Il "diavolo" visto da vicino. In Italia, ogni anno, 500mila persone richiedono un esorcismo. E Padre Ildebrando esorcizza decine di persone al giorno
tratto da "Il Giornale" del 08/02/2018
di Elena Barlozzari Francesco Boezi
Charles Baudelaire diceva che il peggior inganno del diavolo consiste nel persuaderci di non esistere. Le decine di persone che ogni giorno si recano all’Abbazia di Casamari, nel frusinate, credono o almeno sospettano non solo che il demonio esista, ma che abbia finito per interessare le loro vite.
Cinquecentomila italiani, ogni anno, chiedono un esorcismo per se stessi o per i propri cari. Dalla Lombardia alla Sicilia, centinaia di quelli che don Ildebrando Di Fulvio chiama “pazienti” si recano speranzosi ai piedi di questo monastero cistercense implorando la “guarigione” dalle sofferenze.
Don Ildebrando e il conto salto del diavolo
“La sera sono costretto a strappare alcuni biglietti: le richieste sono troppe e non riesco a rispondere a tutti”. Don Ildebrando pratica esorcismi dal 2002. “Ai miei tempi - racconta - si diveniva esorcista per volontà del vescovo, ora c’è una procedura più complessa”. Il padre cistercense ci accoglie nel suo umile studio. Non facciamo in tempo ad ambientarci che già vediamo arrivare una famiglia al completo: “Cerchiamo padre Ildebrando, nostro figlio non sta bene”. Il custode dell’Abbazia fa accomodare la famigliola in sala d’attesa. “Vedete - ci ribadisce don Ildebrando - questo territorio è vessato da decine di riti satanici. Ogni giorno è così”. Per il padre il maligno può impossessarsi delle persone in migliaia di modi, ma la magia, le messe nere e il satanismo risultano le vie d’accesso più battute da Belzebù. “Non sono un mago: uso una stola viola, che è il colore della penitenza, il Vangelo, l’acqua santa e un libro ad hoc”. Il minore accompagnato dai suoi genitori viene esorcizzato. Noi non possiamo assistere e così restiamo fuori ad aspettare. “Non è emerso niente - ci rivela l’esorcista al termine della seduta - lo rivedrò tra qualche giorno per sicurezza”. Il diavolo, secondo la Chiesa, conosce tre modalità di intervento: la possessione, l’ossessione e la vessazione. La prima arriva a riguardare anche la sfera fisica, la seconda la mente e il comportamento, la terza manipola le credenze della vittima. E Don Ildebrando se la prende con quelli che definisce “maghi cattivi”. “Una persona che ho avuto in cura per anni riusciva a lenire la sofferenza solo scaricando denaro nelle mani di un mago. Alla fine della fiera, questa persona ha pagato una cifra pari a 200mila euro”. Adesso è guarita, ci dice. Gli esorcisti, è bene sottolineare, sono gratis. Il demonio no, presenta sempre un conto salato: “Ancora oggi, ogni tanto, il diavolo usa bussare alla mia porta di notte, due volte, una all’una e una alle tre. Mi fa sparire le cose, ma ormai ci sono abituato”. Ci si può credere o no, ma qui don Ildebrando è ricercato tanto quanto un primario di psichiatria. Per Giovanni Bonelli, professore universitario, neurologo e psichiatra di Siena, si tratterebbe di disagi psichici. “Qui si va sul taumaturgico - dice a IlGiornale.it - alcune persone hanno bisogno di credere in qualcosa”. Isterici e tarantolati per la scienza, posseduti, ossessionati o vessati per la Chiesa. Ma Don Ildebrando è uno di quegli esorcisti che quando si trova dinanzi a un disturbo mentale consiglia al “paziente” di recarsi da un medico.
La testimonianza del bibliotecario
Intervistare un esorcizzato non è cosa semplice. Le persone, liberate dal maligno tendono a non volerne più sapere. Luciano è laureato in lettere classiche. Lo ripete due volte come a ribadire di essere una persona del tutto razionale. Conosce l’Abbazia di Casamari come le sue tasche: ne è stato uno dei bibliotecari per vent’anni. “Una mattina don Ildebrando è venuto a chiederci aiuto, ci siamo precipitati in 3 o 4 nella saletta dove era con una ragazza, io sono resistito 10 minuti perché l’ho vista sollevatesi da terra e saltare da un tavolo all’altro, quelli che sono rimasti dentro mi hanno raccontato che quando la giovane li afferrava sentivano le ossa che si stavano spezzando”. Un’esperienza che Luciano non dimenticherà: “Di fronte a certe cose come fai a darti delle spiegazioni?”.
Bergoglio, gli esorcisti e i numeri
Papa Francesco, nel corso dei suoi 5 anni di pontificato, ha citato il maligno più volte di tutti i suoi predecessori. “Viene dal sud America - ci dice Ildebrando - sa quanto è importante questo aspetto, poi è un gesuita e ne sa una più del diavolo”. Gli esorcisti, sotto il pontificato di Bergoglio, sono stati in qualche modo riabilitati. La presenza del Diavolo, del resto, è certificata dalla prima pagina della Bibbia che termina con la vittoria di Dio sul demonio. Cinquecentomila italiani, si diceva, si recano annualmente degli esorcisti, che sono solo 250 più 62 ausiliari. Nel mondo sono 404. La domanda però cresce di anno in anno. “Anche per colpa della rete”, secondo il don di Casamari. “Non ho alcuna conoscenza dei nuovi media - specifica il padre cistercense - ma il demonio opera con ogni mezzo”. Don Ildebrando scappa in Chiesa: dopo la messa di mezzogiorno i monaci si radunano per una preghiera collettiva. Poi ci sarà il pranzo, a cui forse l’esorcista non potrà partecipare: c’è già la fila alla porta della sua stanza. E l’inferno, diceva Emil Cioran, “è esatto quanto un verbale”.
