separarsi. C’è un tempo per guadagnare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttare via. C’è un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. C’è un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace» (Ecclesiaste, 3, 1-8).
8) La vocazione è un richiamo del proprio principio interiore e la fretta, quale tendenza alla dispersione, è una sorta di rumore che ne distoglie l’ascolto; si ha fretta perché chiamati contemporaneamente da più parti, così il “lasciar la fretta” di Dante ben corrisponde alla tensione verso il silenzio interiore. Ecco cosa scriveva al proposito Albano Martín de la Scala nella nota 17 dell’articolo La Vocazione apparso nel no 34 di questa rivista: «In particolare, oggi più che nel passato, viviamo in un mondo pieno di rumori, frastuoni e richiami che si sovrappongono e a volte si mischiano in modo inestricabile e questo è vero per la condizione fisica, ma ancora di più per quella psichica. Il tendere verso il silenzio interiore è quindi un passo indispensabile per poter udire in modo sempre più chiaro la propria chiamata. Non a caso la disciplina del silenzio, anche esteriore, trova ampio spazio nelle più diverse forme tradizionali. Basti pensare al silenzio dell’apprendista in Massoneria o a quello praticato in diversi ordini monastici».
9) La fretta è strettamente legata alla forza centrifuga. La velocità di un corpo legato a una corda e fatto roteare è tanto maggiore quanto più lunga è la corda. Analogamente si comportano l’umanità e i singoli individui, che sono tanto più soggetti alla velocità quanto maggiore è la loro distanza dal centro. La corda
immaginaria di cui parliamo corrisponde al simbolico cateto di base del triangolo pitagorico che inizia ad allungarsi e ad allontanarsi dal cateto verticale, simbolo della Provvidenza, nel momento in cui l’essere, con un’affermazione della propria volontà individuale, gira le spalle al centro e si orienta verso l’esteriore.
10) “Sollecito” deriva dal latino sollìcitus composto da sòllus, tutto, intiero, e cìtus, pronto, p.p. di cìo, muovo. “Solerte”, da sòllus e ars, arte, per conseguenza “esperto”, dotato di attitudine.
11) E questo dovrebbe essere sufficiente a far comprendere come la lotta alla fretta non possa essere presa a scusa per giustificare quella che in realtà non è altro che pigrizia.
12) Ipotenusa che, da un altro punto di vista, può essere messa in relazione con la discesa ciclica e la sua continua accelerazione.
13) Per più ampi approfondimenti sull’argomento del triangolo pitagorico vedasi i ni 36 e 37 di questa rivista. Albano Martín de la Scala, nell’articolo Provvidenza, Volontà, Destino, scriveva: «La mentalità moderna, ignorando l’esistenza di un Ordine risultante dall’espressione nella manifestazione di un Principio Universale di carattere sovrumano, impegna la Volontà umana in un processo d’affermazione dell’individualità, unica realtà esistente secondo la sua percezione, alimentando l’ego in un processo propriamente indefinito. Ora, questa forza di Volontà può applicarsi ugualmente in senso contrario, quantunque per questo sia necessario riconoscere l’azione della Provvidenza».
14) La copertura del tempio, che precede l’inizio dei lavori massonici, è un rito che evidenzia come tradizionalmente sia necessario creare le condizioni ideali prima di compiere qualunque atto.
15) Generalmente il lavoro, il riposo e la ricreazione, le occupazioni familiari e l’attività rituale dovrebbero riempire la vita degli iniziati.
16) A questo proposito può essere interessante fare una riflessione su quale sia lo spazio che legittimamente può essere concesso al divertimento o alla ricreazione. Il verbo “divertire” deriva dal latino divèrtere, p.p. di divèrsus, composto dalla particella di(s), che indica allontanamento, e vèrtere, volgere. Il significato è quindi quello di volgere altrove, distogliere, distrarre, deviare. Un simile comportamento, essendo contrario e inconciliabile con la concentrazione e la rettitudine, non può che essere considerato illegittimo dal punto di vista tradizionale. Ben diversa la radice etimologica, e quindi il senso profondo, del verbo “ricreare”, dal latino recreàre, composto dall’iterativo re e creàre, creare, vivificare. Appare quindi evidente come la ricreazione, non solo sia legittima, ma rivesta pure un’importantissima funzione che si integra armoniosamente nell’attività tradizionale, permettendo a chi ne usufruisce di ritemprarsi in vista degli impegni che lo attendono; non a caso in Massoneria i lavori riprendono “Forza e Vigore” dopo la ricreazione. Quest’esempio è emblematico delle difficoltà che si possono incontrare nel giudicare dall’esterno certe situazioni e mostra come comportamenti apparentemente simili possano nascere da motivazioni differenti ed essere quindi intrinsecamente molto diversi tra loro. Come quasi sempre accade è l’intenzione o in altri termini l’orientazione a fare tutta la differenza.
17) Il Martello e lo Scalpello sono gli strumenti simbolici con cui l’Apprendista è chiamato a lavorare sulla Pietra Grezza per sgrossarla, con una continua e paziente opera di sottrazione.
18) Nel dominio dell’azione, la “puntualità” è il fare le cose nel punto temporale esatto in cui devono essere compiute (in Massoneria i lavori cominciano simbolicamente a mezzogiorno e terminano a mezzanotte “in punto”). La puntualità permette di fare le cose appuntino, con precisione e solerzia, senza dover rincorrere affannosamente il tempo perduto o attendere. Ricordiamo che il termine “punto” deriva dal latino punctum da pungere, penetrare; se ne può quindi forse dedurre che per essere penetranti e non restare alla superficie delle cose è necessario essere puntuali.
19) Il “luogo” sede di questa stabilità è il Centro del mondo («V’è ancora un’osservazione da fare sulla rappresentazione del centro spirituale come un’isola, che peraltro racchiude la “montagna sacra” […]. L’idea che evoca la rappresentazione di cui si tratta è essenzialmente quella di “stabilità”, che abbiamo precisamente indicato come caratteristica del Polo: l’isola rimane immutabile in mezzo all’agitazione incessante dei flutti, agitazione che è un’immagine di quella del mondo esterno; e bisogna aver attraversato il “mare delle passioni” per giungere alla “Montagna della Salvezza”, al “Santuario della Pace”», R. Guénon, Le Roi du Monde, Éditions Traditionnelles, Paris, 1950, cap. X, Noms et représentations symboliques des centres spirituels). «È in questo centro che “il tempo si cambia in spazio”, perché qui è, nel nostro stato d’esistenza, il riflesso diretto dell’eternità principiale, il che esclude ogni successione; così la morte non vi può colpire, ed è quindi propriamente il “soggiorno d’immortalità”; tutte le cose vi appaiono in perfetta simultaneità in un immutabile presente, grazie al potere del “terzo occhio”, col quale l’uomo ha riacquistato il “senso dell’eternità”». (R. Guénon, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, ibid., cap. XXIII: Le temps changé en espace).

lunedì 1 febbraio 2016

La profezia di Guénon sulla rovina occidentale

tratto da Il Giornale del 28/01/2016

Torna un testo-culto del tradizionalismo. Riletto oggi riserva sorprese...


Luca Gallesi


Pensare a un intellettuale francese convertito all'Islam fa subito immaginare che possa trattarsi di un potenziale terrorista, così come sapere che lo stesso personaggio sia pure un alto maestro massone evoca immediatamente la sua partecipazione a oscuri complotti o a disinvolte speculazioni bancarie.

Curiosamente René Guénon (1886-1951), pur avendo abbracciato la fede musulmana e scalato i vertici dell'esoterismo massonico, non diventò né un terrorista né un banchiere, ma fu invece un lucido e apprezzato pensatore, caposcuola del cosiddetto pensiero tradizionale, che annovera tra le sue fila Julius Evola, Frithjof Schuon, Titus Burckhardt, S.H. Nasr e altri maestri del '900...Capita quindi a proposito, per poter meglio comprendere tanto l'Islam quanto le scuole di pensiero esoterico, una nuova edizione di uno dei testi più importanti del Guénon, quella Crisi del mondo moderno tradotta da Julius Evola, (Edizioni Mediterranee, pagg. 254, euro 14,50) che fu pubblicata per la prima volta da Hoepli nel 1937 e poi riedita ancora nel '53 e nel '72. Il pensiero di Guénon è quanto di più anti-moderno si possa immaginare: per lui, come per gli altri pensatori «tradizionali», la decadenza è cominciata una decina di migliaia di anni fa, e tutto il periodo storico non ne è che l'ultima fase. La caduta, ossia l'allontanamento dal mondo metafisico, è diventata ancora più veloce a partire dal Rinascimento, poi con l'Illuminismo, e il Ventesimo secolo non ha fatto che accelerare ulteriormente il disfacimento. Questa edizione, riveduta e aggiornata da Gianfranco de Turris (in collaborazione con A. Scarabelli e G. Sessa), esce in un momento storico delicato, che, a distanza di novant'anni dalla pubblicazione originale, ne fa risaltare il carattere quasi profetico di alcuni parti, sia per quanto riguarda il degrado del mondo moderno che per apprezzare la civiltà del mondo antico. Leggere, oggi, i capitoli dedicati alla contrapposizione tra Oriente e Occidente, oppure alla critica dell'individualismo e alla inevitabile esplosione demografica del Terzo mondo, che il dilagare del consumismo avrebbe trasformato in invasione dei Paesi più ricchi, fa un certo effetto, così come fanno riflettere alcune affermazioni sulla presunta oscurità del Medio Evo, quando, ricorda Guénon, la Somma Teologica di Tommaso d'Aquino rappresentava un libro di testo che tutti gli studenti dovevano affrontare nella sua interezza, e tanto basti per stabilire la siderale distanza con gli studenti odierni, alle prese con ridicoli «crediti».

sabato 23 gennaio 2016

Guénon, un classico per tradizione

tratto da Il Giornale del 5/10/2008

di Tommy Cappellini

«Perché l’acqua degli oceani non vola via quando la Terra gira?». Risposta dello scienziato: «Ah, la forza di gravità». Risposta del poeta: «Perché la Terra è una Palla Magica». Sono due modi di vivere, due opposte morali, due lontane felicità. Tra i pensatori da leggere per fare un po’ di chiarezza interiore a proposito, c’'è René Guénon, sul quale Jean-Pierre Laurant ha scritto il saggio René Guénon. Esoterismo e Tradizione (Edizioni Mediterranee, pagg. 232, euro 23,50, trad. Dorella Giardini). Guénon stava dalla parte della quarta dimensione di ogni nostra esperienza, quella runica, indoeuropea, antipsicologica e incantatoria, sensuale e indicibile. Fu un matematico che rifondò la metafisica. Un cattolico che morì - al Cairo, nel 1951 - da musulmano. Insomma, un mistico.

venerdì 11 dicembre 2015

Da Atlantide e Oz all'"Area X" I mondi più veri sono immaginari

tratto da Il Giornale del 24 maggio 2015

Film, tv, videogame e romanzi disegnano nuove terre nelle quali mettere in scena le passioni umane e politiche. Ecco la mappa per orientarsi tra i "casi" del momento

di Luigi Mascheroni


Spazio: ultima frontiera. Ecco i viaggi dell'astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta all'esplorazione di strani mondi, alla ricerca di nuove forme di vita e di civiltà ...

