sabato 23 settembre 2017

Così i misteri greci hanno sfidato (e sconfitto) la morte

tratto da "il Giornale" di Sab, 16/09/2017

di Claudio Risé

Il senso più profondo e nascosto degli antichi riti iniziatici è l'avvicinamento della dimensione umana a quella divina


Educare non significa trasmettere meccanicamente ai giovani nozioni e discorsi, come fanno i sedicenti filosofi. Nell'educazione è necessario invece risvegliare in loro una vista interiore, un occhio spirituale, attraverso un'autentica conversione psicologica.

 A sostenerlo è Socrate, quando illustra il suo famoso mito della caverna, ne La Repubblica di Platone. Davide Susanetti, giovane e generosamente impegnato professore di letteratura greca all'Università di Padova, riporta ampiamente la testimonianza socratica, illustrando la funzione dei misteri e riti iniziatici dell'antica Grecia nel suo ultimo lavoro: La via degli dei. Sapienza greca, misteri antichi e percorsi di iniziazione (Carocci, pagg. 264, euro 24). Un libro che unisce una scrittura catturante all'attenzione per l'aspetto pratico e psicodinamico delle questioni trattate, decisive anche oggi nella vita quotidiana dell'uomo.

Distogliere - come insegna a fare Socrate - lo sguardo dall'attenzione ipnotica per movimenti di fantasmi inconsistenti, illuminati dai nascosti poteri che in continuazione li muovono, e scoprire invece la realtà, è una vera e propria «tecnica della conversione» che ci consente di vedere ciò che è, ma è rimasto per noi finora nell'oscurità, dietro le nostre spalle. Apprenderla fa parte di quelle «tecnologie del sé» con le quali Michel Foucault verso la fine del secolo scorso aveva conquistato la Sorbona.

A questo svelamento delle verità profonde dell'esistenza erano appunto dedicati i misteri, riti iniziatici volti nella Grecia classica a formare i giovani prescelti preparandoli alla guida della città, la polis, attraverso la conoscenza e la trasformazione di sé. Un'operazione che sarebbe indispensabile anche oggi, come nell'Atene classica, per educare un'autentica élite dirigente. Che viene invece a mancare quando questa formazione, estremamente seria nella sua apparente stravaganza (come del resto appariva Socrate), viene abbandonata per inseguire le vanità, le paure e le cupidigie più basse, sostituite alla familiarità con i saperi elevati, di cui ci parlano appunto gli dei nei loro misteri.

Certo, gli dei non raccontano storielle leggere. Anche perché l'obiettivo dei riti iniziatici è proprio quello di farci diventare come loro, gli dei. Di aiutarci a riconoscere la nostra parte divina. Per questo è necessario fare nei misteri esperienza della realtà profonda, uscendo da quella vita umana, convenzionale ma in fondo irreale, nella quale rimane la grande maggioranza delle persone. I misteri, fin dagli antichi maestri Orfeo e Pitagora, furono il modo di trasmettere agli iniziati accuratamente selezionati il sapere esoterico sottostante alla civiltà greca, e le sue segrete regole e discipline. Un controcanto sotterraneo alla rappresentazione della religione olimpica ufficiale e alle istituzioni greche (fondative dell'Occidente), che in questo modo le ha comunque profondamente impregnate con le proprie immagini e rappresentazioni.

Il tratto comune ai misteri è quello che riguarda la morte, in essi sempre presente e invece non particolarmente approfondita nella religione olimpica, dove i morti erano spettri, ombre senza direzione, «teste senza forza» come in Omero. Nella rappresentazione misterica la morte è invece un evento centrale: lo stesso iniziato partecipandovi abbandona, «muore» al precedente stato di coscienza e di vita per rinascere con un'altra visione del mondo. Ma soprattutto grazie a questo terribile percorso, «non morrà». «Per gli iniziati, e solo per loro, vi è vita dopo la morte», spiega Susanetti. Come racconta l'iscrizione su un'orfica laminetta aurea: «O felice, o beato, sarai un dio anziché un mortale». «Ed io, come un capretto, mi tuffai nel latte». La morte fisica non è dunque per l'iniziato un passaggio al «regno delle ombre», ma l'ingresso in una condizione luminosa e serena. Sugli iniziati di Eleusi splende «la sacra luce del sole». E quelli che hanno partecipato al mistero diffuso nelle terre a nord ovest della Britannia, raccontato da Plutarco ne Il volto della luna (Adelphi) e qui riportato, entreranno dopo morti nel «prato di Ade... la zona più mite e serena dell'aria, dove le anime tornano a respirare e si purificano da ogni vapore e da ogni malsana esalazione della materia».

La purificazione e respirazione dello Spirito è appunto lo scopo dei misteri iniziatici greci, le prime forme di quel processo di trasformazione psicologica e spirituale che da Pitagora e dai suoi discepoli attraversa gran parte della visione del mondo classico, per arrivare al pensiero stoico greco e romano. E compare poi tra le sue ultime forme, con non molte variazioni, nel «processo di individuazione» proposto nel secolo scorso da Carl Gustav Jung con la sua psicologia analitica. Un percorso, quest'ultimo, che, pur senza entrare nelle credenze religiose, incontra spesso nel lavoro con l'analizzando l'altro grande mistero di morte e di rinascita che nei due millenni trascorsi ha conquistato nel mondo le anime di molti uomini. Quello che racconta della nascita, vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. In analisi l'incontro con questo mistero avviene spesso sincronicamente al transito dai territori psicologici dell'Anima, terra di mezzo tra psiche e spirito, a quelli già vicini al Sé, spesso espressione dell'immagine divina.

«Un rito - dice Susanetti parlando dei misteri greci - che conduce alla vita portando la vita al di là di se stessa». In tutte queste esperienze spirituali, fisiche e psicologiche, è infatti descritto un andare al di là, un oltrepassare soglie di coscienza comuni, che consente di costituirne di nuove, dando spazio agli aspetti superiori della vita umana attraverso un nuovo, completo rapporto con la realtà. Che nelle drammatiche esperienze misteriche viene vista e attraversata integralmente, non più solo parzialmente nei suoi aspetti convenzionali e a-problematici, ma nella sua tragica interezza. Così, nei misteri di Eleusi, mentre la tenera vergine Persefone, figlia della potente Demetra, Dea madre della terra, gioca con le amiche raccogliendo narcisi sul prato primaverile, la terra si apre davanti a lei e ne esce con un tuono il carro di Ade, il dio del sottosuolo, degli inferi, della morte e del passato, trasportandola sotto terra, per farne la sua sposa. Demetra, disperata, minaccia di interrompere i cicli della terra e delle messi, e solo la mostra dei genitali di una vecchia donna, Baubo, riuscirà a farla tornare a ridere. Aprendo così la strada al difficile accordo che lascerà Persefone per sei mesi sulla terra e tre nel sottosuolo, come sposa di Ade.

Con contenuti diversi, gli altri Misteri, quelli orfici e dionisiaci, sono tutti però diretti a unificare gli opposti, alto e basso, femminile e maschile, vita e morte, umano e animale, nobile e osceno, intero e frammentato, integrandone le rispettive energie in una nuova sintesi, più realistica e dunque anche più autenticamente spirituale. Riti e percorsi di formazione e rinascita della persona e del mondo in cui si trova che interpellano insistentemente anche il mondo di oggi.

lunedì 18 settembre 2017

THE BROKEN KEY




“Un film concepito sulla linea orizzontale delle Sette Arti Liberali, la cui pratica ascetica, secondo la fulgida interpretazione Dantesca, può portare alla trasmutazione dei Sette Peccati Capitali nelle corrispondenti Virtù Cardinali. L’intento è quello di far vivere al pubblico, come al protagonista, un percorso di purificazione spirituale dai peccati, ambientato in una visionaria Torino del futuro, dove la cultura popolare è intrisa di palpabile mistero”.
Così il regista Louis Nero (Rasputin, Il mistero di Dante) presenta la sua ultima opera, THE BROKEN KEY che riunisce sul grande schermo un cast hollywoodiano del calibro di Rutger Hauer, Michael Madsen, Geraldine Chaplin, Christopher Lambert, William Baldwin, Maria De Medeiros, Kabir Bedi, Franco Nero insieme a due giovani attori italiani, Andrea Cocco e Diana Dell’erba. Il film, tra il thriller e la fantascienza, che strizza l’occhio alla cultura Cyber Punk, racconta un’emozionante avventura ambientata in un futuro indefinito, che parte dall’antichità e da
un manoscritto Egizio (ancora conservato nel Museo di Torino.) THE BROKEN KEY, che sarà distribuito in oltre 60 paesi nel mondo, è una coproduzione internazionale tra l’italiana L’Altrofilm, la Red Rocks Entertainment (UK) e l’americana Fantastic Films International. In Italia uscirà in sala il 16 novembre.

SINOSSI
In un futuro non lontano, la libertà dell’essere umano è in pericolo. Il mondo è controllato dalla “Grande Z”: la Zimurgh Corporation. La “Legge Schuster” sull’eco-sostenibilità dei supporti regna sovrana. La carta è un bene raro. Stampare è reato. Sullo sfondo di questa realistica visione del domani, il ricercatore inglese Arthur J. Adams viene spinto all’avventura dal padre putativo, il professor Moonlight. La ricerca del frammento mancante di un antico papiro, protetto dalla misteriosa confraternita dei seguaci di Horus, viene ostacolata da indecifrabili omicidi legati ai sette peccati capitali. Arthur dovrà addentrarsi nei meandri di un’impenetrabile e misteriosa metropoli del futuro, specchio della sua anima, per ritrovare il pezzo mancante e salvare l’umanità intera.

giovedì 7 settembre 2017

“IL SERPENTE ALL’OMBRA DELL’AQUILA: Fondamenti di Filosofia, Etica e Magia in Thelema”

Sabato 30 Settembre 2017 e.v. alle ore 21,15 presso i locali del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 - Via Don Minzoni 39, Bellinzago Novarese (NO) - nell’ambito delle serate dedicate ai “Dialoghi di Esoterismo”, la nostra Associazione ha il piacere di invitarvi ad un’imperdibile serate in compagnia di CORINNA ZAFFARANA che ci parlerà sul tema:

“IL SERPENTE ALL’OMBRA DELL’AQUILA: Fondamenti di Filosofia, Etica e Magia in Thelema”

Con l’autrice Corinna Zaffarana, studiosa di Esoterismo e docente di storia, esploriamo il saggio Il Serpente all’Ombra dell’Aquila. La rivoluzione operata da Aleister Crowley nella storia dell’esoterismo europeo. “Esoterismo” è tale in quanto mondo fatto di segreti e riservatezza, elitarismo ed iniziazioni. Gli insegnamenti di Aleister Crowley affondano le loro radici nelle millenarie e riservatissime pratiche dell’estremo Oriente, ma anche e, forse, soprattutto, nei misteri della tradizione sciamanica mesoamericana. In quest’opera sono ben illustrati i fondamenti di una Tradizione davvero sfaccettata, poco conosciuta a causa della sua segretezza e complessità, ma che ha determinato mutamenti radicali in tutto l’Esoterismo europeo a partire dal XX secolo.



Corinna Zaffarana è Docente di Storia; laureata in Archeologia Classica e specializzata in Iconologia. Da anni si occupa della simbologia iniziatica, dello Sciamanismo mesoamericano e della storia della tradizione esoterica europea.
Ha al suo attivo svariati articoli, libri, saggi e conferenze. Dirige la Sezione Culturale del Centro Studi e Ricerche C.T.A.102, un'associazione culturale no-profit che da quasi mezzo secolo si dedica all'organizzazione di seminari e conferenze dedicati a tematiche relative alla storia dell'esoterismo e, in generale, alla filosofia ed alla storia delle religioni.

Anche questa volta il nostro Centro si pregia di invitarvi ad una serata straordinaria a cui, naturalmente, non dovete assolutamente mancare!

