mercoledì 8 marzo 2017

IL MISTERO DEI MISTERI – IL RE DEL MONDO

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/16-2/

Capitolo XLVI
Il Regno sotterraneo

«Fermo!» mormorò la mia vecchia guida mongola un giorno che attraversavamo la pianura presso Tzagan Luk. «Fermo!».

Si lasciò scivolare giù dal cammello, che s’inginocchiò spontaneamente. Il Mongolo levò le sue mani innanzi al volto in atto di preghiera e cominciò a ripetere la frase sacra: «Om! Mani padme Hung!» [1]. Gli altri Mongoli fermarono immediatamente i loro cammelli e cominciarono a pregare.

«Cos’è successo?» pensai, mentre guardavo la tenera erba verde attorno a me, il cielo senza nubi e i raggi del sole della sera dolci come in un sogno.

I Mongoli pregarono per un po’ di tempo, si scambiarono qualche parola sottovoce, strinsero le cinghie dei bagagli ai cammelli e si ripartì.

«Hai visto», chiese il Mongolo, «come i nostri cammelli muovevano le orecchie per la paura? Come la mandria di cavalli nella pianura si è fermata improvvisamente attenta e come le greggi di pecore e di armenti si sono acquattate al suolo? Hai notato come gli uccelli non volassero, le marmotte non corressero e i cani non latrassero? L’aria vibrava sommessamente e portava da lontano il suono di un canto che penetrava i cuori degli uomini, come quelli degli animali e degli uccelli. La terra e il cielo avevano cessato di respirare. Il vento non soffiava e il sole si era fermato. In un momento come quello, il lupo che si avvicina furtivo alla pecora si arresta dove si trova; il branco delle antilopi spaventate improvvisamente ferma la sua selvaggia corsa; al pastore che sta sgozzando un montone cade il coltello di mano; il feroce ermellino smette di far la posta all’ignara salga [2]. Tutte le creature viventi in preda alla paura sono spinte involontariamente a pregare e attendono il proprio fato. Ecco cos’è appena accaduto. Così accade ogni qual volta il Re del Mondo nel suo palazzo sotterraneo prega e scruta i destini di tutti i popoli della terra» [3].

Così mi parlò il vecchio Mongolo, un semplice e rozzo pastore e cacciatore.

La Mongolia, con le sue nude e terribili montagne, le sue sconfinate pianure disseminate di ossa disperse degli antenati, ha dato i natali al Mistero. La sua gente, spaventata dalle passioni tempestose della Natura o cullata dalle sue paci che somigliano alla morte, avverte il suo mistero. I suoi Lama “Rossi” e “Gialli” preservano e rendono poetico il suo mistero. I Pontefici di Lhasa e di Urga [4] lo conoscono e lo posseggono.

Conobbi il “Mistero dei Misteri” per la prima volta viaggiando per l’Asia centrale, e non saprei dargli altro nome. In un primo momento non gli concessi molta attenzione e non gli diedi l’importanza che successivamente realizzai meritasse, me ne resi conto soltanto dopo che ebbi analizzati e confrontati fra loro molti indizi sporadici, vaghi e non di rado contradditori.

Gli anziani sulla riva del fiume Amyl mi raccontarono un’antica leggenda secondo la quale una certa tribù mongola nella propria fuga dalle pretese di Gengis Khan si era nascosta in un paese sotterraneo. In seguito un Soyot [5] che veniva dai pressi del lago di Nogan Kul mi mostrò la porta fumante che funge da ingresso al “Regno di Agharti”. Attraverso questa porta un cacciatore in passato era entrato nel Regno e, dopo il suo ritorno, cominciò a raccontare quello che vi aveva visto. I Lama gli tagliarono la lingua per impedirgli di raccontare il Mistero dei Misteri. Raggiunta la vecchiaia, tornò all’ingresso di questa grotta e scomparve nel regno sotterraneo, il cui ricordo aveva ornato e illuminato il suo cuore nomade.

Ricevetti informazioni più realistiche riguardo a ciò dal Hutuktu [6] Jelyb Djamsrap a Narabanchi Kure. Egli mi raccontò la storia dell’arrivo semi-realistico del potente Re del Mondo dal regno sotterraneo, del suo aspetto, dei suoi miracoli e delle sue profezie; e solo allora cominciai a comprendere che in quella leggenda, ipnosi o visione di massa, qualunque cosa essa fosse, si cela non solo del mistero ma una realistica e potente forza capace d’influenzare il corso della vita politica dell’Asia. Da quel momento ho cominciato a svolgere alcune indagini.

Il Gelong Lama [7] favorito del principe Chultun Beyli e il principe stesso mi diedero un resoconto del regno sotterraneo.

«Ogni cosa nel mondo», disse il Gelong, «si trova costantemente in uno stato di cambiamento e di transizione: popoli, scienza, religioni, leggi e costumi. Quanti grandi imperi e splendide culture sono periti! Ciò che rimane invariato è soltanto il Male, lo strumento degli Spiriti Maligni. Più di 60 mila anni fa, un Santo scomparve con tutta una tribù di persone nel sottosuolo e non è mai riapparso nuovamente sulla superficie della terra. Molte persone, tuttavia, da allora hanno visitato questo regno, Sakkia Mouni, Undur Gheghen, Paspa, Khan Baber e altri. Nessuno sa dove si trovi questo luogo. Qualcuno dice in Afghanistan, altri in India. Tutte le persone laggiù sono protette contro il Male e i crimini non allignano entro i suoi confini. La scienza in quel luogo è stata sviluppata con tranquillità e nulla è minacciato dalla distruzione. Il popolo sotterraneo ha raggiunto le vette della conoscenza. Oggi è un grande regno, con milioni di persone con il re del Mondo come loro sovrano. Egli conosce tutte le forze del mondo e legge tutte le anime del genere umano e il grande libro del loro destino. Invisibilmente egli governa ottocento milioni di uomini sulla superficie della terra ed essi compiranno ogni suo ordine».

Il Principe Chultun Beyli aggiunse: «Questo regno è Agharti. Si sviluppa attraverso una rete planetaria di gallerie sotterranee. Ho udito un Lama della Cina istruito in materia riferire a Bogdo Khan che tutte le caverne sotterranee dell’America sono abitate da antiche persone scomparse nel sottosuolo. Tracce di loro si trovano ancora sulla superficie della terra. Queste genti e regioni sotterranee sono governate da sovrani obbedienti al Re del Mondo. In tutto ciò non vi è nulla di stupefacente. Voi sapete che nei due più grandi oceani dell’Est e dell’Ovest vi erano in precedenza due continenti [8]. Scomparvero sotto le acque ma le loro genti si trasferirono nel regno sotterraneo. Nelle grotte del sottosuolo esiste una luce particolare che permette la crescita di cereali e verdure e una lunga vita senza malattia per le persone. Vi sono molti popoli diversi e molte differenti tribù. Un vecchio Brahman buddhista in Nepal stava eseguendo la volontà degli Dei nel far visita all’antico reame di Gengis Khan – il Siam [9]– dove incontrò un pescatore che gli ordinò di prendere posto nella sua barca e di far vela con lui sul mare. Il terzo giorno raggiunsero un’isola dove incontrarono un popolo con due lingue che poteva parlare separatamente in differenti idiomi. Essi gli mostrarono animali sconosciuti e peculiari, tartarughe con sedici zampe e un occhio, enormi serpenti con una carne molto gustosa e uccelli muniti di denti che catturavano pesce per i loro padroni nel mare. Questa gente gli disse che proveniva dal regno sotterraneo e gli descrisse certe parti del mondo nel sottosuolo».

Lama Turgut viaggiando con me da Urga a Pechino mi fornì ulteriori dettagli.

«La capitale di Agharti è circondata da città di sommi sacerdoti e scienziati. Ricorda Lhasa, dove il palazzo del Dalai Lama, il Potala, è la cima di una montagna ricoperta di monasteri e templi. Il trono del Re del Mondo è circondato da milioni di Dei incarnati: sono i sacri Pandita [10]. Il palazzo stesso è attorniato dai palazzi del Goro [11], che possiede tutte le forze visibili e invisibili della terra, dell’inferno e del cielo e che può compiere ogni cosa per la vita e la morte dell’uomo. Se la nostra folle umanità dovesse intraprendere una guerra contro di loro, essi sarebbero in grado di far esplodere tutta la superficie del nostro pianeta e di trasformarla in deserto. Essi possono prosciugare i mari, trasformare le terre in oceani e ridurre le montagne nella sabbia dei deserti. Per ordine loro alberi, erbe e cespugli possono essere fatti crescere; uomini vecchi e deboli possono divenire giovani e coraggiosi; e il morto può essere resuscitato. In strane macchine a noi sconosciute essi corrono attraverso le strette fenditure all’interno del nostro pianeta. Alcuni Brahmani indiani e Dalai Lama tibetani, durante le loro faticose scalate alle cime di montagne che nessun altro piede umano aveva mai calcato, trovarono lì iscrizioni incise sulle rocce, impronte nella neve e tracce di ruote. Il beato Sakkia Mouni rinvenne sulla cima di una montagna delle tavole di pietra con iscritte parole che comprese solo nella propria vecchiaia e in seguito penetrò nel Regno di Agharti, da cui riportò briciole del sacro insegnamento conservato nella sua memoria. Là in palazzi di cristallo meraviglioso vivono gli invisibili governanti di tutte le persone pie, il Re del Mondo o Brahytma, che può parlare con Dio come io parlo con voi, e i suoi due assistenti, Mahytma, che conosce le finalità degli eventi futuri, e Mahynga, che governa le cause di questi eventi».

«I santi Pandita studiano il mondo e tutte le sue forze. A volte i più sapienti fra loro si riuniscono e mandano inviati in quel luogo dove gli occhi umani non sono mai penetrati. Questo è descritto dal Tashi Lama vissuto 850 anni fa. I più elevati Pandita pongono le loro mani sugli occhi e alla base del cervello dei più giovani e li costringono in un sonno profondo, lavano i loro corpi con un infuso di erbe e li rendono immuni al dolore e più duri delle pietre, li avvolgono in panni magici, li legano e poi pregano il Grande Dio. I giovani pietrificati giacciono con gli occhi e le orecchie aperte e vigili, vedono, sentono e ricordano ogni cosa. In seguito un Goro si avvicina e mantiene a lungo lo sguardo fisso su di loro. Molto lentamente i corpi stessi si sollevano da terra e scompaiono. Il Goro si siede e scruta con gli occhi immobili verso il luogo dove li ha inviati. Fili invisibili li uniscono alla sua volontà. Alcuni di essi girano tra le stelle, osservano le loro manifestazioni, i loro popoli sconosciuti, la loro vita e le loro leggi; ascoltano i loro discorsi, leggono i loro libri, capiscono le loro fortune e sventure, la loro santità e i peccati, la loro pietà e il male. Alcuni si mescolano con la fiamma e vedono la creatura di fuoco, rapida e feroce, eternamente in lotta, fondendo e martellando i metalli nelle profondità dei pianeti, bollendo l’acqua per i geyser e le sorgenti, fondendo le rocce ed eruttando lava fusa sulla superficie della terra attraverso le aperture nelle montagne. Altri corrono insieme alle sempre sfuggenti, infinitamente piccole, trasparenti creature dell’aria e penetrano nei misteri della loro esistenza e nelle finalità della loro vita. Altri scivolano nelle profondità dei mari e osservano il regno delle sagge creature dell’acqua, che trasportano e diffondono il giusto calore su tutta la terra, governando i venti, le onde e le tempeste … In Erdeni Dzu viveva un tempo un Pandita Hutuktu, che era venuto da Agharti. In punto di morte, raccontò del momento in cui viveva secondo la volontà del Goro su una stella rossa a Oriente, fluttuava nell’oceano ricoperto di ghiaccio e volava tra i fuochi tempestosi nelle profondità della terra».

Questi sono i racconti che udii nelle yurte [12] dei principi mongoli e nei monasteri lamaiti. Queste storie erano tutte raccontate in un tono solenne che vietava ogni discussione e dubbio.

Mistero …

Capitolo XLVII
Il Re del Mondo al cospetto di Dio

Durante il mio soggiorno a Urga cercai di trovare una spiegazione a questa leggenda sul Re del Mondo. Naturalmente, il Buddha Vivente avrebbe potuto dirmi più di chiunque altro e così mi sforzai di conoscere la storia da lui. In una conversazione con lui menzionai il nome del Re del Mondo. Il vecchio Pontefice bruscamente voltò la testa verso di me fissandomi con i suoi immobili occhi ciechi. A malincuore dovetti tacermi. Il nostro silenzio fu lungo e dopo il Pontefice continuò la conversazione facendomi capire che non gradiva accogliere il suggerimento del mio riferimento. Sui volti dei presenti notai espressioni di stupore e paura provocate dalle mie parole, e questo valeva specialmente per il custode della biblioteca del Bogdo Khan. Si può facilmente capire come tutto questo mi avesse solo reso più ansioso di approfondire la ricerca.

Mentre stavo lasciando lo studio del Bogdo Hutuktu, incontrai il bibliotecario che si era avviato avanti a me e gli chiesi se mi poteva mostrare la biblioteca del Buddha Vivente, utilizzando con lui un semplicissimo ma scaltro stratagemma.

«Sapete, mio caro Lama», dissi «una volta ho cavalcato nella pianura nell’ora in cui il Re del Mondo parlava con Dio ed ho avvertito la solenne maestosità di quel momento».

Con mio grande stupore, il vecchio Lama mi rispose senza turbarsi: «Non è giusto che i Buddhisti e la nostra Fede Gialla lo tengano nascosto. Il riconoscimento dell’esistenza dell’uomo più santo e più potente, del regno benedetto, del grande tempio della scienza sacra è una tale consolazione per i nostri cuori peccaminosi e le nostre esistenze corrotte che nasconderlo al genere umano è un vero peccato … Beh, ascoltate», proseguì, «per l’intero corso dell’anno il Re del Mondo guida il lavoro dei Pandita e dei Goro di Agharti. Solo a volte egli si reca alla cripta del tempio dove il corpo del suo predecessore giace imbalsamato in un sarcofago di pietra nera. Questa grotta è sempre buia, ma quando il Re del Mondo vi entra le pareti si rigano col fuoco e dal coperchio della bara appaiono lingue di fiamma. Il Goro più anziano gli sta di fronte col capo e il viso coperti e con le mani incrociate sul petto. Questo Goro non si leva mai il cappuccio, ché la sua testa è un cranio nudo con gli occhi vividi e una lingua che parla. Egli è in comunione con le anime di tutti coloro che ci hanno preceduto».