Anche la letteratura, il cinema, la televisione, i videogiochi, come la nave stellare Enterprise - a proposito, l'ultimo capitolo della trilogia della nuova serie di Star Trek è in lavorazione, e uscirà con la regia di Justin Lin nel 2016 in onore del cinquantenario del franchise - sono da sempre in viaggio per esplorare nuovi mondi, luoghi fantastici, (anti)utopie, universi paralleli, terre immaginarie...


L'arte dello storytelling, dalla Terra dei lotofagi di Omero al sistema solare «connesso e condiviso» del super-videogame Destiny e dall'isola di Peter Pan alla Hogwarts di Harry Potter, sa bene che le ambientazioni migliori, le più «vere», sono quelle inesistenti.

Filosofi, poeti, romanzieri, sceneggiatori, registi e programmatori da secoli creano mondi stra -ordinari, al di fuori della realtà, a volte terribili altre meravigliosi, descritti nei dettagli, con mappe precisissime, suddivisione dei territori, regni mitici, città invisibili, e poi montagne, mari, galassie, iperspazio... Tutto fedelmente riprodotto sulle carte. Mondi in sé perfetti. Solo che non esistono. Il Paese dei Balocchi, Oz, Narnia, il Mondo Disco di Terry Pratchett, appena scomparso...

Dall'Atlantide di Platone all'immaginaria contea di Yoknapatawpha di William Faulkner, dalla Flatlandia di Edwin A. Abbott al pianeta Krypton di Superman, dalla Corte di Azathoth di H. P. Lovecraft (ah, tutti i suoi racconti sono appena stati pubblicati in un unico volume negli Oscar) fino alla Terra di Mezzo di Tolkien (una volta élitaria oggi strafrequentata...), la geografia fantastica è stata diligentemente mappata da saggi, dizionari e atlanti nella cui realizzazione si sono sbizzarriti serissimi accademici e fan sfegatati. Ora, però, sarebbe buona cosa aggiornare le carte topografiche dell'immaginario, visto il proliferare di nuovi e sempre più complessi mondi. Esempi recenti?

Da pochissimi giorni è giocabile (già con grande successo) il nuovo capitolo, il terzo, di The Witcher , videogioco fantasy che trae ispirazione dalla saga creata negli anni Novanta dallo scrittore polacco Andrzej Sapkowski: la storia è ambientata, in un medioevo alternativo, lungo la costa di un continente immaginario, del quale non viene mai esplicitato il nome, i cui territori meridionali sono dominati dall'Impero di Nilfgaard mentre quelli settentrionali sono suddivisi in una moltitudine di regni e principati spesso in lotta tra di loro, fra i quali spicca il Regno di Temeria, con capitale Vizima, nel quale si concentrano le vicende del gioco, tra umani, mostri e le «razze antiche». Con questo capitolo (intitolato «Wild Hunt») The Witcher , di fatto il più importante videogioco dell'anno, diventa il più grande open world mai inventato per un videogame: distanze enormi, decine di mappe, grafica fotorealistica, cento ore di durata, fra villaggi, mari, colline... Nel gioco, recita (con la voce) uno degli attori di Game of Thrones .

A proposito. Game of Thrones , da noi Il Trono di Spade , ossia l'adattamento televisivo del ciclo di romanzi Cronache del ghiaccio e del fuoco dell'americano George R.R. Martin, è arrivato alla quinta stagione, partita il mese scorso in contemporanea Usa-Italia. La serie racconta la lotta per il potere tra un gruppo di casate nobiliari che vivono in un mondo immaginario, dove emergono anche forze oscure e magiche, costituito da due continenti: quello orientale, Essos, e quello occidentale, Westeros (dove si svolgono quasi interamente le vicende della saga), anticamente diviso in sette regni che, però, furono sottomessi a un re che risiede nella capitale, dove si trova il Trono di Spade. All'estremo nord, nelle terre dell'eterno inverno, si erge un colossale muro di ghiaccio detto la Barriera... Come la tolkieniana Terra di Mezzo e tutti i successivi universi fantasy, anche il mondo di Game of Thrones ha la sua dettagliata geografia immaginaria, ricca di riferimenti letterari, storici e geografici, dalla Divina commedia alla Guerra dei cent'anni.

E fra regni, guerre, mostri e trame fantasy post-tolkeniane (più o meno scontate), tutte con la propria topografia fantastica, si muovono gli (anti)eroi di una serie di recenti epopee narrative: Il trono d'ombra di Django Wexler (Fanucci, 2015), Le spade dell'imperatore di Brian Staveley (Gargoyle, 2014), in cui aleggiano echi della mitologia orientale, il «ciclo» degli Albi, fra la Terra Nascosta e la Forra Oscura, di Markus Heitz (Nord), fino al Re dei fulmini di Mark Lawrence (Newton Compton, 2013)... Terre misteriose, ma in buona parte narrativamente già viste.

Mentre, del tutto sconosciuta e off-limits, è l'Area X della trilogia di Jeff Vandermeer, maestro della narrativa fantastica, sottogenere new weird . Non è chiaro cosa vi accada, non è chiaro chi la abiti, perché per trent'anni l'Area X - un territorio dove un fenomeno dall'origine sconosciuta in costante espansione altera le leggi fisiche, trasforma gli animali, le piante, manipola lo stesso scorrere del tempo - è rimasta tagliata fuori dal resto del mondo. La Southern Reach, l'agenzia governativa incaricata di indagare l'enigma, ha il compito di nasconderlo all'opinione pubblica. Uscita negli Usa nel 2014, la Trilogia si è imposta come fenomeno globale, anche per la modalità di pubblicazione: i tre titoli escono in tutti i Paesi a distanza di tre mesi l'uno dall'altro (da noi il primo, Annientamento , è uscito a marzo, il secondo arriva a inizio giugno, il terzo a settembre) inducendo una sorta di «lettura compulsiva» simile alla fruizione binge-watching delle serie tv. Inutile dire che i diritti cinematografici sono già acquistati dal produttore Scott Rudin ( The Social Network , Grand Budapest Hotel , Non è un paese per vecchi ...).

Ecco, il cinema. Mentre si attende - dicembre 2015 - il ritorno dell'epopea ambientata nella Galassia di Star Wars, episodio VII, Jon Landau e James Cameron in questo periodo stanno lavorando contemporaneamente a Avatar 2 (uscita prevista 2017) e Avatar 3, sequel del film con l'incasso più alto di tutti i tempi: i protagonisti della storia, destinata a diventare una vera e propria saga, questa volta esploreranno il sistema Alpha Centauri AB, oltre a rimanere nella dimensione di Pandora. Tra parentesi. Le montagne fluttuanti del satellite Pandora non sono un'invenzione originale: si trovano nei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, dove appare l'isola volante Laputa, e nel Castello nel cielo di Hayao Miyazaki. A dimostrazione che qualsiasi «terra», anche quella apparentemente vergine dal punto di vista dell'invenzione creativa, è sempre geograficamente affine a qualcosa d'altro. Tutte le mappe, alla fine, si assomigliano.

Per trovare la prova più eclatante, basta leggere il nuovo numero monografico della rivista Antarès (Bietti), in uscita a giugno, dal titolo Lune d'acciaio e dedicato a «Il secolo lungo della fantascienza». Tra i saggi, «fantastico» quello dello studioso Nunziante Albano il quale trova inedite corrispondenze tra il Ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov e il mito del Re del mondo di cui parlarono Saint-Yves d'Alveydre e Ferdinand Ossendowsky (e poi René Guénon). E se il Centro segreto che custodisce la sapienza del mondo e ne guida la storia per preservare l'Impero galattico creato dal grande Asimov, fosse «nascosto» nel mitico e inaccessibile regno sotterraneo di Agarthi?

lunedì 6 luglio 2015

NOMI PROFANI E NOMI INIZIATICI *

in collaborazione con la rivista Lettera E Spirito:

https://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-nomi-profani-e-nomi-iniziatici/

René Guénon

Parlando precedentemente dei diversi generi di segreti d’ordine più o meno esteriore che possono esistere in certe organizzazioni, iniziatiche o no, abbiamo menzionato tra gli altri il segreto riguardante i nomi dei loro membri; e può ben sembrare, a prima vista, che sia un segreto da considerare tra le semplici misure di precauzione destinate a proteggersi contro i pericoli derivanti da eventuali nemici, senza che occorra cercarvi una ragione più profonda. In realtà, è sicuramente così in molti casi, e per lo meno in quelli nei quali si ha a che fare con organizzazioni segrete puramente profane; tuttavia, quando si tratta d’organizzazioni iniziatiche, è possibile vi sia altro, e che questo segreto, come tutto il resto, rivesta un carattere veramente simbolico. Vi è tanto più interesse a soffermarsi un po’ su tale punto, quanto la curiosità dei nomi è una delle manifestazioni più ordinarie dell’“individualismo” moderno, e, quando si pretenda applicarla alle cose del dominio iniziatico, testimonia inoltre una grave ignoranza delle realtà di quest’ordine, e una deprecabile tendenza a volerle ricondurre al livello delle contingenze profane. Lo “storicismo” dei nostri contemporanei non è soddisfatto che mettendo dei nomi propri su tutte le cose, vale a dire attribuendole a individualità umane definite, secondo la concezione più limitata che ci si possa fare d’esse, quella che ha corso nella vita profana e che non tiene conto se non della sola modalità corporea. Tuttavia, il fatto che l’origine delle organizzazioni iniziatiche non possa mai essere ricondotta a tali individualità dovrebbe già far riflettere a proposito; e, quando si tratti di quelle dell’ordine più profondo, i loro stessi membri non possono essere identificati, non tanto perché si dissimulino, il che, per quanta cura vi pongano, potrebbe non essere sempre efficace, ma perché, rigorosamente parlando, non sono dei “personaggi” nel senso che vorrebbero gli storici, al punto che chiunque crederà di poterli nominare cadrà, con ciò stesso, inevitabilmente in errore [1]. Prima di passare a spiegazioni più ampie sull’argomento, diremo che qualcosa d’analogo si ritrova, mantenendo le proporzioni, a tutti i gradi della scala iniziatica, anche ai più elementari, di modo che, se un’organizzazione iniziatica è realmente quel che dev’essere, la designazione d’uno qualunque dei suoi membri con un nome profano, quand’anche sia “materialmente” esatta, sarà sempre intaccata da falsità, quasi come lo sarebbe la confusione tra un attore e un personaggio di cui reciti la parte e del quale ci si ostinasse ad attribuirgli il nome in tutte le circostanze della sua esistenza.