La partecipazione a questo evento è soggetto a Tesseramento A.S.I. ed è obbligatoria la prenotazione da effettuarsi chiamando il numero 3803149775 o scrivendo a: cta102@cta102.it

Si precisa inoltre che la sola adesione all’evento effettuata su Facebook non è considerata una prenotazione valida.

Per i nostri Associati che volessero seguire la conferenza a distanza sarà naturalmente disponibile il collegamento in streaming video.

domenica 27 agosto 2017

S’asconde il Fuoco d’amore

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleone.it/sasconde-il-fuoco-damore/

Tra sirene, alchimia e Giordano Bruno

A volte l’acqua non spegne il fuoco che arde, lo rafforza ed alimenta. Neanche la terra può qualcosa innanzi all’ardere del fuoco dell’amore. Anche se arde e non brucia ogni fuoco consuma e trasforma materia: sia essa sottile o spessa. Poco importa se con gli alambicchi si cerchi una cottura dolce o a bagno Maria! Nel continuo gioco, nelle trasformazioni che si susseguono si arriva sempre più alla essenza del proprio essere, ogni volta i mostri sono più spaventosi e le ferite più profonde, la Via non può non mietere le vittime che si fermano al primo accidente. Non è sempre una questione di mera conoscenza, spesso la sana incoscienza guidata da voci di sirene, che altro non sono i desideri più profondi, le memorie più antiche, porta alla meta. Attenzione agli specchi deformanti che giocando come fuochi fatui indicano percorsi dal Diavolo benedetti. Il tutto e subito, non è consigliabile tranne nell’improbabile manifestazione di ciò che è. Inseguire l’amore, e diventare amore passando ognuno per i propri inferni. Così sia detto, così sia fatto, così sia scritto



Io che porto d’amor l’alto vessillo,

Gelate ho spene e gli desir cuocenti:

A un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo,

Son muto, e colmo il ciel de strida ardenti:

Dal cor scintillo, e dagli occhi acqua stillo;

E vivo e muoio e fo riso e lamenti:

Son vive l’acqui, e l’incendio non more,

Ché a gli occhi ho Teti, ed ho Vulcan al core,

Altr’amo, odio me stesso;

Ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso;

Poggi’altr’al cielo, s’io mi ripogno al basso;

Sempre altri fugge, s’io seguir non cesso;

S’io chiamo, non risponde;

E quant’io cerco più, più mi s’asconde.

Giordano Bruno, Eroici Furori, Parte prima dialogo secondo

domenica 13 agosto 2017

RIFLESSIONI SULLA VOLONTÀ

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
https://letteraespirito.wordpress.com/riflessioni-sulla-volonta/

Albano Martin de la Scala

René Guénon nella sua opera Il Re del Mondo nel capitolo VIII scrive [1]: «Il periodo attuale è dunque un periodo di oscuramento e di confusione; le sue condizioni sono tali che, finché persisteranno, la conoscenza iniziatica deve necessariamente rimanere nascosta; da qui il carattere dei “Misteri” dell’antichità detta “storica” (la quale non risale neppure all’inizio di tale periodo) e delle organizzazioni segrete di tutti i popoli: organizzazioni che conferiscono una iniziazione effettiva là dove sussiste ancora una vera dottrina tradizionale, ma non ne offrono che l’ombra quando lo spirito di tale dottrina ha cessato di vivificare i simboli che non ne sono che la rappresentazione esteriore, e questo perché, per ragioni diverse, ogni legame cosciente con il centro spirituale del mondo si è ormai rotto, ciò che è il senso più specifico della perdita della tradizione, quello che concerne in particolar modo questo o quel centro secondario, che cessa di essere in relazione diretta ed effettiva con il centro supremo. Si deve dunque, come già dicevamo sopra, parlare di qualcosa di nascosto piuttosto che veramente per¬duto, poiché non per tutti è perduto e certuni lo posseggono ancora integralmente; e, se così è, altri hanno sempre la possibilità di ritrovarlo, purché lo cerchino come si conviene, vale a dire la loro intenzione sia diretta in modo che, attraverso le vibrazioni armoniche che risveglia secondo la legge delle “azioni e reazioni concordanti” [2], essa possa metterli in comunicazione spirituale effettiva con il centro supremo [3]. Questa direzione dell’intenzione ha d’altronde, in tutte le forme tradizionali, la sua rappresentazione simbolica; intendiamo parlare dell’orientazione rituale: essa, infatti, è propriamente la direzione verso un centro spirituale che, qualunque esso sia, è sempre un’immagine del vero “Centro del Mondo” » [4].

La creazione è un atto di volontà del Principio che, irraggiandosi dal “Centro dell’Universo”, raggiunge il centro di ogni singolo mondo, essere o cosa, e fa sì che essa sia esattamente ciò che Egli vuole. Questo atto, essendo atemporale, dal punto di vista della manifestazione si rinnova in ogni istante. La Volontà universale così intesa corrisponde perciò alla presenza divina esistente al centro di ogni cosa o, ponendoci da un altro angolo visuale, a ciò che avevamo chiamato vocazione [5].
Tale presenza, rispecchiandosi nella realtà individuale umana origina la volontà dell’uomo, la sola cosa che gli appartiene in proprio, ed è questa stessa realtà che lo fa esistere in quanto individuo: egli può utilizzarla, entro i ristretti limiti imposti dalla sua condizione, per scegliere fra il bene e il male. Il dono di cui parliamo corrisponde al libero arbitrio [6], mediante il quale l’uomo ha la facoltà di orientare la propria volontà verso quella universale oppure verso il mondo. È facendo uso di questa facoltà che Adamo ed Eva mangiarono simbolicamente dall’albero del bene e del male e furono cacciati dal paradiso terrestre; allo stesso modo l’essere, in ogni istante, con un atto della sua volontà, si imprigiona da solo nella propria condizione individuale [7].
Le differenti fasi della discesa ciclica, che progressivamente allontanano l’umanità dalla percezione delle realtà spirituali, corrispondono a questo processo di autolimitazione dell’essere. In quella che simbolicamente è stata chiamata “Età dell’oro” l’essere umano riconosceva naturalmente la propria volontà, ancora unificata, come riflesso di quella universale e, con un semplice sforzo di concentrazione, era in grado di reintegrarvela.

In una seconda fase, attratto dalle realtà relative del mondo, pur non perdendo di vista la volontà universale, l’uomo cominciò a frammentare la propria. Successivamente avrebbe rivolto verso il mondo un numero crescente dei suoi atti di volontà, arrivando inesorabilmente a dimenticare l’esistenza della Volontà universale e a credere di possederne una autonoma, capace di determinare il proprio futuro. L’umanità aveva purtuttavia ancora degli ideali e questa volontà individuale, pur tesa verso obiettivi mondani, era caratterizzata da una fede profonda in qualcosa che agiva come agente unificante dandole quindi forza [8].

La discesa di cui parliamo però non si è arrestata a quel punto e sta portando l’umanità a non avere più fede in nulla. Sovente, senza rendersene conto, l’uomo ha oggi le idee piuttosto confuse, manca di chiari obiettivi, finendo così per essere in balia delle sensazioni del momento, delle psicosi e degli influssi dell’ambiente. In queste condizioni l’individuo pensa spesso di volere ciò che in realtà è l’ambiente a suggerire [9]. Questi influssi, proprio come strati geologici nel terreno, si sono sovrapposti nel corso dei secoli e hanno caratterizzato la discesa ciclica dell’umanità, divenendo sempre più avvolgenti. Limitato in tal modo l’essere che ne è vittima perde il controllo della propria volontà che è fagocitata dal mondo, e quindi non è più nelle condizioni di sviluppare in modo armonico e completo le proprie possibilità.

Purtroppo, pur con tutti i suoi limiti, la volontà individuale ha un marcato istinto di sopravvivenza, sa bene che può continuare a esistere solo finché ha la possibilità di nutrirsi della volontà separativa dell’ambiente e fa di tutto per attaccarvisi finendo per restarne invischiata [10].

La condizione profana che abbiamo descritta è drammatica, ed è ancora più terrificante se si pensa che dopo la morte fisica, a causa della sua tendenza verso la disgregazione, non potrà concludersi che con una “precipitazione” dell’essere in una condizione infraumana e infernale.

Per gli uomini e le donne di buona volontà esiste però ancora la possibilità, facendo leva sul corretto utilizzo del libero arbitrio, di compiere un percorso “a ritroso” e riportare la volontà individuale alla propria origine.

Il desiderio di intraprendere questo “viaggio” può nascere in modi apparentemente molto diversi, anche come reazione a qualche evento drammatico occorso nella propria vita; in ogni caso tale risveglio implicherà un “ricordo” più o meno conscio del Principio. Utilizzando il concetto simbolico sin qui espresso, si può dire che la volontà umana, orientandosi correttamente anche se solo per un attimo, magari nel sincero e contrito atto di richiesta di aiuto, si sia come rispecchiata, in modo ancora sfuggevole e velato, nella sua origine, e questo fatto ha portato alla nascita, ancora “embrionale”, del desiderio ardente [11] di tornare là dove è la propria vera patria.

Il primo passo per compiere questo percorso dovrà essere inevitabilmente quello di orientarsi, ancorché in modo parziale e insicuro, verso il centro. Questo atto richiederà già un minimo di discernimento e un orizzonte intellettuale ampio almeno quanto basta per concepire in qualche modo il divino. Si può quindi dire che il primo lavoro da compiere, per chi intende liberarsi dalla drammatica condizione descritta, debba essere quello di procedere a una chiarificazione intellettuale basata sull’enunciazione dei principi universali e delle loro applicazioni [12]. Questo lavoro, se compiuto con la giusta attitudine, porterà all’acquisizione di certezze e punti fermi che faranno da bussola e permetteranno di discernere il vero dal falso [13]. L’opera di cui parliamo, in quanto utile al discernimento, dovrà essere costantemente portata avanti da tutti coloro che intendono fare buon uso del libero arbitrio, anche nelle successive fasi del proprio cammino.

Come avevamo avuto occasione di vedere nel nostro studio sull’aspirazione [14], l’orientarsi, anche se in modo ancora necessariamente imperfetto, verso il centro porrà l’essere, eventualmente in modo incosciente, sotto il benefico influsso della Volontà divina [15].

Il lavoro di approfondimento dottrinale ben presto porterà l’essere a cercare sul proprio piano di esistenza qualcosa che attualizzi e vivifichi il proprio legame con il sopra-individuale, e così egli non potrà far altro che rendersi conto che la “tradizione”, intesa nel suo senso reale, ha esattamente questo scopo. Tale presa di coscienza lo porterà a integrarsi in una delle sue forme ortodosse, la quale gli fornirà gli strumenti e l’appoggio necessario per proseguire nel suo cammino. In questo nuovo contesto la volontà individuale verrà particolarmente sollecitata: vi sarà una Legge da seguire con tutto il suo carico [16] di obblighi, precetti e indicazioni. La fede potrà giungere in aiuto permettendo di unificare la propria volontà moltiplicandone la forza così consentendo all’individuo di riottenerne almeno in parte il dominio, liberandola dalla tirannia dell’ambiente [17]. Inoltre questa stessa fede farà orientare l’essere verso il Principio, permettendo alla propria volontà di tornare a riflettere, anche se in modo ancora parziale e volubile [18] quella universale; egli prenderà in tal modo sempre maggior coscienza della sua esistenza accettandola e riconoscendo in essa il suo bene. I segni del suo intervento, a volte propriamente miracolosi, saranno via via più presenti nella vita di chi avrà compiuto questo percorso. Questo fatto creerà un circolo virtuoso che farà crescere la fede e la fiducia dell’essere verso il divino, che, in tal modo, potrà ancor più sviluppare la sua benefica azione.

Il libero arbitrio così come la volontà individuale troveranno la loro legittima collocazione e l’essere, in buona parte riunificato e correttamente orientato, e per ciò stesso attivamente legato al Principio, resterà anche al momento della morte fisica [19] nella propria caratterizzazione umana in modo definitivo; tale caratterizzazione è privilegiata poiché “centrale” nel suo grado di esistenza e quindi tale da permettere, almeno virtualmente, di ritornare coscientemente al “Centro del Mondo”, ottenendo, in una condizione “paradisiaca” ancora separativa e individuale, la propria “salvezza” [20].