«Il Re del Mondo prega per un lungo periodo di tempo e successivamente si avvicina al sarcofago e stende la mano. Le fiamme guizzano più ardenti; le strisce di fuoco sulle pareti svaniscono e riappaiono, e intrecciandosi formano misteriosi segni dell’alfabeto vatannan [13]. Dalla bara fasci diafani di luce appena percettibile cominciano a emanare: sono i pensieri del suo predecessore. Repentinamente il Re del Mondo si ritrova avvolto in un’aura di questa luce e lettere di fuoco scrivono e scrivono sui muri i desideri e gli ordini di Dio. In questo momento il Re del Mondo è in comunione con i pensieri di tutti gli uomini che influenzano la sorte e la vita di tutta l’umanità: con Re, Zar, Khan, capi guerrieri, Sommi Sacerdoti, scienziati e altri uomini forti. Si rende conto di tutti i loro pensieri e progetti. Se questi sono graditi a Dio, il Re del Mondo li asseconderà in modo invisibile, se sono sgraditi al cospetto di Dio, il Re li porterà verso il fallimento. Questo potere è conferito ad Agharti dalla misteriosa scienza dell’“Om”, con cui iniziamo tutte le nostre preghiere. “Om” è il nome di un antico Sant’uomo, il primo Goro, che visse 330 mila anni fa. Egli fu il primo uomo a conoscere Dio e che insegnò agli uomini a credere, sperare e lottare contro il Male. Allora Dio gli diede potere su tutte le forze che governano il mondo visibile».

«Dopo la sua conversazione con il proprio predecessore, il Re del Mondo riunisce il “Gran Consiglio di Dio”, giudica le azioni e i pensieri dei grandi uomini, li asseconda o li distrugge. Mahytma e Mahynga trovano il posto per queste azioni e pensieri nella catena causale che governa il mondo. Successivamente il Re del Mondo accede al grande tempio e prega in solitudine. Il fuoco appare sull’altare, e gradualmente si diffonde a tutti gli altari vicini, e attraverso la fiamma che brucia appare gradualmente il volto di Dio. Il Re del Mondo con reverenza annuncia a Dio le decisioni e le determinazioni del “Consiglio di Dio” e riceve a sua volta agli ordini Divini dell’Onnipotente. Quando esce dal tempio, il Re del Mondo irradia la Luce Divina».

Capitolo XLVIII
Realtà o fantasia religiosa?

«Ma qualcuno ha visto il Re del Mondo?» chiesi.

«Oh, sì!» rispose il Lama. «Durante le feste solenni dell’antico Buddhismo in Siam e in India il Re del Mondo apparve cinque volte. Montava uno splendido carro trainato da elefanti bianchi e ornati di’oro, pietre preziose e tessuti pregiati; era vestito di un manto bianco e una tiara rossa con pendagli di diamanti che gli celavano il volto. Egli benedisse il popolo con una mela d’oro sormontata dalla figura di un Agnello. Il cieco riacquistava la vista, il muto parlava, il sordo udiva, lo storpio si muoveva liberamente e il morto risorgeva, laddove gli occhi del Re del Mondo si posavano. È apparso anche 540 anni fa, nel Erdeni Dzu, è stato in un antico monastero di Sakkai e a Narabanchi Kure.

Uno dei nostri Buddha Viventi e uno dei Tashi Lama ricevette un suo messaggio, scritto con segni sconosciuti su tavolette d’oro. Nessuno poteva leggere questi caratteri. Il Tashi Lama entrò nel tempio, pose la tavoletta d’oro sulla sua testa e cominciò a pregare. Grazie a ciò i pensieri del Re del Mondo penetrarono la sua mente e, senza aver letto gli enigmatici segni, egli comprese e realizzò il messaggio del Re».

«Quante persone sono state ad Agharti?» lo interrogai.

«Moltissime», rispose il Lama, «ma tutte queste persone hanno mantenuto segreto ciò che videro laggiù. Quando gli Oleti [14] distrussero Lhasa, uno dei loro distaccamenti nelle montagne del Sud-Ovest penetrò fino alle propaggini di Agharti. Qui appresero alcune fra le scienze misteriose minori e le portarono sulla superficie della nostra terra. Ecco perché gli Oleti e i Calmucchi sono stregoni abili e profeti. Anche dai paesi orientali alcune tribù di gente nera penetrarono ad Agharti e lì vissero molti secoli. Successivamente essi furono scacciati dal regno e restituiti alla terra, portando con sé il mistero delle predizioni attraverso le carte, le erbe e le linee del palmo della mano. Sono i Gitani [15] … Da qualche parte nel Nord dell’Asia esiste una tribù che ora si sta estinguendo e che è venuta dalle grotte di Agharti, abile nel richiamare gli spiriti dei morti che fluttuano nell’aria».

Il Lama rimase in silenzio e poi, come se stesse rispondendo ai miei pensieri, continuò:

«Ad Agharti i dotti Pandita scrivono su tavole di pietra tutta la scienza del nostro pianeta e degli altri mondi. I sapienti Buddhisti cinesi lo sanno bene. La loro scienza è la più alta e pura. Ogni secolo un centinaio di saggi della Cina si riuniscono in un luogo segreto sulle rive del mare, dalle cui profondità emergono un centinaio di tartarughe immortali. Sui loro gusci i cinesi scrivono tutti gli sviluppi della scienza divina prodottisi durante il secolo».

Mentre scrivo sto involontariamente rimembrando il racconto di un vecchio bonzo cinese nel Tempio del Cielo a Pechino. Mi disse che le tartarughe vivono più di 3000 anni senza cibo né aria e che questo è il motivo per cui tutte le colonne del Tempio del Cielo azzurro furono poste su tartarughe vive per preservare il legno dal degrado.

«Più volte i Pontefici di Lhasa e Urga hanno inviato emissari al Re del Mondo», disse il Lama bibliotecario, «ma non lo trovarono. Solo un certo leader tibetano dopo una battaglia con gli Oleti trovò la grotta con l’iscrizione: “Questo è l’ingresso per Agharti”. Dalla grotta uscì un uomo di bell’aspetto, gli donò una tavoletta d’oro con i segni misteriosi e disse:

“Il Re del Mondo apparirà di fronte a tutti i popoli quando il tempo sarà giunto per lui di condurre tutte le buone persone del mondo contro tutte le malvagie; ma non è ancora venuto questo tempo. Il più malvagio tra gli uomini non è ancora nato”.

Il Chiang Chün barone Ungern inviò il giovane principe Pounzig in cerca del Re del Mondo, ma questi tornò con una lettera del Dalai Lama da Lhasa. Quando il barone lo mandò una seconda volta, egli non ritornò più indietro».

Capitolo XLIX
La profezia del Re del Mondo nel 1890

L’Hutuktu di Narabanchi mi riferì quanto segue, quando lo visitai nel suo monastero agli inizi del 1921:

«Quando il Re del Mondo apparve davanti ai Lama, favoriti di Dio, in questo monastero trent’anni fa fece una profezia per il seguente mezzo secolo. Essa era la seguente:

“Sempre più la gente si dimenticherà la propria anima e si curerà del proprio corpo. Il più grande peccato e la corruzione regneranno sulla terra. Gli uomini diventeranno come belve feroci, assetati del sangue e della morte dei loro fratelli. La ‘Mezzaluna’ si offuscherà e i suoi seguaci sprofonderanno nella miseria e nella guerra incessante. I suoi conquistatori saranno colpiti dal Sole, ma non si eleveranno e due volte saranno visitati dalla sventura più grave, che culminerà nell’insulto dinnanzi agli occhi degli altri popoli. Le corone dei re, grandi e piccoli, cadranno … uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto … Ci sarà una battaglia terribile fra tutti i popoli. I mari diverranno rossi … la terra e il fondo dei mari saranno disseminati di ossa … regni saranno dispersi … interi popoli moriranno … fame, malattie, crimini sconosciuti alla stessa legge, mai visti prima nel mondo. I nemici di Dio e dello Spirito Divino nell’uomo verranno. Anche coloro i quali tenderanno la mano al prossimo periranno. I dimenticati e i perseguitati insorgeranno e cattureranno l’attenzione del mondo intero. Ci saranno nebbie e tempeste. Montagne spoglie saranno improvvisamente ricoperte da foreste. Si scateneranno terremoti … Milioni di uomini cambieranno le catene della schiavitù e dell’umiliazione con la fame, la malattia e la morte. Le antiche strade saranno coperte con folle erranti da un luogo all’altro. Le città più grandi e più belle periranno nel fuoco … una, due, tre … Il padre insorgerà contro il figlio, il fratello contro il fratello e la madre contro la figlia … Il vizio, il crimine e la distruzione del corpo e dell’anima seguiranno … Le famiglie saranno disperse … Scompariranno la verità e l’amore … Di diecimila uomini uno solo sopravvivrà; egli sarà nudo e folle, senza la forza e la conoscenza per costruirsi una casa e trovare il proprio cibo … Egli ululerà come il lupo rabbioso, divorerà i cadaveri, morderà la sua propria carne e sfiderà Dio a combattere … Tutta la terra sarà svuotata. Dio stesso le volterà le spalle e su di essa non vi sarà che la notte e la morte. Allora io manderò un popolo, ancora sconosciuto, che estirperà la gramigna della pazzia e del vizio con mano forte e condurrà coloro che ancora rimangono fedeli allo spirito dell’uomo nella lotta contro il Male. Essi ritroveranno una nuova vita sulla terra purificata dalla morte delle nazioni. Nel cinquantesimo anno appariranno solo tre grandi regni, che esisteranno felicemente per 71 anni. In seguito ci saranno diciotto anni di guerra e distruzione. Allora i popoli di Agharti saliranno dalle loro caverne sotterranee alla superficie della terra”».

In seguito, mentre viaggiavo oltre attraverso la Mongolia orientale e verso Pechino, ho pensato spesso:

«E se … ? Che cosa succederebbe se interi popoli di diversi colori, fedi e tribù dovessero iniziare la loro migrazione verso l’Occidente?».

E adesso, mentre vergo queste ultime righe, i miei occhi involontariamente si rivolgono a questo sconfinato Cuore dell’Asia su cui i sentieri del mio peregrinare s’intrecciano. Fra tormente di neve e vortici di sabbia del Gobi la memoria mi riporta al cospetto del Hutuktu di Narabanchi che, con voce pacata mentre indicava l’orizzonte con la sua esile mano, mi dischiuse le porte dei suoi più intimi pensieri:

«Presso Karakorum e sulle rive del Ubsa Nor vedo gli immensi accampamenti multicolori, le mandrie di cavalli e bovini e le yurte azzurre dei capi. Sopra di loro vedo le antiche bandiere di Gengis Khan, dei re del Tibet, del Siam, dell’Afghanistan e dei Principi indiani; i sacri emblemi di tutti i Pontefici lamaiti; gli stemmi dei Khan degli Oleti e i semplici stendardi delle tribù mongole del Nord. Non odo il rumore della folla animata. I cantori non intonano le lamentevoli canzoni della montagna, della pianura e del deserto. I giovani cavalieri non si dilettano con le corse sui loro rapidi destrieri … Vi sono innumerevoli schiere di vecchi, donne e bambini e più oltre, a Nord e a Ovest, fin dove l’occhio si può spingere, il cielo è rosso come una fiamma, c’è il rombo e il crepitio del fuoco e il suono feroce della battaglia. Chi sta conducendo questi guerrieri che là sotto il cielo arrossato spargono il loro proprio sangue e quello degli altri? Chi sta guidando queste turbe di vecchi inermi e di donne? Vedo ordine severo, comprensione religiosa profonda di scopi, pazienza e tenacia … una nuova grande migrazione di popoli, l’ultima marcia dei Mongoli …».

Il Karma [16] potrebbe aver aperto una nuova pagina di Storia!

E se il Re del Mondo fosse con loro?

Ma questo grande Mistero dei Misteri serba il suo profondo silenzio.

* Estratto della Parte V del libro di Ferdinand Ossendowski, Beasts, Men and Gods, E.P. Dutton & Company, New York, 1922

1. «Salve! Grande Lama nel Fiore di Loto!». René Guénon ricordava che a Ossendowski era stato rimproverato dai suoi critici di scrivere Om invece di Aum, «ma, se Aum è la rappresentazione del monosillabo sacro scomposto nei suoi elementi costitutivi, è pur sempre Om la trascrizione corretta che corrisponde alla pronuncia reale in uso sia in India sia in Tibet e in Mongolia» (R. Guénon, Le Roi du Monde, Paris, Librairie Charles Bosse, 1927; trad. it. Il Re del Mondo, Milano, Adelphi Edizioni, 1977, p. 14, nota 5) [N.d.T.].

2. Pernice grigia della prateria [N.d.T.].

3. René Guénon faceva notare in proposito come l’accostamento di un simile evento con il timor panicus degli antichi, suggeritogli da Arturo Reghini, fosse da considerarsi un’ipotesi “estremamente verosimile” (R. Guénon, Il Re del Mondo, cit., p. 13, nota 4) [N.d.T.].

4. Capitale della Mongolia [N.d.T.].

5. Gruppo etnico originario della Siberia occidentale [N.d.T.].

6. Il grado più elevato nella gerarchia monastica lamaista [N.d.T.].

7. Sacerdote autorizzato a compiere i sacrifici [N.d.T.].

8. Atlantide e Mu [N.d.T.].

9. Nome che aveva, fino al 24 Giugno 1939, l’attuale Thailandia [N.d.T.].

10. Monaci buddhisti di alto rango. Titolo conferito a coloro i quali sono stati istruiti nelle cinque scienze tradizionali: la scienza del linguaggio (śabdavidyā), la scienza della logica (hetuvidyā), la scienza della medicina (cikitsāvidyā), la scienza delle belle arti e mestieri (śilakarmasthānavidyā) e la scienza della spiritualità (adhyātmavidyā) [N.d.T.].

11. Sommo sacerdote del Re del Mondo [N.d.T.].

12. Tende mongole fatte di feltro [N.d.T.].

13. La lingua sacra parlata nel Regno sotterraneo, da cui deriverebbe la primitiva lingua indo-europea [N.d.T.].

14. Oleti o Oirati era il nome con cui era conosciuta originariamente la tribù mongola dei Calmucchi, prima che migrasse all’epoca di Gengis Khan per stabilirsi sui monti Urali e sulle rive del Volga in Russia. Il loro etnonimo, ojrad, sarebbe derivato dal mongolo Dôrvôn Ojrd, “I quattro alleati”, in quanto storicamente gli Oirati erano composti da quattro tribù maggiori. I Calmucchi sono gli unici abitanti dell’Europa la cui religione nazionale è il Buddhismo. Essi abbracciarono il Buddhismo Vajrayana nella prima parte del XVII secolo, e seguono tuttora gli insegnamenti del lignaggio Gelugpa (Via Virtuosa). Il Buddhismo Vajrayana divenne noto in ambienti anglosassoni nel XIX secolo con il termine dispregiativo di Lamaismo, dal termine tibetano lama, traduzione del sanscrito guru [N.d.T.].

15. Zingari, Zingani, Zigani o Gitani sono termini generici per indicare un insieme di diverse etnie, originariamente ritenute nomadi, provenienti dalle regioni situate nel Nord-Ovest dell’India. René Guénon precisava che «quando si parla di Zingari, è indispensabile fare una distinzione, che troppo spesso si dimentica: in realtà, vi sono due tipi di Zingari, i quali sembrano del tutto estranei fra di loro e che si trattano perfino da nemici; essi non hanno gli stessi caratteri etnici, né parlano la stessa lingua, né esercitano gli stessi mestieri. Vi sono gli Zingari orientali, o Zingari, che sono soprattutto domatori di orsi e calderai; e vi sono gli Zingari meridionali, o Gitani, chiamati anche, in Linguadoca e in Provenza, “Carachi”, che sono quasi esclusivamente mercanti di cavalli» (R. Guénon, Le Compagnonnage et les Bohémiens, in Le Voile d’Isis, Ottobre 1928, in Études sur la Franc-Maçonnerie et le Compagnonnage, Paris, Éditions Traditionelles, 1964, 2 voll.. Guénon continuava ponendo in evidenza i numerosi tratti di comunanza fra i Gitani e i Pellerossa d’America e considerava come degna di nota l’ipotesi di una comune origine atlantidea [N.d.T.].