Abbiamo già insistito sulla concezione dell’iniziazione come “seconda nascita”; è precisamente come conseguenza logica immediata di questa concezione che, in numerose organizzazioni, l’iniziato riceve un nuovo nome, differente dal suo nome profano; e non si tratta d’una semplice formalità, giacché tale nome deve corrispondere a una modalità parimenti differente del suo essere, quella la cui realizzazione è resa possibile dall’azione dell’influenza spirituale trasmessa dall’iniziazione; si può inoltre osservare che, anche dal punto di vista exoterico, la stessa pratica esiste, con una ragione analoga, in taluni ordini religiosi. Avremo dunque per lo stesso essere due modalità distinte, una che si manifesta nel mondo profano, e l’altra all’interno dell’organizzazione iniziatica [2]; e, normalmente, ciascuna d’esse deve avere il suo nome proprio, quello dell’una non convenendo all’altra, poiché si situano in due ordini realmente differenti. Ci si può spingere più lontano: a ogni grado d’iniziazione effettiva corrisponde ancora un’altra modalità dell’essere; questi dovrebbe dunque ricevere un nuovo nome per ognuno di tali gradi, e, quand’anche non gli venga di fatto attribuito, ciò nondimeno esiste, si può dire, quale espressione caratteristica di questa modalità, giacché un nome non è altro che questo in realtà. Ora, come queste modalità sono gerarchizzate nell’essere, così è ugualmente dei nomi che li rappresentano rispettivamente; un nome sarà dunque tanto più vero quanto più corrisponderà a una modalità d’ordine più profondo, poiché, con ciò stesso, esprimerà qualcosa di più vicino alla vera essenza dell’essere. Contrariamente all’opinione volgare, è dunque il nome profano che, legato alla modalità più esteriore e alla manifestazione più superficiale, è il meno vero di tutti; e così è soprattutto in una civiltà che abbia perduto qualsiasi carattere tradizionale, e in cui un nome simile non esprime pressoché più nulla della natura dell’essere. Quanto a quello che si può chiamare il vero nome dell’essere umano, il più vero di tutti, nome che è d’altronde propriamente un “numero”, nel senso pitagorico e qabbalistico della parola, è quello che corrisponde alla modalità centrale della sua individualità, ossia alla sua restaurazione nello “stato primordiale”, giacché è quello che costituisce l’espressione integrale della sua essenza individuale.

Da queste considerazioni risulta che un nome iniziatico non ha da essere conosciuto nel mondo profano, poiché rappresenta una modalità dell’essere che non potrebbe manifestarsi in questo, di modo che la sua conoscenza cadrebbe in qualche modo nel vuoto, non trovando nulla a cui possa applicarsi realmente. Inversamente, il nome profano rappresenta una modalità di cui l’essere deve spogliarsi quando entra nel dominio iniziatico, e che allora non è più per lui se non una semplice parte che recita all’esterno; questo nome non potrebbe dunque valere in tale dominio, in rapporto al quale quel ch’esprime è in qualche modo inesistente. D’altra parte, va da sé che tali ragioni profonde della distinzione e per così dire della separazione del nome iniziatico e del nome profano, come designanti “entità” effettivamente differenti, possono non essere coscienti in tutti gli ambiti in cui il cambiamento di nome è praticato di fatto; può accadere che, in seguito a una degenerazione di talune organizzazioni iniziatiche, si giunga in esse al punto di tentare di spiegarlo con motivi del tutto esteriori, ad esempio presentandolo come una semplice misura di prudenza, cosa che, insomma, ha più o meno lo stesso valore delle interpretazioni del rituale e del simbolismo in senso morale o politico, e non impedisce affatto che vi sia stato tutt’altro all’origine. Per converso, se si tratta solo d’organizzazioni profane, questi stessi motivi esteriori sono ben realmente valevoli, e non vi sarebbe nulla di più, a meno tuttavia che non vi sia anche, in certi casi, come abbiamo già detto a proposito dei riti, il desiderio d’imitare gli usi delle organizzazioni iniziatiche, ma, naturalmente, senza che ciò possa allora rispondere alla minima realtà; e questo mostra ancora una volta che apparenze simili possono, di fatto, celare le cose più differenti.

Ora, tutto quel che abbiamo detto finora di questa molteplicità di nomi, rappresentanti altrettante modalità dell’essere, si riferisce unicamente a estensioni dell’individualità umana, comprese nella sua realizzazione integrale, ossia, iniziaticamente, al dominio dei “piccoli misteri”, come spiegheremo in seguito in modo più preciso. Quando l’essere passa ai “grandi misteri”, vale a dire alla realizzazione di stati sovra-individuali, passa con ciò stesso di là del nome e della forma, poiché, come insegna la dottrina indù, queste (nâma-rûpa) sono le espressioni rispettive dell’essenza e della sostanza dell’individualità. Un tale essere, veramente, non ha dunque più alcun nome, poiché quella è una limitazione dalla quale si è ormai liberato; potrà, se è opportuno, assumere non importa quale nome per manifestarsi nel dominio individuale, ma tale nome non l’intaccherà in alcun modo e sarà per lui tanto “accidentale” quanto un semplice vestito che si può togliere o cambiare a volontà. È questa la spiegazione di quanto dicevamo più sopra: quando si tratta d’organizzazioni di quest’ordine, i loro membri non hanno nome, né hanno un nome esse stesse; in tali condizioni, che vi è ancora che possa offrirsi alla curiosità profana? Quand’anche questa arrivi a scoprire qualche nome, essi non avranno che un valore del tutto convenzionale; e questo, spesso, può verificarsi già per organizzazioni d’ordine inferiore a quello, nelle quali saranno ad esempio utilizzate “firme collettive”, rappresentanti, sia tali organizzazioni nel loro insieme, sia delle funzioni intese indipendentemente dalle individualità che le ricoprono. Tutto ciò, lo ripetiamo, discende dalla natura stessa delle cose d’ordine iniziatico, in cui le considerazioni individuali non contano nulla, e non ha affatto come fine quello di sviare certe ricerche, sebbene questo ne sia una conseguenza di fatto; ma come potrebbero i profani supporre altro dalle intenzioni che essi stessi potrebbero avervi?

Da là viene anche, in molti casi, la difficoltà o addirittura l’impossibilità d’identificare gli autori d’opere aventi un certo carattere iniziatico [3]: o esse sono del tutto anonime, o, ed è lo stesso, non hanno per firma che un marchio simbolico o un nome convenzionale; non vi è d’altronde alcuna ragione perché i loro autori abbiano giocato nel mondo profano un ruolo apparente qualunque. Quando invece opere del genere portano il nome d’un individuo noto per aver effettivamente vissuto, non per questo si è molto più facilitati, giacché non è per questo che si saprà esattamente con chi o con cosa si ha a che fare: tale individuo può benissimo essere stato soltanto un portaparola, perfino una maschera; in un caso simile, la sua opera presunta potrà comportare conoscenze che egli non avrà mai avuto realmente; egli potrebbe essere solo un iniziato di grado inferiore, o anche un semplice profano che sarebbe stato scelto per ragioni contingenti qualunque [4]; e allora non è evidentemente l’autore che ha importanza, ma unicamente l’organizzazione che l’ha ispirato.

Del resto, anche nell’ordine profano, ci si può stupire dell’importanza attribuita oggigiorno all’individualità d’un autore e a tutto quel lo riguarda da vicino o da lontano; forse che il valore dell’opera dipende in qualche modo da queste cose? D’altro lato, è facile costatare che la preoccupazione di dare il proprio nome a un’opera qualsiasi si incontra tanto meno in una civiltà quanto più questa è strettamente legata ai principi tradizionali, di cui, infatti, l’“individualismo” sotto tutte le sue forme è la negazione vera e propria. Si può comprendere senza difficoltà che tutte queste cose sono legate tra di loro, e non vogliamo insistervi ulteriormente, tanto più che su di esse ci siamo sovente già spiegati altrove; ma non era inutile sottolineare ancora, in quest’occasione, il ruolo dello spirito antitradizionale, caratteristico dell’epoca moderna, come causa principale dell’incomprensione delle realtà iniziatiche e della tendenza a ridurle ai punti di vista profani. È questo spirito che, sotto nomi come “umanesimo” e “razionalismo”, si sforza costantemente, da diversi secoli, di ricondurre tutto alle proporzioni dell’individualità umana volgare, intendiamo la porzione ristretta che ne conoscono i profani, e di negare tutto quel che supera tale dominio strettamente limitato, dunque in particolare tutto quel che ha attinenza con l’iniziazione, a qualunque grado. C’è appena bisogno di far rilevare come le considerazioni che abbiamo qui esposto si basano essenzialmente sulla dottrina metafisica degli stati molteplici dell’essere, della quale sono un’applicazione diretta [5]; come potrebbe una simile dottrina essere compresa da chi abbia la pretesa di fare dell’uomo individuale, e addirittura della sua sola modalità corporea, un tutto completo e chiuso, un essere sufficiente a se stesso, invece di vedervi solo quel che esso è in realtà, la manifestazione contingente e transitoria d’un essere in un dominio molto particolare nella moltitudine indefinita di quelli il cui insieme costituisce l’Esistenza universale, e ai quali corrispondono, per questo stesso essere, altrettante modalità e stati differenti, di cui gli sarà possibile prender coscienza precisamente seguendo la via che gli è aperta dall’iniziazione?

* R. Guénon, Aperçus sur l’Initiation, Éditions Traditionnelles, Paris, 1946, cap. XXVII.