Quando la fede è pura, supportata da un orizzonte intellettuale sufficientemente ampio e appoggiata da una conoscenza teorica abbastanza estesa, può condurre l’essere a comprendere che ogni suo atto deve essere fatto per compiere la volontà di Dio. Questa presa di coscienza può portarlo a riscontrare che nella sua esistenza, nonostante la Legge e le regole che segue, sovente si trova in situazioni nelle quali non riesce a comprendere con chiarezza quale sia la volontà divina. Egli potrà pure rendersi conto che questa volontà è presente nel suo cuore ma che non è in grado di decifrarla. In queste condizioni la domanda che si porrà sarà: come fare a comprendere cosa Dio vuole realmente da me [21]? La risposta a questo quesito è che esistono organizzazioni iniziatiche che hanno come fine proprio quello di aiutare gli esseri che ne entrano a far parte a prendere coscienza di questa volontà divina presente nel loro cuore; esistono esseri che questo percorso hanno compiuto almeno in parte e che sono in grado di indicare la via da seguire. La volontà richiede un discernimento e una comprensione reale che la guidino. Solo subordinandola alla vera conoscenza si potrà dirigerla rettamente. Tale conoscenza proviene dalla propria verità interna più profonda, ma, all’inizio del cammino, si manifesterà necessariamente e provvisoriamente come un’autorità tradizionale apparentemente esterna all’essere. I veri centri spirituali sono i rappresentanti della Volontà divina in questo mondo, e coloro che camminano nella Via sono i collaboratori coscienti al piano divino [22].

Il patto iniziatico implica almeno virtualmente la rinuncia al proprio libero arbitrio, questo atto è quindi propriamente il sacrificio dell’unica cosa che appartiene veramente all’uomo: la sua volontà. In questo senso esso è considerato, a ragione, come la morte della propria individualità, morte che in realtà corrisponde al riassorbimento e quindi superamento dei limiti individuali nella loro origine trascendente.

Ogni organizzazione iniziatica ha le proprie metodologie di lavoro specifiche, spesso molto diverse fra loro proprio per potersi meglio adattare alle differenti tipologie e fasi umane e ai diversi gradi di purificazione dei loro membri [23]; tuttavia vi sono alcune caratteristiche di fondo che le accomunano tutte.
In particolare, volendo mettere in risalto l’aspetto relativo alla volontà individuale, si può notare come, con un utilizzo corretto della stessa, sia particolarmente importante “vegliare sui propri istanti”, essere costantemente [24] presenti e attenti a che essa, proprio perché agisce nel presente, aiuti a orientare l’essere verso il centro e a distoglierlo, nel contempo, dalle continue attrazioni mondane, unificandolo [25].

La chiave per adempiere in ogni occasione ai doveri del proprio stato, e quindi uniformarsi alla volontà divina, sta nel seguire esteriormente e interiormente le indicazioni che provengono dall’autorità cui ci si riferisce che è simbolo della volontà universale, della conoscenza e del proprio centro. È verso di essa che l’iniziato deve essere costantemente vigile e ricettivo.

In tal modo egli, sempre meno condizionato dall’ambiente, potrà più facilmente e profondamente accettare gli eventi che gli occorrono, riconoscendo in modo via via più chiaro l’azione della volontà divina della quale diviene sempre più strumento cosciente [26].
Se l’attitudine è pura e disinteressata, i provvidenziali segni non tarderanno a manifestarsi, accrescendo la fiducia del discepolo verso la propria autorità, fiducia che avrà un’azione catalizzante e unificante nei confronti della sua volontà che così potrà orientarsi in modo sempre più completo verso il Principio, svuotando nel contempo l’essere dai propri attaccamenti individuali [27].

Quando l’iniziato, utilizzando in modo totale la propria volontà, è occupato in ogni singolo istante a tendere verso il centro, egli finisce per dimenticare se stesso, allora e solo allora questa stessa volontà individuale è totalmente riunificata e ben orientata e può quindi integralmente rispecchiare quella universale. Solo in questo momento, tramite un totale cambiamento di prospettiva, potrà avvenire la reintegrazione dell’individualità nel suo Principio rendendo finalmente l’essere libero [28].



1. R. Guénon, Le Roi du Monde, Éditions Traditionnelles, Paris, 1950. Le note che si riferiscono alla citazione sono dello stesso Guénon.?

2. Questa espressione è mutuata dalla dottrina taoista; d’altra parte, prendiamo qui la parola “intenzione” in un senso che è affatto esattamente quello dell’arabo niyah, che viene abitualmente tradotto così, e tale senso è peraltro conforme all’etimologia latina (da in-tendere, tendere verso).?

3. Quanto abbiamo appena detto permette di interpretare in un senso molto preciso queste parole del Vangelo: «Cercate e troverete; chiedete e riceverete; bussate e vi sarà aperto». – Occorrerà beninteso riferirsi qui alle indicazioni che abbiamo già dato a proposito della “retta intenzione” e della “buona volontà”; e si potrà così completare agevolmente la spiegazione di questa formula: Pax in terra hominibus bonæ voluntatis.?

4. Nell’Islam, tale orientazione (qiblah) è come la materializzazione, se così si può dire, dell’intenzione (niyah). L’orientazione delle chiese cristiane è un altro caso particolare che si riferisce essenzialmente alla stessa idea.?

5. In questo senso la volontà creatrice è identica al Verbo o alla “chiamata”. Vedere il nostro articolo La vocazione, apparso nel no 34 di questa rivista.?

6. Dante Alighieri parla dell’argomento quando dice (Divina Commedia, Paradiso, V, vv. 19 e segg.):
Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando ed alla sua bontate
piú conformato e quel ch’e’ piú apprezza,
fu della volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.?

7. Questa prigione non è altro che il regno del Demiurgo: «… in realtà il Demiurgo non è affatto una potenza esteriore all’uomo; non è in principio che la volontà dell’uomo in quanto essa realizza la distin¬zione del Bene e del Male. Ma in seguito l’uomo, limitato come essere individuale da questa volontà che è la sua propria, la considera come qualcosa a lui esteriore, e così essa diviene distinta da lui; non solo, siccome essa si oppone agli sforzi ch’egli fa per uscire dal dominio dove egli stesso si è rinchiuso, la considera come una potenza ostile, e la chiama Shathan o l’Avversario. Osserviamo peraltro che questo Avversario, che noi stessi abbiamo creato e che creiamo a ogni istante, giacché ciò non deve essere con¬siderato come accaduto in un tempo determinato, che questo Avversario, dicevamo, non è malvagio in se stesso, ma è soltanto l’insieme di tutto ciò che ci è contrario» (R. Guénon, Mélanges, Éditions Gallimard, Paris, 1976, cap. I).?

8. La forza di volontà è tanto maggiore quanto più grande è la determinazione, la convinzione, la perseveranza o la fede con cui è messa in atto. Basti pensare a un esempio esteriore come quello sportivo per rendersene conto. Quando una squadra è coesa e motivata può ottenere dei risultati molto migliori rispetto a una che ha delle frizioni al suo interno. Allo stesso modo, se un essere unifica tutte le proprie energie per raggiungere un fine stabilito, potrà veramente superare limiti che apparivano come insormontabili. Quello che andiamo dicendo è insito nella caratteristica della fiducia quale elemento in grado di unificare le potenze dell’essere, e questo a prescindere dal fatto che sia più o meno ben riposta (ricordiamo il detto profetico riportato dallo Scheik Tadili nella sua opera La vita tradizionale è la sincerità, pubblicato nel n° 29 di questa rivista, hadîth che dice: «Se aveste fiducia in delle pietre, ne trarreste beneficio»), cieca o illuminata dalla dottrina, anche se è chiaro che, qualora entrino in gioco le forze spirituali, i risultati potranno essere, a maggior ragione, amplificati e divenire veramente miracolosi.?

9. Questa condizione generale è ideale per chi possegga determinate “chiavi” e abbia l’intenzione di manipolare i popoli favorendo, attraverso la più grande instabilità e mutabilità, lo sviluppo del mondo in un senso antitradizionale.?

10. L’individualità ha una grandissima capacità di adattarsi alle situazioni. A ogni modificarsi delle condizioni è pronta a trovare i propri spazi, anche negli interstizi più impensati, pur di gonfiarsi e sopravvivere. Più queste situazioni si cristallizzeranno e più sarà difficile e doloroso liberarsene. Non a caso, un’autentica autorità iniziatica spesso rompe gli equilibri nei quali si trova il discepolo per permettergli di raggiungerne di più profondi e reali.?

11. Dante accosta la Volontà allo Zolfo che brucia le scorze e quindi permette di purificarsi e raggiungere il centro. Analogamente lo Scheik Tadili nella sua opera La vita tradizionale è la sincerità pubblicata nel n° 29 di questa rivista si esprime in questi termini: «… con “la volontà del faqîr” (irâdah), intendiamo un’ardente aspirazione che provoca tutte le illuminazioni; essa è chiamata “la piangente” (nâihah) ed è a essa che fanno allusione questa parole dell’Inviato d’Allah – su di lui il saluto e la pace! – “quando non c’è la piangente nel cuore, esso è in rovina come è in rovina la casa disabitata”».?

12. L’argomento della preparazione teorica è estremamente importante e meriterebbe uno studio a parte, in questa occasione ci limiteremo a precisare che non intendiamo riferirci a un solo lavoro libresco e di erudizione.?

13. Questo saper discernere, e avere chiaro il proprio “fine”, diviene ancora più importante in un mondo come quello attuale che è pieno di realtà ambigue, parodie, contraffazioni e trappole di ogni genere.?

14. Alcune considerazioni sull’Aspirazione, in Lettera e Spirito, nº 32.?

15. Il problema è che questo atto di volontà dovrà essere costantemente e attivamente ribadito, poiché l’ambiente ha una grandissima forza attrattiva nei confronti dell’essere umano e la sua volontà tende ad attaccarsi, in modo quasi morboso, alle caratterizzazioni da esso proposte.?

16. Carico particolarmente pesante specialmente all’inizio del proprio percorso, quando non si è ancora preso il “gusto” all’esecuzione dell’attività rituale.?

17. Alla luce di quanto detto la qualifica iniziatica massonica: “libero e di buoni costumi” può essere interpretata come “possessore della propria volontà all’interno della Legge”.?

18. Questa “volubilità” è un aspetto che in genere accompagna ogni percorso spirituale, anche negli stadi più avanzati e permette eventualmente a chi lo percorre di raggiungere temporaneamente degli stati e delle percezioni che poi svaniscono, lasciando però un “ricordo” che infonde forza e sicurezza.?

19. Morte corporea che, a differenza di quanto molti pensano, non può minimamente modificare il livello spirituale di chi la subisce.?

20. Sull’argomento, che in questo scritto ci limitiamo a toccare di sfuggita, vedasi R. Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Éditions Traditionnelles, Paris, 1952, cap. VIII, Salvezza e liberazione.?

21. Un caso molto più frequente è quello in cui l’individuo, magari senza rendersene conto e con la pretesa di riconoscere unicamente Dio come autorità, prenda dalla tradizione solo gli elementi, interpretati a modo proprio, che più si adattano alle sue inclinazioni individuali (o alle inclinazioni di chi condiziona la sua vita), tralasciando o dando poca importanza a tutto il resto. In questo modo egli si crea un “mondo” nel quale appaga la sua necessità di sentirsi “a posto con la propria coscienza” e si rinchiude in una caratterizzazione nella quale la sua individualità può gonfiarsi a piacimento e dalla quale ben difficilmente riuscirà a liberarsi.?

