martedì 23 luglio 2013

MERLINO, UN MITO ITALICO

MERLINO, UN MITO ITALICO
Grotte, sorgenti e simboli. L'archetipo del mago arturiano nella geografia psichica d'Etruria
di Bernardo Tavanti



In Merlino, druido per antonomasia, coincidono antichi simbolismi legati alla magia maschile e ai poteri interiori dell’uomo. La sua funzione ha permesso una strategica mediazione tra cultura celtica e valori cristiani, ed è stata impiegata soprattutto in Francia e Britannia che vissero un’evangelizzazione lenta e complicata.
Al contrario, qui in Italia, la figura del mago-condottiero sembra essersi estraniata dall’immaginario collettivo, salvo per le mere fantasie indotte dal cinema e dal romanzo anglosassoni. Ma ad una più attenta analisi sui territori italici e in particolare su quelli dell’antica Etruria, l’atavico mago risulta presente nelle leggende rurali come nella toponomastica, nella letteratura come nel folklore, ricalcando personaggi e simboli che da epoca antichissima percorrono la nostra società.          
tra gli argomenti trattati:
LE ORIGINI LETTERARIE E SIMBOLICHE
MONTE BIBELE E LA TUMULAZIONE ITALICA
LE SIBILLE APPENNINICHE
L'ARUSPICE A ROMA E I PRIMI SANTI-DRUIDI
IL GALVANO DI MONTESIEPI E I POETI TOSCANI
IL «DRUIDO» FRANCESCO E  LE QUERCE SACRE
GLI ALCHIMISTI E LE GROTTE MERLINIANE DEI GIARDINI INIZIATICI
I SACRI BOSCHI E LE FONTI DI MORGANA
LA GROTTA DI ARCIDOSSO
e tanti altri.


lunedì 22 luglio 2013

Divinazione per principianti





Autore:
Scott Cunningham (1956-1993) è stato scrittore prolifico di libri sulla Wicca e attivo diffusore della spiritualità pagana nel nostro tempo. Il suo stile fresco e diretto lo ha reso popolare soprattutto tra i praticanti solitari dell’Arte che cercano una guida erudita a cui affidarsi. Grande conoscitore di erbe e iniziato in diversi Ordini, considerava la Wicca una religione che parla all’uomo moderno tramite simboli e concetti antichi. I suoi libri hanno influenzato notevolmente i cambiamenti all’interno del movimento wicca e dei suoi seguaci.  


Argomento:
Dall’approccio pratico e pensato per raggiungere tutti quelli che vogliono avvicinarsi alla materia, questo libro rappresenta una guida completa alla divinazione: l’arte di determinare il passato, il presente e il futuro. Presentando e spiegando le più importanti tecniche divinatorie odierne e dell’antichità, Cunningham mostra come chiunque, anche senza essere un indovino, può praticare questa arte e ricevere non solo utili risposte alle proprie domande, ma anche importanti aiuti in merito alle scelte future. Il lettore viene guidato attraverso le tecniche del pensiero simbolico, la natura dell’illusione che chiamiamo tempo e un’utile guida all’uso dei principali strumenti divinatori.

domenica 21 luglio 2013

Vampiri e spettri Ecco i nonni italiani del «fantastico»

Tratto da Il Giornale del 18/07/2013

di Gianfrando De Turris

Nonostante il nostro retaggio mitico, leggendario, folklorico, favolistico che risale addirittura alla classicità per poi fiorire nel medioevo, non possiamo dire di possedere una vera e propria tradizione fantastica, considerando tale quella che si è formata e codificata in tutta Europa durante il romanticismo, e che ne ha fissato i canoni quali oggi comunemente s'intendono. Il fatto è che il nostro romanticismo è stato risorgimentale, vale a dire a sfondo politico, ed ha tagliato le gambe al recupero appunto di miti, leggende, folklore e favole nazionali come avvenne in Francia, Gran Bretagna e Germania. In più ci si mise anche la critica «ufficiale», da Francesco De Sanctis a Benedetto Croce, per dire che quel tipo di romanticismo fatto di brughiere e di «fantasime» non era adatto alla nostra «anima» classica.