Blog dedicato ai misteri, esoterismo, antiche civiltà, leggende, Graal, Atlantide, ufo, magia
domenica 12 agosto 2018
sabato 4 agosto 2018
Diventare Alchimista
in collaborazione con l'autore Michele Leone
tratto da: http://micheleleone.it/diventare-alchimista/
Le qualità che si ricercano per quelli che vogliono lavorare nell’Arte dell’Alchimia
Quelli che avranno desiderio di esercitarsi in quest’arte, è necessario che possiedano quattro cose, senza le quali sarebbe impossibile che essi adempiano al loro desiderio; le quali son queste, cioè: Tempo, Fatica, Pazienza e Facoltà (economica); perché, se le avrà, farà bene. Ma chi mancherà d’una non potrà fare alcuna cosa buona. Et pertanto non sia nessuno, che si metta a tale impresa, se prima egli non ha il compimento delle quattro cose, perché, se qualcuno vuol fare in dieci giorni quello per cui non basta un mese di tempo, non farà nulla. Similmente chi vuol lavorare senza affaticarsi, non farà cosa buona. Chi non avrà pazienza intorno all’opera, non farà niente. In ultimo chi non avrà da spendere, si affaticherà in vano. E soprattutto non si metta in quest’impresa l’uomo rozzo, come da principio ho detto, perché non solamente non avrà onore; ma piuttosto darà biasimo alla nostra Arte, come dire, che non sia vera, e in vano proverà a creare Oro e Argento, perché non vi riuscirà.
Giovambattista Birelli, Opere, Tomo I, Libro I, Cap. III, Firenze 1601.
Diventare alchimista, non è mai stata impresa semplice e ha sempre richiesto delle qualità o doti. Non è singolare che Birelli annoveri tra le doti necessarie per diventare alchimista la capacità economica, i testi degli alchimisti sono pieni di lamentazioni sul denaro speso e fortune dilapidate. Le altre tre qualità descritte al lettore per diventare alchimista: Tempo, Fatica e Pazienza, sono qualità necessarie per imparare ed avvicinarsi ad una qualunque Arte. Unitamente al celebre Volere – Osare – Sapere – Tacere che può rappresentare la guida per chi è già nell’Arte, questo trinomio, oggi più che mai dovrebbe diventare un memento per tutti coloro che vogliono occuparsi di talune discipline. Sono di non riscuotere il favore dei più, ma la conoscenza sia come concetto di Cultura e Critica in generale sia come Scienza Ermetica non può non passare che attraverso queste tre strade che portano ad un altro trinomio: Sacrificio – Costanza – Amore. Per avvicinarsi all’Arte, non basta la frequentazione di qualche gruppo sui social media o la lettura di un paio di volumetti, sono necessarie le qualità sopra descritte. L’Arte richiede amore e dedizione, ed anche se si hanno queste qualità non è detto che conceda i suoi favori all’amante.
In ultimo Birelli avverte che per diventare alchimista non bisogna essere uomini rozzi. La rozzezza dello Spirito, la mancanza di gentilezza dell’animo, l’assenza di sensibilità impediscono all’essere umano di avvicinarsi all’Arte e se comunque si avvicinasse non gli sarebbe dato comprenderla.
Sulla difficoltà degli studi per diventare alchimista lascio l’ultima parola a Birelli:
Però con molta ragione son figurato gli studi per aspri, e travagliosi; E quindi li hanno piantati nell’asprissima Montagna delle difficoltà, ove, dilatando le sue radici nei dolori, vengono a rendere l’uomo virtuoso, costante e forte, che non si debilita mai per paura, per podestà non si muta; non d’innalza (non diventa arrogante) per le cose prospere né per le contrarie si sommerge (non si deprime).
tratto da: http://micheleleone.it/diventare-alchimista/
Le qualità che si ricercano per quelli che vogliono lavorare nell’Arte dell’Alchimia
Quelli che avranno desiderio di esercitarsi in quest’arte, è necessario che possiedano quattro cose, senza le quali sarebbe impossibile che essi adempiano al loro desiderio; le quali son queste, cioè: Tempo, Fatica, Pazienza e Facoltà (economica); perché, se le avrà, farà bene. Ma chi mancherà d’una non potrà fare alcuna cosa buona. Et pertanto non sia nessuno, che si metta a tale impresa, se prima egli non ha il compimento delle quattro cose, perché, se qualcuno vuol fare in dieci giorni quello per cui non basta un mese di tempo, non farà nulla. Similmente chi vuol lavorare senza affaticarsi, non farà cosa buona. Chi non avrà pazienza intorno all’opera, non farà niente. In ultimo chi non avrà da spendere, si affaticherà in vano. E soprattutto non si metta in quest’impresa l’uomo rozzo, come da principio ho detto, perché non solamente non avrà onore; ma piuttosto darà biasimo alla nostra Arte, come dire, che non sia vera, e in vano proverà a creare Oro e Argento, perché non vi riuscirà.
Giovambattista Birelli, Opere, Tomo I, Libro I, Cap. III, Firenze 1601.
Diventare alchimista, non è mai stata impresa semplice e ha sempre richiesto delle qualità o doti. Non è singolare che Birelli annoveri tra le doti necessarie per diventare alchimista la capacità economica, i testi degli alchimisti sono pieni di lamentazioni sul denaro speso e fortune dilapidate. Le altre tre qualità descritte al lettore per diventare alchimista: Tempo, Fatica e Pazienza, sono qualità necessarie per imparare ed avvicinarsi ad una qualunque Arte. Unitamente al celebre Volere – Osare – Sapere – Tacere che può rappresentare la guida per chi è già nell’Arte, questo trinomio, oggi più che mai dovrebbe diventare un memento per tutti coloro che vogliono occuparsi di talune discipline. Sono di non riscuotere il favore dei più, ma la conoscenza sia come concetto di Cultura e Critica in generale sia come Scienza Ermetica non può non passare che attraverso queste tre strade che portano ad un altro trinomio: Sacrificio – Costanza – Amore. Per avvicinarsi all’Arte, non basta la frequentazione di qualche gruppo sui social media o la lettura di un paio di volumetti, sono necessarie le qualità sopra descritte. L’Arte richiede amore e dedizione, ed anche se si hanno queste qualità non è detto che conceda i suoi favori all’amante.