22. Certo la situazione di diffusa degenerazione nella quale spesso versano le organizzazioni iniziatiche potrebbe indurre certuni ad affidarsi a una illusoria autonomia piuttosto che ad appoggiarsi ad esse. Inutile dire che questa non può certo essere la soluzione del problema. A coloro che cercano con sincerità, consigliamo la pazienza e la tenacia e ricordiamo il detto indù: “dove c’è un cela c’è un guru”, dove c’è un discepolo con la giusta attitudine, là si manifesta il Maestro.?

23. Vedasi R. Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, cit., cap. XVIII, Le tre vie e le forme iniziatiche, apparso nel no 33 di questa rivista.?

24. La regola massonica da 24 pollici ricorda proprio questa necessità di non arrestare mai il proprio lavoro.?

25. Emerge qui in modo chiaro il carattere eminentemente attivo del lavoro iniziatico, che quindi non può essere in alcun modo confuso con il misticismo.?

26. Ricordiamo il seguente hadith qudsi, nel quale il Profeta Maometto riporta in prima persona la parola di Allah: «Il mio servitore non cessa di avvicinarsi a me, attraverso degli atti di devozione surrogatori, fino a quando lo amo, e quando lo amo sono l’Orecchio con il quale sente, la Vista con la quale vede, la Mano con la quale combatte e il Piede con il quale marcia» (Bukhâri, Riqâq, 37). Precisiamo che questo processo, in cui l’essere diviene strumento nelle mani del Principio, può attuarsi per gradi.?

27. Facciamo presente che questi attaccamenti possono essere anche del tutto legittimi da un punto di vista umano. Ad esempio l’amore per i propri cari, se vissuto in contrasto con l’accettazione del volere divino, ponendosi da un ottica iniziatica, è una forma di idolatria nascosta che fa orientare la propria volontà verso l’esteriore. In questo modo l’essere che aspiri a ritornare al proprio centro sarà distolto dal suo obiettivo e limitato. A questo proposito ricordiamo il passaggio coranico: «O voi che credete, nelle vostre spose e nei vostri figli c’é un nemico per voi» (Corano, LXIV, 14). A scanso di equivoci precisiamo in ogni caso che con queste affermazioni non intendiamo suggerire di non occuparsi delle proprie famiglie, ma solo che questa attività deve essere svolta, così come tutte le altre, in funzione del raggiungimento del proprio fine superiore. La volontà divina è presente in ogni cosa o essere e questo orientarsi verso il Centro non implica quindi necessariamente l’allontanarsi dal mondo, ma solo il guardarlo senza arrestarsi al suo aspetto superficiale. In questo senso anche l’amore per i propri cari potrà svilupparsi in modo ancor più armonioso e profondo.?

28. Precisiamo che il risultato di cui parliamo corrisponde al raggiungimento del Centro dello stato umano, là dove la Volontà divina incontra il nostro piano di esistenza, che è il fine dei “piccoli misteri” e dove l’essere è liberato dai limiti individuali. Nel nostro scritto non abbiamo quindi considerato il percorso superiore, quello dei “grandi misteri” che porta a reintegrare questo stesso centro nel vero Centro dell’Universo, cioè porta l’essere a realizzare gli stati superiori dell’essere e a giungere in fine allo stato incondizionato: la “Liberazione finale”. Vedere R. Guénon, Aperçus sur l’Initiation, Éditions Traditionnelles, Paris, 1946, cap. XXXIX, Grandi misteri e piccoli misteri.?

mercoledì 9 agosto 2017

Sterile nell'anima e nel corpo. L'Europa è una terra desolata

tratto da il Giornale del 29 giugno 2017

Il poeta Eliot profetizzò le malattie dell'inconscio dovute al materialismo. Guarire si può: con una «Vita selvatica»

di Cluadio Risé

La più efficace rappresentazione della modernità occidentale: questo è La terra desolata di Eliot per Ezra Pound. Non si tratta infatti solo di un'opera poetica. I suoi versi hanno anche un contenuto profetico; non soltanto perché descrivono i morti sul London Bridge 96 anni prima dell'attacco di venti giorni fa.

Questi morti Eliot li vede camminare sul ponte con «gli occhi fissi ai piedi». Il loro sguardo (come il nostro oggi), vola basso. In un tempo ormai di post secolarizzazione, dove tutto il mondo torna a guardare verso l'alto, l'Occidente non sa più riconoscere di essere figlio di Dio e prendersi la propria quota di divinità. Così mentre ovunque Dio è forza, visione, obiettivi, noi lo viviamo come un peso da nascondere. Mentre per gli altri è energia (distruttiva se non governata), l'Occidente, come intuì James Hillman, ha trasformato Dio in malattia. La nostra visione è attirata dal basso, dove vanno gran parte delle nostre energie.

La terra desolata, però, non riguarda solo noi oggi. È un archetipo dell'inconscio collettivo, un'immagine da sempre presente nella psiche e storia umana, che si attiva in tempi di forte cambiamento. Attraverso di essa l'inconscio collettivo spinge l'uomo a ritrovare una forza vitale perduta, a guarire malattie che corrodono la sua anima, il suo corpo e la sua vita quotidiana. Era già presente, come racconta Eliot, nell'Europa del 1200, cui si riferiscono le leggende e i miti Arturiani. Epoca di ricerca, cambiamento e fondazione di quella che fu poi per cinquecento anni la civiltà occidentale, coinvolgendo nei suoi sviluppi gran parte del mondo.

La terra desolata ci fa sentire che qualcosa di molto prezioso sta sbocciando, ma rischia di andare perduto se non riconosciamo le cause dell'attuale desolazione. È una sfida forte posta all'uomo dal proprio tempo; riguarda sia le personalità individuali che la società e il mondo in cui vivono.

C'è un ordine da ricostituire: Riuscirò almeno a mettere ordine nelle mie terre? si chiede il Re Pescatore. La situazione gli impone di riconoscere la difficoltà dello sviluppo, della germinazione di nuove cose, da distinguere da quelle morte, da abbandonare. La terra desolata di Eliot, comincia proprio con un mese di germinazione e di sviluppo.

Aprile è il mese più crudele, generando/ Lillà da terra morta, confondendo/ Memoria e desiderio, risvegliando/ radici dormienti con piogge primaverili.

Nell'immagine della Terra desolata nel poema come nell'archetipo, e dunque nella vita che si svolge sotto la sua influenza sono sempre compresenti le forze della generazione e della vita, e della morte e decomposizione. Da qui deriva l'energia delle immagini archetipiche. Tra questi poli la coscienza dell'uomo è ora chiamata a scegliere, altrimenti si può sviluppare regressione e malattia, anche psichica.

La terra del Graal, l'Europa dove nelle leggende tardo-medievali regna il Re Pescatore, sovrano della cristianità, è appunto attraversata da questo potente conflitto. Si tratta dell'eterno scontro tra la soddisfazione del piacere immediato e lo sviluppo di capacità di simbolizzazione, e di sacrificio per visioni più ampie, non egoistiche e di lungo periodo.

In questa lotta, che è anche un conflitto passionale per la donna (rappresentazione anche dell'Anima maschile) il re viene ferito da un potente nemico, un cavaliere moro. La ferita è in mezzo alle gambe, nel luogo della sua generatività e della fallicità. Il re, Amfortas, ha sottovalutato sia il proprio l'accecamento passionale, che la forza dell'avversario: per questo è stato ferito. L'aspetto emotivo e femminile della sua psiche invece di essere una forza ispiratrice ha preso il sopravvento sulla coscienza maschile soffocandone la tensione verso l'alto e consentendo la ferita. Dalla quale si perde il suo sangue, e si genera marcescenza e putredine.

A partire dal corpo e dallo spirito del re l'aridità conquista ogni spazio vitale attorno rendendo desolata la terra. Il calo della fertilità, la compravendita di parti del corpo e funzionalità riproduttive, la molteplicità di problemi sessuali che affliggono i cittadini della modernità traducono in cronaca quotidiana le conseguenze della ferita del Re Pescatore, ubriacato dalla sua superficialità. Con lui, ferito all'inguine, nella sua sessualità e virilità, è l'uomo occidentale, protagonista di La terra desolata di Eliot. Siamo noi.

Per riportare l'ordine non solo nelle terre del re pescatore, ma tra femminile e maschile, e tra terra e cielo, allora come oggi, nella terra desolata è decisivo l'amore. Ma vero. Ne parlano due miti fondatori dell'Occidente: Tristano e Isotta, ispiratori di Eliot. In entrambi si parla di amore e di sacrificio, indispensabili alla crescita personale e al benessere di tutti. Al centro dei due miti c'è un potente simbolo femminile: una coppa. Tristano e Isotta, presi dall'attrazione, ne bevono e muoiono.

Nel racconto Tristano sta accompagnando Isotta da re Marc di Cornovaglia, cui la fanciulla è promessa. Durante la navigazione, in un momento di caldo e grandissima sete (classico scenario da «demone meridiano») l'accompagnatrice di Isotta versa una bevanda a Tristano. Il giovane beve, e porge la coppa a Isotta. Subito i due sono presi dal bisogno di andare l'una verso l'altro, fisicamente e sessualmente. Il liquido della coppa era un filtro di erbe che era stato affidato alla serva dalla madre di Isotta. Da questo imprigionamento i due giovani non usciranno vivi. Nelle narrazioni dell'epoca percepiscono subito che si tratta di una spinta non d'amore, ma di morte. Come Isotta racconta nel trovatore Béroul: «Lui non mi ama/ né io lui / Accadde per un filtro da cui bevvi / e così per lui».

Il veleno agisce sui due giovani trasformando il loro innamoramento innocente nella spinta ad agire subito la loro attrazione, irresistibile dopo la bevanda. Così l'aspetto distruttivo dell'archetipo della Grande Madre (che può essere positiva e vitale, oppure distruggere), incline all'agito immediato più che alla simbolizzazione, sostituisce al matrimonio fecondo del Re, propiziato dall'amato nipote Tristano, il potere della droga e la morte dei due giovani, che lascerà senza discendenza il Re Marc.

Anche Parsifal ha una madre invadente, Herzeloide, che alleva questo figlio lontano dal mondo della cavalleria, chiudendolo in una tenuta, perché non vuole che muoia come il padre e i fratelli. Parsifal però la lascia quando viene invitato alla reggia di Artù, e la madre muore di crepacuore. Dolore difficile da elaborare, ma salvifico per il re pescatore, che guarirà solo quando il «puro folle» Parsifal gli porrà la domanda risanante: «dimmi, cosa ti strugge?» Prendendo così su di sé la sofferenza dell'altro, e in questo modo guarendo la terra dalla sua aridità e desolazione.

Anche nel Parsifal c'è una coppa, sulla base della quale compare appunto il suo nome. Ma è quella del Graal, dove è stato versato il sangue di Cristo dopo la sua passione, promessa di risurrezione. Per rinascere, infatti, per rigenerarsi, occorre avere il coraggio di attraversare la morte.

Ogni profonda trasformazione, sul piano simbolico, lo richiede. Soprattutto nella civiltà fondata su Gesù Cristo: risorto appunto perché capace di morire.

domenica 30 luglio 2017

LOS PLATOS VOLADORES Y SUS TRIPULANTES

Per i miei lettori appassionati di UFO, dischi volanti, OVNIS, platos voladores, etc. etc: LOS PLATOS VOLADORES Y SUS TRIPULANTES, di Eduardo A. Tucci e Alberto Giordano (Buenos Aires, GLEM, 1969). Un bel libro argentino.



Segnalatoci da Simone Berni, bibliofilo e cacciatore di libri è ideatore di Bookle.org  nuovo super motore di ricerca per libri rari, nuovi e usati. Se c'è un libro che state cercando senza successo e soprattutto se non avete tempo da dedicarci, Bookle.org è il sito che fa per voi.

domenica 23 luglio 2017

Dee, Fate, Streghe Dall'Abruzzo Intorno al Mondo

Presentiamo il nuovo libro di Nicoletta Travaglini nostra preziosa collaboratrice.