Nello stesso tempo, però, non è che non esistano nella nostra storia letteraria degli ultimi due secoli temi, argomenti, spunti «fantastici». Anzi, si può dire che la tentazione del fantastico abbia colpito un po' tutti i nostri maggiori scrittori, veristi compresi, anche se saltuariamente. Più diffusa la vena sotterranea a livello di narrativa popolare, e lo sforzo di una critica aperta e intelligente dovrebbe essere quello di riportarli alla luce.
Cominciò a metà degli anni Ottanta un pioniere come Enrico Ghidetti con la sua antologia Notturno italiano, alla quale seguirono quelle curate da Lattarulo, Farnetti, Reim, D'Arcangelo e Gianfranceschi, più di recente di Foni e Gallo. Sovente però autori e storie risultano gli stessi: bisogna quindi continuare a scavare in archivi, biblioteche, collezioni di giornali e riviste sia popolari che di più alto livello. Alcuni, come il bravissimo Riccardo Valla, scomparso improvvisamente a gennaio, ci stava provando in proprio scansionando vecchi testi introvabili da mettere in Rete, compito che sembra si assumerà adesso fantascienza.com di Silvio Sosio.
Ora però, in quel di Mercogliano provincia di Avellino, ecco che è nata una piccola ma efficiente casa editrice, la Keres (www.keresedizioni.com) che sotto la direzione di Antonio Daniele si è data alla riscoperta di quello che potremmo definire il protofantastico italiano, dando alle stampe tre libri non solo di bella presenza con adeguate copertine e impostazione grafica, ma anche ben curati con note, biografie e bibliografie, foto dell'autore e documenti d'epoca, a dimostrazione di un interesse critico-storico. Particolare attenzione al mito supernazionale del vampiro in una ampia accezione, intanto con l'antologia Vampiriana (pagg. 160, euro 16) che riunisce otto racconti dal 1885 al 1917, cioè pubblicati prima che fosse tradotto in italiano (1922) il Dracula di Stoker, a dimostrazione di come ci fosse attenzione ad un tema che non è solo del gotico inglese o tedesco. E poi con due romanzi, vere e proprie riscoperte, riedite dopo un secolo e più.
Uno è il primo romanzo italiano sull'essere della notte, appunto Il vampiro. Storia vera (pagg. 238, euro 13) del barone Franco Mistrali (1833-1880), giornalista, scrittore, garibaldino e anticlericale, uscito nel 1869, che nulla deve a Stoker, anzi con la sua vampira Metella anticipa la Carmilla/Mircalla di Le Fanu, e con il suo quadro inquietante Il ritratto di Dorian Gray di Wilde. Il secondo, L'anima, curato da Gianandrea de Antonellis (pagg. 190, euro 13), uscì nel 1893 e lo scrisse Enrico Annibale Butti (1868-1912), detto «l'Ibsen italiano», ed è una storia di fantasmi, apparizioni, passioni violente umane e al di là dell'umano. In entrambi, data la cultura e la psicologia dei due autori, si scontrano scienza e fede, razionalità e irrazionalità, materia e spirito, oscillando i protagonisti fra l'incredulità di fondo e il desiderio di credere a fatti oggettivamente inspiegabili e sovrannaturali.
Vere sorprese per i lettori di oggi che cominceranno così a scoprire le radici dell'Immaginario italiano.