1. Questo caso è segnatamente, in Occidente, quello dei veri Rosa-Croce.↩

2. La prima deve d’altronde essere considerata come se avesse un’esistenza illusoria in rapporto alla seconda, non solo in ragione della differenza dei gradi di realtà ai quali esse si riferiscono rispettivamente, ma anche perché, come abbiamo spiegato poco sopra, la “seconda nascita” implica necessariamente la “morte” dell’individualità profana, che così non può più sussistere se non a titolo di semplice apparenza esteriore.↩

3. Ciò è d’altronde suscettibile d’una applicazione molto generale in tutte le civiltà tradizionali, a motivo del carattere iniziatico inerente ai mestieri stessi, di modo che ogni opera d’arte (o quel che i moderni chiamerebbero così), di qualunque genere sia, ne partecipa necessariamente in una certa misura. Su tale questione, che è quella del senso superiore e tradizionale dell’“anonimato”, si veda Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. IX.↩

4. Ad esempio, sembra che questo sia stato, almeno in parte, il caso dei romanzi del Santo Graal; è pure a una questione di questo genere che si riferiscono, in fondo, tutte le discussioni alle quali ha dato origine la “personalità” di Shakespeare, sebbene, di fatto, coloro che vi si sono applicati non hanno mai saputo portare questa questione sul suo vero terreno, di modo che non han fatto altro che ingarbugliarla in modo pressoché inestricabile.↩

5. Si veda, per l’esposizione completa della dottrina in questione, il nostro studio Gli Stati molteplici dell’Essere.↩

giovedì 9 aprile 2015

Tra la Squadra e il Compasso

in collaborazione con la rivista Lettera E Spirito: https://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-tra-la-squadra-e-il-compasso/

René Guénon


Un punto che dà luogo a un accostamento particolarmente notevole tra la tradizione estremo-orientale e le tradizioni iniziatiche occidentali, è quello che concerne il simbolismo del compasso e della squadra: questi, come abbiamo già indicato, corrispondono manifestamente al cerchio e al quadrato [1], ossia alle figure geometriche che rappresentano rispettivamente il Cielo e la Terra [2]. Nel simbolismo massonico, conformemente a questa corrispondenza, il compasso è normalmente posto in alto e la squadra in basso [3]; tra i due è raffigurata generalmente la Stella fiammeggiante, che è un simbolo dell’Uomo [4] e più precisamente dell’“uomo rigenerato” [5], e che completa così la rappresentazione della Grande Triade. Per di più, è detto che «un Maestro Massone si trova sempre tra la squadra e il compasso», ossia nel “luogo” stesso in cui s’inscrive la Stella fiammeggiante, e che è propriamente l’“Invariabile Mezzo” [6]; con ciò il Maestro è dunque assimilato all’“uomo vero”, posto tra la Terra e il Cielo ed esercitante la funzione di “mediatore”; e questo è tanto più esatto in quanto, simbolicamente e “virtualmente” perlomeno, se non effettivamente, la Maestria rappresenta il completamento dei “piccoli misteri”, di cui lo stato dell’“uomo vero” è il termine stesso [7]; si vede che abbiamo qui un simbolismo rigorosamente equivalente a quello da noi incontrato in precedenza, sotto parecchie forme differenti, nella tradizione estremo-orientale.
A proposito di quel che abbiamo appena detto sul carattere della Maestria, faremo incidentalmente un’osservazione: questo carattere, appartenente all’ultimo grado della Massoneria propriamente detta, s’accorda bene con il fatto che, come abbiamo indicato altrove [8], le iniziazioni di mestiere e quelle che ne sono derivate si riferiscono propriamente ai “piccoli misteri”. Bisogna peraltro aggiungere che, in quelli che sono chiamati “alti gradi” e che sono formati da elementi di provenienza abbastanza diversa, vi sono certi riferimenti ai “grandi misteri”, tra i quali ve n’è almeno uno che si ricollega direttamente all’antica Massoneria operativa, il che indica che questa apriva perlomeno certe prospettive su ciò che è oltre il termine dei “piccoli misteri”: vogliamo parlare della distinzione che è fatta, nella Massoneria anglosassone, tra la Square Masonry e l’Arch Masonry. Infatti, nel passaggio “from square to arch”, o, come si diceva in modo equivalente nella Massoneria francese del XVIII secolo, “dal triangolo al cerchio” [9], si ritrova l’opposizione tra le figure quadrate (o più in generale rettilinee) e le figure circolari, in quanto corrispondenti rispettivamente alla Terra e al Cielo; non può quindi trattarsi che di un passaggio dallo stato umano, rappresentato dalla Terra, agli stati sopra-umani, rappresentati dal Cielo (o dai Cieli [10]), ossia di un passaggio dal dominio dei “piccoli misteri” a quello dei “grandi misteri” [11].
Per tornare all’accostamento che segnalavamo all’inizio, dobbiamo ancora dire che, nella tradizione estremo-orientale, il compasso e la squadra non soltanto sono supposti implicitamente come atti a tracciare il cerchio e il quadrato, ma vi appaiono essi stessi espressamente in certi casi, e segnatamente quali attributi di Fo-hi e di Niu-kua, come abbiamo già segnalato in altra occasione [12]; ma allora non abbiamo tenuto conto di una particolarità che, a prima vista, può sembrare un’anomalia a tale riguardo, e che ci resta da spiegare adesso. Infatti, il compasso, simbolo “celeste”, e quindi yang o maschile, appartiene propriamente a Fo-hi, e la squadra, simbolo “terrestre”, e quindi yin o femminile, a Niu-kua; ma, quando sono rappresentati insieme e uniti per le loro code di serpente (corrispondendo così esattamente ai due serpenti del caduceo), è al contrario Fo-hi a portare la squadra e Niu-kua il compasso [13]. Ciò in realtà si spiega con uno scambio paragonabile a quello di cui è stata questione sopra per quanto concerne i numeri “celesti” e “terrestri”, scambio che, in simili casi, si può qualificare assai propriamente come “ierogamico” [14]; non si vede come, senza un simile scambio, il compasso potrebbe appartenere a Niu-kua, tanto più che le azioni che le sono attribuite la rappresentano soprattutto nell’esercizio della funzione d’assicurare la stabilità del mondo [15], funzione che si riferisce bene al lato “sostanziale” della manifestazione, e che la stabilità è espressa nel simbolismo geometrico dalla forma cubica [16]. Per contro, in un certo senso, la squadra appartiene proprio a Fo-hi in quanto “Signore della Terra”, che essa gli serve a misurare [17], e, sotto quest’aspetto, egli corrisponde, nel simbolismo massonico, al “Venerabile Maestro che governa con la squadra” (the Worshipful Master who rules by the square [18]); ma, se è così, è che, in se stesso e non più nella sua relazione con Niu-kua, egli è yin-yang in quanto reintegrato nello stato e nella natura dell’“uomo primordiale”. Sotto questo nuovo rapporto, la stessa squadra prende un altro significato, giacché, dal fatto che è formata da due bracci rettangolari, si può allora considerarla come la riunione dell’orizzontale e della verticale, che, in uno dei loro sensi, corrispondono rispettivamente, come abbiamo visto in precedenza, alla Terra e al Cielo, come pure allo yin e allo yang in tutte le loro applicazioni; ed è peraltro così che, nel simbolismo massonico ancora, la squadra del Venerabile è considerata infatti come l’unione o la sintesi della livella e del filo a piombo [19].
Aggiungeremo un’ultima osservazione per quanto concerne la raffigurazione di Fo-hi e di Niu-kua: il primo è posto a sinistra e la seconda a destra , il che corrisponde bene alla preminenza che la tradizione estremo-orientale attribuisce abitualmente alla sinistra sulla destra [20], e di cui abbiamo dato la spiegazione sopra [21]. Allo stesso tempo, Fo-hi regge la squadra con la mano sinistra, e Niu-kua regge il compasso con la mano destra; qui, dato il rispettivo significato degli stessi compasso e squadra, occorre ricordarsi di queste parole che abbiamo già riportato: «La Via del Cielo preferisce la destra, la Via della Terra preferisce la sinistra» [22]. Si vede perciò molto nettamente, in un siffatto esempio, che il simbolismo tradizionale è sempre perfettamente coerente, ma anche che esso non saprebbe prestarsi ad alcuna “sistematizzazione” più o meno ristretta, poiché deve rispondere alla moltitudine dei diversi punti di vista sotto i quali le cose possono essere considerate, e che è per questo che esso apre possibilità di concezione realmente illimitate.