Da sempre gli uomini hanno personificato i fenomeni naturali, considerandoli come prodotto di divinità sovrannaturali a cui tributare doni. Queste divinità, la più importante delle quali sembra essere la Grande Madre, hanno da sempre accompagnato il cammino dell’uomo. La Grande Madre, personificazione della Terra, è stata una presenza costante, ingombrante, comprensiva, amorevole ma, a volte, anche cattiva e ostile, devastando le vite e i destini dei popoli. Nicoletta Camilla Travaglini narra di un viaggio sulle tracce delle grandi Dee-Maghe come Angizia, Medea, Morgana ed altre, nonché dei luoghi sacri a loro dedicati, come Cocullo, Roccacasale, dove dimorano le fate; Montebello sul Sangro, la città abbandonata; il lago di Bomba con il castello delle fate; Pretoro, Roccascalegna, Pennadomo e tanti altri luoghi, ognuno con una sua storia e un suo misterioso fascino.

mercoledì 19 luglio 2017

Discorsi del discernimento

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/discorsi-del-discernimento/

Meister Eckhart

5. Considera che cosa rende buona la natura e il fondo dell’uomo

La ragione per cui la natura e il fondo dell’uomo, dai quali traggono la loro bontà le opere dell’uomo, sono del tutto buoni, è che lo spirito dell’uomo è completamente rivolto a Dio. Impegna ogni tuo sforzo perché Dio divenga grande per te, sì che tutta la tua attenzione e il tuo impegno siano per lui in ogni tuo agire. In verità, più fai così, migliori sono le tue opere, quali che siano. Se tu ti stringi a Dio, lui ti coprirà di ogni suo bene. Cerca Dio, e troverai Dio e ogni bene. Sì, in verità, se in tale disposizione d’animo tu inciampi in una pietra, ciò è opera più divina che fare la comunione pensando anzitutto a se stessi e con minor distacco della mente. A chi si stringe a Dio, Dio stesso e tutte le virtù si stringono. E ciò che prima cercavi, ora cerca te, e ciò che prima inseguivi, ora insegue te, e ciò che prima fuggivi, ora fugge te. Infatti, a chi si stringe intensamente a Dio, tutte le cose divine si stringono, mentre tutto ciò che è lontano e dissimile da Dio da costui fugge.



6. Del distacco e del possesso di Dio

Mi è stata posta la seguente questione: alcuni vorrebbero separarsi completamente dagli altri e stare soli – e in ciò troverebbero la pace, e nello stare in chiesa: è questa la cosa migliore? Io ho risposto di no, ed ecco perché. Chi è come deve essere, in verità, si trova bene in ogni luogo e con chiunque, ma chi non è come deve essere non si trova bene in nessun luogo con nessuno. Colui che è come deve essere, ha Dio vicino a sé in verità, e chi possiede Dio in verità, lo possiede ovunque: per la strada e accanto a qualsiasi persona, così come in chiesa, in solitudine o nella cella. Se un uomo siffatto lo possiede veramente, e possiede lui soltanto, nessuno gli può essere di ostacolo.

Perché?

Perché egli ha Dio solo e a Dio solo va la sua intenzione, e tutte le cose divengono per lui Dio solo. Un tale uomo porta Dio in tutte le sue opere e in ogni luogo, ed è Dio soltanto a compiere tutte le opere di un tale uomo. Infatti l’opera appartiene più propriamente a colui che ne è la causa che non a chi la realizza: se dunque la nostra intenzione è soltanto e unicamente Dio, allora sarà lui a compiere le nostre opere, e nulla può impedirgli di operare, né il luogo né le persone. Perciò nessuno può essere di ostacolo a questo uomo, giacché egli non considera, non cerca e non gode null’altro che Dio, il quale si unisce a lui in ogni sua intenzione. E come il molteplice non può distrarre Dio, nello stesso modo nulla può distrarre e disperdere quest’uo­mo: egli è uno in quell’Uno, in cui tutto il molteplice è Uno e non più molteplice.

L’uomo deve cogliere Dio in ogni cosa, e abituare il proprio spirito ad aver Dio sempre presente in sé, nella propria intenzione e nel proprio amore[1]. Considera dunque in che modo sei rivolto a Dio quando sei in chiesa o nella tua cella, e mantieni un’identica disposizione dello spirito anche in mezzo alla folla, nel tumulto, fra le cose disuguali. Come ho detto altre volte, quando si parla di “uguaglianza” non si intende dire che tutte le opere, i luoghi o le persone vadano considerati uguali: ciò sarebbe completamente falso, giacché pregare è opera migliore che filare, e la chiesa un luogo più nobile della strada. Occorre però avere in tutte le opere una stessa disposizione dello spirito, una stessa confidenza e uno stesso amore per Dio, e una medesima serietà. Invero, se tu fossi così di identico animo, nessuno potrebbe impedirti la presenza di Dio.

Ma l’uomo in cui Dio non abita veramente, e che deve cercare Dio all’esterno, in questa cosa e in quell’altra, e che cerca Dio in modi disuguali: nelle opere o nelle persone o nei diversi luoghi, non possiede Dio. Un tale uomo incontra facilmente degli ostacoli, giacché egli non possiede Dio, e non cerca lui solo, né lui solo ama o ha nella mente; perciò gli sono di ostacolo non soltanto le cattive compagnie, ma anche quelle buone, e non soltanto la strada, ma anche la chiesa, e non soltanto le parole e le opere cattive, ma anche quelle buone: l’ostacolo intatti è in lui, perché Dio non è divenuto tutto per lui. Se invece così fosse, egli si sentirebbe a proprio agio dovunque e con chiunque, giacche avrebbe Dio, e nessuno glielo potrebbe togliere, o impedirgli di compiere l’opera sua.

In che cosa consiste dunque questo vero possesso di Dio, in virtù del quale veramente lo si possiede?

Questo vero possesso di Dio risiede nello spirito, in una profonda tensione verso Dio e nell’avere lui nella mente e non in un pensiero continuo e sempre identico – ciò è impossibile, o assai difficile, alla natura, e non sarebbe neppure la cosa migliore. L’uomo non si deve accon­tentare di un Dio pensato, perché così, quando il pensiero ci abbandona, anche Dio ci abban­dona. Si deve invece possedere Dio nella sua essenza, che è molto al di sopra del pensiero del­l’uomo e di ogni creatura. Così Dio non ci abbandona mai, a meno che l’uomo non si distolga volontariamente da lui.

Chi possiede Dio nella sua essenza, coglie Dio nella sua divinità; per quest’uomo Dio risplende in tutte le cose: per lui infatti tutte le cose sanno di Dio e in esse egli vede la sua immagine. In lui Dio risplende in ogni tempo, in lui si compiono distacco e abbandono e in lui si imprime l’immagine del Dio tanto amato e presente. In egual modo, chi ha una grande sete può anche fare cose diverse e avere pensieri diversi dal bere, eppure, qualsiasi cosa faccia e con chiunque sia, qualunque sia il suo pensiero o la sua occupazione, l’immagine della bevanda non lo abbandona fin tanto che dura la sua sete, e, più la sete è grande, più vivida è l’immagine della bevanda – più presente, continua, interiore. O ancora: chi ama con tutte le sue forze una cosa, in modo da non provare gioia in nessun’altra, desidera soltanto quella e null’altro, e il suo amore non vien meno in lui dovunque sia, per diverse che siano le sue compagnie o le sue occupazioni: in ogni cosa trova l’immagine di ciò che ama, e tanto più presente quanto più forte diviene il suo amore. Quest’uomo non cerca la quiete, giacché nessuna inquietudine lo turba.

Quest’uomo è particolarmente gradito a Dio, poiché egli sente tutte le cose come divine e su­periori a quanto siano in sé. In verità, occorre zelo, amore, giusta considerazione dell’interiorità dell’uomo e una conoscenza viva, meditata, effettiva dell’intenzione dello spirito in mezzo alle cose e alle persone. L’uomo non può apprendere questo cercando la fuga, fuggendo dalle cose e rifugiandosi esteriormente nella solitudine: bisogna piuttosto che egli apprenda la solitudine in­teriore, dovunque e con chiunque sia. Bisogna imparare a passare attraverso tutte le cose, a co­gliere in esse Dio, imprimendolo fortemente in noi secondo la sua essenza. Nello stesso modo in cui chi vuole imparare a scrivere deve, per apprendere quest’arte, esercitarsi molto e spesso a farlo, per quanto duro e faticoso sia; e, anche se in un primo momento può sembrargli impos­sibile, imparerà quest’arte applicandosi spesso e con impegno. In verità, costui deve anzitutto rivolgere i suoi pensieri a ciascuna lettera e imprimerla fortemente in sé; quando poi si è impa­dronito di quest’arte, si affranca completamente dall’immagine e dal pensiero e scrive con faci­lità e senza sforzo. Lo stesso avviene per il suono di una viola o per qualsiasi altra opera che richieda abilità: è necessario soltanto volerla praticare, e, anche se non se ne è sempre coscienti, si compie l’atto grazie all’abilità acquisita, qualunque sia il pensiero.

Così l’uomo deve essere pervaso dalla presenza divina, plasmato nella forma di Dio amatis­simo, e mutato nella sua essenza, in modo che la sua presenza lo illumini senza alcuno sforzo ed egli possa distaccarsi da tutte le cose, rimanendo pienamente svincolato da esse. All’inizio occorrono però una riflessione e un’attenzione continua, come per colui che intenda apprendere un’arte.

[1] Quest’attitudine ricorda l’Ihsan nella tradizione islamica che, secondo un hadîth, «consiste nel ser­vire Allah come se lo vedessi: perché se tu non lo vedi, Egli ti vede» (Muslim, Sahîh, 1, 1).

sabato 15 luglio 2017

Oltre un secolo a fantasticare sulle fotografie degli Ufo

tratto da il Giornale del 23 giugno 2017

di Gianfranco de Turris

Le uniche "prove" dell'esistenza di creature aliene sono gli scatti: in un volume tutti gli avvistamenti dal 1883

C'è un famoso racconto di fantascienza di Katherine MacLean che Fruttero e Lucentini inserirono nella loro storica antologia Le meraviglie del possibile (1959) intitolato Le immagini non mentono e che racconta di come i terrestri cadono in un equivoco durante il primo contatto con gli alieni nel rispondere alla loro richiesta di aiuto dopo il loro atterraggio.

Le loro immagini inviate, infatti, erano vere ma loro non lo avevano capito.

È passato da un bel pezzo il tempo in cui si riteneva che foto e filmati fossero più veritieri delle testimonianze oculari: foto e film sono oggettivi, quel che si vede a occhio nudo è soggettivo e quindi equivocabile. Non è vero. Sin dagli inizi della storia della fotografia e del cinematografo è possibile truccare, l'importante è che il trucco non si veda e si creda tutto vero. Nei pionieristici film di Georges Méliès il trucco era palese, ne Il Signore degli Anelli o nei film dei supereroi e affini il trucco sembra vero, tanto per fare un confronto. Oggi è facilissimo, con i mezzi della moderna tecnologia elettronica, con appositi programmi come Photoshop, ad esempio, creare clamorosi falsi ritenuti veritieri, quasi più veri del vero, e difficili da scoprire: si pensi solo a quelli apparsi, però subito smascherati, dopo l'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001.

E il «fenomeno Ufo» è un fenomeno eminentemente visivo. Certo, innumerevoli testimonianze, un certo numero di tracce e di reperti attribuibili, ma soprattutto un numero sterminato di fotografie e filmati, e non disponendo di un Ufo integro o a pezzi a disposizione, o di loro piloti vivi o morti, le immagini sono la «prova regina». Sicché, partendo da questo presupposto venne in mente a me e a Sebastiano Fusco di mettere su un libro che presentasse in sequenza logico-cronologica e con relativo commento critico le più note, famose e controverse fotografie su questo enigma dei tempi moderni. Si intitolava Obiettivo sugli Ufo: Fotostoria dei dischi volanti, lo pubblicò le Edizioni Mediterranee nel 1975, con una seconda edizione riveduta e ampliata nel 1978: fu il primo libro in Italia e il secondo al mondo di questo genere (cinque anni prima era apparso un libro spagnolo ma di assai più limitata prospettiva, Platillos volantes ante la camara di Antonio Ribera), nonché il primo che pubblicammo a doppia firma, ormai reperto storico e introvabile, tanto che nemmeno il sottoscritto è riuscito a rintracciare la propria copia! L'introduzione era dell'amico Roberto Pinotti, uno dei fondatori del Cun, il Centro ufologico nazionale, e già allora uno dei maggiori esperti italiani.