16. Secondo l’accezione comunemente diffusa in Occidente, che qui sembra essere accolta dall’Autore, con tale termine si suole intendere una sorta di personificazione dell’idea di destino, assimilabile alla nozione greco-romana di Nemesi (Giustizia). È bene rammentare, d’altra parte, come in realtà «la parola karma ha un duplice significato: in generale è l’azione in tutte le sue forme, spesso opposta a jnâna, o la conoscenza, ciò che corrisponde nuovamente alla distinzione dei due ultimi darshana; in senso specifico e tecnico è l’azione rituale quale è prescritta nel Vêda» (R. Guénon, Introduction générale à l’étude des Doctrines Hindoues, Paris, Marcel Rivière, 1921, chap. XIII “Le Mîmânsâ”, trad. it. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Milano, Adelphi Edizioni, 1989, cap. 13 “La Mîmânsâ”, p. 192) [N.d.T.].


Ferdinand Ossendowski

sabato 4 marzo 2017

Teseo, Arianna e il labirinto

pubblicato su Lex Aurea 41

di Vito Foschi

Il mito di Teseo si presta ad interessanti considerazioni, e già in un nostro lavoro (“E conficcò la spada nella roccia…”, Graal n. 19 gennaio/febbraio 2006) avevamo mostrato la possibilità che fosse stato fonte di ispirazione per i racconti cavallereschi di re Artù, mentre in questo lavoro esamineremo l’episodio dell’uccisione del Minotauro.
Nel mito si racconta che la città di Atene fosse tributaria di Creta e costretta a consegnare ogni nove anni sette fanciulli e sette fanciulle che servivano come pasto per il Minotauro, mostro metà toro e metà uomo racchiuso al centro di un labirinto e di come Teseo interrompa la macabra usanza uccidendo il mostro.
Il Minotauro è frutto dell’amplesso di Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, con il toro sacro a Poseidone; il dio, per punire Minosse per non aver sacrificato l’animale, fece invaghire la donna dell’animale. La forma metà umana e metà animale del Minotauro e il suo concepimento bestiale, in cui la cecità la fa da padrone e in cui il soddisfacimento dei più bassi istinti prevale denuncia il suo rappresentare il dominio degli istinti. Pasifae rappresenta il completo essere fuori di sé, è in qualche modo posseduta da un demone, non viva ma vissuta, con l’io altrove, completamente soffocato. Il Minotauro dominato dagli istinti incapace di vedere in sé il proprio lato umano è il mostro che deve essere sconfitto da Teseo.

Il Minotauro è racchiuso in un labirinto e non ne viene fuori. Cosa impedisce al mostro di trovare l’uscita? La semplice difficoltà? No, il Minotauro è dominato dagli istinti, dalla sua natura animale e il labirinto rappresenta il suo stato spirituale: perso nelle tenebre e nell’ignoranza. Nella mente del mostro regna la confusione, la diritta via è smarrita. Il labirinto rappresenta anche le viscere e quindi le zone infere, i piani inferiori dell’essere da conquistare e superare. Teseo affronta il Minotauro nel labirinto per dominare gli istinti e superare la sua condizione animale. Il filo di Arianna è la diritta via. Il filo è di colore rosso a simboleggiare la regalità di Teseo.
La donna, guida di Teseo, a prima vista sembra un volto della Sapienza, che guida il Sé nel labirinto affinché non smarrisca la strada. È una prova iniziatica e il cavaliere rettamente guidato controlla gli stati inferiori dell’essere e li supera.
Dopo l’uccisione del mostro Teseo prende Arianna con sé per poi abbandonarla su un’isola. Ne esistono varie versioni, in una è Dioniso ad ordinare l’azione, mentre in altre l’iniziativa è di Teseo: un comportamento apparentemente inspiegabile. Arianna gli ha salvato la vita e non ci sono giustificazioni di sorta, però dal punto di vista iniziatico ogni cosa deve essere ricondotta all’unità, gli istinti devono essere domati, ma non si può essere dominati dalla pura razionalità.
Il Minotauro è fratellastro di Arianna a testimonianza della doppia natura dell’uomo che deve essere superata. Come il Beauceant, il vessillo dei templari a scacchi bianchi e neri a testimoniare il bene e il male che convivono in ogni uomo. Questa divisione deve essere superata e deve essere ricondotta ad unità superiore e questo spiega quella parte di mito incomprensibile. I due opposti ad un livello superiore sono complementari e sono ricondotti ad unità. Arianna non a caso è sorellastra del Minotauro, Razionalità e Istinto, termini che devono ambedue essere soppressi per giungere ad uno stato superiore dell’essere dove gli opposti sono ricondotti a unità. Se Teseo non avesse abbandonato Arianna dopo la sconfitta del Minotauro non avrebbe superata la prova perché non avrebbe ricondotto ad unità gli opposti. Solo lasciandosi alle spalle gli istinti e la razionalità può giungere ad un grado spirituale superiore in cui sarà l’intelligenza metafisica a guidarlo, né l’istinto, né la razionalità. Una bella immagine che rende conto dell’unione degli opposti è quella dei racconti arturiani in cui i due draghi bianco e rosso si fronteggiano e si ammazzano a vicenda.
Arianna è aiutata da Dedalo, lo scienziato di corte, uomo razionale, rafforzando l’idea della figlia di Minosse come simbolo di raziocinio. Dedalo è anche colui che costruisce la vacca di legno dove la moglie di Minosse si nasconde per essere posseduta dal bianco toro dono di Poseidone, così generando il Minotauro. In questo episodio raziocinio e istinto sono uniti, ma senza superare la dualità. La razionalità coadiuva la soddisfazione dei bassi istinti: i due aspetti rimangono separati senza completarsi e superarsi. Dedalo è anche l’uomo che costruisce le ali di cera e che precipita. Qui è la pretesa titanica di arrivare a Dio con la razionalità senza usare lo spirito. È l’intelligenza metafisica che guida l’uomo e permette di superare i limiti umani, senza questa è un impresa faustiana, è un discendere agli inferi e sfida a Dio. Pensare che la sola ragione possa permettere di comprendere gli aspetti metafisici è orgoglio e l’anima si perde precipitando negli abissi.

Il termine del racconto è piuttosto tragico quasi a vanificare l’eroismo iniziale di Teseo e anche nel finale, come per Arianna, l’eroe non sembra più tale. Teseo e il padre Egeo avevano concordato un segnale, le vela bianca per la vittoria quella nera per la morte, tema poi ripreso nei racconti di Tristano e Isotta.

Nel viaggio di ritorno la nave dell’eroe affronta una tempesta e un fulmine straccia la vela bianca, e per continuare la navigazione fa issare quella nera. Teseo, dimentico dell’accordo con il padre, in prossimità di Atene non fa cambiare la vela nera e il padre che scrutava l’orizzonte da una rupe vedendo la nave con la vela nera, non resistendo al dolore, si butta giù dalla rupe nel mare che da quel momento si chiamerà Egeo. In alcuni racconti la vela è volutamente lasciata nera per adempiere la profezia della morte del padre. Teseo non fa una bella figura come eroe, prima abbandona Arianna che lo ha salvato poi procura la morte del padre a causa, nella migliore dell’ipotesi, di una distrazione; però se analizziamo il racconto in maniera simbolica i conti tornano. Dopo aver superato la prova ed abbandonato Arianna, quindi superando la dualità istinto/ragione, Teseo è un uomo nuovo e deve rinascere. La morte del padre simboleggia la morte del vecchio individuo e non bisogna scomodare la psicologia con tesi quali il parricidio o il complesso di Edipo. Più semplicemente è l’individuo nuovo che nasce e quello vecchio deve morire. Teseo prende il posto del padre e diventa re di Atene, l’iniziazione è conclusa.

mercoledì 1 marzo 2017

MISSIONE DELL’INDIA

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: https://letteraespirito.wordpress.com/alveydre-missione-dellindia/

Nota della redazione

René Guénon nel primo capitolo della sua opera Il Re del Mondo (Adelphi Edizioni, Milano, 1977) fa riferimento a due libri rispettivamente di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (Mission de l’Inde en Europe. Mission de l’Europe en Asie, Librairie Dorbon Ainé, Paris, 1910) e di Ferdinand Ossendowski (Beasts, Men and Gods, E.P. Dutton & Company, New York, 1922) nei quali si parla del misterioso regno sotterraneo di Agarttha. Per motivi fondamentalmente di carattere storico e documentale riteniamo possa essere interessante la pubblicazione di due estratti di queste opere. I testi, che trattano il tema con la mentalità propria dell’epoca (a cavallo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX), insieme a elementi obiettivi di indubbio interesse non mancano di ingenuità in alcune descrizioni, riflesso delle correnti di pensiero occultiste molto presenti nelle pubblicazioni dell’epoca.


Alexandre Saint-Yves d’Alveydre

Capitolo I

Dov’è l’Agarttha?

Dov’è l’Agarttha? In quale luogo preciso si trova? Per quale strada, attraverso quali popoli occorre procedere per penetrarvi?

A questa domanda, che non mancheranno di porsi i diplomatici e i militari, non conviene che io risponda più di quanto sto per fare, fintantoché non sia realizzata, o perlomeno tracciata, l’intesa sinarchica [1].

Ma, giacché so che nelle loro reciproche competizioni per l’Asia tutta, certe potenze rasentano, senza accorgersene, questo territorio sacro, come del resto so che, nel momento di un possibile conflitto, le loro truppe dovrebbero necessariamente o passarvi, o costeggiarlo, è per un senso di umanità nei confronti di questi popoli europei come per la stessa Agarttha, che non mi faccio scrupolo di proseguire nella divulgazione che ho cominciato.

Sulla superficie e nelle viscere della terra la reale estensione dell’Agarttha sfida la morsa e la costrizione della profanazione e della violenza.

Senza parlare dell’America, i cui sconosciuti sottosuoli le appartennero in una lontanissima antichità, soltanto in Asia, pressappoco mezzo miliardo di uomini sono più o meno al corrente della sua esistenza e della sua grandezza.

Ma non si troverà tra questi un traditore che indichi la posizione esatta in cui si trovano il suo Consiglio di Dio e il suo Consiglio degli Dei, la sua testa pontificale e il suo cuore giuridico.

Se ciò nondimeno avvenisse, e se essa fosse invasa malgrado i suoi numerosi e terribili difensori, ogni esercito di conquista, foss’anche di un milione di uomini, vedrebbe rinnovarsi la risposta tonitruante del tempio di Delfi alle innumerevoli orde dei satrapi [2] persiani.

Chiamando in loro soccorso le Potenze cosmiche della Terra e del Cielo, anche sconfitti, i Templari e i Confederati dell’Agarttha potrebbero alla bisogna far esplodere una parte del Pianeta, e frantumare con un cataclisma sia i profanatori armati sia le loro patrie d’origine.

È per queste cause scientifiche che la parte centrale di questa santa terra non è mai stata profanata malgrado il flusso e il riflusso, lo scontro e il reciproco annientamento degli imperi militari, da Babilonia al regno turanico dell’Alta Tartaria, da Susa a Pella, da Alessandria a Roma.

Prima della spedizione di Ram e del predominio della Razza bianca in Asia, la Metropoli manavica aveva per centro Ayodhya [3], la Città solare.

Le biblioteche dei Cicli anteriori alla nostra era

Gettando uno sguardo sul vero confine tra l’Europa e l’Asia, il nostro Antenato celtico vi fissò, nei siti più splendidi della Terra, il Sacro Collegio alla testa del quale l’iniziazione l’aveva fatto pervenire.

Le biblioteche precedenti rimasero inalterate, grazie alla sua stessa scienza, malgrado tutte le forme intellettuali e sociali che realizzò la sua luminosa iniziativa.

L’Agarttha dopo Ram, i suoi successivi spostamenti; i ventidue templi

Più di tremila anni dopo Ram, e a partire dallo scisma di Irshu, il centro universitario della Sinarchia, dell’Agnello e dell’Ariete subì un primo spostamento, che è meglio non precisare oltre.

Infine, circa quattordici secoli dopo Irshu, poco dopo Sakya Muni [4], un altro cambiamento di sede fu deciso.

Basti ai miei lettori sapere che, in certe regioni dell’Himalaya, tra i ventidue templi rappresentanti i ventidue Arcani di Ermete e le ventidue lettere di certi alfabeti sacri, l’Agarttha forma lo Zero mistico, l’introvabile.

Lo Zero, vale a dire Tutto o Niente, tutto mediante l’Unità armonica, niente senza di essa, tutto mediante la Sinarchia, niente mediante l’Anarchia.

Il territorio sacro dell’Agarttha forma ancora una sinarchia completa

Il territorio sacro dell’Agarttha è indipendente, sinarchicamente organizzato e composto da una popolazione che ammonta a circa venti milioni di anime.

La costituzione della Famiglia, con eguaglianza dei sessi nel focolare domestico, l’organizzazione del comune, del cantone e delle circoscrizioni che vanno dalla Provincia al Governo centrale, conservano ancora in tutta la loro purezza l’impronta del genio celtico di Ram innestato sulla divina saggezza delle istituzioni di Manu [5].

Non entrerò qui nei dettagli che si trovano in sovrabbondanza esposti altrove.

In tutte le Società umane è la statistica dei crimini, la miseria e la prostituzione che danno la prova dei loro vizi organici.

Non si conosce ad Agarttha alcuno dei nostri orrendi sistemi giudiziari o penitenziari: nessuna prigione.

La pena di morte non vi è applicata.

La polizia è costituita dai padri di famiglia.

I delitti sono deferiti agli iniziati, ai pandit di servizio.

Il loro arbitrato di pace, sempre spontaneamente invocato dalle parti stesse, evita nella quasi totalità dei casi un appello alle diverse corti di giustizia, giacche la riparazione volontaria segue immediatamente al danno.

Ho bisogno di dire che tutte le vergogne e tutte le piaghe sociali delle civiltà non sinarchiche, miseria delle masse, prostituzione, alcolismo, individualismo feroce in alto, spirito sovversivo in basso, incurie di ogni genere, sono sconosciute in questa antica Sinarchia?

I rajah indipendenti, preposti alle differenti circoscrizioni del suolo sacro, sono iniziati di alto grado.

Questi re presiedono la Corte suprema di Giustizia, e il loro arbitrato istituito al di sopra delle repubbliche cantonali conserva ancora il carattere di magistero che ho così lungamente analizzato nella Missione degli Ebrei [6].

Confederazione degli anfizioni [7] aghartthiani; pericolo di attaccarli

Intorno al territorio sacro e alla sua popolazione già tanto considerevole, si estende una confederazione sinarchica di popoli, il cui totale ammonta a più di quaranta milioni di anime.