In ultimo Birelli avverte che per diventare alchimista non bisogna essere uomini rozzi. La rozzezza dello Spirito, la mancanza di gentilezza dell’animo, l’assenza di sensibilità impediscono all’essere umano di avvicinarsi all’Arte e se comunque si avvicinasse non gli sarebbe dato comprenderla.
Sulla difficoltà degli studi per diventare alchimista lascio l’ultima parola a Birelli:
Però con molta ragione son figurato gli studi per aspri, e travagliosi; E quindi li hanno piantati nell’asprissima Montagna delle difficoltà, ove, dilatando le sue radici nei dolori, vengono a rendere l’uomo virtuoso, costante e forte, che non si debilita mai per paura, per podestà non si muta; non d’innalza (non diventa arrogante) per le cose prospere né per le contrarie si sommerge (non si deprime).
mercoledì 1 agosto 2018
sabato 28 luglio 2018
Grandi scoperte e grandi bufale. I segreti dell'archeologia 2.0
Eric H. Cline in "Tre pietre fanno un muro" racconta successi e clamorosi errori: da Heinrich Schliemann ai giorni nostri
tratto da "Il Giornale" del 09/02/2018
di Matteo Sacchi
Una pietra è una pietra, due pietre sono un indizio, tre pietre fanno un muro. E un muro è quanto basta per far litigare a morte gli archeologi.
Perché capire davvero che cosa sia un reperto è tutt'altro che facile. Per rendersene conto, niente di meglio che leggere il saggio di Eric H. Cline che nel titolo riprende proprio questo detto che va di moda tra gli «scavatori» professionisti: Tre pietre fanno un muro. La storia dell'archeologia (Bollati Boringhieri, pagg. 478, euro 26).
Cline, che dirige il Capitol Archaeological Institute della George Washington University, non è soltanto uno degli archeologi più quotati al mondo - è forse il più grande esperto della storia della Palestina antica -, è anche un divulgatore dalla penna agile e divertente. Così, in questo volume mette alla portata del grande pubblico molti degli sviluppi più innovativi dell'archeologia. E fa capire, anche a chi non è del mestiere, quanto sia complicato questo tipo di ricerca che spesso, però, finisce gettato in pasto a noi tutti a colpi di titoloni di giornali, cosa che di sicuro non aiuta la comprensione vera.
tratto da "Il Giornale" del 09/02/2018
di Matteo Sacchi
Una pietra è una pietra, due pietre sono un indizio, tre pietre fanno un muro. E un muro è quanto basta per far litigare a morte gli archeologi.
Perché capire davvero che cosa sia un reperto è tutt'altro che facile. Per rendersene conto, niente di meglio che leggere il saggio di Eric H. Cline che nel titolo riprende proprio questo detto che va di moda tra gli «scavatori» professionisti: Tre pietre fanno un muro. La storia dell'archeologia (Bollati Boringhieri, pagg. 478, euro 26).
Cline, che dirige il Capitol Archaeological Institute della George Washington University, non è soltanto uno degli archeologi più quotati al mondo - è forse il più grande esperto della storia della Palestina antica -, è anche un divulgatore dalla penna agile e divertente. Così, in questo volume mette alla portata del grande pubblico molti degli sviluppi più innovativi dell'archeologia. E fa capire, anche a chi non è del mestiere, quanto sia complicato questo tipo di ricerca che spesso, però, finisce gettato in pasto a noi tutti a colpi di titoloni di giornali, cosa che di sicuro non aiuta la comprensione vera.
mercoledì 25 luglio 2018
Un libro alla scoperta del Biellese segreto, tra eredità celtiche, riti pagani e misteri esoterici.
tratto da: http://www.rivistaetnie.com/roberto-gremmo-biellese-segreto-87535/
Roberto Gremmo, Biellese segreto – L’eredità delle civiltà antiche, le credenze magiche e i misteri esoterici, Storia Ribelle, Biella 2017, 18 euro.
Questo nuovo libro del noto etnista e storico Roberto Gremmo è frutto di anni di ricerche difficili e appassionate alla scoperta di un Biellese insolito, imprevisto e celato. Spuntano le vestigia dell’ancestrale “Vittimula”, centro di estrazione dell’oro poi schiavizzato dai romani; le incisioni rupestri in val dl’Elf; la “Pera Pichera” e il “Roch dla Regina” di Roppolo, che ricordano antiche devozioni comunitarie; il “battesimo” della “Scarpa du laver” di Postua e nella fonte magica e guaritrice di Lozzolo, veri e propri culti paganeggianti delle acque. Il “Roch dla vita” di Oropa, che conserva ancora molti misteri e poco noti rituali ereditati dalla religiosità pre-cristiana. Di leggendarie località scomparse resta memoria nella tradizione del paese perduto di Viverone, del lago scomparso di Crevacuore, di San Pajarin nei boschi sacri di Arro e Carisio e nella fortezza di Ysingarda della Baraggia di Candelo. Robuste tradizioni di masche ammaliatrici, guaritrici o diaboliche popolano ancora i racconti dei più anziani. Ma in tempi a noi più vicini non mancano suggestioni esoteriche come la chiesa con la svastica di Rosazza, la fontana massonica nascosta al Lago della Vecchia, il menhir di Santa Esuberanza sulla Janka, e tanti altri misteri.