Dopo 42 anni le parti s'invertono. Roberto è oggi il massimo esperto italiano e internazionale di Ufo con alle spalle un numero non calcolabile di libri, noi abbiamo preso strade diverse e ci siamo occupati di molti altri argomenti, tutti comunque eterodossi (qualcuno direbbe stravaganti), letterari o saggistici, ma lui mi ha richiamato in servizio per questa sua ultima fatica, Ufo tra occhio e obiettivo. E non potevo certo esimermi dal farlo, memore dei nostri antichi interessi e della vecchia amicizia. In fondo, quando 50 anni fa il Cun nacque e decise di indire il primo congresso ufologico in Italia, il 24 e 25 giugno 1967 a Riccione, fra i giornalisti presenti all'evento c'ero anch'io, insieme al compianto amico Cesare Falessi.

Obiettivo sugli Ufo conteneva 282 immagini. In seguito, fra il 1976 e il 1998, sono apparsi soltanto tre altri volumi fotografici, e tutti tedeschi (uno è stato pubblicato anche in italiano, Il segreto degli Ufo di Adolf Schneider e Hubert Malthaner, mentre i due di Michael Hesemann, Geheimsache Ufo e Die Kontakte sono inediti nel nostro Paese), con circa 150 immagini ognuno. Rispetto al nostro, questo libro di Roberto Pinotti ne contiene quasi il doppio, più di 500. Nel nostro libro prendevamo in considerazione un periodo di 93 anni, dal 1883 al 1976, questo si riferisce a 134 anni, dal 1883 al 2017.


In Ufo tra occhio e obiettivo Roberto Pinotti si districa in questo ginepraio basandosi sulla propria esperienza ed acume critico e con il suo catalogo dimostra come questo fenomeno persista dal 1947 (l'avvistamento Arnold) e continua ad essere regolarmente documentato da 70 anni. E da storico del fenomeno offre a chi ci crede e a chi non ci crede materiale visivo a iosa su cui ragionare, discutere, speculare e, perché no?, anche fantasticare, aspetto ancora non proibito dalle Autorità Costituite. Con l'aria che tira potrebbe anche succedere che la Commissione europea decida di classificare gli Ufo come balla, bufale, disinformazione bella e buona, una di quelle fake news dei giornalisti e dei politici conformisti e ignoranti insomma; e quindi di proibirne la diffusione di notizie e immagini in Rete...

E infatti c'è chi crede che gli Ufo giungano dallo spazio e chi magari dal centro della Terra, o che siano più banalmente armi segrete americane o russe o di un IV Reich in attesa di rivincita. V'è chi crede che provengano da altre dimensioni accanto alla nostra o da un tempo diverso, passato o futuro.

Ma basterebbe che una sola di queste 500 foto presentate da Roberto Pinotti (così come una sola delle 282 di 42 anni fa) fosse incontrovertibilmente vera e non raffigurasse un evento astronomico o un pallone sonda o simili che gli «oggetti volanti non identificati» diverrebbero realtà, ancorché per adesso ancora inspiegabile e soprattutto sempre visiva.

Insomma, siamo tuttora a confrontarci con quelle «cose che si vedono in cielo» come diceva Carl Gustav Jung nel 1958, quel «mito moderno» che abbiamo collocato sopra le nostre teste. E che fotografiamo...

domenica 9 luglio 2017

Le dodici fatiche d’Eracle

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/le-dodici-fatiche-deracle/

Apollodoro


Eracle (chiamato dai latini Hercules, Ercole) è un personaggio della mitologia greca conosciuto per la straordinaria forza, sulle cui origini vi sono tradizioni differenti. Secondo la versione più diffusa del mito (che si riassume nelle tradizioni tebane), Eracle era figlio di Zeus e di Alcmena, posseduta dal dio nell’aspetto del marito Anfitrione, e venne educato a Tebe in ogni disciplina da uno specialista mitico: da Eurito nell’arco, da Autolico nella lotta, nelle armi da Castore. L’episo­dio in cui Eracle uccise Lino, suo insegnante di scrittura e musica, lascia intravedere l’aspetto selvaggio insito della sua natura e come questo eroe rappresenti l’uomo combattuto tra virtù e vizio. Mandato per punizione sul Citerone a custodire le greggi, diede a 18 anni prova della sua forza uccidendo un leone che terrorizzava il paese governato da Tespio, padre di 50 figlie, con le quali Eracle giacque, generando un figlio da ciascuna.

Per ricompensa della guerra vinta, Eracle ottenne in moglie da Creonte re di Tebe la figlia Megara, dalla quale ebbe tre figli (o più secondo altre versioni). Quando Euristeo re di Tirinto (o Micene) lo chiamò al suo servizio, Eracle uccise i propri figli in un accesso d’ira causatogli dalla dea Era, sposa gelosa di Zeus.

Le dodici fatiche, compiute da Eracle al servizio d’Euristeo per la durata di dodici anni, gli furono imposte dall’oracolo di Delfi come espiazione per l’uccisione dei propri figli e ottenere l’immor­talità. Le fatiche rappresentano le prove dell’anima che si libera progressivamente dai vizi, vince il destino e conquista l’eternità con la forza della virtù. Eracle è quindi simbolo della forza virile che va messa in atto in una via di purificazione per sopraffare i vizi e far trionfare la virtù[1].

Di seguito proponiamo il celebre racconto d’Apollodoro delle dodici fatiche d’Eracle.



Dopo avere udito queste parole Eracle si recò a Tirinto per sottoporsi ai comandi di Euri­steo. Come prima impresa costui gli ordinò di portargli la pelle del leone nemeo, che era una belva invulnerabile figlia di Tifone. Partito alla volta del leone, giunse a Cleonea, dove venne ospitato da un pover uomo chiamato Molorco. Il giorno seguente, quando il suo ospite volle of­frire un sacrificio, Eracle gli raccomandò di attendere trenta giorni: allora, se fosse ritornato salvo dalla caccia, si sarebbe fatto un sacrificio a Zeus Salvatore, mentre se fosse morto avrebbe dovuto versargli libagioni come si fa con un eroe.
Giunto a Nemea andò alla ricerca del leone e dapprima gli scagliò una freccia; quando però comprese che era invulnerabile afferrò la clava e iniziò a incalzarlo. Il leone si rifugiò in una spelonca a due uscite; allora Eracle ne sbarrò una e attraverso l’altra raggiunse l’animale: gli circondò il collo con un braccio e strinse fino a soffocarlo. Poi lo caricò sulle spalle e lo portò a Cleonea, dove trovò Molorco che nell’ultimo dei giorni stabiliti stava per offrirgli libagioni come se fosse morto; così, dopo avere sacrificato a Zeus Salvatore, portò il leone a Micene.

Euristeo rimase sbigottito dal suo valore e per il futuro gli vietò di entrare in città, imponen­dogli di esibire il frutto delle sue imprese dall’esterno delle mura. Dicono anche che, terroriz­zato, avesse fatto costruire una giara di bronzo per nascondersi sotto terra e avesse imposto ad Eracle le fatiche attraverso l’araldo Copreo, figlio di Pelope di Elide, il quale si era rifugiato a Micene per avere ucciso Ifito e aveva preso dimora in quel luogo dopo essere stato purificato da Euristeo.

La seconda fatica che il re gli impose fu di uccidere l’Idra di Lerna; questo mostro era cre­sciuto nella palude di Lerna e si aggirava per la pianura massacrando le mandrie e devastando la regione. L’Idra aveva un corpo immenso e nove teste: otto erano mortali, quella di mezzo im-mortale. Ebbene, Eracle salì sul carro (Iolao ne teneva le redini) e giunse a Lerna; scovò l’Idra sopra una collinetta nei pressi delle Sorgenti di Amimone, dove essa aveva la tana. Bersagliandola con frecce infuocate la snidò, e mentre quella usciva la ghermì e la tenne stretta; l’Idra però si avvinghiò a uno dei suoi piedi. Eracle la percuoteva sulle teste con la clava ma non riusciva ad averne la meglio, perché ogni volta che una testa veniva frantumata ne crescevano due; inoltre in aiuto all’Idra era accorso un enorme granchio che gli aveva attanagliato un piede. Perciò Eracle lo uccise e a sua volta chiamò in soccorso Iolao: questi appiccò il fuoco a una par­te della selva vicina e, bruciando con torce le teste a mano a mano che crescevano, impedì che rinascessero. In questo modo Eracle riuscì a eliminare le teste che rispuntavano; infine tagliò la testa immortale, la seppellì e vi pose sopra un pesante macigno, lungo la strada che attraverso Lerna porta a Eleunte. Poi squarciò il corpo dell’Idra e immerse le frecce nella sua bile. Tuttavia Euristeo rifiutò di includere questa prova tra le dieci perché Eracle non aveva sopraffatto l’Idra da solo ma con l’aiuto di Iolao.

La terza fatica che il re gli impose fu di condurre a Micene, ancora viva, la cerva di Cerinea. Questa cerva si trovava a Enoe, aveva corna d’oro ed era consacrata ad Artemide. Poiché Eracle non voleva né abbatterla né ferirla, la inseguì per un intero anno; quando infine l’animale, spos­sato dalla caccia, si rifugiò sul monte chiamato Artemisio e lì, presso il fiume Ladone, Eracle lo ferì con una freccia nel momento in cui stava per guadare il corso d’acqua; così lo catturò, se lo caricò in spalla e attraversò l’Arcadia. Ma Artemide e Apollo gli sbarrarono il passo, e la dea cercò di togliergli la cerva rimproverandolo perché aveva abbattuto il suo animale sacro: ma Eracle rispose che aveva agito per necessità e attribuì la colpa a Euristeo. In tal modo placò l’ira della dea e portò l’animale ancora vivente a Euristeo.

Come quarta fatica il re gli impose di portargli vivo il cinghiale di Erimanto. Questa belva devastava Psofi scendendo dal monte che chiamano Erimanto. Ebbene, mentre Eracle stava attraversando Foloe fu ospitato dal centauro Folo, figlio di Sileno e di una ninfa melia. Costui offrì a Eracle carni cotte, mentre lui stesso le divorava crude; quando poi Eracle gli chiese del vino, rispose che temeva di aprire la giara che possedeva in comune con gli altri Centauri. Eracle gli fece coraggio e così Folo la dissigillò, ma poco dopo, attirati dall’odore, presso la grotta Folo accorsero i Centauri armati di pietre e bastoni. Eracle volse in fuga, bersagliandoli con delle torce, i primi che osarono penetrarvi, Anchio e Agrio, e inseguì gli altri a colpi di freccia sino al Malea.

Di lì essi si rifugiarono presso Chirone, che era stato scacciato dai Lapiti, e dal monte Pelio si era trasferito presso il Malea. Mentre i Centauri erano raggruppati attorno a lui, Eracle scagliò contro di loro una freccia, che dopo avere trapassato il braccio di Elato si conficcò nel ginocchio di Chirone. Eracle addolorato si precipitò a estrarre il dardo e applicò sulla ferita un farmaco che gli aveva porto Chirone. Ma la piaga era inguaribile: allora Chirone si ritirò nel suo antro dove fu preso dal desiderio di morire, ma non poteva poiché era immortale. Prometeo allora offrì a Zeus di scambiare il suo destino con quello di Chirone, che cedendo a lui la propria immortalità poté finalmente morire.