Con questo scudo avrebbero a che fare come prima cosa i conquistatori europei, che invano chiederebbero alla forza ciò che solo un’alleanza leale potrebbe dare loro.

E se pure riuscissero a infrangere questo bastione vivente, si troverebbero faccia a faccia, come ho già detto, con alcune tragiche sorprese ben più colossali di quelle del tempio di Delfi, e con soldati che risorgono senza posa, legati tra loro come quelli delle Termopili, certi come quelli di ritrovarsi dopo la morte per combattere nuovamente i profanatori, nel seno stesso dell’Invisibile.

Le caste sono ignote ad Agarttha. Modalità d’ammissione: l’antico Nazareato

Le caste, quali gli Europei giustamente criticano, sono ignote ad Agarttha.

Il figlio dell’ultimo dei paria indù può essere ammesso alla sacra Università e, secondo i suoi meriti, uscirne o rimanervi in tutti i gradi della gerarchia.

La presentazione si esegue nella seguente maniera:

Al momento della nascita, la madre consacra il suo bambino: è il Nazareato di tutti i Templi del Ciclo dell’Agnello.

In differenti epoche successive, la Provvidenza è direttamente interrogata nei Templi, e allorché l’età d’ammissione è giunta, il ragazzo o la ragazza, avendo per padrino il rajah iniziato della provincia, fanno il loro ingresso nella sacra Università, assolutamente spesati di tutto.

Il resto non dipende che dal loro merito.

Organizzazione centrale dell’Agarttha; gerarchia agartthiana

Ecco ora l’organizzazione centrale dell’Agarttha, procedendo dal basso all’alto o dalla circonferenza al centro.

Milioni di Dwija [8] Dwija [9] due volte nati, di Yogi [10] Yogi, uniti in Dio, formano il grande cerchio o piuttosto l’emiciclo nel quale ci accingiamo a penetrare.

Essi abitano intere città: sono i sobborghi interni dell’Agarttha, simmetricamente suddivisi e ripartiti in costruzioni il più delle volte sotterranee.

Al di sopra di questi e dirigendoci verso il centro, troviamo cinquemila pandit, pandavan [11] Pandavan, sapienti, tra i quali alcuni svolgono il servizio dell’insegnamento propriamente detto, gli altri quello locale come soldati della polizia interna o della polizia delle cento porte.

Il loro numero di cinquemila corrisponde a quello delle radici ermetiche della lingua vedica.

Ogni radice è essa stessa uno ierogramma magico, legato a una Potenza celeste, con la sanzione di una Potenza infernale.

L’Agarttha intera è un’immagine fedele del Verbo eterno attraverso tutta la Creazione.

Dopo i pandit vengono, ripartite in emicicli sempre meno numerosi, le circoscrizioni solari dei trecentosessantacinque Bagwanda, Bagwanda, cardinali.

Il cerchio più elevato e più ravvicinato al centro misterioso si compone di dodici membri.

Questi ultimi rappresentano l’Iniziazione suprema, e corrispondono, tra altre cose, alla Zona zodiacale.

Nella celebrazione dei loro Misteri magici, essi portano i geroglifici dei segni dello Zodiaco, come pure certe lettere ieratiche, che si ritrovano in tutti gli ornamenti dei templi e degli oggetti sacri.

Ognuno di questi bagwanda o guru supremi, gûrû, maestri, porta sette nomi, ierogrammi o mantram, di sette Poteri celesti, terrestri e infernali.

Non rivelerò qui che uno degli oggetti di tale efficacia.

Le biblioteche, che racchiudono il vero corpus di tutte le arti e di tutte le scienze antiche da cinquecentocinquantasei secoli, sono inaccessibili a ogni sguardo profano e a ogni attentato.

Non le si può trovare che nelle viscere della terra.

Per ciò che riguarda il Ciclo di Ram, esse occupano certi sottosuoli dell’antico Impero dell’Ariete e delle sue colonie.

Le biblioteche della Paradesa; esse occupano migliaia di chilometri; loro descrizione

Le biblioteche dei Cicli anteriori si ritrovano fin sotto i mari che hanno inghiottito l’antico continente australe, fin nelle costruzioni sotterranee dell’antica America pre-diluviana.

Ciò che mi appresto a dire qui e più avanti assomiglierà a un racconto delle Mille e una Notte, e tuttavia nulla é più reale.

I veri archivi universitari della Paradesa occupano migliaia di chilometri. Da innumerevoli secoli, ogni anno, soli, alcuni alti iniziati in posssso soltanto del segreto di certe regioni, conoscono lo scopo materiale di certi lavori, e sono obbligati a passare tre anni a incidere sulle tavole di pietra, in caratteri sconosciuti, tutti i fatti riguardanti le quattro gerarchie delle scienze che formano il corpus totale della Conoscenza.

Ognuno di questi sapienti compie la sua opera nella solitudine, lontano da ogni luce visibile, sotto le città, sotto i deserti, sotto le pianure o sotto le montagne.

Che il lettore si figuri una scacchiera colossale che si estende sottoterra attraverso quasi tutte le regioni del Globo.

In ciascuna casella si trovano i fasti degli anni terrestri dell’Umanità, in certe caselle, le enciclopedie secolari e quelle millenarie, in altre infine, quelle degli Yuga minori e maggiori.

Il giorno in cui l’Europa avrà sostituito con la Sinarchia trinitaria l’anarchia del suo Governo generale, tutte queste meraviglie e molte altre ancora saranno spontaneamente accessibili ai rappresentanti della sua prima Camera anfizionica: quella dell’Insegnamento.

Pericolo di ogni curiosità e di ogni violenza

Ma, nel frattempo, guai ai curiosi, agli imprudenti che si mettessero a frugare la terra!

Essi non vi troverebbero nient’altro che una cocente delusione e una morte inevitabile.

Il solo Sovrano Pontefice dell’Agarttha con i suoi principali assessori, di cui parlerò, riunisce per intero nella sua conoscenza totale, nella sua suprema iniziazione, il sacro catalogo di questa biblioteca planetaria.

Egli solamente possiede nella sua interezza la chiave ciclica indispensabile, non solo per aprire ciascuna delle scaffalature, ma anche per sapere esattamente che cosa vi si trovi, per passare dall’una all’altra, e soprattutto per uscirne.

A che servirebbe al profanatore essere riuscito a forzare una delle caselle sotterranee di questo cervello, di questa memoria integrale dell’Umanità.

Con il suo peso spaventoso, la porta di pietra senza serrature, che chiude ciascuna delle caselle, ripiomberebbe su di lui per non aprirsi mai più.

Invano, prima di conoscere il suo terribile destino, si troverebbe davanti agli occhi le pagine minerali, che compongono questo libro cosmico, non ne potrebbe compitare una sola parola, né decifrare il minimo arcano, prima di accorgersi di essere disceso per sempre in una tomba dalla quale le sue grida non possono essere udite da alcun essere visibile.

Ogni cardinale o bagwanda, tra le Potenze che gli danno i suoi sette nomi ieratici, possiede il segreto delle sette regioni celesti, terrestri e infernali, e ha il potere di entrare e uscire attraverso sette circoscrizioni di questo spaventoso memoriale delle Spirito umano.

Necessità per i nostri sacerdoti e i nostri sapienti di un’Alleanza sinarchica con l’Agharttha

Ah! Se l’Anarchia non sovrintendesse ai rapporti dei popoli sulla terra, quale colossale rinascita si compirebbe in tutti i nostri Culti e in tutte le nostre Università!

È cosa certa che i nostri sacerdoti e i nostri ammirevoli sapienti, rientrati nell’Alleanza Universale dei tempi antichi, compirebbero il loro pellegrinaggio in Africa, in Asia, in ogni luogo ove giace il sepolcro di una civiltà scomparsa.

Non solo la terra consegnerebbe loro tutti i suoi segreti, ma essi ne avrebbero la piena comprensione, la chiave dorica, e ritornerebbero nelle differenti Facoltà dei nostri insegnamenti per versare non cenere morta, ma fiotti di luce vivente.

Ma allora, non si profanerebbe più il passato, non si rapirebbero più dai loro sepolcri i frammenti mutili e, perciò, inspiegabili, per ingombrarne i nostri musei.

L’Antichità verrebbe devotamente riedificata sul posto, in Egitto, in Etiopia, in Caldea, in Siria, in Armenia, in Persia, in Tracia, nel Caucaso e fin sugli altopiani dell’Alta Tartaria dove Swedenborg vide proprio attraverso il suolo i libri perduti delle guerre di Jehovah e delle generazioni di Adamo.

Quel che sarà l’archeologia sacra dopo quest’alleanza

Proprio a tutte queste tappe sacre della razza umana sarebbero ricondotti a frotte, Pontefici e inni in testa, i laureati dei nostri studi superiori!

Ah! Se invece di essere tra noi la serva dell’Anarchia governativa, la schiava della Forza, lo strumento dell’ignoranza, dell’iniquità e della rovina pubbliche di tutte le nostre patrie europee, la Scienza risalisse di nuovo, la tiara in testa, il pastorale in mano, sulle sue antiche vette luminose!

Se, sovrintendendo di nuovo alla vita sociale dei popoli, essa realizzasse alfine tutto quel che i profeti di tutti i Culti le hanno predetto, quale divino accordo riunirebbe tra loro tutte le membra sanguinanti dell’Umanità!

Questa non sarebbe più un Cristo in croce su tutto il Pianeta, ma un Cristo glorioso riflettente tutti i sacri raggi della Divinità, tutte le arti, tutte le scienze, tutti gli splendori e tutti i benefici di questo Spirito divino che rischiarerà il passato e, attraverso le nostre gestazioni dolorose, tende di nuovo a illuminare l’avvenire.

L’economia pubblica, liberata dal peso spaventoso degli armamenti e delle imposte, toccherebbe con la sua bacchetta d’oro tutto quel che fu.

Rinascita futura di tutte le civiltà morte

E si vedrebbe rinascere l’antico Egitto con i suoi Misteri purificati, la Grecia nello splendore trasfigurato dei suoi tempi orfici, la nuova Giudea, più bella ancora di quella di Davide e di Salomone, la Caldea prima di Nemrod.

Allora, tutto sarebbe rinnovato dal vertice alla base dell’organizzazione umana, tutto sarebbe illuminato e conosciuto, dall’alto dei Cieli fino alla fornace centrale della Terra.

Non esistono mali intellettuali, morali o fisici, ai quali il ravvicinamento delle facoltà insegnanti e la riunione positiva dell’Uomo con la Divinità non porterebbero rimedio sicuro.

La Morte stessa verrà vinta

Le sante vie della Generazione sarebbero ritrovate, quelle della Via santificate, quelle del Trapasso illuminate da ineffabili consolazioni, da adorabili certezze; e l’Umanità intera realizzerebbe la parola del Profeta abbagliato dai Misteri dell’altra Vita: Oh Morte, dov’è il tuo aculeo?

Noi marciamo verso questi tempi sinarchici attraverso le ultime agonie sanguinanti dell’Anarchia del Governo generale inaugurato a Babilonia.

Ecco il motivo per cui scrivo questo libro, e trascino il lettore più oltre ancora fin nel sacro centro dell’antica Paradesa.

Continuazione della descrizione della gerarchia agartthiana

Dopo i cerchi aperti o chiusi alternativamente dei trecentosessantacinque Bagwanda, vengono quelli dei ventidue o piuttosto dei ventun Arsci neri e bianchi.

La loro differenza con i più alti iniziati dei cerchi precedenti è puramente ufficiale e cerimoniale.

I Bagwanda possono risiedere o meno nell’Agarttha a loro gradimento; gli Arsci vi dimorano per sempre, come parte integrante dei suoi vertici gerarchici.

Le loro funzioni sono estremamente ampie, sotto i nomi cabalistici di Chrinarshi, Chinarshi, di Swadharshi, Swadharshi, di Dwijarshi, Dwijarshi, di Yogarshi, Yogarshi, di Maharshi, Maharshi, di Rajarshi, Rajarshi, di Dharmarshi, Dharmarshi, e infine di Praharshi, Praharshi.

Questi nomi indicano a sufficienza tutti i loro attributi, tanto spirituali quanto amministrativi, nell’Università sacra e ovunque si eserciti la sua influenza.

Per quel che concerne le scienze e le arti, essi formano con i dodici Bagwanda zodiacali il vertice della Maestria universitaria e della Grande Alleanza in Dio con tutte le Potenze cosmiche.

Al di sopra di essi non vi è che il triangolo formato dal Sovrano Pontefice, il Brâhatmah, Brahatmah sostegno delle anime nello Spirito di Dio, e dai suoi due assessori, il Mahatma, Mahatma rappresentante l’Anima universale, e il Mâhânga, Mahanga simbolo di tutta l’organizzazione materiale del Cosmo.

Nella cripta sotterranea in cui giace il corpo dell’ultimo Pontefice che attende per tutta la vita del suo successore l’incenerimento sacro, si trova l’Arsci che forma lo zero degli Arcani rappresentati dai suoi ventuno colleghi. Il suo nome Mârshi significa il Principe della Morte, e sta a indicare che egli non appartiene al mondo dei viventi.

Tutti questi differenti cerchi di gradi corrispondono ad altrettante parti alla circonferenza o al centro della Città santa, invisibili a coloro che camminano sulla terra.

Migliaia e milioni di studiosi non sono mai penetrati oltre i primi cerchi suburbani; pochi riescono a superare i gradini della formidabile scala di Giacobbe [12] che, attraverso le prove e gli esami iniziatici, conducono fino alla cupola centrale.

La cupola centrale; la sua architettura magica. La sua ottica e la sua acustica magiche

Quest’ultima, opera d’architettura magica come tutta l’Agarttha, è rischiarata dall’alto da registri catottrici che lasciano filtrare la luce solo attraverso tutta la gamma enarmonica dei colori, di cui lo spettro solare dei nostri trattati di fisica non costituisce che la diatonica.

Là la gerarchia centrale dei Cardinali e degli Arsci, disposti in emiciclo davanti al Sovrano Pontefice, appare iridata come una visione d’oltre-Terra, confondendo le forme e le apparenze corporee dei due Mondi, e sommergendo sotto degli irraggiamenti celesti qualsiasi distinzione visibile di razza in una stessa cromatica di luce e di suono, ove le nozioni conosciute della prospettiva e dell’acustica vengono superate in modo singolare.

Strano fenomeno acustico

E alle grandi ore di preghiera, durante la celebrazione dei Misteri cosmici, benché i gerogrammi sacri non siano mormorati che a bassa voce nell’immensa cupola sotterranea, si verifica sulla superficie della Terra e nei Cieli uno strano fenomeno acustico.

I viaggiatori e i carovanieri che vagano lontano nei raggi del giorno o nei chiarori notturni si arrestano, uomini e bestie, ansiosi, in ascolto.

Sembra loro come se la Terra stessa aprisse delle labbra per cantare.

Un’immensa armonia senza causa visibile fluttua difatti nello Spazio.

Essa svolge le sue spirali crescenti, scuote dolcemente l’Atmosfera con le sue onde, e sale fino a inabissarsi nei Cieli, come per cercarvi l’Ineffabile.