 

sabato 20 luglio 2013

Archeologia, trovate a Manaus (Amazzonia) urne funerarie di 2500 anni fa

Tratto da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 9 agosto 2003

La scoperta di 270 urne funerarie di ceramica nel centro di Manus, in Brasile, conferma l’ipotesi dell’esistenza di una cultura organizzata e complessa in Amazzonia già 2500 anni fa. Le urne sono state scoperte nei giorni scorsi da operai che lavoravano in una centralissima piazza della capitale dell’Amazzonia brasiliana. Sotto uno strato di terra nera di origine organica, presente in quasi tutti i siti funerari della regione, sono state rinvenute le ceramiche, alcune delle quali in eccellente stato di conservazione, a circa due metri di profondità. Le urne sono alte circa un metro, con un diametro di 90 centimetri, e contengono le ossa di una o due persone. Secondo le prime stime, le urne risalgono ad un periodo intorno al 500 avanti Cristo. Le ceramiche analoghe più antiche scoperte finora risalivano a 1.300 anni fa, mentre l’oggetto umano più antico rinvenuto è una punta di freccia di pietra vecchia di 7.700 anni. Negli anni ’60, l’archeologo tedesco Peter Hilbert, aveva già formulato l’ipotesi dell’esistenza di una "civiltà amazzonica" di un certo livello culturale e tecnologico, ma non era stato preso sul serio.

domenica 7 luglio 2013

Il segreto di Atlantide nascosto in Sardegna

Tratto da il Giornale, 27/9/2004

Lorenzo Scandroglio

E se la mitica Atlantide fosse stata davvero la Sardegna? La domanda, rimbalzata da un angolo all'altra del mondo accademico e giù giù fin sulla bocca di tutti, ha cominciato a girare nella tarda primavera del 2002, quando, per la casa editrice romana Nur Neon, è uscito il libro di Sergio Frau Le Colonne d'Ercole, un'inchiesta.

Oggi, a due anni dalla bomba culturale di questa ipotesi, un gruppo di quindici Indiana Jones, composto da archeologi, ricercatori, direttori di musei, e un rappresentante dell'Unesco per la Sardegna, sono partiti a caccia di indizi: vogliono sapere che cosa c'è di vero in quello che dice lo scrittore-studioso Sergio Frau nel suo libro. In effetti l'ipotesi è meno strampalata di quello che sembra. Sicuramente meno strampalata di quelle sostenute dagli "ufaroli" - come li chiama lo stesso Frau -, tutti coloro che sulla leggenda dell'isola-continente sprofondata hanno sovrapposto di volta in volta gli extraterrestri, i Mu, l'Antartide e via delirando. Intanto, quasi a voler prendere le distanze da tante ciarlatanesche ipotesi che hanno usurato il nome di Atlantide, Frau parla di isola di Atlante.