R. Guénon, La Grande Triade, Revue de la Table Ronde, Paris/Nancy, 1946, cap. XV.


1. Faremo notare che, in inglese, la stessa parola square designa allo stesso tempo la squadra e il quadrato; in cinese ugualmente, la parola fang ha i due significati.↩
2. Il modo in cui il compasso e la squadra sono disposti uno rispetto all’altra, nei tre gradi della Craft Masonry, mostra gli influssi celesti prima dominati dagli influssi terrestri, poi liberandosene gradualmente e finendo per dominarli a loro volta.↩
3. Quando questa posizione è invertita, il simbolo prende un particolare significato che dev’essere accostato all’inversione del simbolo alchemico dello Zolfo per rappresentare il compimento della “Grande Opera”, come pure al simbolismo della 12a lamina dei Tarocchi.↩
4. La Stella fiammeggiante è una stella a cinque branche, e 5 è il numero del “microcosmo”; quest’assimilazione è peraltro indicata espressamente nel caso in cui la figura stessa dell’uomo è rappresentata nella stella (la testa, le braccia e le gambe identificandosi alle sue cinque branche), come si vede segnatamente nel pentagramma di Agrippa.↩
5. Secondo un antico rituale, «la Stella fiammeggiante è il simbolo del Massone (si potrebbe dire più generalmente dell’Iniziato) risplendente di luce in mezzo alle tenebre (del mondo profano)». – Vi è qui un’evidente allusione a queste parole del Vangelo di san Giovanni (I, 5): «Et Lux in tenebris lucet, et tenebræ eam non comprehenderunt».↩
6. Non è dunque senza ragione che la Loggia dei Maestri è chiamata la “Camera del Mezzo”.↩
7. In rapporto con la formula massonica che abbiamo appena citato, si può notare che l’espressione cinese “sotto il Cielo” (Tien-hia), che abbiamo già menzionato e che designa l’insieme del Cosmo, è suscettibile d’assumere, dal punto di vista propriamente iniziatico, un particolare senso, corrispondente al “Tempio dello Spirito Santo, che è dappertutto”, e dove si riuniscono i Rosa-Croce, che sono anche gli “uomini veri” (cf. Aperçus sur l’Initiation, cap. XXXVII e XXXVIII). A questo proposito ricorderemo anche che “il Cielo copre”, e che precisamente i lavori massonici devono effettuarsi “al coperto”, la Loggia essendo d’altronde un’immagine del Cosmo (cf. Le Roi du Monde, cap. VII).↩
8. Aperçus sur l’Initiation, cap. XXXIX.↩
9. Il triangolo tiene qui il posto del quadrato, essendo come lui una figura rettilinea, e ciò non cambia niente nel simbolismo di cui si tratta.↩
10. A rigore, non si tratta qui degli stessi termini che sono così designati nella Grande Triade, ma di qualcosa che vi corrisponde a un certo livello e che è compreso all’interno dell’Universo manifestato, come nel caso del Tribhuvana, ma con questa differenza che la Terra, in quanto rappresenta lo stato umano nella sua integralità, dev’essere considerata come comprendente allo stesso tempo la Terra e l’Atmosfera o “regione intermedia” del Tribhuvana.↩
11. La volta celeste è la vera “volta di perfezione” cui si fa allusione in certi gradi della Massoneria scozzese; speriamo peraltro di poter sviluppare in un altro studio le considerazioni di simbolismo architettonico che si riferiscono a questa questione.↩
12. Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, cap. XX.↩
13. Per contro, una simile inversione degli attributi non esiste nella raffigurazione del Rebis ermetico, in cui il compasso è tenuto dalla metà maschile, associata al Sole, e la squadra dalla metà femminile, associata alla Luna. – A proposito delle corrispondenze del Sole e della Luna, ci si potrà riferire qui a quanto abbiamo detto in una nota precedente a proposito dei numeri 10 e 12, e anche, d’altra parte, alle parole della Tabula Smaragdina: «Il Sole è suo padre, la Luna è sua madre», che si riferiscono precisamente al Rebis o all’“Androgino”, questo essendo la “cosa unica” nella quale sono riunite le “virtù del Cielo e della Terra” (unica in effetti nella sua essenza, sebbene doppia, res bina, quanto ai suoi aspetti esteriori, come la forza cosmica di cui abbiamo parlato sopra e che richiamano simbolicamente le code di serpente nella raffigurazione di Fo-hi e di Niu-kua).↩
14. Il sig. Granet riconosce espressamente questo scambio per il compasso e la squadra (La Pensée chinoise, p. 363) come pure per i numeri dispari e pari; ciò avrebbe dovuto evitargli l’increscioso errore di qualificare il compasso un “emblema femminile” come egli fa in altra parte (nota della p. 267)..↩
15. Vedere Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, cap. XXV.↩
16. All’inversione degli attributi tra Fo-hi e Niu-kua si può accostare il fatto che, nella 3a e 4a lamina dei Tarocchi, un simbolismo celeste (stelle) è attribuito all’Imperatrice e un simbolismo terrestre (pietra cubica) all’Imperatore; inoltre, numericamente e per il rango di queste due lamine, l’Imperatrice risulta essere in corrispondenza con il 3, numero dispari, e l’Imperatore con il 4, numero pari, il che riproduce ancora la stessa inversione.↩
17. Ritorneremo più avanti su questa misura della Terra, a proposito della disposizione del Ming-tang.↩
18. L’Impero organizzato e retto da Fo-hi e dai suoi successori era costituito in modo da essere, come la Loggia nella Massoneria, un’immagine del Cosmo nel suo insieme.↩
19. La livella e il filo a piombo sono i rispettivi attributi dei due Sorveglianti (Wardens), e sono con ciò messi in diretta relazione con i due termini del complementarismo rappresentato dalle due colonne del Tempio di Salomone. – È opportuno rilevare ancora che, mentre la squadra di Fo-hi sembra essere a bracci uguali, quella del Venerabile deve al contrario avere regolarmente dei bracci disuguali; questa differenza può corrispondere, in modo generale, a quella delle forme del quadrato e di un rettangolo più o meno allungato; ma, inoltre, la disuguaglianza dei bracci della squadra si riferisce più precisamente a un “segreto” della Massoneria operativa concernente la formazione del triangolo rettangolo i cui lati siano rispettivamente proporzionali ai numeri 3, 4 e 5, triangolo di cui d’altronde ritroveremo il simbolismo nel seguito del presente studio.↩
20. In questo caso, si tratta naturalmente della destra e della sinistra degli stessi personaggi, e non di quelle dello spettatore.↩
21. Nella figura del Rebis, la metà maschile è al contrario a destra e la metà femminile a sinistra; questa figura non ha peraltro che due mani, delle quali la destra regge il compasso e la sinistra la squadra.↩
22. Tcheu-li.↩

domenica 22 febbraio 2015

I misfatti della psicanalisi

in collaborazione con Lettera e Spirito

tratto da https://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-i-misfatti-della-psicanalisi/