Da lontano nella notte non si vede altro che il tremolio della Luna e delle Stelle che vegliano sul sonno delle montagne e delle valli, oppure nel giorno altro che il fulgore del Sole sui siti più incantevoli della Terra.

Arabi o Parsi, Buddhisti o Brahmanici, Ebrei Karaiti o Subba, Afghani, Tartari o Cinesi, tutti i viaggiatori si raccolgono con rispetto, ascoltano in silenzio, e mormorano le proprie orazioni nella grande Anima universale.

Conferma della Legge sinarchica

Tale è dalle sue basi fino alla sua sommità la forma gerarchica della Paradesa, vera piramide di luce che racchiude il legame di un segreto impenetrabile.

Nel suo punto culminante, il lettore avrà già letto i simboli della Sinarchia nel triangolo sacro che formano il Brâhatmah e i suoi due assessori, il Mahatma e il Mâhânga.

L’Autorità che dimora nello spirito divino, il Potere nella Ragione giuridica dell’Anima universale, l’Economia nell’Organizzazione fisica del Cosmo: tale è la conferma che la Legge trinitaria della Storia [si] trova alla testa stessa dell’organismo ramide e manavico.

L’adeptato

L’istruzione che riceve l’adepto, appena ammesso dalla Volontà divina che illumina la Saggezza umana, è ancora oggi la stessa dei tempi di Ram e Menes.

Giacché, una volta conosciuta la Verità sintetica, il progresso degli individui consiste nell’innalzarsi fino a essa, per conservarla e procrearla incessantemente negli spiriti e nelle anime.

Foss’anche stato Mosè od Orfeo, Solone o Pitagora, Fo-Hi o Zoroastro, Chrishna o Daniele, incessantemente impetrando e studiando assiduamente, egli dovette cominciare dall’ultimo gradino, per salire fino al primo.

Newton o Lavoisier, Humboldt o Arago, avrebbero dovuto allontanarsi, oppure ricominciare dall’ABC, sì, dall’ABC.

Il Verbo sacro

Difatti è nel Verbo sacro che risiede ogni Scienza, dalla più infima dell’Ordine fisico sino alla più sublime dell’Ordine divino.

Ogni cosa parla e rende manifesto, ogni cosa porta il proprio nome scritto chiaramente nella sua forma, simbolo della sua natura, dall’insetto fino al Sole, dal fuoco sotterraneo che divora ogni materia, sino al Fuoco celeste che riassorbe in sé ogni essenza.

Quanto qui affermo dev’essere preso tanto alla lettera quanto in spirito.

Conferma del Vangelo di San Giovanni

Vi è una Lingua universale sulla quale il lettore troverà delle considerazioni abbastanza precise nella Missione degli Ebrei, e questa lingua altro non è se non il Verbo dei cicli primitivi di cui parla san Giovanni:

Texto hebreo[13]

Nel Principio era il Verbo (la Potenza della Manifestazione creatrice) e il Verbo era in Lui gli Dèi, e Lui gli Dèi era il Verbo.

Oh! Come siamo lontani da questa lingua sapiente, tanto semplice nei suoi principi, così certa in tutte le sue infinite applicazioni!

Aprite uno qualunque dei nostri trattati di fisica o di chimica, guardate i nomi orrendamente barbari, i segni privi di senso intrinseco che compongono la loro nomenclatura ed esprimono le loro equivalenze e le loro leggi.

Nelle lingue antiche, gli stessi oggetti erano descritti secondo la loro natura mediante i simboli verbali assoluti che evocavano il carattere reale degli esseri, delle cose, della loro formazione e della loro scomposizione.

Così, ricondotta alle sue radici nel Verbo vivente, la matesi [14] e la morfologia della Parola dorica erano un atto divino che sottometteva, come dice Mosè, ogni cosa nella Natura all’Intelligenza e alla Scienza umane.

Lingua universale, il Vattano

Nelle loro celle sotterranee, l’innumerevole Popolo dei Dwijas è intento allo studio di tutte le lingue sacre, e corona i lavori della filologia più sbalorditiva con le meravigliose scoperte della Lingua universale di cui ho appena parlato.

Questa lingua è il Vattano.

* Estratto del cap. I del libro di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, Mission de l’Inde en Europe. Mission de l’Europe en Asie, Librairie Dorbon Ainé, Paris, 1910. Pubblicato originariamente nel 1886 per i tipi di Calmann-Lévy e immediatamente distrutto dal suo autore non appena stampato, fu solo un anno dopo la sua morte, nel 1910, che un suo amico, Gérard Encausse (più conosciuto come “Papus”), trovò casualmente un esemplare del libro fra le carte di Saint-Yves e decise di ripubblicarlo.

1. Ricordiamo che la sinarchia è un ipotetico sistema di governo gerarchico, nel quale si è ammessi, si permane o si viene esclusi esclusivamente in base ai propri “meriti”. La parola sinarchia (dal greco συν, assieme, e ἀρχή, comando) significa “governare assieme” [N.d.T.].

2. Satrapo era il nome dato ai governatori delle province degli antichi imperi medi e persiani, inclusi alcuni regni ellenistici. Il termine deriva dall’antico persiano xšaθrapāvā (da xšaθra, reame o provincia, e pāvā, protettore; in greco la parola fu resa da σατράπης) [N.d.T.].

3. India, distretto di Faizabad, nell’Uttar Pradesh [N.d.T.].

4. Uno dei titoli del Buddha, letteralmente “Eremita della tribù di Sākya” [N.d.T.].

5. “Manu … designa propriamente un principio che si potrebbe definire, secondo il significato della radice verbale man, come “intelligenza cosmica” o “pensiero riflesso dell’ordine universale”. Questo principio è d’altra parte visto come il prototipo dell’uomo, il quale è chiamato mânava in quanto è considerato essenzialmente un “essere pensante”, caratterizzato dal possesso del manas, elemento mentale o razionale; … Insomma, la legge di Manu, per un ciclo o una collettività qualsivoglia, non è altro che l’osservanza dei rapporti gerarchici naturali che esistono tra gli esseri sottoposti alle condizioni specifiche di quel ciclo o collettività, con l’insieme delle prescrizioni che normalmente ne risultano” (R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi Edizioni, Milano, 1989, parte terza, cap. V, La Legge di Manu) [N.d.T.].

6. Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, Mission des Juifs, Calmann-Lévy, Parigi, 1884 [N.d.T.].

7. Nell’antica Grecia il termine stava a indicare una confederazione di popolazioni limitrofe aventi in comune il culto di una divinità, oltre a interessi politici [N.d.T.].

8. Termine che indica un membro maschio iniziato appartenente alle prime tre caste (Brahmani, Kshatriya e Vaishya) [N.d.T.].

9. Riprendiamo i vocaboli scritti in sanscrito direttamente dal testo originale [N.d.T.].

10. “la parola «Yoga» è quella che noi abbiamo tradotto il più letteralmente possibile con “Unione”; quello che essa indica in modo proprio è perciò lo scopo supremo della realizzazione metafisica” (R. Guénon, La metafisica orientale, Luni Editrice, Milano, 1998) [N.d.T.].

11. Il termine indica i cinque figli di Pandu e di una mortale (Yudhishthira, Bhima, Arjuna, Nakula, Sahadeva), eroi protagonisti del Mahabharata, testo che racconta il loro combattimento contro i cugini Kaurava. La traduzione proposta da Saint-Yves, sapienti, lascia piuttosto a desiderare [N.d.T.].

12. È detto nel Genesi che quando Giacobbe lasciò la terra di Canaan per cercarsi una sposa, giunse in un luogo dove trascorse la notte. Là si addormentò dopo aver posato il capo su una pietra. Durante il sonno vide una scala tra la terra al cielo e gli angeli che salivano e scendevano. Fu così che ebbe la rivelazione di quella gerarchia cosmica che i kabbalisti chiamano Albero della Vita [N.d.T.].

13. Riportiamo la citazione ebraica, scritta al contrario, copiata dal testo originale di Saint-Yves [N.d.T.].

14. Termine derivato dal greco che si riferisce all’apprendimento in genere e a quello della matematica in particolare [N.d.T.].

Alexandre Saint-Yves d’Alveydre

sabato 25 febbraio 2017

L'antico rito della Candelora e la devozione dei femminielli

tratto da Il Giornale del 2 febbraio 2017

Al Santuario di Montevergine, in provincia di Avellino, ogni anno si celebra la "juta" (ossia il pellegrinaggio) da Mamma Schiavona. La leggenda e le origini arcaiche di un rito più antico del cristianesimo

di Giovanni Vasso

Alla Candelora si celebra uno dei riti più antichi e al tempo stesso più originali e interessanti della religiosità meridionale.

Si tratta della cosiddetta juta dei femminielli al santuario di Montevergine, in provincia di Avellino. La juta è termine che sta a indicare il pellegrinaggio che, ogni 2 febbraio, la devozione dei femminielli – ossia degli omosessuali secondo la tradizione napoletana – continuano a tributare a Mamma Schiavona, alla Madonna nera del monte Partenio.

La tradizione, almeno ufficialmente, affonda le sue radici nella seconda metà del tredicesimo secolo, precisamente al 1256. La leggenda racconta che due giovani, scoperti in un amplesso omosessuale, furono banditi dal loro paese e lasciati a morire di fame e di freddo nei boschi, legati a un albero. Ma la Madonna ebbe pietà di loro e li salvò dalla condanna. Un miracolo che, ogni anno, viene ricordato e onorato al suono di tammorre e nacchere, con canti licenziosi, motti salaci e vesti coloratissime.

In fondo il culto alla Madonna di Montevergine risale ancora più in là nella storia, fino alla notte dei tempi quando sui monti irpini si onorava la dea della fertilità Cibele. I suoi sacerdoti, rigorosamente eunuchi, la onoravano con danze ossessive al ritmo sfrenato di tamburi. Con l’avvento del cristianesimo, il santuario fu consacrato a Maria. È una madonna nera, stupenda in tutte le sue imperfezioni, seducente e maestosa. E che nei secoli ha esteso il suo manto protettivo sugli ultimi, sui deboli, sui poveri, sugli emarginati. Anche per questo è detta Mamma Schiavona, la madre dal cuore grandissimo che fa grazie e perdona tutto ai suoi devoti che, per onorarla, scalano la montagna fino a raggiungere il suo santuario.

Attorno a Montevergine è fiorita una ricchissima letteratura e un’importante cultura musicale e teatrale. I riti del pellegrinaggio (e non solo quello dei femminielli) sono stati letti e studiati alla stregua di “fossili viventi” di tradizioni arcaiche che sembravano scomparse. I riti della fertilità accompagnati da una sorta di disinibizione generale, i canti e gli scontri fra cantori (a teatro celebrati da Raffaele Viviani nella commedia “A festa ‘e Montevergine) hanno attraversato praticamente indenni i millenni per giungere fino a noi.

sabato 18 febbraio 2017

Castello Quistini a Rovato [BS]

In  collaborazione con Hesperya

tratto da: https://www.hesperya.net/le-indagini/castello-quistini-rovato-bs/

Data: 09 Dicembre 2012

di Luca Maggini


Cenni Storici


I Porcellaga erano un’ antica famiglia originaria d’Iseo e aveva acquistato, oltre ad un titolo nobiliare di conti, anche molte possidenze a Rovato e Roncadelle. Il progetto di costruzione di un palazzo fortificato in campagna venne ideato da Ottaviano  insieme alla moglie Veronica come residenza sostitutiva a quella annessa nel castello di Rovato, dove precedentemente risiedevano. La datazione d’inizio dei lavori si colloca fra il 1570 e il 1580; questi ultimi volgeranno al termine dopo il 1600.
Dopo meno di mezzo secolo dalla costruzione, la nuova residenza dei Porcellaga mutò proprietà. Intorno al 1630 circa, infatti, il nuovo palazzo fortificato venne acquistato da Gerolamo Martino Roncalli, nobile di Bergamo e cittadino di Brescia. La famiglia Roncalli abitò nella sua nuova residenza fino agli inizi del 1700.
Dopo i Roncalli fu la volta della famiglia Quistini, che acquisì la proprietà del palazzo mantenendola fino al 1850: anno in cui gli eserciti guidati da Napoleone Bonaparte entrarono a Rovato e sottrassero alla famiglia Quistini la proprietà dell’edificio. Quando gli eserciti napoleonici commisero saccheggi d’ogni genere nel territorio rovatese, anche alla proprietà del palazzo toccò la stessa sorte. Essa, infatti, passò per innumerevoli mani, attraverso successioni ereditarie, determinando da subito la divisione netta dell’edificio in due metà. Tale divisione è stata mantenuta fino ad oggi: Palazzo Porcellaga attualmente è di proprietà delle famiglie Mazza e Natali.
E’ stato proprio grazie alla segnalazione della famiglia Mazza che la nostra Crew ha potuto svolgere l’indagine in questo affascinante luogo carico di storia e mistero. I proprietari del palazzo, dopo averci raccontato il passato dell’edificio, ci hanno spiegato le sensazioni anomale che talvolta hanno percepito tra quelle mura: sensazione di non essere da soli nel palazzo vuoto, di essere osservati e la visione di una figura femminile davanti a una finestra.


L’ indagine

La nostra indagine è iniziata nel tardo pomeriggio dopo aver svolto un sopralluogo e aver installato la nostra strumentazione.
Abbiamo posizionato le nostre telecamere di videosorveglianza ad infrarossi in quattro punti nel corpo centrale del palazzo: una nella grande sala del camino, una nella camera al piano superiore (un tempo alloggio della servitù), una in soffitta e una nel maestoso portico coperto da volte a crociera (luogo dove sono state percepite strane sensazioni). In ogni stanza sono state svolte sessioni di EVP e analisi di variazioni del campo elettromagnetico con strumenti di rilevazione EMF.
Successivamente abbiamo proseguito l’indagine in una struttura distaccata dal palazzo, anche questa dalla storia molto suggestiva e misteriosa. Esternamente edificio rustico che ricorda una cantina o una rimessa, internamente ci si sorprende ad ammirare un grande ambiente coperto da volte a crociera sostenute da pilastri in pregiata pietra di Sarnico. Elementi architettonici troppo eleganti per un semplice deposito, che fanno quindi supporre l’attribuzione di funzioni molto più importanti a questa struttura ma ad oggi ancora ignote. Proprio in questo luogo abbiamo riscontrato le anomalie più interessanti della nostra indagine. Mentre cercavamo un contatto con la possibile entità, fuori dall’edificio abbiamo sentito dei rumori di passi sui ciottoli ma una volta usciti a controllare abbiamo appurato che non c’era nessuno nei dintorni.
Una seconda anomalia si è verificata durante una sessione EVP quando alla domanda: “Sei una donna?” il nostro registratore, a pile cariche, si è spento improvvisamente.
Infine l’anomalia più impressionante si è verificata al piano superiore di questa struttura, adibita a soffitta. Qui vi era appesa ad una corda una tegola ed improvvisamente quest’ultima, durante una nostra serie di domande, ha iniziato a girare su sé stessa per poi fermarsi e riprendere il movimento ai successivi inviti. Durante quei momenti non abbiamo percepito nessun rumore anomalo ma ad indagine conclusa, analizzando le registrazioni, abbiamo identificato un interessantissimo EVP che non ha lasciato indifferenti noi membri della Crew. Alla domanda di Stefano: “Sei tu che hai mosso la tegola?” si sente chiaramente una voce, non identificabile con nessuna di nostra conoscenza, rispondere quello che noi abbiamo interpretato come un “Grazie a lei”.

https://soundcloud.com/hesperya/risposta-a-domanda-grazie-a

Ora la sola risposta amplificata ed ottimizzata per un migliore ascolto.

https://soundcloud.com/hesperya/risposta-a-domanda-elaborata

In un posto così affascinante, di sicuro Castello Quistini cela qualcosa di misterioso nella storia tra le sue antiche mura.