Ma vediamo in sintesi come è nata l'intuizione dello scrittore di evidenti origini sarde: tutto è cominciato a partire dalle analisi geologiche di come era il Mediterraneo millenni fa, compiute da Vittorio Castellani, ordinario di Fisica stellare all'Università di Pisa. Nel libro Quando il mare sommerse l'Europa l'astrofisico spiega che nella protostoria (circa cinquemila anni fa) il livello del mar Mediterraneo era assai più basso di adesso. Ecco allora che, essendo molto inferiori le distanze fra Sicilia e Tunisia, Frau ipotizza che, confortato da geografi e viaggiatori antichi, le Colonne d'Ercole, in seguito identificate nello stretto di Gibilterra, fossero proprio là. E la Sardegna come diventa Atlantide? Ricollocando le colonne d'Ercole nel canale di Sicilia, traslocano all'interno del Mediterraneo tutti quei miti e luoghi leggendari estromessi nell'Oceano e lì lasciati in balia delle ipotesi più peregrine. Quello che più conforta la reinterpretazione fatta da Frau - come ha scritto Roberta Mocco - è che le distanze e i riferimenti geografici, che gli antichi fanno nel raccontare di queste due terre mitiche, risultano alla perfezione, cosa che non succede invece se si spostano le colonne d'Ercole a Gibilterra. Qualche difficoltà di spiegazione viene dalle date che indica Platone per dare i tempi della storia gloriosa di Atlantide. Il filosofo greco parla infatti di "novemila anni" nel passato rispetto alla sua epoca. Qui Frau si ritrova a fare l'"aggiustamento" più rilevante sulle parole degli antichi, e lo fa seguendo ancora una volta una logica che allontana dalle suggestive leggende. Non è pensabile che un popolo che usava i metalli, conoscitore della scrittura, potesse esistere nel Diecimila prima di Cristo. Peraltro è estraneo alla mentalità antica la misurazione del tempo in anni, cosa che i Greci non facevano mai. Tutto torna, invece, se si interpreta come "mesi" ciò che per secoli è stato tradotto come "anni". Un rammendo interpretativo visibile, ma motivato. In questo modo, inoltre, coinciderebbero i tempi con lo sviluppo della civiltà nuragica, il popolo "venuto dal mare", come lo chiama Platone, ossia gli Shardana, gli stessi che ritroviamo poi schiavi del faraone Ramsete. Un sospetto, questo che la Sardegna coincida con la mitica Atlantide, che ora quindici studiosi vogliono smentire o confermare. L'équipe è arrivata i giorni scorsi all'aeroporto di Elmas e per prima cosa ha voluto vedere la mostra allestita al secondo piano, nell'area riservata al check in, chiamata "Atlantikà, l'isola del mito". Pannelli e video che raccontano la storia della Sardegna come la immagina Frau. Un'isola circondata di torri, i nuraghi, come un'antica Manhattan che domina le scelte economiche, politiche e belliche del Mediterraneo. L'ha ribadito l'autorevole voce di Azzedine Beschausch, accademico di Francia, ex direttore del Patrimonio mondiale dell'umanità e ora in Sardegna come rappresentante dell'Unesco: "Siamo qui per cercare le tracce di un passato forse diverso da quello che la storia ci ha raccontato. Dire che la Sardegna in passato abbia avuto un ruolo centrale nella civiltà del Mediterraneo non è un'eresia. Gli indizi sono parecchi. Ora andiamo a cercare le conferme".


sabato 22 giugno 2013

Brevi riflessioni sulla follia di Perceval

di Vito Foschi

Nel racconto di Chrétien de Troyes, all’inizio dell’avventura, il giovane Perceval è all’oscuro di tutto, vive in uno stato quasi selvaggio accudito dalla madre e dai servitori. È giovane, sta per entrare nell’età adulta ma è come se non fosse ancora nato, addirittura non viene chiamato con il suo nome… è il puro Folle. Puro perché non contaminato dal mondo, è vissuto nella foresta ed è come se avesse continuato a vivere nel grembo materno, folle perché ignorando totalmente le regole del vivere in società il suo comportamento ai più sembra dettato da follia. Nei primi passi del romanzo abbondano gli appellativi folle, stolto, giovane selvatico. Ma nonostante la Follia o proprio grazie ad essa decide di seguire la Luce, la luce portata nel suo mondo dal bagliore delle armature dei cavalieri che egli non a caso crede angeli.