Roberto Gremmo, Biellese segreto – L’eredità delle civiltà antiche, le credenze magiche e i misteri esoterici, Storia Ribelle, Biella 2017, 18 euro.
Questo nuovo libro del noto etnista e storico Roberto Gremmo è frutto di anni di ricerche difficili e appassionate alla scoperta di un Biellese insolito, imprevisto e celato. Spuntano le vestigia dell’ancestrale “Vittimula”, centro di estrazione dell’oro poi schiavizzato dai romani; le incisioni rupestri in val dl’Elf; la “Pera Pichera” e il “Roch dla Regina” di Roppolo, che ricordano antiche devozioni comunitarie; il “battesimo” della “Scarpa du laver” di Postua e nella fonte magica e guaritrice di Lozzolo, veri e propri culti paganeggianti delle acque. Il “Roch dla vita” di Oropa, che conserva ancora molti misteri e poco noti rituali ereditati dalla religiosità pre-cristiana. Di leggendarie località scomparse resta memoria nella tradizione del paese perduto di Viverone, del lago scomparso di Crevacuore, di San Pajarin nei boschi sacri di Arro e Carisio e nella fortezza di Ysingarda della Baraggia di Candelo. Robuste tradizioni di masche ammaliatrici, guaritrici o diaboliche popolano ancora i racconti dei più anziani. Ma in tempi a noi più vicini non mancano suggestioni esoteriche come la chiesa con la svastica di Rosazza, la fontana massonica nascosta al Lago della Vecchia, il menhir di Santa Esuberanza sulla Janka, e tanti altri misteri.
sabato 21 luglio 2018
Fernando Pessoa e Aleister Crowley: incontri pericolosi
tratto da: http://blog.ilgiornale.it/scarabelli/2018/06/04/fernando-pessoa-e-aleister-crowley-incontri-pericolosi/?repeat=w3tc#
di Andrea Scarabelli
2 settembre 1930, quattro meno un quarto: al porto di Lisbona attracca l’Alcantara, giunto da Southampton; ha un ritardo di ventiquattro ore, dovuto a una fitta nebbia al largo di Vigo. Dal piroscafo scende una figura notturna, dagli occhi accesi, avvolta in un mantello nero, che raggiunge un uomo sul molo. Timido e leggermente inquieto, l’uomo – che, diciamolo francamente, vorrebbe trovarsi altrove – porge la mano alla figura ammantata, che esclama, anticipando le presentazioni: «Orbene, che idea è stata mai questa d’inviarmi una nebbia lassù?». Inizia così il breve soggiorno di Aleister Crowley a Lisbona. È giunto nella Città Bianca con la sua giovane amante, Hanni L. Jaeger, per prendersi una pausa da una vita irrequieta, guai finanziari e creditori, ma anche dalle pressioni del suo entourage. Ma soprattutto per incontrare Fernando Pessoa, il quale, insieme ad altri amici, inscenerà il “finto suicidio” della Bestia 666. La vicenda Crowley-Pessoa – che in Portogallo ha ispirato ben quattro romanzi – è documentata nel ricco volume La bocca dell’inferno, appena uscito per i tipi di Federico Tozzi a cura di Marco Pasi, tra i maggiori esperti di Crowley in Italia. Un volume dalla curatela eccellente, che comprende il carteggio Crowley-Pessoa, gli articoli dedicati al presunto suicidio del mago apparsi sulla stampa lusitana e straniera tra il settembre e il dicembre 1930, il romanzo incompiuto La bocca dell’inferno – originariamente scritto in inglese – e un’antologia di poesie pessoane dedicate a Crowley o contenenti sue tracce. Insieme a note, bibliografie e approfondimenti, che fanno luce sui misteri di quel fugace rapporto.
Un rapporto iniziato epistolarmente l’anno prima, quando Pessoa ordina alla Mandrake Press i primi due volumi delle Confessions crowleyane. Dopo aver dato un’occhiata al primo, si accorge subito che l’auto-oroscopo di Crowley è leggermente errato. Da profondo conoscitore dell’astrologia qual è, scrive all’editore, il 4 dicembre 1929: «Se avete, come è probabile, la possibilità di comunicare col Sig. Crowley, vi pregherei di informarlo che il suo oroscopo non è corretto». Segue una spiegazione dettagliata, che si conclude così: «Mi scuso con voi per questa intrusione di natura puramente fantastica in quella che è, dopotutto, solo una lettera commerciale».
Queste parole ci costringono ad aprire una piccola parentesi. La critica ufficiale nostrana ha sempre mostrato una certa allergia nei confronti del “Pessoa magico”, che in Italia è stato studiato soprattutto da Brunello De Cusatis, il quale nei suoi studi ha mostrato in modo scientifico e documentato la dimensione esoterica e mitogenica della poesia e della prosa pessoane. Un caso tutto italiano, come al solito, se è vero che secondo Eduardo Lourenço, tra i maggiori esperti pessoani a livello mondiale, «la poesia occultista copre l’intero spazio della vita e dell’opera di Pessoa». Àngel Crespo, autore de La vita plurale di Fernando Pessoa, curata da De Cusatis per Bietti nel 2014, chiosa: «E identica cosa può dirsi per parte della sua prosa».