Gli altri Centauri fuggirono disperdendosi: alcuni giunsero al monte Malea; Eurizione a Foloe; Nesso al fiume Eveno. Poseidone diede asilo agli altri celandoli in una montagna presso Eleusi. Quanto a Folo, dopo avere estratto una freccia dal corpo di un morto, si meravigliò che un oggetto così piccolo avesse ucciso tali nemici: ma essa, sfuggitagli di mano, lo punse a un piede e lo uccise all’istante. Quando Eracle fece ritorno a Foloe e vide Folo morto, lo seppellì e partì alla ricerca del cinghiale; gridando lo stanò da una macchia e lo inseguì sino a sfinirlo nella neve alta, lo intrappolò e lo condusse a Micene.

La quinta fatica che Euristeo gli impose fu di rimuovere in un solo giorno il fimo delle man­drie di Augia. Augia era il re di Elide, figlio secondo alcuni di Elio, secondo altri di Poseidone, oppure (secondo altri ancora) di Forbo, e possedeva una grande quantità di bestiame. Eracle si recò presso di lui e, senza nulla rivelargli degli ordini di Euristeo, si offrì di rimuovere il fimo in un solo giorno purché il re gli donasse la decima parte delle mandrie. Augia, pur essendo incre­dulo, accettò; allora Eracle prese come testimone Fileo, figlio di Augia, quindi aprì una breccia nelle fondamenta della stalla e vi fece scorrere le acque mescolate dei fiumi Alfeo e Peneo, dei quali aveva deviato il corso, avendo prima creato un’altra apertura perché l’acqua vi defluisse. Quando Augia venne a sapere che quest’impresa era stata compiuta per ordine di Euristeo, ri­fiutò di pagare la ricompensa e aggiunse inoltre di non avere mai promesso alcun premio, di­chiarandosi anzi pronto ad affrontare un processo su questo argomento. Quando i giudici si fu­rono riuniti, Fileo venne convocato da Eracle e testimoniò contro suo padre, ammettendo che aveva promesso una ricompensa; allora, prima che la sentenza fosse emessa, Augia adirato bandì Eracle e Fileo dall’Elide.

Fileo si trasferì a Dulichio, dove prese dimora; Eracle invece andò a Oleno presso Dessa­meno e lo trovò in procinto di concedere in moglie, contro la propria volontà, la figlia Mnesi­mache al centauro Eurizione. Chiamato in soccorso dall’amico, Eracle, quando Eurizione si pre­sentò per condurre via la sposa, lo uccise. Euristeo però non volle computare tra le dieci fatiche neppure questa, accampando il pretesto che era stata compiuta dietro compenso.

Come sesta fatica gli impose di scacciare gli uccelli stinfalidi. Presso Stinfalo, una città del­l’Arcadia, si apriva infatti un lago chiamato Stinfalo, ombreggiato da una fitta selva. Presso questo lago si era rifugiato un numero sterminato di uccelli, che temevano di diventare preda dei lupi. Eracle non sapeva come fare per scacciare gli uccelli da quel bosco, quand’ecco che Atena gli donò dei crotali di bronzo che aveva ricevuto da Efesto. Percuotendoli dalla cima di un monte che sovrastava il lago spaventò gli uccelli, i quali non riuscendo a sopportare il frastuono volarono via terrorizzati e in questo modo Eracle poté abbatterli con l’arco.

La settima fatica che Euristeo gli impose fu di portargli il toro di Creta, che (secondo Acusi-lao) era lo stesso che aveva trasportato per mare Europa a Zeus; altri invece sostengono che si trattava di quello che Poseidone aveva fatto uscire dalle acque quando Minosse aveva promesso di sacrificargli ciò che fosse apparso dal mare: ma si dice che davanti alla bellezza del toro lo mandò libero tra le mandrie e a Poseidone offrì un altro sacrificio; perciò il dio si adirò e rese selvatico il toro. Quando Eracle giunse a Creta per catturarlo, Minosse rispose alla sua richiesta di aiuto dicendo che avrebbe dovuto affrontarlo e domarlo da solo; allora Eracle lo catturò e lo condusse da Euristeo, e, dopo averglielo mostrato, lo lasciò libero. E il toro, dopo avere vagato per Sparta e per tutta l’Arcadia, attraversò l’Istmo e giunse sino a Maratona, in Attica, dove tor­mentava gli abitanti.

Come ottava fatica il re gli comandò di portare a Micene le cavalle del tracio Diomede: co-stui, che era figlio di Ares e Cirene, regnava in Tracia sul bellicosissimo popolo dei Bistoni e possedeva cavalle antropofaghe. Ebbene, dopo avere raggiunto per nave quella regione assieme a un gruppo di volontari, Eracle sopraffece i guardiani che custodivano i recinti delle cavalle e le condusse sino al mare. Quando i Bistoni accorsero in armi, egli consegnò le cavalle ad Abdero perché le custodisse; costui, un figlio di Ermes nato a Oponte in Locride, era il giovane amante di Eracle: ma le cavalle lo uccisero facendolo a brani.

Eracle affrontò i Bistoni e uccise Diomede, costringendo gli altri alla fuga; poi fondò la città di Abdera presso la tomba del defunto Abdero, condusse le cavalle da Euristeo e gliele conse­gnò. Ma Euristeo le lasciò libere ed esse arrivarono sino al monte chiamato Olimpo, dove fu­rono sbranate dalle bestie feroci.

La nona fatica che Euristeo impose a Eracle fu di portargli la cintura di Ippolita, la regina delle Amazzoni che abitavano presso il fiume Termodonte: un popolo possente in guerra. Esse erano dedite ad attività guerriere e se mai si univano a un uomo e davano alla luce un figlio alle­vavano solo le femmine, alle quali comprimevano il seno destro perché non fossero impacciate nel lanciare il giavellotto, mentre lasciavano crescere quello sinistro per l’allattamento. Ippolita, dunque, possedeva la cintura di Ares, emblema del potere che esercitava su tutte.

Eracle fu inviato alla conquista di questa cintura perché la figlia di Euristeo, Admeta, deside­rava possederla; così egli, dopo avere arruolato dei volontari, con una sola nave si mise in mare. Giunse quindi all’isola di Paro, in cui avevano dimora i figli di Minosse: Eurimedonte, Crise, Nefalione e Filolao. Accadde però che due dei naviganti, che erano sbarcati, fossero assassinati dai figli di Minosse. Eracle, sdegnato da questo, subito li uccise; poi cinse d’assedio gli altri iso­lani finché essi gli inviarono ambasciatori con la proposta che in cambio dei morti egli condu­cesse con sé due persone a sua scelta. Allora Eracle rinunciò all’assedio e dopo avere scelto Alceo e Stenelo, i due figli di Androgeo, figlio di Minosse, giunse in Misia presso Lico, figlio di Dascilo, dal quale fu ospitato. Quando Lico fu assalito dal re dei Bebrici, Eracle venne in suo aiuto e uccise molti nemici, tra i quali anche il re Migdone, fratello di Amico; così, dopo avere confiscato una larga parte del territorio dei Bebrici, la consegnò a Lico, che chiamò tutta quella regione Eraclea.

Infine approdò nel porto di Temiscira, dove ricevette la visita di Ippolita, che gli chiese la ragione del suo arrivo e promise di consegnargli la cintura. Ma Era assunse l’aspetto di un’a­mazzone e si diede a circolare tra la folla dicendo che gli stranieri che erano arrivati stavano rapendo la regina. Allora esse presero le armi e corsero alla nave sui loro cavalli. Quando Eracle le vide giungere armate, credette si trattasse di un tradimento: perciò uccise Ippolita e la spogliò della cintura; poi tenne a bada le altre e salpò alla volta di Troia.

In quell’epoca accadeva che la città soffrisse a causa dell’ira di Apollo. Infatti Apollo e Po­seidone, che volevano mettere alla prova l’arroganza di Laomedonte, avevano assunto sem­bianze umane e promesso di edificare le mura di Pergamo in cambio di un compenso; quando però ebbero completato l’opera il re rifiutò di pagarli. Per questo motivo Apollo inviò una pesti­lenza e Poseidone un mostro marino che usciva dal riflusso della marea e rapiva gli uomini nella pianura. Gli oracoli vaticinarono che le sciagure avrebbero avuto termine se Laomedonte avesse offerto in pasto al mostro la figlia Esione; perciò egli la espose, legata alle rocce che sorgevano sulla riva del mare. Vedendola così esposta Eracle promise di salvarla, a condizione che Laome­donte gli cedesse i cavalli che aveva ricevuto in dono da Zeus come risarcimento per il ratto di Ganimede. Laomedonte promise e così Eracle uccise il mostro e salvò Esione; ma il re rifiutò di consegnare il compenso pattuito e pertanto Eracle salpò minacciando di muovere guerra contro Troia.

Poi raggiunse Eno, dove fu ospitato da Poltide. Mentre stava partendo, sulla costa di Eno uccise con un colpo di freccia Sarpedone, figlio di Poseidone e fratello di Poltide, che era un uomo violento. Giunto a Taso, soggiogò i Traci che la popolavano e consegnò l’isola ai figli di Androgeo perché la abitassero. Partito da Taso raggiunse Torone, dove uccise in una gara di lot­ta Poligono e Telegono, figli di Proteo che era figlio di Poseidone, i quali l’avevano sfidato. Poi portò la cintura a Micene e la consegnò a Euristeo.

Come decima fatica gli fu imposto di portare da Erizia le mandrie di Gerione. Erizia era un’i­sola presso l’Oceano che ora è chiamata Gades; in essa abitava Gerione, figlio di Crisaore e di Calliroe, figlia di Oceano. Egli aveva un corpo triplice: sino all’altezza del ventre era unico, ma a partire dai fianchi e dalle cosce si suddivideva in tre busti di uomo. Gerione possedeva delle giovenche rosse, di cui era mandriano Eurizione, custodite dal cane Orto, che aveva due teste ed era nato da Echidna e Tifone.

Eracle dunque attraversò l’Europa alla volta delle mandrie di Gerione, uccidendo molti ani­mali selvaggi, e s’inoltrò in Libia; giunto a Tartesso innalzò come segno del suo passaggio due colonne, una di fronte all’altra, ai confini tra Europa e Libia. Lungo il percorso fu arso dai raggi di Elio e tese l’arco contro il dio: questi allora, ammirato per il suo valore, gli diede una coppa d’oro sulla quale Eracle attraversò l’Oceano. Giunto a Erizia si accampò sopra il monte Abante. Il cane si avvide di lui e lo assalì, ma Eracle lo abbatté con la clava e uccise poi anche il bovaro Eurizione che era accorso in aiuto al cane. Allora Menete, che pascolava in quel luogo le man­drie di Ade, riferì l’accaduto a Gerione, il quale raggiunse Eracle mentre stava traghettando i buoi presso il fiume Antemo e venne a battaglia con lui, ma morì trafitto da una freccia. Eracle imbarcò la mandria sulla coppa e dopo la traversata sino a Tartesso la restituì a Elio.

Dopo avere percorso l’Abderia, giunse in Liguria, dove Ialebione e Dercino, figli di Poseidone, cercarono di rubargli la mandria, ma Eracle li uccise e proseguì il suo viaggio attra­verso la Tirrenia[2]. A Reggio un toro imbizzarrito si gettò in mare e giunse a nuoto fino in Sicilia; dopo avere attraversato la regione vicina [che da lui fu chiamata Italia (i Tirreni infatti chiamano ίταλόζ il toro)], arrivò alla pianura di Erice, un figlio di Poseidone che regnava sugli Elimi. Costui aggregò il toro alle proprie mandrie. Allora Eracle affidò gli altri buoi a Efesto e si pose alla sua ricerca; quando infine lo trovò tra le mandrie di Erice, questi affermò che non l’avrebbe restituito se non fosse stato sconfitto nella lotta: così l’eroe lo atterrò tre volte fino a ucciderlo e dopo avere unito il toro al resto della mandria la condusse sulle rive del mare Ionio. Ma quando Eracle giunse all’insenatura di quel mare, Era aizzò un tafano contro i buoi cosicché le bestie si dispersero tra le falde dei monti di Tracia; Eracle le inseguì e riuscì a catturarne alcune, che condusse fino all’Ellesponto, mentre le altre, lasciate libere, s’inselvatichirono. Dopo avere ra­dunato il bestiame con grande fatica, Eracle incolpò dell’accaduto il fiume Strimone e riempì di pietre il suo letto tanto da renderlo inaccessibile alle imbarcazioni, mentre prima era navigabile; infine consegnò le bestie a Euristeo che le sacrificò a Era.