Qui mi sovviene l’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam che indica nella Follia il motore della storia, per cui nascono e muoiono imperi, città, si formano famiglie, si intraprendono viaggi, attività economiche, ecc. Il saggio, prudente qual è, rimane in casa senza gettarsi in avventure e si accontenta del suo stato e non sogna. Il Folle sogna e qui mi sovviene Lwarence D’Arabia e il suo aforisma sugli uomini che sognano. Recito a memoria. “Esistono due tipi di uomini quelli che sognano quando dormono e quelli che lo fanno ad occhi aperti. Di queste specie di uomini la seconda è la più pericolosa perché lotta per realizzare i suoi sogni”. Non sono le parole esatte, ma il senso è quello. Perceval è della specie che sogna ad occhi aperti. Vede i cavalieri e decide di diventarlo, si arma e parte senza indugiare oltre abbandonando la madre che muore di crepacuore. La vede a terra, ma non si ferma, non indugia, sferza il cavallo e corre via lontano. Un comportamento non propriamente saggio. E quando vede le tre gocce di sangue sulla neve fresca e rimane lì imbalsamato nel dolce ricordo di Biancofiore, che cosa fa se non sognare ad occhi aperti? Addirittura non si accorge dei molti cavalieri che vengono ad interrogarlo su chi era e cosa voleva, che irritati lo caricano e vengono abbattuti puntualmente da Perceval che combatte come in sogno. Una volta “sveglio” raggiunge la corte di Re Artù e chiede del siniscalco Key, con cui aveva una contesa e gli dicono che è stato proprio lui ad abbatterlo e ferirlo ad un braccio. Non si era accorto di niente, il nostro sognatore. Nel saggio di Erasmo esaminata la follia di tutta l’attività umana si giunge alla conclusione che l’unica “follia giusta” è quella in Cristo, quella dei Santi, dei Martiri, ma anche del semplice credente che in Cristo solo può trovare risposta alla follia della vita. Questa è l’idea di Erasmo, che riprende in maniera satirica il concetto di follia come massima saggezza espresso da San Paolo nella lettera ai Corinzi, non a caso citato nell’Elogio, che nonostante la sua sostanziale ortodossia, verrà tacciato di eresia, probabilmente per il suo sarcasmo sui teologi cervellotici, le critiche alla chiesa e al potere costituito, anche se il suo intento era solo di ironizzare sulla società terrena per mettere in evidenza la Verità ultraterrena. E il buon Perceval cosa fa verso la fine del romanzo incompiuto di Chrétien? Dopo aver vissuto cinque anni lontano dalla chiesa, e quindi lontano dallo spirito, vivendo mille avventure senza ritrovare il Graal incoccia in una processione di Venerdì Santo e uno dei presenti lo rimprovera del suo andare armato. Perceval stupito chiede che giorno sia e, ottenuta la risposta sente la necessità di fare penitenza e gli viene indicato un eremita e lui ci se reca prontamente. Qui riceve la sua iniziazione spirituale, ma non ci soffermeremo su questo, ma sul fatto che il Puro Folle ritorna a Dio, la sua follia nel mondo si tramuta in follia in Cristo. Dopo cinque anni di avventure, di follia umana, scopre ciò che è veramente importante la Follia del Cristo che si fece uomo per riscattare i peccati degli uomini e Perceval capito ciò è pronto a riconquistare il Graal ed essere il Folle in Cristo capace dell’estremo sacrificio per mondare il mondo dal peccato e risorgere alla vita eterna.

Naturalmente questa è l’interpretazione cristiana del racconto di Chrétien, ma non è la sola possibile dato che nel cristianesimo persistono reminiscenze di antichi culti e l’evidente presenza nel racconto di elementi celtici posta in luce da molti studiosi.

martedì 11 giugno 2013

Re Artù passò di qui -Le ultime scoperte,tra leggende e verità

tratto dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 22/7/2001

La leggenda del Re si lega a quella del Graal
Alcune tracce nella Basilica di Bari e nella cattedrale di Otranto