Qui di seguito vi proponiamo il video dell’ indagine.


mercoledì 15 febbraio 2017

Scoprire l’eroe che è in ognuno di noi

tratto da L'Opinione del 10 gennaio 2017

di Paolo Ricci


Si intitola “Di che archetipo sei? Libera l’eroe che è in te” il libro di Gabriella d’Albertas e Giuseppe Vercelli (Edizioni Mediterranee), un testo molto interessante che riprende il tema degli archetipi e propone una ricerca di se stessi attraverso l’approfondimento di queste figure che sono dentro ciascuno di noi. Gli autori parlano di dodici figure, gli archetipi, che appunto governano il nostro sviluppo interiore e quindi anche quello che poi si rispecchia nella vita esteriore, nel quotidiano, nei rapporti interpersonali, in famiglia, nel lavoro. Fare la conoscenza di questi archetipi pone su una vera e propria via iniziatica, su un cammino che porterà... Non si sa. O meglio, ciascuno potrà (dovrà) scoprirlo.


La cosa certa è che questo cammino non sarà semplice poiché è soprattutto attraverso e dentro se stessi che avviene. Nosce te ipsum è la via per vivere appieno e cogliere la vita nel suo senso più profondo e autentico. Nel testo si parla di diversi livelli di realtà, come a dire che alcune persone non vivono ma immaginano di vivere, o vivono a metà, o sognano di cambiare qualcosa nella propria esistenza ma non sanno da dove iniziare né come fare.

Questi sono parte dei temi che nel libro vengono trattati attraverso la scoperta degli archetipi. Così l’Innocente, l’Orfano, il Guerriero, l’Angelo custode, il Cercatore, l’Amante, il Distruttore, il Creatore, il Sovrano, il Mago, il Saggio, il Folle, condurranno la ricerca nel mondo, nella vita, nell’anima. “Il viaggio è, infatti, una metafora del percorso interiore di crescita, e chi si limiterà a viaggiare ‘fuori’ non arriverà mai a interiorizzare le lezioni della vita e farle diventare preziosi passi verso l’unica meta che veramente conti: noi stessi”.

Con occhi nuovi, con consapevolezza nuova. Lungo il viaggio ci saranno Draghi da affrontare, prove interne ed esterne che modificheranno (sempre positivamente) l’animo di ciascuno. Questo è il compito dell’Eroe: (ri)trovare il sentiero della vita e percorrerlo in tutta la sua lunghezza, uscire dalla propria Casa (la comfort zone) e diventare ciò che è.

sabato 11 febbraio 2017

SAN VALENTINO E LA FOLGORAZIONE MISTICA

Ovvero Sesso, rituali pagani e Amor Cortese


Ci stiamo avvicinando, ancora una volta, alla Festa degli Innamorati, ovvero San Valentino, tutti lo festeggiano o lo hanno festeggiato ma sappete il perché di tale associazione?
Vi incuriosisce scoprire le antiche origini di una festa che oggi farebbe gridare allo scandalo?
Abbandonate l’immagine da bacio perugina ed addentriamoci tra i meandri falloforici.

L'originale festività religiosa prende il nome dal santo Valentino da Terni, e venne istituita nel 496 da papa Gelasio I. In realtà ancora nulla centra la festa degli “Innamorati” con quella del Santo,  La pratica moderna di celebrazione della festa, sembrerebbe risalire  probabilmente al Basso Medioevo, e potrebbe essere in particolare riconducibile al circolo di Geoffrey Chaucer che, nel Parlamento degli Uccelli associa la ricorrenza al fidanzamento di Riccardo II d'Inghilterra con Anna di Boemia, anche se non tutti gli studiosi sono d’accordo.
Per altri l’associazione tra il Santo e l’Amore è legato ad un episodio che all'epoca suscitò vasto clamore: S. Valentino, secondo la tradizione, fu il primo ministro di Dio a celebrare l'unione fra un pagano e una cristiana. Alcuni studiosi del mondo naturale hanno legato tale festività alla credenza che da metà di febbraio si riscontrino i primi segni di risveglio della natura e nel Medioevo, soprattutto in Francia e Inghilterra, si riteneva che in quella data cominciasse l'accoppiamento degli uccelli e quindi l'evento si prestava a considerare questa la festa degl'innamorati. Direi un accoppiamento un po’ forzato, con gli estremi per un divorzio.
Per gli amanti dell’Oltralpe, in area norrena il periodo era dedicato a Vali, dio arciere figlio di Odino, ed era il periodo  dell'anno per celebrare matrimonio, anche se è un aspetto poco conosciuto all'interno della Tradizione nordica e comunque non particolarmente importante.
Possiamo dire che la festa dell’amore sia una festa di “importazione” il "St. Valentine's day" sullo stile di Halloween?
Parzialmente perché la festa degli “innamorati” si sovrapponeva ad una festività pagana molto nota, i famosi Lupercali.

"Nella Roma antica il giorno precedente i Lupercalia , il 14 Febbraio, era
festa in onore di Giunone, la regina degli dei e delle dee romane nonché
delle donne e del matrimonio.
E' questa tra l'altro una delle origini della festa di S.Valentino, a quel
tempo infatti, le vite dei ragazzi e delle ragazze erano rigidamente
separate e quella festa era un'occasione di incontro per ambo i sessi.
La vigilia della festa di Lupercalia i nomi dei ragazzi romani venivano
scritti su pezzetti di carta e messi dentro dei recipienti. Ogni ragazzo
doveva sorteggiare il nome di una ragazza dal recipiente:la ragazza scelta
sarebbe stata così sua partner per tutta la durata della festa."

Così  raccontano alcuni studiosi novecenteschi. In realtà davvero i Lupercali erano una festività importantissima per Roma in quanto rimandava alle stesse origini della città. Ovidio faceva risalire la tradizione della festa alle antiche celebrazioni dedicate a Priapo, Il dio,  spesso rappresentato con un volto umano e le orecchie di una capra, tiene in mano un bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro.
Per altri la festività era in onore del dio Lupesco protettore delle greggi e degli armenti, spesso confuso con Pan
Secondo la mitologia il Dio nacque dall'unione di Ermes con Driope, la ninfa della quercia. La leggenda vuole che il dio stesse portando al pascolo delle pecore in Arcadia vide la fanciulla e subito se ne innamorò, dall’incontro nacque un bimbo metà uomo e metà capra.
La divinità era spesso rappresentato in forma fallica o addirittura dotato di un doppio fallo, simbolo proprio della sua natura feconda, aspetto per il quale era anche rappresentato da un pilastrino verticale con sopra scolpita la sua testa e il suo fallo eretto, simbolo appunto della fecondazione.
In quei giorni era dunque costume, in onore al Dio, scannare le capre e utilizzarne le pelli per vestire i lucerci, sacerdoti che staffilavano le donne contente di essere percosse perché convinte che quel rituale avrebbe facilitato la loro gravidanza e il parto.
I rituali, basati spesso su riti orgiastici con sacrifici animali erano stati a loro volta ereditati dai romani dalle popolazioni autoctone che vedevano nell’animale una divinità.
E’ già in questa festa che vediamo la germinazione del Carnevale, ovvero del “Camuffamento” del sacerdote che, avvolto in pelli d’animale, personificava il dio. La maschera indossata dal sacerdote/demonio era incarnazione di un personaggio mitico, un antenato, un animale totemico, un dio, e aveva la capacità di trasumanare l’uomo che la indossava. Le donne e le sacerdotesse, nella loro unione con il dio-sacerdote durante i rituali di fertilità, credevano così di esserne rese feconde.
I rituali di fertilità, il concetto di accoppiamento sacro, metafora del ciclo naturale,  ove l’uomo e la donna, si sostituiscono alle divinità e per loro intercessione perpetuano il mistero della nascita, e successivamente le falloforie, sono così archetipo del sabba.
Culti simili sono presenti in molte altre aree di Italia e d’Europa. Il Mannhardt, per esempio, ne descrive moltissimi relativi il “battere” gli alberi o le piante in primavera o a fine inverno per cacciare gli spiriti maligni e ostili alla rinascita vegetazionale.
Insomma, scopriamo che San Valentino che oggi festeggiamo era una gran festa del sesso.
Successivamente i Lupercali assunsero il carattere di una festa di purificazione, all'inizio, del gregge, e poi della città, senza però perdere il ricordo di base.
Uomini vestiti con le pelli degli animali sacrificati, percuotevano le donne che incontravano con lo scopo propiziatorio di trovare presto marito o per ottener una numerosa prole. Le frustate dei Luperci, divenuti anche uomini-capri non sono state dimenticate, così Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli, parla dell’usanza del battere e percuotere le donne con le verghe per assicurare loro la fecondità.

“Vidi sbucare dal fondo tre fantasmi vestiti di bianco in mano portavano pelli di pecora secche e arrotolate come bastoni, e le brandivano minacciose, e battevano con esse sulla schiena e sul capo di tutti quelli che non si scansavano in tempo”.

Se però questa visione poco poetica della festa vi ha creato problemi, rimediamo subito con un po’ di “Amor Cortese”…


Il Colpo di Fulmine e il “Celtismo” Irlandese


Nel linguaggio moderno spesso si parla di “colpo di fulmine” ad indicare l’oramai famoso amore a prima vista. I media e i giornali ci han mostrato tutte le innumerevoli sfaccettature di questo termine nascondendoci pero’ la vera essenza che si nasconde in esso, a meta’ strada tra amore e magia e che affonda le sue radici in miti e leggende che ci riportano ad indomiti guerrieri ma anche a splendidi e dolci amanti.
Da sempre infatti amore e guerra sono andate di pari passo, in passato un re impotente o comunque che non poteva generare figli non poteva governare un paese, e gli stessi cavalieri e paladini erano screditati se avessero rifiutato di  giacere nel letto di una fanciulla che glielo avesse chiesto. Ancora oggi questo legame tra guerra e amore è ricordato in molti detti popolari come il comunissimo “in amore ed in guerra tutto è  permesso”.
L’energia “amorosa”, generata da una donna, può rendere l’uomo invincibile e da qui la tradizione di una antichissima tecnica di combattimento chiamata appunto “Colpo di fulmine”.
Un interessante episodio da narrare in tal senso è quello di Cuchulainn, il mitico eroe d’Irlanda, il leggendario sovrano si trova dalla sua maga-iniziatrice Scatach quando una notte, la figlia della sacerdotessa, Uatach, innamorata dell’eroe decide di sedurlo andando a riposare nuda nello stesso letto. L’eroe infastidito all’inizio rifiuta la proposta ma ecco che la fanciulla , in cambio di una semplice notte d’amore promette al re di spiegare come ottenere dalla madre una terribile tecnica di combattimento che lo avrebbe reso invincibile.
Ancora una volta, dunque, è attraverso la donna che l’uomo diventa imbattibile e infatti solo dopo aver giaciuto con Uatach e poi successivamente con la stessa sacerdotessa Scatach che Cuchulainn ottiene il segreto della micidiale Scarica di Fulmine che lo renderà famoso in battaglia.
L’esempio del mitico re irlandese non è l’unico, questa strana tecnica di combattimento era conosciuta anche da Lug , Batraz e molte altre divinità celtiche che , a loro volta , l’avevano sempre appresa da una donna. Ricordi di questa magica arma fisico-spirituale li ritroviamo successivamente nella Materia di Bretagna, e in particolare in una delle prime versioni del “Lanzelot en Prose”, la storia di uno dei più famosi paladini della tavola rotonda, appunto Sir Lancellotto.
Anche il paladino arturiano è da sempre circondato da donne-maghe , da Viviana a Morgana, esseri fatati che gli insegnano l’arte della guerra, ma solo una donna speciale potrà rendere l’eroe invincibile e tutto nascerà da uno “sguardo” o come oggi lo definiremmo da un “colpo di fulmine”.


“…Colpito al suo arrivo dalla sua beltà, lei gli sembra incomparabile più splendida da vicino, ed egli le  appare più alto e più forte. La regina prega Dio di far di lui un valoroso per la pienezza della bellezza di cui lo ha favorito…”

Questi versi del “Lanzelot en prose” descrivono perfettamente  il colpo di fulmine dopo il quale il paladino diventa il cavaliere più forte del regno, ed e’ ancora una volta l’amor fulmineo a trasformarsi in arma e “folgore divina”.
Solo chi conosce la “donna” può così esser un grande eroe, solo chi conosce l’ “amore” può diventare invincibile come può essere letto tra le righe  di tutta la mitologia celtica alla quale la materia di Bretagna si rifa’, e cosi’ il figlio indomito di Cuchulainn, non conoscendo l’amore viene ucciso in battaglia dal proprio padre che, non riconoscendolo, lo sconfigge proprio con la tecnica del colpo di fulmine,  stessa sorte toccherà a Galaad, figlio di Lancillotto. Infatti il cavaliere dal cuore puro e designato per l’arduo compito della cerca del Graal potrà portare a termine a differenza del padre proprio perché pudico, ma in realtà sarà proprio questa sua mancanza d’ “amore” a decretare la sua fine , infatti perira’ fulminato dalla luce stessa della mistica coppa d’Amore!
Colui che non conosce la “scarica di fulmine” non potrà essere invincibile e nessun cavaliere potrà mai conoscerla  senza la propria donna, il tramite d’amore che permette il raggiungimento della mistica folgorazione il cui ricordo, ancora oggi, si conserva nella tipica espressione “colpo di fulmine”.

martedì 7 febbraio 2017

“IL CASTELLO DI WEWELSBURG E I SUOI MISTERI”

Sabato 11 Febbraio 2017 e.v. alle ore 21,15 presso i locali del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 - Via Don Minzoni 39, Bellinzago Novarese (NO) - nell’ambito delle serate dedicate a “Misteri Antichi e Modernii”, la nostra Associazione ha il piacere di invitarvi ad un imperdibile appuntamento in compagnia di STEFANO MASELLA che parlerà sul tema:

“IL CASTELLO DI WEWELSBURG E I SUOI MISTERI”