Le fatiche furono compiute nello spazio di otto anni e un mese; tuttavia Euristeo non volle riconoscere quelle del bestiame di Augia e dell’Idra e gli impose come undicesima fatica di por­targli i pomi d’oro delle Esperidi. Essi non si trovavano (come alcuni hanno detto) in Libia, ma sull’Atlante tra gli Iperborei, ed erano i doni che Gea aveva fatto a Zeus quando aveva sposato Era: li custodiva un drago immortale, figlio di Tifone ed Echidna, che aveva cento teste e sapeva parlare con voci svariate. Assieme a lui custodivano i pomi le Esperidi: Egle, Erizia, Esperia e Aretusa. Eracle dunque lungo il suo cammino giunse al fiume Echedoro, dove Cicno, figlio di Ares e Pirene, lo sfidò a duello: fu Ares, che lo difendeva, a sollecitare la sfida, ma un fulmine caduto fra i combattenti fece cessare lo scontro.

Poi Eracle percorse a piedi l’Illiria e si affrettò a raggiungere presso il fiume Eridano le ninfe figlie di Zeus e Temi, le quali gli rivelarono il nascondiglio di Nereo; così Eracle lo sorprese addormentato e lo legò benché quello assumesse forme diverse, e si rifiutò di liberarlo prima che gli rivelasse dove si trovavano i pomi e le Esperidi. Seguendo le sue informazioni percorse la Libia, dove allora regnava Anteo, figlio di Poseidone, che costringeva gli stranieri a lottare con lui e li uccideva. Anche Eracle fu obbligato a misurarsi con lui e avendolo sollevato a mezz’aria stretto fra le braccia lo stritolò e lo uccise: accadeva infatti che Anteo diventasse più forte ogni volta che toccava terra, e questo è il motivo per cui alcuni lo dissero figlio di Gea.

Dopo la Libia attraversò l’Egitto, dove regnava Busiride, che era nato da Poseidone e Lisia­nassa, figlia di Epafo. Egli aveva l’abitudine di sacrificare gli stranieri sopra l’altare di Zeus in obbedienza a un oracolo: infatti quando una carestia novennale s’abbatté sull’Egitto, giunse da Cipro Frasio, un esperto indovino, il quale disse che la carestia sarebbe cessata se ogni anno essi avessero sacrificato a Zeus uno straniero. Per primo Busiride sacrificò l’indovino; poi continuò con gli stranieri che sopraggiungevano. Eracle dunque fu catturato e trascinato presso l’altare, ma spezzò i legami e uccise Busiride insieme a suo figlio Anfidamante.

Attraversando l’Asia giunse poi a Termidre, il porto di Lindo. Qui sciolse dal carro di un bovaro uno dei due tori, lo sacrificò e si mise a banchettare. Il bovaro non era in grado di difendersi; perciò si rifugiò sulla cima di un monte e lo maledisse. Ecco il motivo per cui anche oggi i Lindi, quando sacrificano a Eracle, lo fanno con maledizioni.

Attraversando l’Arabia uccise Emazione, figlio di Titono; poi lungo il percorso tra la Libia e il mare esterno ricevette da Elio la coppa. Dopo essere passato nel continente antistante, sul Caucaso trafisse l’aquila, figlia di Echidna e Tifone, che rodeva il fegato di Prometeo. Così libe­rò Prometeo e scelse come propria catena una corona d’olivo mentre a Zeus offrì come risar­cimento Chirone, che accettò di morire benché fosse immortale.

Prometeo aveva ammonito Eracle di non cogliere lui stesso i pomi ma di inviare in sua vece Atlante, dopo avere preso sulle proprie spalle il peso della sfera celeste; ed Eracle, quando giun­se presso Atlante nella terra degli Iperborei, seguì il consiglio e scambiò il ruolo con Atlante. Questi allora colse dalle Esperidi tre pomi e ritornò da Eracle, ma non era più disposto a rias­sumere sulle spalle il cielo e disse che avrebbe portato lui stesso i pomi a Euristeo e pretese che Eracle reggesse la volta celeste al posto suo. Eracle promise di farlo, ma la restituì ad Atlante con un’astuzia. Seguendo il suggerimento di Prometeo, pregò Atlante di sostenere il finché si fosse avvolto una benda attorno al capo. A queste parole Atlante depose a terra le mele e riprese sulle spalle la sfera celeste: così Eracle le raccolse e se ne andò. Altri tuttavia dicono che Eracle non ebbe i pomi da Atlante, ma che li colse egli stesso dopo avere ucciso il serpente che li cu­stodiva. In tal modo portò le mele a Euristeo e gliele consegnò: ma questi, dopo averle avute, le donò a Eracle, dal quale le ebbe poi Atena, che le riportò indietro: non era lecito, infatti, che esse stessero altrove.

Come dodicesima fatica gli fu comandato di portare Cerbero dall’Ade. Questi aveva tre teste di cane, una coda di drago e sul dorso teste di serpenti di tutte le specie. Mentre dunque era sulla via per andarlo a prendere, Eracle si recò a Eleusi presso Eumolpo con l’intenzione di essere ini­ziato ai misteri. In quell’epoca però non era consentito che uno straniero venisse iniziato; allora egli cercò di avere accesso al rito facendosi adottare da Pilio, ma non poteva ancora assistere ai misteri in quanto non era stato purificato per l’uccisione dei Centauri; perciò fu purificato da Eumolpo e allora venne iniziato. Giunto quindi al Tenaro, in Laconia, dove si trova l’imbocca­tura dell’Ade, vi entrò.

Quando le ombre dei morti lo videro si diedero alla fuga, ad eccezione di Meleagro e della gorgone Medusa; contro la Gorgone come se fosse viva Eracle snudò la spada, ma da Ermes apprese che si trattava soltanto di un vano fantasma. Arrivato accanto alle porte dell’Ade incon­trò Teseo e Piritoo, che aveva osato corteggiare Persefone e per questo era stato incatenato. Ve­dendo Eracle essi gli tesero le mani sperando di essere restituiti alla vita grazie alla sua forza. Egli afferrò Teseo per le mani e lo fece alzare, ma mentre cercava di sollevare Piritoo la terra tremò, cosicché dovette lasciarlo; poi fece rotolare via anche la pietra di Ascalafo. E poiché vo­leva procurare alle anime del sangue sgozzò una delle giovenche di Ade; allora Menete, custode delle mandrie e figlio di Ceutonimo, sfidò Eracle nella lotta, ma l’eroe lo afferrò per la vita e gli stritolò i fianchi, fino a che, per richiesta di Persefone, lo lasciò libero. Eracle allora chiese Cer­bero a Plutone, e Plutone volle che se ne impadronisse senza usare le armi che portava; egli, di­feso solo dalla corazza e dalla pelle di leone, lo scovò presso le porte dell’Acheronte, lo afferrò con le mani attorno alla testa e non smise di stringerlo e di soffocarlo finché l’ebbe domato[3], benché fosse morso dal drago che quello aveva per coda. Poi lo prese e se ne andò risalendo da Trezene; quanto ad Ascalafo, Demetra lo trasformò in allocco. Eracle, dopo avere mostrato Cer­bero a Euristeo, lo ricondusse nell’Ade.

[1] Via di purificazione come quella massonica, dove Ercole presiede al seggio del primo sorvegliante e dove «D’altra parte, è detto che, “nella Loggia di san Giovanni, si elevano templi alla virtù e si scavano prigioni per il vizio”; queste due idee d’“elevare” e di “scavare” si riferiscono alle due “dimensioni” verti­cali, altezza e profondità, calcolate secondo le due metà di uno stesso asse che va “dallo Zenith al Nadir”, prese in senso inverso l’una all’altra; queste due direzioni opposte corrispondono rispettivamente a sattwa e a tamas (l’espansione delle due “dimensioni” orizzontali corrisponde a rajas), cioè alle due tendenze dell’essere verso i Cieli (il tempio) e verso gli Inferi (la prigione), tendenze che sono qui “allegorizzate”, piuttosto che simboleggiate, propriamente parlando, dalle nozioni di “virtù” e di “vizio” esattamente come nel mito d’Ercole sopra menzionato» (R. Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Gallimard, Paris, 1962, cap. XXXVII: Le symbolisme solsticial de Janus).

[2] Un’altra allusione al furto del toro di Gerione si trova nell’Inferno della Divina Commedia, canto XXV, 31-33, dove lo stesso viene attribuito a Caco, un centauro mostruoso ucciso a mazzate da Ercole:

«onde cessar le sue opere biece | sotto la mazza d’Ercule, che forse | gliene diè cento, e non sentì le diece.»

[3] Di questa lotta si parla nell’Inferno della Divina Commedia, canto IX, 98-100, citando Cerbero come esempio di chi s’oppone inutilmente e a sue spese al volere divino:

«Che giova ne le fata dar di cozzo? | Cerbero vostro, se ben vi ricorda, | ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo.»

domenica 2 luglio 2017

Tolkien e l'Italia

Nel maggio del 1955 JRR TOLKIEN, l'Autore de Lo Hobbit e del Signore degli Anelli, assieme alla figlia Priscilla, con in mano le bozze dell'ultimo Libro de Il Signore degli Anelli compì un importante viaggio in Italia, che rimase impresso a fondo nelle sue opere narrative. Dalle acque di Venezia alla spiritualità di San Francesco in Assisi, questo Diario inedito illumina le radici culturali e spirituali di un grande successo letterario e cinematografico.

sabato 17 giugno 2017

Codex Gigas o Bibbia del Diavolo

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleone.it/codex-gigas-o-bibbia-del-diavolo/

Codex Gigas: Diavolo, Etimologie e Scongiuri

Il Codex Gigas (codice gigante) detto anche Bibbia del Diavolo, o Libro Nero e in una molteplicità di vari modi deve i suoi due principali appellativi ad un disegno del diavolo a tutta pagina contenuto nel manoscritto ed al suo formato. Il formato del Codex Gigas è impressionate, alto ±890 mm ​​e largo ±490 mm ed ha un peso di circa 75kg. È composto di 310 fogli di pergamena (di pelle d’asino o vitello) alle quali andrebbero aggiunte 8 pagine che si sono perse nei secoli. Il suo formato lo rende probabilmente il più grande manoscritto latino europeo. Il Codex Gigas è chiuso in una copertina di legno ricoperta di pelle e presenta alcuni ornamenti in metallo. Il manoscritto è ricco di Capolettera e miniature, come di alcuni disegni a tutta pagina come il già citato il ritratto del diavolo.  Oggi il testo è conservato nella biblioteca nazionale di Stoccolma.

Cosa contiene il Codex Gigas? In questo volume troviamo una Bibbia (Antico e Testamento), Le antichità giudaiche e La guerra giudaica di Giuseppe Flavio, Le etimologie di Isidoro di Siviglia, alcune formule per scongiuri ed esorcizzare il diavolo, dei libri di medicina, una Storia della Boemia scritta da Cosma di Praga ed un calendario. Dall’indice si può dedurre che nelle pagine mancanti fosse contenuta la regola benedettina, di particolare interesse sono l’immagine a pagina piena della Gerusalemme Celeste e quella del diavolo tra due torri.

Il manoscritto Codex Gigas è stato probabilmente redatto tra il 1204 e il 1230 della nostra era nel piccolo monastero benedettino di Podlažice (Boemia), anche su questo monastero come luogo in cui sia stato redatto esistono dei dubbi, infatti Podlažice all’epoca era troppo piccolo e con insufficienti risorse per poter gestire la creazione di un tale lavoro. A Hermanus monachus inclusus si attribuisce questo lavoro. La leggenda vuole che il monaco abbia stretto un patto con il diavolo per completare questo libro in una sola notte.