di Manlio Triggiani

Re Artù in Puglia? Le tracce ci sono. Non soltanto la materia di Bretagna, dove si parla appunto di Re Artù e dei dodici cavalieri della Tavola rotonda, è anticipata di un secolo almeno nell’archivolto dei leoni della Basilica di San Nicola di Bari. E questo già è un dato misterioso, soprattutto perché si tratta di una materia di rilievo nordico presente a Bari. Ma tracce ci sono anche a Otranto, porto di grande importanza nell’antichità e nel Medioevo, da dove partivano le navi del crociati dirette in Terrasanta. Punto terminale della via Traiana, fu più volte assalita dalla flotta turca e, nel 1480, sotto i1 comando di Achmed Pascià, conquistata. Vescovo, clero e popolo furono massacrati nel duomo. Due giorni dopo, il 14 agosto, sul collo della Minerva, furono decapitati 800 prigionieri superstiti, poi passati alla storia come i Martiri d’Otranto. La pietra delle decapitazioni e gli ossari delle vittime sono conservati nella cappella dei martiri della cattedrale. Una cattedrale testimone, quindi, di orrendi massacri, sul cui pavimento, realizzato con un grande mosaico di rara bellezza, c’era (e c’è) l’immagine dire Artù.
Il mosaico rappresenta l’albero della vita che si richiama ad antiche tradizioni sapienziali, fra cui quella ebraica. Secondo una leggenda, re Artù guarderebbe una porta e nel guardarla indicherebbe l’accesso a un luogo segreto dove egli riposò tre giorni e tre notti prima di affrontare un combattimento. Forse, si dice, si tratterebbe di una grotta nei pressi del castello di Otranto.
Ma dove è situato, nel mosaico, re Artù? E’ fra i personaggi dell’antico Testamento, in groppa al suo cavallo, con lo scettro, la corona, i calzari a punta. Il Frate Pantaleone realizzò, fra i1 1163 e il 1165, i1 pavimento musivo con un messaggio di carattere cristiano universalista, come in seguito fecero Gioacchino da Fiore, Pietro Abelardo, Bernardo di Chiaravalle. Gli alberi della vita sono tre e si snodano lungo le tre navate della cattedrale. I1 più importante è quello della navata centrale che poggia su due elefanti indiani che raffigurerebbero il Vecchio e il Nuovo Testamento. L’albero simboleggerebbe i1 Cristo (ma molteplici sono le interpretazioni a seconda delle tradizioni cui si fa riferimento) e fra i rami dell’albero sono rappresentati pagani, musulmani, ebrei, cristiani e personaggi della Bibbia: Noè, Abramo, re Salomone e la regina di Saba, A1essandro Magno, in Artù e tutto il creato: angeli, piante, animali. Insomma, l’albero come summa, come punto di incontro fra l’uomo e Dio.
Ma secondo un’altra lettura del mito di re Artù, Frate Pantaleone inserì questo personaggio in quanto richiama la ricerca del Graal, secondo il duplice significato di vaso sacro, simbolo di fede, e libro di pietra, simbolo di conoscenza. Nel XII secolo ricomparve la leggenda del Graal nella versione cristiana di vaso sacro che Gesù Cristo avrebbe utilizzato nell’ultima Cena o vaso sacro nel quale Giuseppe d’Arimatea raccolse i1 sangue fuoriuscito dal costato di Gesù. E la cerca del Graal ricorre nella letteratura della materia di Bretagna in quanto era uno dei maggiori ideali cavallereschi (si veda, di autori vari, il codice segreto del Graal; edito da Newton e Compton e, sempre di autori vani, Luce del Graal dalle edizioni Mediterranee). E si richiama a una simbologia molto particolare: il re Artù, come si vede nel mosaico, combatte contro un gatto. Per ritrovare il Graal bisognava essere puri e, come gli autori del Medioevo hanno tramandato, re Artù non era puro e perciò fu assalito dal gatto di Losanna, simbolo del male, del peccato. Proprio sotto le zampe posteriori del cavallo di re Artù, nel mesaico,si vede l’esito della lotta: re Artù viene disarcionato e ucciso dal felino. Sopra il re c’è un personaggio nudo, che rappresenta l’uomo puro, nuovo: si tratta di Galaad che nasce dalla morte di Artù ed è destinato a conquistare il Graal. Dal punto di vista della tradizione cristiana Artù e i dodici cavalieri simboleggiano Gesù e i dodici apostoli, Gesù, del resto, venne "per salvare l’uomo ma si addossò il peccato e da esso fu ucciso". Artù e Galaad, quindi, rappresenterebbero la morte e la rinascita, la cerca e il ritrovamento (su questo si veda di Gardner, Le misteriose origini dei re del Graal, edito da Newton Compton).
Otranto era i1 punto di incontro fra le civiltà latina e greca. Poi segui l’invasione longobarda e la città rimase fedele ai bizantini, ma la successiva occupazione normanna riaffermò la cultura occidentale senza cancellare quella greca. Un crogiuolo di culture simili, europee, che arricchirono questa importante città e la sua cattedrale, la più orientale d’Italia.