di René Guénon


Se dalla filosofia passiamo alla psicologia, costatiamo che le stesse tendenze vi appaiono, nelle scuole più recenti, sotto un aspetto ben più pericoloso ancora, giacché, invece di tradursi in semplici assunti teorici, esse vi trovano un’applicazione pratica con un carattere decisamente inquietante; i più “rappresentativi” di questi nuovi metodi, dal punto di vista da cui ci poniamo, sono quelli conosciuti sotto la designazione generale di “psicanalisi”. È d’altronde opportuno rilevare che, per una strana incoerenza, questa manipolazione d’elementi che appartengono incontestabilmente all’ordine sottile continua tuttavia ad accompagnarsi, presso molti psicologi, a un atteggiamento materialista, dovuto senza dubbio all’educazione pregressa, e anche alla loro ignoranza della vera natura di questi elementi che essi mettono in gioco [1]; uno dei caratteri più singolari della scienza moderna non è forse quello di non sapere mai esattamente con che ha realmente a che fare, anche quando si tratta semplicemente di forze del dominio corporeo? Ovviamente, peraltro, una certa “psicologia da laboratorio”, risultato del processo di limitazione e di materializzazione nel quale la psicologia “filosofico-letteraria” dell’insegnamento universitario non rappresentava che uno stadio meno avanzato, e che non è più realmente che una sorta di branca accessoria della fisiologia, coesiste sempre con le teorie e i metodi nuovi; ed è a quella che si applica ciò che abbiamo detto precedentemente dei tentativi fatti per ridurre la stessa psicologia a una scienza quantitativa.
Vi è certamente ben più di una semplice questione di vocabolario nel fatto, assai significativo in sé, che la psicologia attuale non consideri altro che il “subconscio”, e non il “superconscio” che dovrebbe esserne logicamente il correlativo; si tratta, senza dubbio, dell’espressione di un’estensione che s’opera unicamente verso il basso, ossia il lato che corrisponde, qui nell’essere umano come altrove nell’ambiente cosmico, alle “fenditure” attraverso le quali penetrano le influenze più “malefiche” del mondo sottile, potremmo anche dire quelle aventi un carattere veramente e letteralmente “infernale” [2]. Certuni adottano anche, come sinonimo o equivalente di “subconscio”, il termine “inconscio”, che, preso alla lettera, sembrerebbe riferirsi a un livello ancora inferiore, ma che, a dire il vero, corrisponde meno esattamente alla realtà; se ciò di cui si tratta fosse veramente inconscio, non vediamo neppure bene come sarebbe possibile parlarne, soprattutto in termini psicologici; e peraltro in virtù di che, se non di un semplice pregiudizio materialista o meccanicistico, si dovrebbe ammettere che esista realmente qualcosa d’inconscio? Comunque, ciò che è ancora degno di nota, è la strana illusione per cui gli psicologi arrivano a considerare degli stati tanto più “profondi” quanto più sono semplicemente inferiori; non v’è forse già in questo un indizio della tendenza ad andare contro alla spiritualità, che sola può esser detta veramente profonda, perché essa sola è inerente al principio e al centro stesso dell’essere? D’altra parte, poiché il dominio della psicologia non s’è esteso verso l’alto, il “superconscio”, naturalmente, le rimane completamente estraneo e del tutto precluso; e, quando le accade di venire in contatto con qualcosa che vi si riferisce, essa pretende puramente e semplicemente di annetterlo assimilandolo al “subconscio”; tale è, segnatamente, il carattere pressoché costante delle sue presunte spiegazioni concernenti cose quali la religione, il misticismo, e anche certi aspetti delle dottrine orientali come lo Yoga; e, in questa confusione del superiore con l’inferiore, c’è già qualcosa che può essere propriamente considerato come una vera sovversione.
Notiamo anche che, con il richiamo al “subconscio”, la psicologia, come del resto la “nuova filosofia”, tende sempre più a congiungersi con la “metapsichica” [3]; e, nella stessa misura, si avvicina inevitabilmente, sebbene forse senza volerlo (almeno per quei suoi rappresentanti che intendono rimanere materialisti malgrado tutto), allo spiritismo e altre cose più o meno simili, che tutte s’appoggiano, in definitiva, sugli stessi oscuri elementi dello psichismo inferiore. Se queste cose, dall’origine e dal carattere più che sospetti, appaiono come movimenti “precursori” e alleati della psicologia recente, e se questa arriva, sia pure per un cammino indiretto, ma proprio per ciò più comodo di quello della “metapsichica” che è ancora posta in discussione in certi ambienti, a introdurre gli elementi in questione nel dominio corrente della cosiddetta scienza “ufficiale”, è molto difficile pensare che il vero ruolo di questa psicologia, nelle attuali condizioni del mondo, possa essere altro che quello di concorrere attivamente alla seconda fase dell’azione antitradizionale. A questo proposito, la pretesa della psicologia ordinaria, poco sopra segnalata, d’annettersi, facendole rientrare a forza nel “subconscio”, certe cose che per la loro stessa natura le sfuggono completamente, si riallaccia ancora, nonostante il suo carattere abbastanza nettamente sovversivo, a quello che potremmo chiamare il lato infantile di tale ruolo, giacché le spiegazioni di questo genere, così come le spiegazioni “sociologiche” di queste stesse cose, sono, in fondo, di un’ingenuità “semplicistica” da sconfinare talvolta nella stupidità; in ogni caso, ciò è incomparabilmente meno grave, quanto alle conseguenze effettive, del lato veramente “satanico” che dobbiamo ora esaminare in modo più preciso per quanto concerne la nuova psicologia.
Questo carattere “satanico” appare con una nettezza tutta particolare nelle interpretazioni psicanalitiche del simbolismo, o di quanto è preso per tale a torto o a ragione; facciamo questa restrizione perché, su questo punto come su tanti altri, se si volesse entrare nel dettaglio, vi sarebbero molte distinzioni da fare e numerose confusioni da dissipare: così, solo per prendere un esempio tipico, un sogno nel quale s’esprime qualche ispirazione “sopra-umana” è veramente simbolico, mentre un sogno ordinario non lo è per nulla, a prescindere dalle apparenze esteriori. Ovviamente gli psicologi delle scuole anteriori molto spesso avevano già tentato, anch’essi, di spiegare il simbolismo a modo loro e di ricondurlo alla misura delle proprie concezioni; in tal caso, se si tratta veramente di simbolismo, queste spiegazioni con elementi d’ordine puramente umano, come sempre avviene quando siano in gioco cose d’ordine tradizionale, disconoscono quel che ne costituisce tutto l’essenziale; se al contrario si tratta realmente solo di cose umane, non è altro che un falso simbolismo, ma il fatto stesso di designarlo con questo nome comporta ancora lo stesso errore circa la natura del vero simbolismo. Ciò vale egualmente per le considerazioni cui si abbandonano gli psicanalisti, ma con la differenza che allora non è più soltanto d’umano che bisogna parlare, ma anche, in larga parte, d’“infra-umano”; si è dunque questa volta in presenza, non più d’un semplice abbassamento, ma d’una sovversione totale; e ogni sovversione, anche se non è dovuta, immediatamente almeno, che all’incomprensione e all’ignoranza (che sono peraltro quanto di meglio si presti a essere sfruttato per un tale uso), è pur sempre, in se stessa, propriamente “satanica”. Del resto, il carattere generalmente ignobile e ripugnante delle interpretazioni psicanalitiche costituisce, a questo proposito, un “marchio” che non lascia dubbi; e ciò che è ancora particolarmente significativo dal nostro punto di vista, è che, come abbiamo mostrato altrove [4], questo stesso “marchio” si ritrova precisamente anche in certe manifestazioni dello spiritismo; occorrerebbe sicuramente una forte dose di buona volontà, se non una completa cecità, per non vedervi ancora nient’altro che una semplice “coincidenza”. Naturalmente gli psicanalisti possono, nella maggioranza dei casi, essere incoscienti quanto gli spiritisti di quel che realmente sta sotto a tutto ciò; ma gli uni e gli altri appaiono egualmente come “diretti” da una volontà sovversiva che utilizza in entrambi i casi elementi dello stesso ordine, se non esattamente identici, volontà che, qualunque siano gli esseri in cui si incarna, è almeno lei certamente ben cosciente presso di loro, e risponde a delle intenzioni senza dubbio molto diverse da tutto quello che possono immaginare coloro che sono solamente gli strumenti incoscienti attraverso i quali si esercita la loro azione.
In queste condizioni, è più che evidente lo scopo principale della psicanalisi, che è la sua applicazione terapeutica, non può che essere estremamente pericolosa sia per chi vi si sottopone, e anche per chi l’esercita, poiché queste cose sono di quelle che non si maneggia mai impunemente; non sarebbe esagerato vedervi uno dei mezzi specialmente attuati per accrescere il più possibile lo squilibrio del mondo moderno e condurlo verso la dissoluzione finale [5]. Coloro che praticano questi metodi, non ne dubitiamo, sono al contrario ben persuasi del beneficio dei loro risultati; ma è proprio grazie a questa illusione che la loro diffusione è resa possibile, ed è qui che si può cogliere tutta la differenza esistente tra le intenzioni di questi “praticoni” e la volontà che presiede all’opera di cui essi non sono che ciechi collaboratori. In realtà, la psicanalisi non può avere se non l’effetto di portare alla superficie, rendendolo chiaramente cosciente, tutto il contenuto di quei “bassifondi” dell’essere che formano quel che viene chiamato propriamente il “subconscio”; quest’essere, peraltro, è già per ipotesi psichicamente debole, poiché, se fosse altrimenti, non proverebbe affatto il bisogno di ricorrere a una trattamento di tal sorta; egli è quindi ancor più incapace di resistere a questa “sovversione”, e rischia seriamente di affondare irrimediabilmente nel caos delle forze tenebrose imprudentemente scatenate; se anche riuscisse nonostante tutto a sfuggirvi, ne conserverà tuttavia, per tutta la vita, un’impronta che sarà in lui come una “macchia” indelebile.
Sappiamo bene quel che certuni potrebbero qui obiettare invocando una similitudine con la “discesa agli Inferi”, quale s’incontra nelle fasi preliminari del processo iniziatico; ma una tale assimilazione è completamente falsa, poiché il fine non ha nulla in comune, non più d’altronde delle condizioni del “soggetto” nei due casi; si potrebbe solo parlare di una sorta di parodia profana, e questo già basterebbe a conferire a tutto ciò un carattere di “contraffazione” piuttosto inquietante. La verità è che questa pretesa “discesa agli Inferi”, che non è seguita da nessuna “risalita”, è semplicemente una “caduta nel pantano”, seguendo il simbolismo usitato in certi Misteri dell’antichità; è noto che questo “pantano” era segnatamente raffigurato lungo la strada che conduceva a Eleusi, e coloro che vi cadevano erano dei profani che pretendevano all’iniziazione senza essere qualificati a riceverla, e che dunque erano vittime solo della loro imprudenza. Aggiungeremo solo che “pantani” del genere esistono veramente sia nell’ordine macrocosmico sia in quello microcosmico; ciò si riallaccia direttamente alla questione delle “tenebre esteriori” [6], e si potrebbero ricordare, a questo proposito, certi testi evangelici il cui senso concorda esattamente con quanto abbiamo appena indicato. Nella “discesa agli Inferi”, l’essere esaurisce definitivamente certe possibilità inferiori per potersi quindi elevare agli stati superiori; nella “caduta nel pantano”, le possibilità inferiori s’impadroniscono al contrario di lui, lo dominano e finiscono per sommergerlo completamente.
Anche qui abbiamo parlato di “contraffazione”; questa impressione è grandemente rafforzata da altre constatazioni, come quella della snaturazione del simbolismo che abbiamo segnalato, snaturazione che tende d’altronde a estendersi a tutto quello che comporta essenzialmente degli elementi “sopra-umani”, come dimostra l’atteggiamento assunto nei confronti della religione [7], e anche delle dottrine d’ordine metafisico e iniziatico come lo Yoga, che non sfuggono di più a questo nuovo genere d’interpretazione, al punto che certuni arrivano ad assimilare i loro metodi di “realizzazione” spirituale ai procedimenti terapeutici della psicanalisi. Vi è in ciò qualcosa di ancor peggiore delle deformazioni più grossolane in voga egualmente in Occidente, come quella che vuole vedere nei metodi dello Yoga una sorta di “cultura fisica” o di terapia d’ordine semplicemente fisiologico, poiché queste sono, per la loro stessa grossolanità, meno pericolose di quelle che si presentano sotto parvenze più sottili. La ragione non è solo che queste ultime rischiano di sedurre delle menti sulle quali le altre non saprebbero avere alcuna presa; questa ragione esiste sicuramente, ma ce n’è un’altra, di portata molto più generale, che è quella stessa per cui le concezioni materialiste, come abbiamo spiegato, sono meno pericolose di quelle che fanno appello allo psichismo inferiore. Beninteso, il fine puramente spirituale, che solo costituisce essenzialmente lo Yoga come tale, e in difetto del quale l’impiego stesso di tale termine non è che una vera derisione, è completamente misconosciuto in entrambi i casi; infatti, lo Yoga non è una terapia psichica più di quanto sia una terapia corporea, e i suoi procedimenti non sono in alcun modo né ad alcun grado un trattamento per malati o squilibrati di sorta; ben lungi, si rivolgono al contrario a esseri che, per poter realizzare lo sviluppo spirituale che è la loro unica ragion d’essere, devono già essere, per naturale disposizione, il più perfettamente equilibrati possibile; si tratta di condizioni che, com’è facile comprendere, rientrano strettamente nella questione delle qualificazioni iniziatiche [8].
Non è ancora tutto, e c’è anche un’altra cosa, riguardo alla “contraffazione”, che è forse ancor più degna di nota di tutto quel che abbiamo menzionato sinora: è l’obbligo imposto, a chiunque intenda praticare professionalmente la psicanalisi, d’essere egli stesso previamente “psicanalizzato”. Questo implica innanzitutto il riconoscimento che l’essere che ha subito questa operazione non sarà mai più qual era prima, o che, come dicevamo prima, essa gli lascia un’impronta indelebile, come l’iniziazione, ma in qualche modo in senso inverso, poiché, invece di uno sviluppo spirituale, si tratta qui d’uno sviluppo dello psichismo inferiore. D’altra parte, vi è qui un’evidente imitazione della trasmissione iniziatica; ma, posta la diversità di natura delle influenze che intervengono, e siccome vi è pur sempre un risultato effettivo che non consente di considerare la cosa ridotta a un semplice simulacro senza alcuna portata, questa trasmissione sarebbe piuttosto paragonabile, in realtà, a quella che si pratica in un dominio come quello della magia, e anche più precisamente della stregoneria. Vi è peraltro un punto alquanto oscuro, riguardo all’origine stessa di questa trasmissione: siccome è evidentemente impossibile dare ad altri ciò che non si possiede, e siccome l’invenzione della psicanalisi è d’altronde del tutto recente, donde i primi psicanalisti hanno ricevuto i “poteri” che trasmettono ai loro discepoli, e da chi essi stessi hanno potuto essere per primi “psicanalizzati”? Questa domanda, che ci pare alquanto logico porre, almeno per chiunque sia appena capace di riflettere, è probabilmente molto indiscreta, ed è più che dubbio che riceva mai una risposta soddisfacente; ma, a dire il vero, non ce n’è bisogno per riconoscere, in una tale trasmissione psichica, un altro “marchio” veramente sinistro per gli accostamenti che comporta: la psicanalisi presenta, da questo lato, una rassomiglianza piuttosto terrificante con certi “sacramenti del diavolo”!
* R. Guénon, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Gallimard, Paris, 1945, cap. XXXIV.
1. Il caso dello stesso Freud, il fondatore della “psicanalisi”, è tipico da questo punto di vista, poiché egli non ha mai cessato di proclamarsi materialista. – Un’osservazione di sfuggita: come mai i principali rappresentanti delle nuove tendenze, come Einstein in fisica, Bergson in filosofia, Freud in psicologia, e molti altri ancora di minore importanza, sono quasi tutti d’origine ebraica, se non perché vi è in ciò qualcosa che corrisponde esattamente al lato “malefico” e dissolvente del nomadismo deviato, che predomina inevitabilmente presso gli Ebrei distaccati dalla loro tradizione?↩
2. Va notato, a questo proposito, che Freud ha posto, all’inizio del suo Traumdeutung, la seguente epigrafe molto significativa: «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo» (Virgilio, Eneide, VII, 312).↩
3. Fu del resto lo “psichista” Myers a inventare l’espressione subliminal consciousness, che, per amore di brevità, fu sostituita un po’ più tardi, nel vocabolario della psicologia, con la parola “subconscio”.↩
4. Vedere L’Erreur spirite, parte II, cap. X.↩
5. Un altro esempio di questi mezzi è dato dall’uso similare della “radioestesia”, poiché, anche là, ci sono, in molti casi, elementi psichici della stessa qualità che entrano in gioco, anche se si deve riconoscere che non si presentano sotto l’aspetto “repellente” che è così evidente nella psicanalisi.↩
6. Ci si potrà riportare qui a quel che abbiamo indicato più sopra a proposito del simbolismo della “Grande Muraglia” e della montagna Lokâloka.↩
7. Freud ha consacrato all’interpretazione psicanalitica della religione uno speciale libro, nel quale le sue proprie concezioni sono combinate con il “totemismo” della “scuola sociologica”.↩
8. Su un tentativo d’applicazione delle teorie psicanalitiche alla dottrina taoista, ciò che è ancora dello stesso ordine, vedere lo studio d’André Préau, La Fleur d’or et le Taoïsme sans Tao, che ne è un’eccellente confutazione.↩
 