Torniamo al 1930. Pochi mesi prima di Crowley, un altro straniero era andato a trovare Pessoa al caffè Martinho da Arcada, pubblicando sulla rivista parigina «Contacts» una testimonianza del pomeriggio passato con lui. L’articolo di Pierre Hourcade – in barba al razionalismo di certa critica italiana, tutta pensiero debole ed esistenzialismo – abbozza un’immagine molto particolare del Pessoa di quegli anni: «Seduto a un alto tavolo di marmo, su cui fuma l’eterno caffè portoghese, mi sforzo di dimenticare lo scenario e ho occhi solo per l’entrata del mago». Il critico letterario si aspettava un individuo malinconico, assorto nella contemplazione d’imperi che non appartengono a questo mondo – e proprio perciò sono contemporanei di tutte le epoche – e si trova di fronte a «uno sguardo vivo, un sorriso fermo e malizioso, un volto che trabocca di vita segreta». Attraverso i suoi proverbiali occhiali, che indosserà l’ultima volta poco prima di prendere congedo da questo mondo, cinque anni dopo, s’«irradiava un incanto indefinibile fatto di estrema cortesia, perfetta semplicità», un’«intensità febbrile». Hourcade è come pietrificato da quella presenza, la cui aura “magica” muta addirittura il paesaggio circostante, come se l’aria intorno a loro «fosse più ricca di ossigeno di quella grande esalazione salubre e luminosa che saliva dal Tago, per poi venire a spirare, attraverso la “più nobile piazza d’Europa”, alle soglie di quel sepolcro, convertito dalla presenza del poeta in un antro della sibilla». Lasciamo che sia il già citato Crespo a commentare questa testimonianza: «È indubbio come Hourcade fosse estremamente sensibile ai segni esteriori che denunciavano la presenza di chi, come Pessoa, apparteneva al misterioso novero dei cultori delle scienze occulte».
Il Pessoa che attende Crowley sul molo accarezzato dalla brezza oceanica, nella città fondata da Ulisse, è molto diverso. Piuttosto intimorito dalla Bestia 666, come già detto, non mancherà di organizzare una blague degna di questo nome. Coinvolgendo anche altri, peraltro, tra cui Augusto Ferreira Gomes, «suo fratello occultista» (João Gaspar Simões), che finge di aver trovato presso la Boca do Inferno, vicino a Cascais, un enigmatico biglietto di Crowley diretto a Hanni. Ecco il testo del messaggio, che lascia supporre a tutti gli effetti un suicidio:
«L.G.P. Non posso vivere senza di te. L’altra “Boca do Infierno” mi avrà. Non sarà tanto ardente quanto la tua! Hjsos! Tu Li Yu».
Pur sapendo che Crowley è vivo e vegeto, Ferreira Gomes trasmette l’informazione alla stampa, che successivamente contatta Pessoa per chiedergli ragguagli: d’altronde, non solo è tra gli ultimi ad aver incontrato Crowley, ma conosce bene le sue dottrine. Un diluvio di articoli ripercorre così gli ultimi giorni del mago, interrogandosi sull’enigmatico biglietto in codice. Che in realtà ha una chiave di decifrazione, trasmessa da Crowley a Pessoa: “L.G.P.” è il nome mistico della sua giovane amante, la sola a conoscere il significato di “Hjsos”, mentre la firma in calce appartiene a un saggio cinese di cui Crowley dice di essere l’incarnazione. Conoscendo gli interessi del poeta, Crowley gli chiede anche di preparare un romanzo sull’accaduto, al fine di mantenere viva l’attenzione del pubblico. Cosa che Pessoa fa, inventandosi un detective privato, come scrive a Ferreira Gomes il 27 ottobre 1930: «L’investigatore inglese che si è occupato del caso Crowley sta scrivendo il resoconto completo della sua interessantissima indagine sulla faccenda. Dovrebbe trattarsi di un piccolo libro, suddiviso in brevi capitoli». Mentre a Israel Regardie, segretario di Crowley, scriverà tre giorni dopo: «Secondo le mie informazioni il libro è completo nei dettagli e in parte è già scritto. L’autore spera di averlo pronto in un paio di settimane».
Durante il soggiorno lusitano, la notte del 9 settembre, il mago “iniziò” Raul Leal, amico di Pessoa e suo “collaboratore” nel caso Crowley. Come scrive Marco Pasi nella sua ricchissima introduzione, è verosimile che lo stesso Pessoa avesse preso parte alla serata. Ora, sappiamo che successivamente Pessoa si dichiarò iniziato, per comunicazione diretta (senza però specificare nulla sulle circostanze di questa sua “iniziazione”), ai tre gradi minori di un’organizzazione derivata dall’Ordine Templare di Portogallo. Scrive Crespo: «Pessoa – il quale avrebbe avuto modo, più tardi, di far parte dell’Ordine di Cristo, successore dei Templari in Portogallo – trovò in Crowley, se non un confratello, quantomeno un iniziato a uno degli Ordini che si proclamavano discendenti di quegli stessi Templari». All’iniziazione di Leal, tra l’altro, era presente anche la bellissima Hanni (che compare sulla copertina del libro): Pessoa dovette in qualche modo subirne l’ascendente, se è vero che il giorno dopo scrisse una poesia, anch’essa inserita nel volume, intitolata Dà la sorpresa di essere. Citiamo solo l’ultima quartina:
«Invoglia come una barca
Assomiglia a uno spicchio d’arancia.
Mio Dio, quand’è che mi imbarco?
Ah, fame! Quand’è che mangio?».
Anche l’amore possiede le sue iniziazioni. E le sue Bocche dell’Inferno.