Situato nella località di Büren nella Renania Settentrionale-Vestfalia (Germania), il castello di Wewelsburg avrebbe dovuto divenire un vero e proprio tempio del nazismo, un luogo che avrebbe dovuto custodire i segreti dell’Ordine Nero delle SS. Costruito fra il 1603 e.v. e 1609 e.v. dal vescovo-principe di Paderborn Dietrich von Fürstenberg sulla collina del villaggio di Wewelsburg, il castello passo' di mano in mano finche' Himler lo aquisto' per farne la sede permanente delle guardie del Fuhrer, una sorta di ombelico del mondo col compito di far risorgere la razza ariana, purificata del contatto con gli uomini inferiori. Uno dei motivi della scelta di questo castello era la sua forma a punta di freccia, particolare che richiamava la potenza della lancia di Longino, orientata per giunta verso nord, punto di riferimento della Thule e dell'antica religiosita' celtica e pagana. Il luogo ideale, quindi, per scatenare quelle forze occulte che, al pari della potenza militare, avrebbero nella mente di Himmler, reso possibile il progetto del nazismo. All'interno di stanze predestinate si svolgevano riti di particolare potenza. Secondo certi resoconti qui si studiavano pratiche per il controllo della volonta' a distanza, di medianita', di energie scatenate per aiutare il Fuhrer nella sua sanguinosa scalata al potere. Ma poteva realmente tutto questo avere un'influenza concreta nella vita politica e militare di una e piu' nazioni? Al piano terra del castello c'era la Gruppenfuhrersaal, una stanza circolare con 12 colonne ed al centro una ruota solare con 12 raggi a forma di runa, il carattere Sieg, cioe' vittoria, le stesse che si ritrovano nel simbolo delle SS e nello Swastika. Era la sala dedicata al vertice delle SS, 12 eletti che avevano compiti non solo militari ma anche esoterici.
Himmler riteneva che il nazismo necessitasse della presenza di un Ordine d’uomini pronti a difendere il regime e la nazione, e non solo sul piano militare, ma anche su quello mistico e spirituale. Perciò egli si adoperò in questo senso, desiderava fortemente la formazione di quelli che lui definì i “Cavalieri del Reich". Le SS dovevano essere perciò i nuovi super uomini concepiti della religione del sangue, il cui compito era mantenere l’equilibrio del nazismo, e preservarlo dai pericoli. Una specie di nuova aristocrazia tedesca, un’élite di guerrieri, la cui forza era essenziale non solo per la loro sopravvivenza, ma anche per quella della razza ariana. Di conseguenza Himmler pensò di organizzare le SS sulla base dell’ordinamento dei cavalieri teutonici.
Ciò fu appurabile con chiarezza durante il conflitto mondiale, quando le terre conquistate ad est della Germania furono divise secondo un criterio feudale, tra gli Ufficiali delle SS. Nello stesso numero di ufficiali della SS che dovevano sedere nella Gruppenfuhrersaal era insito di un significato mitico. Essi erano, infatti, dodici, come dodici erano i sommi cavalieri di Re Artù, che si riunivano attorno alla sua tavola.
Di tutto questo, e molto altro ancora, si parlerà in questa intrigante conferenza a cui siete tutti invitati!
Da quanto avrete intuito, si tratta di una serata da non perdere assolutamente! Vi aspettiamo, come sempre, numerosi!
La partecipazione a questa serata è soggetta a Tesseramento A.S.I. ed è obbligatoria la prenotazione da effettuarsi chiamando il numero 3803149775 o scrivendo a: cta102@cta102.it
Si precisa inoltre che la sola adesione all’evento effettuata su Facebook non è considerata una prenotazione valida.
Per i nostri Associati che volessero seguire la conferenza a distanza sarà naturalmente disponibile il collegamento in streaming video.

sabato 4 febbraio 2017

Santo Sepolcro, gli strani ​episodi "paranormali"

tratto da "Il Giornale" del 21 novembre 2016

Lo scorso 26 ottobre scorso un team di ricercatori dell'Università Nazionale Tecnica di Atene ha ripaerto il Santo Sepolcro: ecco cosa è stato scoperto

di Franco Grilli

Lo scorso 26 ottobre scorso un team di ricercatori dell'Università Nazionale Tecnica di Atene ha ripaerto il Santo Sepolcro. Una mossa per capire se la lastra pogiata sulla tomba sia quella di cui si parla nelle Sacre Scritture. E di questa apertura ne ha parlato il sito Aleteia che parla di alcuni eventi paranormali. Tra questi si sottolinea l'emanazione di un dolce aroma che "ricordava le manifestazioni olfattive associate a certi santi". Inoltre, il sito Aleteia spiega che alcuni strumenti di misurazione usati dai tecnici sarebbero stati alterati da alcune perturbazioni elettromagnetiche. Infatti nel momento in cui gli strumenti venivano posizionati sulla lastra smettevano di funzionare o addirittura funzionavano in modo irregolare. L'archeologo Fredrik Hiebert, della National Geographic Society, ha detto: “Quello che abbiamo riscontrato è sorprendente”. Non esistono però al momento altre prove. Ma questi fenomeni sono stati riscontrati anche nel caso della Sacra Sindone. "La mia preparazione scientifica mi ha permesso di fare delle ipotesi sulla possibilità che l’immagine fosse dovuta ad un’esplosione di energia. E questa ipotesi è stata verificata in laboratorio con l’uso di sorgenti laser molto particolari”, aveva affermato, come ricorda il Fatto, Giuseppe Baldacchini, uno dei più importanti fisici che hanno lavorato sulla Sindone. Insomma il mistero e il paranormale continuerà ad incuriosire i fedeli e il luogo simbolo della morte di Cristo, il Santo Sepolcro, potrebbe "narrare" altri episodi che la scienza diffcilmente potrà spiegare.

sabato 28 gennaio 2017

Furia, Odino o allucinogeni? Ecco la verità sui "berserkir"

tratto da "Il Giornale" del 20 dicembre 2016

I «guerrieri orso» sono una delle leggende vichinghe più famose. Un saggio svela i segreti della loro forza

di Matteo Sacchi

La leggenda parla di guerrieri di una ferocia inaudita. Vestiti di pelli di orso, o di lupo, si gettavano in battaglia in preda a un furore inspiegabile.


La loro rabbia li rendeva praticamente invulnerabili. Per usare le parole della antiche saghe scandinave: «In battaglia, Odino aveva il potere di rendere i loro nemici ciechi o sordi o colti da terrore, mentre le loro spade non tagliavano più di bastoni... Andavano senza corazza ed erano furiosi come cani o lupi, mordevano i loro scudi ed erano forti come orsi o tori... né il fuoco né il ferro facevano loro del male». E nella leggenda c'è un nome che ricorre sempre per questi soldati-belva: Berserkir. Che i miti sulla licantropia possano avere avuto origine in queste remote lande, dunque, è quasi un'evidenza. Ma cosa c'è di vero nelle storie che ci sono state tramandate? Sono decenni che gli studiosi se lo chiedono. Il filologo e storico medievale Vincent Samson ha cercato di arrivare ad una risposta definitiva con il suo: I Berserkir. I guerrieri-belve nella Scandinavia antica, dall'età di Vendel ai Vichinghi, VI-XI secolo (Settimo sigillo, pagg. 496, euro 34,50).

Quello che emerge con chiarezza è che i Berserkir sono esistiti davvero. Al di là dei testi poetici che, come la Ynglinga Saga, sono stati messi per iscritto molto più tardi, esistono prove archeologiche concrete. Statuette che rappresentano guerrieri coperti di pelli d'orso o di lupo. E tombe istoriate di rune che testimoniano come il sepolto fosse un guerriero-belva. Più difficile dire esattamente come si scatenasse lo stato di trance che era tipico di questi guerrieri. Molti studiosi, a partire da Samuel Lorenzo Ödman, teologo dell'università di Upsala, hanno legato il furore dei berserkir all'utilizzo di un fungo, l'amanita muscaria. E in effetti, alcune popolazioni, come i lapponi, lo utilizzano a scopo sciamanico. La tesi convince poco Samson. Nelle fonti antiche questo furore guerriero, indotto dal dio Odino, sembra poter essere scatenato da chi è in grado di farsene possedere senza alcuna preparazione chimica. Secondo Samson, la furia era più che altro il risultato di una profonda convinzione religiosa. E almeno sino ad un certo periodo i guerrieri belva erano con buona probabilità membri dell'élite delle antiche popolazioni scandinave. Così era almeno sino ai tempi di re Harald Bellachioma (850-933 d.C.). Quando sconfisse i suoi nemici durante la battaglia navale di Hafrsfjord (convenzionalmente collocata nel 872 d.C.). Gli antichi poemi legano la sua vittoria alla presenza di guerrieri coperti di pelle di lupo che combattevano sulla sua nave ammiraglia. «Le camicie d'orso grugnivano, il combattimento dava loro rabbia, le tuniche di lupo urlavano e le armi brandivano». Per altro anche le forze opposte al re schierano dei guerrieri belva come Thoris Hakland.

Insomma quella dei guerrieri mascherati da animali sembra essere stata una pratica molto in voga nella civiltà vichinga prima del cristianesimo. Una prassi limitata ai vichinghi? Sembra che i suoi echi si possano rintracciare anche tra le tribù germaniche, ce ne sarebbero addirittura le prove nei rilievi della colonna Traiana. La radice secondo Samson potrebbe ritrovarsi in antichi rituali della civiltà del bronzo che tra le popolazioni nordiche sono sopravvissuti a lungo. Ma resta molto difficile giungere ad una interpretazione univoca. Quel che è certo è che quando la Scandinavia divenne cristiana per i berserkir non ci fu più posto. Erano il reperto più bellicoso e furente della precedente religione. Così nel tramandarsi dei miti la loro figura fu messa in ombra o trasfigurata. Spesso rimase solo l'eco della violenza e il versante religioso, la loro etica guerriera, fu messa da parte.

Samson prova a farla rivivere e a fornire al lettore tutti gli strumenti per capire la complessità del tema. Il risultato è un libro non facile che chiede al lettore di famigliarizzarsi almeno un po' con le forme dell'antica poesia scaldica. Ma il viaggio nel tempo sulle orme di questi guerrieri, capaci di avere accesso al lato animalesco dell'uomo, ne vale la pena.

mercoledì 25 gennaio 2017

Il simbolismo del gioco degli scacchi

Pubblicato in Lex Aurea n. 58 del 10 maggio 2015

di Vito Foschi

Il gioco degli scacchi è piuttosto antico godendo di una diffusione planetaria e si presta ad un interessante studio simbolico. Potrebbe sembrare una forzatura, una lettura non corretta, ma ci conforta in tale interpretazione, il ritrovare un uso simbolico della scacchiera nel Medioevo nella bandiera dei templari e uno più propriamente esoterico nel caso della scacchiera dipinta al centro dei tempi massonici.

La scacchiera è quadrata, divisa in caselle bianche e nere. I quattro lati della scacchiera, rappresentano le quattro direzioni e i quattro elementi. Altro numero importante degli scacchi è l’otto. Ogni lato è diviso in otto e il totale delle caselle è 8x8 = 64. L’otto è l’ottagono, figura intermedia fra quadrato, terra e cerchio, il cielo. Indica una tendenza spirituale in sviluppo, uno stato intermedio e il percorso dell’iniziato. La scacchiera non è solo rappresentazione di un campo di battaglia, ma nella sua divisione ottonaria simboleggia l’elevazione spirituale, una spinta verso lo spirito, verso il cerchio, il poligono con infiniti lati.
Otto sono le direzioni della rosa dei venti e ritroviamo la dimensione geografica, ma ancora la croce tridimensionale con le sei direzioni spaziali più l’asse del tempo con le due direzioni del passato e del futuro. Il numero otto è  anche associato al fiore del loto con il suo significato di purezza e di tensione verso il cielo e gli altri molteplici significati.
La scacchiera poteva essere divisa in sette o in nove, ma in un caso sarebbe risultato un gioco più facile, e nell’altro più difficile. L’otto è una sorta di numero di equilibrio fra un gioco troppo facile e uno troppo difficile. Tra l’altro, per gli indiani, inventori del gioco, c’erano otto pianeti, ed è un altro possibile legame con il numero otto.
La scacchiera dal punto di vista macrocosmico rappresenta il mondo, mentre dal punto di vista microcosmico la mappa dello spirito e in particolare lo spirito frantumato dell’iniziato che si accinge alla sfida, un miscuglio di bianco e nero, di luce e tenebre.

Se paragoniamo la scacchiera ad un campo di battaglia non può non venirci in mente “L’arte della Guerra” di Sun Tzu e le massime sullo scansare il pieno e attaccare il vuoto. Se pensiamo ai colori, comunemente associati alla luce e alle tenebre, possiamo associarli anche ai vuoti a ai pieni. Così possiamo associare il bianco al vuoto e il nero al pieno o alla materia. La scacchiera assume una diversa dimensione macrocosmica rappresentando i vuoti dello spazio e i pieni delle stelle e dei pianeti. La battaglia degli scacchi a questo livello è uno scontro fra angeli e demoni. Il vuoto associato alla luce e alla spiritualità; il nero, alle tenebre, alla materia, materia oscura o alla prima fase del processo alchemico, la nigredo, il marcio.
I vuoti e i pieni possono rappresentare la fermentazione, la vitalità, il caos della vita. La partita diventa, quindi, un processo per ordinare il caos o trovarvi una direzione. Lo spirito frantumato che tramite l’azione del Re deve essere ricondotto ad unità. Il re bianco rappresenta il Sé che deve vincere l’Ego rappresentato dal Re nero.
A questo proposito un interessante simbolismo lo suggerisce il libro “Natura simbolica del gioco degli scacchi” di Mario Leoncini di cui riportiamo un passo: «Boucher mette in rilievo il simbolismo delle linee divisorie tra le caselle: su di esse si muoverebbe l’iniziato, alieno dall’abbandonarsi al bianco e al nero, mentre il profano passerebbe dall’uno all’altro senza equilibrio, e scatenando ogni volta reazioni contrastanti».

Il gioco di origini indiane, arrivò in Europa grazie alle mediazioni persiana e araba. In origine il pezzo affiancato al Re era il consigliere, ma nell’Europa si trasforma in regina, perché le pedine vennero assimilati ad una corte. Il passaggio è significativo. La donna ha una sua precisa simbologia e può essere assimilata alla Sapienza. Il Re che rappresenta il Sé ha al suo fianco la Sapienza.

La scacchiera è il campo di battaglia dove si affrontano due eserciti. C’è una precisa disposizione iniziale da cui partono le pedine. Nella disposizione iniziale sono contenuti tutti i possibili sviluppi futuri: dallo stesso inizio si possono sviluppare molteplici battaglie. Essendo una creazione umana le possibilità non sono infinite, ma comunque in gran numero. Questa idea che dallo stesso schieramento iniziale si possano sviluppare innumerevoli possibilità è simbolo dello sviluppo del cosmo. L’Uno iniziale, l’uovo primordiale ha in sé tutte le possibilità di sviluppo futuro, come lo schieramento iniziale degli scacchi. Con lo svilupparsi, il processo di materializzazione si realizza in una precisa combinazione come negli scacchi si realizza una precisa partita. Al termine della partita i pezzi tornano nella disposizione iniziale e può ricominciare una nuova battaglia. Ritroviamo il concetto di ciclicità. Dopo lo svilupparsi completo di un mondo, si torna all’Uno iniziale da dove può ripartire un nuovo sviluppo, un nuovo mondo. Concetto comune nel mondo antico, dal mondo classico, agli indiani e dall’altra parte dell’oceano ai Maya. Gli scacchi, con il loro svilupparsi in battaglia e il ritornare al termine di tutti i possibili sviluppi al punto di partenza, simboleggiano i cicli cosmici.

sabato 21 gennaio 2017

La caccia e il mito nel libro di Calasso

tratto da "L'Opinione" del 27 novembre 2016

di Giuseppe Talarico

Per cogliere il momento aurorale della civiltà umana, quando migliaia di anni fa l’uomo si separò dal mondo animale, è utile e fondamentale leggere l’ultimo libro di Roberto Calasso intitolato “Il cacciatore celeste” (Adelphi).