domenica 9 novembre 2014

Le tre vie e le forme iniziatiche

tratto da Lettera e Spirito n. 33

http://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-le-tre-vie-e-le-forme-iniziatiche/

di René Guénon

È noto che la tradizione indù distingue tre “vie” (mârga) che sono rispettivamente quelle di Karma, di Bhakti e di Jnâna; non ritorneremo sulla definizione di questi termini, che dobbiamo supporre sufficientemente conosciuta dai nostri lettori; preciseremo però subito che, giacché a essi corrispondono tre forme di Yoga, ciò implica essenzialmente che tutti hanno o sono suscettibili d’avere un significato d’ordine propriamente iniziatico [1]. D’altra parte, bisogna capire bene che qualunque distinzione di questo genere ha sempre necessariamente un certo carattere “schematico” e piuttosto teorico, poiché, di fatto, le “vie” variano indefinitamente per adeguarsi alla diversità delle nature individuali, e, anche in una classificazione molto generale come quella, non può trattarsi che della predominanza d’uno di quegli elementi in rapporto agli altri, senza che questi possano mai essere interamente esclusi. Questo caso è analogo a quello dei tre guna: si classificano gli esseri secondo il guna che in essi predomina, ma è chiaro che la natura d’ogni essere manifestato comporta ugualmente tutti i guna, sebbene in proporzioni diverse, non potendo essere diversamente in tutto ciò che procede da Prakriti. L’accostamento che facciamo tra questi due casi è d’altronde qualcosa di più che un semplice paragone, ed è tanto più giustificato giacché esiste realmente una certa correlazione tra l’uno e l’altro: infatti, lo Jnâna-mârga è evidentemente quello che conviene agli esseri di natura “sattwica”, mentre il Bhakti-mârga e il Karma-mârga convengono a quelli la cui natura è prevalentemente “rajasica”, peraltro con delle sfumature differenti; in un certo senso si potrebbe forse dire che vi è nell’ultimo qualcosa di più vicino a tamas che nell’altro, benché non convenga spingere questa considerazione troppo in là, poiché è evidente che gli esseri di natura “tamasica” non sono affatto qualificati per seguire una qualsivoglia via iniziatica.
Nonostante quest’ultima riserva, non è men vero che esiste un rapporto tra i caratteri rispettivi dei tre mârga e gli elementi costitutivi dell’essere ripartiti secondo il ternario “spirito, anima, corpo” [2]: la Conoscenza pura è, in se stessa, d’ordine essenzialmente sopraindividuale, cioè in definitiva spirituale, come l’intelletto trascendente in cui rientra; il carattere nettamente psichico di Bhakti è evidente, mentre Karma, in tutte le sue modalità, comporta necessariamente una certa attività d’ordine corporeo, e, quali che siano le trasposizioni di cui questi termini sono suscettibili, qualcosa di questa natura originale deve sempre inevitabilmente ritrovarvisi. Ciò conferma pienamente quanto dicevamo della corrispondenza con i guna: la via “jnânica”, in queste condizioni, può evidentemente convenire solo agli esseri in cui predomina la tendenza ascendente di sattwa e che, per ciò stesso, sono predisposti a mirare direttamente alla realizzazione degli stati superiori piuttosto che attardarsi a uno sviluppo dettagliato delle possibilità individuali; le altre due vie, per contro, fanno dapprima appello a degli elementi prettamente individuali, non fosse altro che per trasformarli alla fine in qualcosa che appartiene a un ordine superiore, e ciò è ben conforme alla natura di rajas, che è la tendenza producente l’espansione dell’essere al livello stesso dell’individualità, la quale, non va dimenticato, è costituita dall’insieme degli elementi psichico e corporeo. D’altra parte, risulta immediatamente da ciò che la via “jnânica” si riferisce più in particolare ai “grandi misteri”, e le vie “bhaktica” e “karmica” ai “piccoli misteri”; in altri termini, si vede ancora da quanto precede che solamente mediante Jnâna è possibile pervenire allo scopo finale, mentre Bhakti e Karma hanno piuttosto una funzione “preparatoria”, dato che le vie corrispondenti conducono soltanto fino ad un certo punto, ma rendono possibile il conseguimento della Conoscenza per coloro la cui natura non ne sarebbe idonea direttamente e senza una tale preparazione. Va da sé d’altronde che non può esservi iniziazione effettiva, sia pure ai primi stadi, senza una parte più o meno grande di conoscenza reale, anche quando, nei mezzi ch’essa mette in opera, l’“accento” cade soprattutto sull’uno o l’altro dei due elementi “bhaktico” e “karmico”; ma ciò che vogliamo dire è che in ogni caso, al di là dei limiti dello stato individuale, non può più esservi che una sola e unica via, che è necessariamente quella della Conoscenza pura. Un’altra conseguenza da tener presente è che, a causa della connessione delle due vie “bhaktica” e “karmica” con l’ordine delle possibilità individuali e con il dominio dei “piccoli misteri”, la distinzione tra loro è molto meno netta di quanto non lo sia con la via “jnânica”, e ciò dovrà naturalmente riflettersi in qualche modo nei rapporti tra le corrispondenti forme iniziatiche; dovremo del resto ritornare brevemente su questo punto nel seguito della nostra esposizione.
Queste considerazioni ci portano a considerare anche un’altra relazione, quella che esiste, in linea generale, tra i tre mârga e le tre caste “due volte nate”; è d’altronde facile da capire che debba esistere una tale relazione, poiché la distinzione delle caste non è altro in principio che una classificazione degli esseri umani secondo le loro nature individuali, ed è precisamente per convenire alla diversità di queste nature che esiste una pluralità di vie. I Brâhmani, essendo di natura “sattwica”, sono particolarmente qualificati per lo Jnâna-mârga, ed è detto espressamente che essi devono tendere il più direttamente possibile al possesso degli stati superiori dell’essere; d’altronde, la loro stessa funzione nella società tradizionale è essenzialmente e prima di tutto una funzione di conoscenza. Le altre due caste, la cui natura è principalmente “rajasica”, esercitano delle funzioni che, in se stesse, non superano il livello individuale e sono orientate verso l’attività esteriore [3]: quelle degli Kshatriya corrispondono a quel che si può chiamare lo “psichismo” della collettività, e quelle dei Vaishya hanno per oggetto le diverse necessità dell’ordine corporeo; da ciò risulta, secondo quanto abbiamo detto precedentemente, che gli Kshatriya devono esser soprattutto qualificati per il Bhakti-mârga e i Vaishya per il Karma-mârga, e, infatti, è proprio quel che si può constatare generalmente nelle forme iniziatiche a loro rispettivamente destinate. Vi è tuttavia un’importante osservazione da fare a questo proposito: se si intende il Karma-mârga nel suo senso più esteso, esso si definisce con lo swadharma, ossia con l’adempimento da parte di ciascun essere della funzione che è conforme alla sua natura propria; si potrebbe allora considerarne una applicazione a tutte le caste, salvo che allora questo termine sarebbe manifestamente improprio per quel che riguarda i Brâhmani, la cui funzione è in realtà al di là del dominio dell’azione; ma si potrebbe almeno applicarlo allo stesso tempo, anche se con modalità diverse, al caso degli Kshatriya e a quello dei Vaishya, ciò che è un esempio della difficoltà che si incontra, come dicevamo sopra, a separare in modo netto quel che conviene agli uni e agli altri, e difatti è noto come la Bhagavad-Gîtâ esponga un Karma-yoga specificamente adatto all’uso degli Kshatriya. Nonostante ciò, non è men vero che, se si prendono i termini in senso stretto, le iniziazioni degli Kshatriya presentano nell’insieme un carattere soprattutto “bhaktico” e quelle dei Vaishya un carattere soprattutto “karmico”, cosa che verrà tra breve meglio chiarita con un esempio preso dalle forme iniziatiche dello stesso mondo occidentale.
Va da sé, infatti, che quando parliamo delle caste come facciamo qui, riferendoci in primo luogo alla tradizione indù per comodità d’esposizione e perché essa ci fornisce al riguardo la terminologia più adeguata, quel che ne diciamo si estende ugualmente a tutto ciò che altrove corrisponde a queste caste, in una forma o nell’altra, poiché le grandi categorie in cui si ripartiscono le nature individuali degli esseri umani sono sempre e dovunque le medesime, per il fatto stesso che, ricondotte al loro principio, esse non sono altro che una risultante del predominio rispettivo dei diversi guna, cosa evidentemente applicabile all’intera umanità, come caso particolare di una legge valevole per tutto l’insieme della manifestazione universale. La sola differenza notevole è nella proporzione più o meno grande, secondo le condizioni di tempo e di luogo, di uomini appartenenti a ciascuna categoria, i quali, se qualificati a ricevere un’iniziazione, saranno di conseguenza suscettibili di seguire l’una o l’altra delle vie corrispondenti [4]; e, nei casi più estremi, può succedere che qualcuna di queste vie cessi praticamente d’esistere in un dato ambiente, se il numero di coloro che sarebbero idonei a seguirla è divenuto insufficiente a consentire la conservazione d’una forma iniziatica distinta [5]. Ciò si è verificato segnatamente in Occidente, dove ormai da lungo tempo le predisposizioni alla conoscenza sono state costantemente molto più rare e meno sviluppate della tendenza all’azione, per cui si può dire che, nell’insieme del mondo occidentale, e persino in quel che ne costituisce l’“élite” almeno relativa, rajas ha di gran lunga la meglio su sattwa; così, già nel Medio Evo, non si trovano tracce chiare dell’esistenza di forme iniziatiche propriamente “jnâniche”, che di norma avrebbero dovuto corrispondere a un’iniziazione sacerdotale; ciò a tal punto che anche le organizzazioni iniziatiche a quel tempo in più stretto rapporto con certi Ordini religiosi avevano pur sempre un carattere “bhaktico” molto accentuato, per quanto è possibile giudicare dai modi d’espressione più abitualmente impiegati da quei loro membri che lasciarono opere scritte. Per contro, si trova a quell’epoca, da una parte l’iniziazione cavalleresca, il cui carattere dominante è evidentemente “bhaktico” [6], e dall’altra le iniziazioni artigianali, che erano “karmiche” in senso stretto, essendo essenzialmente basate sull’esercizio effettivo d’un mestiere. Va da sé che la prima era un’iniziazione di Kshatriya e le seconde erano delle iniziazioni di Vaishya, prendendo la designazione delle caste secondo il significato generale da noi appena spiegato; e aggiungeremo che i legami che di fatto esistettero quasi sempre tra queste due categorie, come abbastanza spesso abbiamo avuto occasione di segnalare altrove, sono una conferma di quanto dicevamo sopra dell’impossibilità di separarle completamente. Più tardi, anche le forme “bhaktiche” disparvero, e le sole iniziazioni che ancora sussistono attualmente in Occidente sono delle iniziazioni di mestiere, o che tali erano all’origine; anche dove, in seguito a certe circostanze particolari, la pratica del mestiere non è più richiesta come condizione necessaria, ciò che del resto non può essere considerato che come una diminuzione, se non come una vera degenerazione, questo non toglie evidentemente nulla al loro carattere essenziale.
Ora, se l’esistenza esclusiva di forme iniziatiche qualificabili come “karmiche” nell’Occidente attuale è un fatto incontestabile, bisogna dire che le interpretazioni alle quali tale fatto ha dato origine non sono sempre esenti, sotto vari punti di vista, da equivoci e confusioni; è quel ci resta da esaminare per mettere a punto le cose nel modo più completo possibile. Innanzitutto, certuni hanno immaginato che, a causa del loro carattere “karmico”, le iniziazioni occidentali si oppongano in certo qual modo alle iniziazioni orientali, che, a loro modo di vedere, sarebbero tutte prettamente “jnâniche” [7]; ciò è del tutto inesatto, poiché la verità è che in Oriente coesistono tutte le categorie di forme iniziatiche, com’è d’altronde sufficientemente provato dall’insegnamento della tradizione indù a proposito dei tre mârga; se al contrario ne esiste soltanto più una in Occidente, gli è che le possibilità di quest’ordine vi si trovano ridotte al minimo. Che la predominanza vieppiù esclusiva della tendenza all’azione esteriore sia una delle cause principali di questo stato di fatto, ciò è fuor di dubbio; ma non è men vero che a dispetto dell’aggravarsi di questa tendenza sussiste ancora oggi un’iniziazione quale che sia, e sostenere il contrario implica un grave equivoco circa il reale significato della via “karmica”, come vedremo più precisamente tra breve. Inoltre, è inammissibile voler fare in certo qual modo una questione di principio di qualcosa che è soltanto l’effetto di una semplice situazione contingente, e considerare le cose come se ogni forma iniziatica occidentale dovesse necessariamente essere di tipo “karmico” solo perché occidentale; crediamo non sia necessario insistervi oltre poiché, dopo tutto quello che già abbiamo detto, deve essere abbastanza chiaro che una visione del genere non può corrispondere alla realtà, che è d’altronde evidentemente ben più complessa di quel ch’essa sembra supporre.
Un altro punto molto importante è questo: il termine Karma, quando si applica a una via o a una forma iniziatica, dev’essere inteso prima di tutto nel suo senso tecnico di “azione rituale”; a questo proposito, è facile vedere che ogni iniziazione presenta un certo lato “karmico”, poiché essa implica sempre essenzialmente il compimento di particolari riti; questo corrisponde d’altronde ancora a quanto abbiamo detto circa l’impossibilità che l’una o l’altra delle tre vie esista allo stato puro. Inoltre, e al di fuori dei riti propriamente detti, ogni azione, per essere realmente “normale”, cioè conforme all’“ordine”, dev’essere “ritualizzata”, e, come spesso abbiamo spiegato, questo avviene effettivamente in una civiltà integralmente tradizionale; anche nei casi che si potrebbero definire “misti”, in cui cioè una certa degenerazione ha portato l’introduzione del punto di vista profano e gli ha fatto un posto più o meno esteso nell’attività umana, quanto sopra rimane ancora vero, almeno per ogni azione che è in rapporto con l’iniziazione, ed è segnatamente così per tutto ciò che riguarda la pratica del mestiere nel caso delle iniziazioni artigianali [8]. Si vede che ciò è quanto mai lontano dall’idea che di una via “karmica” si fa chi pensa che, se un’organizzazione iniziatica presenta tale carattere, debba intromettersi più o meno direttamente in un’azione esteriore e tutta profana, come lo sono inevitabilmente in particolare, nelle condizioni del mondo moderno, le attività “sociali” di ogni genere. La ragione che si invoca a sostegno di questa tesi è generalmente che una tale organizzazione ha il dovere di contribuire al benessere e al miglioramento dell’umanità nel suo insieme; l’intenzione può essere molto lodevole in se stessa, ma il modo in cui se ne considera la realizzazione, anche se la si spoglia delle illusioni “progressiste” cui troppo spesso è associata, non è per ciò meno completamente erronea. Non è certo detto che un’organizzazione iniziatica non possa proporsi secondariamente uno scopo del genere, “per sovrappiù” in certo qual modo, e alla condizione di non confonderlo mai con quello che costituisce il suo scopo proprio ed essenziale; ma allora, per esercitare un’influenza sull’ambiente esterno senza cessare d’essere quel che veramente deve, occorrerà ch’essa metta in opera dei mezzi del tutto diversi da quelli che senza dubbio vengono ritenuti i soli possibili, mezzi d’un ordine molto più “sottile”, ma per questo dotati di ben altra efficacia. Sostenere il contrario significa, in definitiva, misconoscere totalmente il valore di quella che abbiamo talvolta denominato “azione di presenza”; e questa ignoranza è, nell’ordine iniziatico, paragonabile, nell’ordine exoterico e religioso, a quella, così diffusa ai giorni nostri, del ruolo degli Ordini contemplativi; in fondo, nei due casi, è una conseguenza della stessa mentalità specificamente moderna, per cui tutto ciò che non appare esteriormente e non cade sotto i sensi è come non esistesse.
Aggiungeremo ancora, mentre siamo in argomento, che esistono anche molti equivoci sulla natura delle altre due vie, soprattutto della via “bhaktica”, poiché, per quanto riguarda la via “jnânica”, è in ogni caso troppo difficile confondere la Conoscenza pura, o anche le scienze tradizionali che ne dipendono e che rientrano più propriamente nel dominio dei “piccoli misteri”, con le speculazioni della filosofia e della scienza profana. A causa del suo carattere più strettamente trascendente, è molto più facile ignorare del tutto questa via che non snaturarla con false concezioni; e anche i travestimenti come “filosofia”, da parte di certi orientalisti, che non lasciano sussistere assolutamente niente dell’essenziale e riducono tutto all’ombra vana delle “astrazioni”, equivalgono di fatto all’ignoranza pura e semplice e sono troppo distanti dalla verità per potersi imporre a chiunque abbia la minima nozione delle cose iniziatiche. Per quanto riguarda Bhakti, il caso è abbastanza differente, e qui gli errori provengono soprattutto da una confusione del senso iniziatico di questo termine col suo senso exoterico, che d’altronde, agli occhi degli Occidentali, assume quasi inevitabilmente un aspetto specificamente religioso e più o meno “mistico” che nelle tradizioni orientali non ha ragione di essere: tutto ciò non ha assolutamente niente in comune con l’iniziazione, e, se effettivamente non si trattasse d’altro, è evidente che non potrebbe esistere un Bhakti-Yoga; ma questo ci ricondurrebbe ancora una volta alla questione del misticismo e delle sue differenze essenziali con l’iniziazione, argomento che abbiamo già sufficientemente trattato in altre occasioni perché sia necessario ritornarvi nuovamente.