L’ultima comunicazione tra i due protagonisti di questa storia misteriosa è una circolare interna, spedita da Crowley a ogni equinozio. Tale lettera comprendeva una “parola” particolare, che avrebbe determinato la “corrente magica” attiva nei sei mesi successivi (fino al successivo equinozio, insomma), assieme a un oracolo. Destinata solo agli “interni”, nel 1932 la ricevette anche Pessoa! Forse gliene furono spedite altre, andate perdute? Non lo sapremo mai. Tuttavia, come ricorda Pasi, il documento «lascerebbe supporre che Crowley considerava Pessoa membro di uno dei suoi ordini magici, e rafforzerebbe l’ipotesi di una sua iniziazione durante la visita del mago in Portogallo». Misteri su misteri, insomma…
Tra le varianti del romanzo riportate in appendice ne figura una, molto “pessoana”: «Realtà e finzione sono l’una più interessante dell’altra». Potrebbe sigillare questa storia singolare, allestita da personaggi altrettanto misteriosi ed enigmatici. Imbattendosi in Pessoa e Crowley – così come in tutti gli uomini degni di questo nome – è sempre arduo stabilire quale tra le due dimensioni sia preponderante. Come se, poi, le realtà non fossero tante quante le finzioni… Ognuna con la sua Bocca dell’Inferno, naturalmente.
di Andrea Scarabelli
2 settembre 1930, quattro meno un quarto: al porto di Lisbona attracca l’Alcantara, giunto da Southampton; ha un ritardo di ventiquattro ore, dovuto a una fitta nebbia al largo di Vigo. Dal piroscafo scende una figura notturna, dagli occhi accesi, avvolta in un mantello nero, che raggiunge un uomo sul molo. Timido e leggermente inquieto, l’uomo – che, diciamolo francamente, vorrebbe trovarsi altrove – porge la mano alla figura ammantata, che esclama, anticipando le presentazioni: «Orbene, che idea è stata mai questa d’inviarmi una nebbia lassù?». Inizia così il breve soggiorno di Aleister Crowley a Lisbona. È giunto nella Città Bianca con la sua giovane amante, Hanni L. Jaeger, per prendersi una pausa da una vita irrequieta, guai finanziari e creditori, ma anche dalle pressioni del suo entourage. Ma soprattutto per incontrare Fernando Pessoa, il quale, insieme ad altri amici, inscenerà il “finto suicidio” della Bestia 666. La vicenda Crowley-Pessoa – che in Portogallo ha ispirato ben quattro romanzi – è documentata nel ricco volume La bocca dell’inferno, appena uscito per i tipi di Federico Tozzi a cura di Marco Pasi, tra i maggiori esperti di Crowley in Italia. Un volume dalla curatela eccellente, che comprende il carteggio Crowley-Pessoa, gli articoli dedicati al presunto suicidio del mago apparsi sulla stampa lusitana e straniera tra il settembre e il dicembre 1930, il romanzo incompiuto La bocca dell’inferno – originariamente scritto in inglese – e un’antologia di poesie pessoane dedicate a Crowley o contenenti sue tracce. Insieme a note, bibliografie e approfondimenti, che fanno luce sui misteri di quel fugace rapporto.
Un rapporto iniziato epistolarmente l’anno prima, quando Pessoa ordina alla Mandrake Press i primi due volumi delle Confessions crowleyane. Dopo aver dato un’occhiata al primo, si accorge subito che l’auto-oroscopo di Crowley è leggermente errato. Da profondo conoscitore dell’astrologia qual è, scrive all’editore, il 4 dicembre 1929: «Se avete, come è probabile, la possibilità di comunicare col Sig. Crowley, vi pregherei di informarlo che il suo oroscopo non è corretto». Segue una spiegazione dettagliata, che si conclude così: «Mi scuso con voi per questa intrusione di natura puramente fantastica in quella che è, dopotutto, solo una lettera commerciale».
Queste parole ci costringono ad aprire una piccola parentesi. La critica ufficiale nostrana ha sempre mostrato una certa allergia nei confronti del “Pessoa magico”, che in Italia è stato studiato soprattutto da Brunello De Cusatis, il quale nei suoi studi ha mostrato in modo scientifico e documentato la dimensione esoterica e mitogenica della poesia e della prosa pessoane. Un caso tutto italiano, come al solito, se è vero che secondo Eduardo Lourenço, tra i maggiori esperti pessoani a livello mondiale, «la poesia occultista copre l’intero spazio della vita e dell’opera di Pessoa». Àngel Crespo, autore de La vita plurale di Fernando Pessoa, curata da De Cusatis per Bietti nel 2014, chiosa: «E identica cosa può dirsi per parte della sua prosa».
Torniamo al 1930. Pochi mesi prima di Crowley, un altro straniero era andato a trovare Pessoa al caffè Martinho da Arcada, pubblicando sulla rivista parigina «Contacts» una testimonianza del pomeriggio passato con lui. L’articolo di Pierre Hourcade – in barba al razionalismo di certa critica italiana, tutta pensiero debole ed esistenzialismo – abbozza un’immagine molto particolare del Pessoa di quegli anni: «Seduto a un alto tavolo di marmo, su cui fuma l’eterno caffè portoghese, mi sforzo di dimenticare lo scenario e ho occhi solo per l’entrata del mago». Il critico letterario si aspettava un individuo malinconico, assorto nella contemplazione d’imperi che non appartengono a questo mondo – e proprio perciò sono contemporanei di tutte le epoche – e si trova di fronte a «uno sguardo vivo, un sorriso fermo e malizioso, un volto che trabocca di vita segreta». Attraverso i suoi proverbiali occhiali, che indosserà l’ultima volta poco prima di prendere congedo da questo mondo, cinque anni dopo, s’«irradiava un incanto indefinibile fatto di estrema cortesia, perfetta semplicità», un’«intensità febbrile». Hourcade è come pietrificato da quella presenza, la cui aura “magica” muta addirittura il paesaggio circostante, come se l’aria intorno a loro «fosse più ricca di ossigeno di quella grande esalazione salubre e luminosa che saliva dal Tago, per poi venire a spirare, attraverso la “più nobile piazza d’Europa”, alle soglie di quel sepolcro, convertito dalla presenza del poeta in un antro della sibilla». Lasciamo che sia il già citato Crespo a commentare questa testimonianza: «È indubbio come Hourcade fosse estremamente sensibile ai segni esteriori che denunciavano la presenza di chi, come Pessoa, apparteneva al misterioso novero dei cultori delle scienze occulte».