In questo libro, in cui l’autore con la sua cultura sconfinata spazia dall’antropologia alla storia, dalla letteratura alla filosofia, Calasso mostra come all’inizio non vi fosse nessuna distinzione tra gli uomini, gli animali, gli dèi, la natura. In virtù di due eventi capitali, che avvennero nel Paleolitico, la pratica della caccia e il passaggio alla dieta carnea da parte dell’homo sapiens, si ebbe la separazione tra mondo umano e mondo animale. Vi è, secondo Calasso, un’evidente e innegabile relazione tra la pratica della caccia e l’elaborazione di una sequenza di pratiche rituali. Infatti, per separarsi dal branco animale, l’homo sapiens dovette ricorrere al travestimento e all’uso della maschera. Imitando gli animali predatori, l’homo sapiens divenne a sua volta cacciatore.

Tra la figura dello sciamano, che con il tamburo rivestito dalla pelle di animali evocava il mondo invisibile, attirando a sé gli animali, e l’uomo cacciatore, che mirava ad ucciderli, vi è una somiglianza sorprendente. L’invisibile, a cui i riti sacrificali fanno costante riferimento, è il luogo in cui si trovano gli dèi, i morti, gli antenati, il passato intero della civiltà umana.

Analizzando le opere di Esiodo e Apollonio Rodio, Roberto Calasso descrive l’età degli Eroi, quando il divino scorreva tra gli esseri umani, perché Zeus o Poseidone o Afrodite si erano mescolati nell’Eros con i mortali. I peccati capitali di fronte agli dèi commessi dagli uomini furono l’imitazione dei predatori e la loro separazione dal mondo animale. Fu necessaria l’incubazione di cinquantamila anni affinché l’homo sapiens scoprisse la tecnica legata all’agricoltura e sperimentasse la vita domestica.

Secondo Teofrasto il sacrificio cruento, di cui vi è testimonianza in diverse civiltà del passato, da quella dei Veda a quella egizia e greca, si basava su tre elementi fondamentali: reverenza, utilità, riconoscenza. Il sangue, ricavato dal rito sacrificale, doveva purificare l’uomo della sua colpa originaria, dovuta alla sua attività di predatore e cacciatore. Proprio un paleoantropologo nel 1995 ha rinvenuto a Göbekli Tepe (Turchia) un sito archeologico nel quale sono state riportate alla luce enormi pietre in cui sono rappresentati gli animali che si mostrano ostili verso l’uomo. Ovidio nella suo poema i “Fasti” ha descritto i riti sacrificali che avvenivano nella Roma antica, alcuni dei quali sono avvolti dal più fitto mistero come i Lupercalia. I romani celebravano i riti sacrificali senza essere consapevoli del loro significato spirituale, perché la città si fondava sui riti. Nel libro XV delle “Metamorfosi” di Ovidio, che racchiude il racconto della mitologia classica, Pitagora con tono ispirato dal divino definisce la dieta carnea come la colpa irredimibile dell’uomo. Numa, suo allievo, osserva che la pratica rituale costituisce il primo stadio della civilizzazione avvenuta a Roma, fin dalla sua fondazione.

Nel libro vi è un capitolo dedicato alla interpretazione del dialogo di Platone “Le Leggi”. In questo dialogo l’ateniese, che personifica Platone, conversando con due suoi amici, si pone l’interrogativo filosofico decisivo e ineludibile per capire se le vicende umane siano governate dal caso oppure da Dio, chiedendosi quale importanza debba essere attribuita alla fortuna. Per gli uomini il riferimento al mondo degli dèi e al divino è stato sempre imprescindibile e fondamentale per vagheggiare la città giusta e la costituzione della Polis, giusta ed esente da imperfezioni. Il capitolo dedicato alle “Enneidi” di Plotino, che a distanza di sette secoli commentò nella sua opera i testi di Platone, è nel libro di Calasso bello e indimenticabile. Per Plotino la creazione coincide con la contemplazione, in virtù della quale dall’Uno, che è eterno e immobile, ha avuto origine la Mente, da cui ha preso forma l’anima universale e quella individuale di ogni persona. L’Uno è all’origine del mondo, del bene e del bello. Per mostrare quanto fosse importante la relazione tra l’umano e il divino, Calasso nel libro racconta l’episodio della notte delle Ermocopidi, quando le Erme vennero ad Atene devastate e sfigurate. Le Erme, che simboleggiavano il Divino, erano visibili di fronte ai templi e ai santuari, ma sovente si trovavano collocate dinanzi alle case di privati. Per questo crimine vennero condannate a morte venti persone. I misteri di Eleusi, una città che si trovava a venti chilometri di Atene, distrutta in seguito ad una guerra dagli ateniesi, contemplavano il compimento di una serie di miti, osservati per undici secoli. Per svelare il mistero che circonda questi riti, Calasso offre al lettore una descrizione assai coinvolgente delle diverse interpretazioni avanzate dagli studiosi lungo i secoli. In un punto di questo libro, Calasso cita un frammento tratto dal Tieste: “Non vi è nulla per gli umani senza gli dèi”.

Un libro imperdibile.

mercoledì 18 gennaio 2017

“GOETEIA: ARS CONGRESSUM CUM DAEMONE - L’ARTE DI EVOCARE I DEMONI”

Sabato 28 Gennaio 2017 e.v. alle ore 21,15 presso i locali del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 - Via Don Minzoni 39, Bellinzago Novarese (NO) - nell’ambito delle serate dedicate ai “Dialoghi di Esoterismo”, la nostra Associazione ha il piacere di invitarvi ad un imperdibile appuntamento in compagnia di CORINNA ZAFFARANA e GIUSEPPE GIORGIO che parleranno sul tema:

“GOETEIA: ARS CONGRESSUM CUM DAEMONE - L’ARTE DI EVOCARE I DEMONI”

Cosa sono i demoni? 
Forme di energia psichica o proiezioni delle nostre più profonde paure? 
Qualsiasi sia la definizione, esiste davvero la possibilità di evocare un "demone" in forma visibile e sensibile senza postulare uno stato semplicemente folle o allucinatorio?
La tradizione esoterica è ricca di indicazioni relative all'Ars Congressus cum Daemone e la stessa psicoanalisi si è a lungo occupata dell'incontro con forme, volti e voci inquietanti provenienti dalle profondità del nostro inconscio.
In questa serata dedicata ad uno degli aspetti più controversi dell'esoterismo cercheremo di capire cosa siano veramente i "demoni"; se si tratti solo di simboliche leggende o se sia davvero possibile incontrare le nostre paure attraverso i metodi tradizionalmente insegnati nelle Scuole di Alta Filosofia Iniziatica; quali siano i procedimenti corretti e i pericoli legati a questa elevata forma di "Magheia".

Anche in questo caso il nostro Centro si pregia di invitarvi ad un evento di grande interesse a cui, naturalmente, non dovete assolutamente mancare!

ATTENZIONE: Solo in occasione di questa conferenza il nostro Centro offrirà la possibilità di acquistare il volume "LA GOETIA DI RE SOLOMONE" di Aleister Crowley, edito in italiano dal S.O.T.V.L., con uno sconto speciale del 5 euro sul prezzo di copertina!

La partecipazione a questa serata è soggetta a Tesseramento A.S.I. ed è obbligatoria la prenotazione da effettuarsi chiamando il numero 3803149775 o scrivendo a: cta102@cta102.it
Si precisa inoltre che la sola adesione all’evento effettuata su Facebook non è considerata una prenotazione valida.

Per i nostri Associati che volessero seguire la conferenza a distanza sarà naturalmente disponibile il collegamento in streaming video.


sabato 14 gennaio 2017

Cento anni fa con Rasputin moriva la Russia zarista

tratto da "Il Giornale" del 30 dicembre 2016

Fu assassinato a Palazzo Mojka da un complotto di aristocratici che ne temevano l'ascendente sulla zarina. Il racconto della sua morte ne alimentò la leggenda nera. La profezia (avverata) sullo zar Nicola: "Se mi uccidono i nobili, nessuno di voi rimarrà in vita entro due anni".

di Giovanni Vasso

Giusto cento anni fa moriva Grigorij Efimovich Rasputin, il 30 dicembre 1916, nella notte tra il 16 e il 17 dicembre secondo il calendario giuliano in uso nella Russia del tempo.

Immagine tratta da Wikipedia di pubblico dominio
A seguito di una congiura, di un attentato al Palazzo Mojka di San Pietroburgo, la cui memoria contribuirà – e non poco – a costruire la fama sinistra e occulta dello starec venuto da Pokrovskoe. Per ammazzarlo, il principe Jusupov e i suoi complici dovettero – nell’ordine – prima avvelenarlo coi pasticcini al cianuro, poi sparargli e infine gettare il corpo (davvero privo di vita?) nel fiume Malaya Nevka. Tutto in una notte, infinita e drammatica, in cui si compì la prima parte di quella sua profezia destinata, poi, ad avverarsi tragicamente nei tumulti della rivoluzione d’Ottobre.

Sfrenato, ammaliatore, seducente, carismatico. L’icona che lo ritrae è impressa a fuoco nell’immaginario collettivo: capellacci lunghissimi e corvini, barba nerissima e stopposa, occhi gelidi e penetranti, la mano che si alza a benedire o si posa sul petto nel tentativo di mitigare, con un gesto che richiama la prassi religiosa, l’infuocato vitalismo sfrenato che emana in un'aurea mistica e maledetta. Popolare, legatissimo alle origini contadine. La leggenda che in questo senso meglio ne riassume la vulgata che poi di lui è nata è quella del suo presunto priapismo grazie al quale avrebbe conquistato, secondo i maligni (e non furono pochi), i favori di nobildonne e gentili dame grazie alle quali sarebbe riuscito a compiere una scalata senza pari in un ambiente politico e sociale, come quello della Russia zarista, che definire sclerotico è davvero poco.
Fu al centro di cento scandali e sempre ebbe la benigna indulgenza della zarina Alessandra, a lui devotissima perché convinta che il monaco avesse salvato da morte certa – con le sue preghiere e i suoi pretesi poteri taumaturgici – il figlioletto, lo tsarievich Aleksej, affetto da emofilia. Per lei, Rasputin era “l’uomo inviato da Dio” e avrebbe desiderato che suo marito, lo zar Nicola, gli prestasse un po’ d’ascolto. Specialmente quando gli sconsigliò di entrare in guerra. Anche perché le sue profezie si sarebbero tutte avverate, ma questo la zarina non poteva ancora saperlo.

Come riporta nella biografia che gli ha dedicato lo storico franco-armeno Henry Troyat citando Aron Simanovic, Rasputin lo aveva detto e scritto quale sarebbe stato il destino suo e della Russia: “Se vengo ucciso da volgari assassini, in particolare dai miei fratelli contadini, tu, Zar di Russia, non avrai nulla da temere per i tuoi figli: regneranno per secoli. Ma se invece vengo ucciso da boiardi, se i nobili verseranno il mio sangue, le loro mani resteranno insanguinate per venticinque anni. Dovranno lasciare la Russia. I fratelli si scaglieranno contro i fratelli, si uccideranno a vicenda e si odieranno e per venticinque anni non vi saranno più nobili nel paese. Zar della terra russa, quando udrai il suono della campana che annuncia l’assassinio di Grigorij sappi che se è stato un tuo parente a provocare la mia morte, tutti i tuoi, compresi i tuoi stessi figli, non vivranno oltre due anni. Saranno uccisi dal popolo russo”. In un'altra (pretesa) profezia, Rasputin (che fu sempre contrario all'entrata in guerra della Russia nel '14) asserì che il sangue dei mugiki, dei poveri contadini russi mandati al macello sulle trincee della Prima guerra mondiale, sarebbe ricaduto non sui nobili e sui generali ("che si ingrassano e se ne fregano") ma sulla famiglia reale. "Lo Zar è il padre dei mugiki e il loro sangue e la collera di Dio cadranno su di lui". Un richiamo, questo, che sembra avere un importante significato politico attualizzabile in ogni tempo, anche nel nostro: chi ha responsabilità di governo non può e non deve ignorare il popolo per fare ciò che chiedono le élites.

E andò proprio così come il monaco pazzo aveva preconizzato. Perché se a San Pietroburgo si festeggiò, nei salotti, alla notizia della morte di Rasputin, nelle campagne il popolo reagì male. Era stato, come dice ancora Troyat, il contadino che più di tutti s'era avvicinato al trono. Era, nonostante tutto, uno di loro. E lo avevano ucciso. Con Rasputin, ucciso dal complotto degli aristocratici nel palazzo della cugina dello zar, morirà e con lui scomparirà un mondo bizantino di icone, formalismi e caste ormai svuotato da ogni senso e travolto dal fuoco della rivoluzione che trasformerà San Pietroburgo in Leningrado. Il principe Feliks Jusupov, padrone del Palazzo della Mojka e coinvolto nel complotto, morirà anch'egli. Ma in esilio a Parigi, lontanissimo dai fasti di una corte che ormai non c'era più, nel 1967.

La figura di Rasputin, criticata e apertamente bistrattata dai politici, dal clero ortodosso diventerà popolarissima seppure con l'alone malvagio di una leggenda nerissima, più nera della sua stessa barba. La sua figura, quasi a sublimarsi nel cliché letterario del romanzo gotico del monaco pazzo, divenne popolarissima in tutto il mondo.

A Rasputin si sono ispirati in moltissimi, da Hugo Pratt che sullo starec disegnerà uno dei personaggi più popolari delle storie di Corto Maltese (insieme a Ungern, ricalcato da Pratt su Roman Fiodorovic Ungern von Sternberg, il "barone pazzo", che fu l'ultimo generale bianco costretto alla sconfitta dall'ormai vittoriosa Armata Rossa, in Mongolia) fino alla musica pop e al cinema oltre che una sterminata letteratura.

martedì 3 gennaio 2017

Presentazione del libro "C'era una volta" di Alessandro Moriccioni

Domenica 8 Gennaio dopo le 17:30 al teatro Velly di Formello l'associazione Viviamo le Rughe in collaborazione con l'autore Alessandro Moriccioni presenta il libro "C'era una volta". L'ingresso è gratuito.

Le Fiabe e le favole ebbero origine dalle prime comunità tribali umane, quelle più primitive, e dai loro riti di passaggio all'età adulta. Nel corso del tempo questi riti furono dimenticati e sostituiti da racconti fantastici che, una volta fissati sulla carta, sono giunti sino a noi. Le storie che raccontiamo ai nostri figli sono l'eredità ancestrale della cultura umana sopravvissuta attraverso il folclore, i testi sacri e le figure mitologiche. Narrarne una significa raccontare l'umanità stessa.