* R. Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Éditions Traditionnelles, Paris, 1952, cap. XVIII.

1. Diciamo “sono suscettibili d’avere” poiché essi possono avere anche un senso exoterico, ma è evidente che questo non è in causa quando si tratta di Yoga; naturalmente, il senso iniziatico ne è come una trasposizione in un ordine superiore.
2. Anche qui non si dovrebbe vedere niente di esclusivo in una simile corrispondenza, poiché ogni via iniziatica, per essere realmente valida, implica necessariamente una partecipazione dell’essere tutto intero.
3. Diciamo «in se stesse» poiché esse possono essere trasformate da un’iniziazione che le prenda come supporto.
4. Per non complicare inutilmente la nostra esposizione, non facciamo intervenire qui la considerazione delle anomalie che, all’epoca attuale e soprattutto in Occidente, risultano dal «miscuglio delle caste», dalla sempre crescente difficoltà di determinare esattamente la vera natura di ogni uomo, e dal fatto che la maggior parte degli uomini non adempie più la funzione che converrebbe realmente alla propria natura.
5. Segnaliamo per inciso che questo può obbligare coloro che sono ancora qualificati per questa via a «rifugiarsi», se ci si passa l’espressione, in organizzazioni praticanti altre forme iniziatiche che primitivamente non erano fatte per essi, inconveniente che può d’altronde essere attenuato mediante un certo «adattamento» effettuato all’interno di queste stesse organizzazioni.
6. Un carattere analogo avevano altre iniziazioni come quella dei Fedeli d’Amore, come indica espressamente il suo nome, benché l’elemento «jnânico» sembri tuttavia avervi avuto uno sviluppo maggiore che non nell’iniziazione cavalleresca, con la quale d’altronde esse avevano rapporti assai stretti.
7. Si osservi che, secondo tale concezione, l’esistenza d’iniziazioni «bhaktiche» è completamente ignorata o trascurata.
8. Si potrebbe dire che, in questo caso, «karmico» è quasi sinonimo di «operativo», intendendo naturalmente quest’ultimo termine nel suo vero significato, sul quale sovente abbiamo avuto occasione di insistere.