Il Pessoa che attende Crowley sul molo accarezzato dalla brezza oceanica, nella città fondata da Ulisse, è molto diverso. Piuttosto intimorito dalla Bestia 666, come già detto, non mancherà di organizzare una blague degna di questo nome. Coinvolgendo anche altri, peraltro, tra cui Augusto Ferreira Gomes, «suo fratello occultista» (João Gaspar Simões), che finge di aver trovato presso la Boca do Inferno, vicino a Cascais, un enigmatico biglietto di Crowley diretto a Hanni. Ecco il testo del messaggio, che lascia supporre a tutti gli effetti un suicidio:
«L.G.P. Non posso vivere senza di te. L’altra “Boca do Infierno” mi avrà. Non sarà tanto ardente quanto la tua! Hjsos! Tu Li Yu».
Pur sapendo che Crowley è vivo e vegeto, Ferreira Gomes trasmette l’informazione alla stampa, che successivamente contatta Pessoa per chiedergli ragguagli: d’altronde, non solo è tra gli ultimi ad aver incontrato Crowley, ma conosce bene le sue dottrine. Un diluvio di articoli ripercorre così gli ultimi giorni del mago, interrogandosi sull’enigmatico biglietto in codice. Che in realtà ha una chiave di decifrazione, trasmessa da Crowley a Pessoa: “L.G.P.” è il nome mistico della sua giovane amante, la sola a conoscere il significato di “Hjsos”, mentre la firma in calce appartiene a un saggio cinese di cui Crowley dice di essere l’incarnazione. Conoscendo gli interessi del poeta, Crowley gli chiede anche di preparare un romanzo sull’accaduto, al fine di mantenere viva l’attenzione del pubblico. Cosa che Pessoa fa, inventandosi un detective privato, come scrive a Ferreira Gomes il 27 ottobre 1930: «L’investigatore inglese che si è occupato del caso Crowley sta scrivendo il resoconto completo della sua interessantissima indagine sulla faccenda. Dovrebbe trattarsi di un piccolo libro, suddiviso in brevi capitoli». Mentre a Israel Regardie, segretario di Crowley, scriverà tre giorni dopo: «Secondo le mie informazioni il libro è completo nei dettagli e in parte è già scritto. L’autore spera di averlo pronto in un paio di settimane».
Durante il soggiorno lusitano, la notte del 9 settembre, il mago “iniziò” Raul Leal, amico di Pessoa e suo “collaboratore” nel caso Crowley. Come scrive Marco Pasi nella sua ricchissima introduzione, è verosimile che lo stesso Pessoa avesse preso parte alla serata. Ora, sappiamo che successivamente Pessoa si dichiarò iniziato, per comunicazione diretta (senza però specificare nulla sulle circostanze di questa sua “iniziazione”), ai tre gradi minori di un’organizzazione derivata dall’Ordine Templare di Portogallo. Scrive Crespo: «Pessoa – il quale avrebbe avuto modo, più tardi, di far parte dell’Ordine di Cristo, successore dei Templari in Portogallo – trovò in Crowley, se non un confratello, quantomeno un iniziato a uno degli Ordini che si proclamavano discendenti di quegli stessi Templari». All’iniziazione di Leal, tra l’altro, era presente anche la bellissima Hanni (che compare sulla copertina del libro): Pessoa dovette in qualche modo subirne l’ascendente, se è vero che il giorno dopo scrisse una poesia, anch’essa inserita nel volume, intitolata Dà la sorpresa di essere. Citiamo solo l’ultima quartina:
«Invoglia come una barca
Assomiglia a uno spicchio d’arancia.
Mio Dio, quand’è che mi imbarco?
Ah, fame! Quand’è che mangio?».
Anche l’amore possiede le sue iniziazioni. E le sue Bocche dell’Inferno.
L’ultima comunicazione tra i due protagonisti di questa storia misteriosa è una circolare interna, spedita da Crowley a ogni equinozio. Tale lettera comprendeva una “parola” particolare, che avrebbe determinato la “corrente magica” attiva nei sei mesi successivi (fino al successivo equinozio, insomma), assieme a un oracolo. Destinata solo agli “interni”, nel 1932 la ricevette anche Pessoa! Forse gliene furono spedite altre, andate perdute? Non lo sapremo mai. Tuttavia, come ricorda Pasi, il documento «lascerebbe supporre che Crowley considerava Pessoa membro di uno dei suoi ordini magici, e rafforzerebbe l’ipotesi di una sua iniziazione durante la visita del mago in Portogallo». Misteri su misteri, insomma…
Tra le varianti del romanzo riportate in appendice ne figura una, molto “pessoana”: «Realtà e finzione sono l’una più interessante dell’altra». Potrebbe sigillare questa storia singolare, allestita da personaggi altrettanto misteriosi ed enigmatici. Imbattendosi in Pessoa e Crowley – così come in tutti gli uomini degni di questo nome – è sempre arduo stabilire quale tra le due dimensioni sia preponderante. Come se, poi, le realtà non fossero tante quante le finzioni… Ognuna con la sua Bocca dell’Inferno, naturalmente.
mercoledì 18 luglio 2018
SCIAMANESIMO E PAGANESIMO NORDICO
di Andrea Romanazzi
" Tibi serviat
ultima Thyle". Con questo verso il poeta latino Virgilio nelle
Georgiche immortalava nella storia non solo le grandezze del principato di
Augusto ma anche la storia di Thule, la mitica isola descritta dal navigatore
greco Pitea di Marsiglia mentre compiva un viaggio nel nord Europa, fino ai
limiti del mondo allora conosciuto, ovvero l’isola di Tule. Thule e Paganesimo
Artico hanno legami con lo Sciamanesimo?
La tradizione sciamanica è ovviamente fortemente presente in
tutta l’area nord del globo, dalle popolazioni Inuit e Inupiat
dell’Alaska e dei territori nord americani e canadesi, alle tradizioni dei
Kalaalit della Groerlandia ed Islanda, fino alle terre siberiane artiche
abitate dai Sami, dai Nganasan, dagli Jacuti e dai Ciukci, solo per citare
alcune delle più importanti etnie.
Una prima interessante tradizione sciamanica è quella degli angakkut, diffusa in tutta l’area della
Groerlandia. Il termine deriverebbe dalla parola agakkiq, ovvero “visionario” o
“sognatore”. Per molti questa tradizione magico-spirituale, come quella diffusa
nell’area islandese, sarebbe quello che rimane degli antichi culti della Thule
la mistica e mitica isola dove il sole non tramonta. Discendenti diretti delle
popolazioni della Thule sono gli Kalaalit,
abitanti delle regioni costiere artiche, spesso identificati con il
dispregiativo termine “eschimese”, ovvero “mangiatori di carne cruda”. Essi credono tutt’oggi in una energia o inua,
che pervade tutte le cose.
Un famoso detto Kalaalit recitava che “Il grande pericolo della nostra esistenza risiede nel fatto che la
nostra dieta è costituita interamente da anime”. Credono infatti che tutte
le cose, animali compresi, sono dimore di Spiriti. In questa comunità, gli
Angakkut, sia uomini che donne, diventano gli eroi della comunità, coloro che
potevano dialogare con gli Spiriti, il ponte tra i due mondi. Viaggiavano negli
altri mondi alla ricerca dei pezzi perduti dell’anima dei loro “clienti” rubate
dai ilisiitsoq, stregoni malvagi, o
persa per motivi naturali. La prime descrizioni di tali rituali le abbiamo
verso la fine del ‘800 quando iniziano ad arrivare nell’area i missionari
danesi. Il più noto di questi, Hans Egede, inviato dal re di Danimarca in
persona, descrive una delle tante cerimonie sciamaniche
“…A number of spectators assemble in the evening at one of their houses,
where, after it is grown dark, every one being seated, the angekkok causes
himself to be tied, his head between his legs and his hands behind his back,
and a drum is laid at his side; thereupon, after the windows are shut and the
light put out, the assembly sings a ditty, which, they say, is the composition
of their ancestors; when they have done singing the angekkok begins with
conjuring, muttering, and brawling; invokes Torngarsuk [a major spirit], who
converses with the angekkok…In the meanwhile he works himself loose, and as
they believe, mounts up into Heaven through the roof of the house, and passes
through the air till he arrives into the highest heavens, where the souls of
angekkut poglit, that is, the chief angekkuts, reside, by whom he gets
information of all he wants to know. All this is done in the twinkling of an
eye…”
Conosciamo così i principali elementi del rito angakkoq: Lo
sciamano, attraverso il suono del mistico tamburo, canti e danze, inizia il suo
viaggio nel mondo degli Spiriti, in uno stato alterato di coscienza, da dove
cerca e trae le informazioni richiesta dai membri della propria comunità.
Tra i più comuni viaggi vi era quello per propiziare la
pesca. Era l’incontro con la temibile Madre del Mare, Sedna, per avvicinarsi alla quale lo sciamano aveva bisogno del
potere e della protezione di tutti i suoi animali guida, o Tartok. Il viaggio
era necessario per placare questo spirito perché ella veniva “insudiciata”
dalle trasgressioni umane e dalle loro cattiverie svolte durante la pesca, e
quindi compito del angakkoq era di pulirla.
Solo in questo modo si sarebbe assicurato nuovo cibo alla comunità. Lo
sciamano, dopo aver combattuto per penetrare nella sua casa e vinto la sua
resistenza, le doveva lavare il viso e pettinare i capelli. Solo dopo tali
operazioni gli animali marini sarebbero stati resi liberi di cadere nelle reti
degli Kalaalit.
Tutto questo avveniva all’incessante suono del tamburo,
realizzato rigorosamente in pelle di orso mentre lo sciamano, seminudo, danzava
scuotendo di tanto in tanto il sonaglio, avvisando dell’arrivo di uno spirito.
Altro pericoloso compito dello sciamano era la sua lotta con
il Tupilak una creatura creata da
sciamani neri dediti alla stregoneria con parti di animali o cadaveri quali
ossa o capelli, muschio, pelle, alghe, manicotti di kayak, a cui era stata
donata la vita attraverso antichi rituali magici che contemplavano l’utilizzo
di acqua marina e il cui scopo era risucchiare l’energia vitale della sua
povera ed inconsapevole preda. Il compito del Angakkoq era quello di scovarlo e
distruggerlo in una tremenda battaglia.
“…Immediately the spirits were invoked with the cries: “Goi! goi goi
goi”—now one voice, now more, sometimes from one end of the house sometimes from
another. During this the Angakok grunted, puffed and sighed loudly. Suddenly, the skin at the door started to
rustle as if it was moved by a strong wind. The drum began to beat first slowly
then gradually more rapidly. . . . During the most terrible noise the platform
and the window-sill were sometimes shaken. Now the Angakok was heard lying
under a heavy superior force, groaning, wailing, screaming, whining,
whispering, now the spirits were heard some of whom had coarse, others tiny,
others lisping or whistling, voices. Often a demonical, screeching, mocking
laughter was heard. The voices sometimes came from above, sometimes from under
the ground, now from one end of the house, now from the other, now outside the
house or in the entrance passage. Cries of: “hoi! hoi! hoi!” faded away as if
into the remotest abyss. With immense skill the drum was beaten, often moving
round in the house, and especially hovering above my head. The drum often
accompanied singing, which at times was subdued as if coming from the
Underworld. Beautiful singing by women sometimes came from the background…”
(Holm 1888,
in Jakobsen 1999, 124–126)
Lo Sciamanesimo inuit presenta molte similitudini con quello
appena descritto. Chiamato Angakunig,
era diffusissimo in tutte le aree artiche fino al 1936 data dell’arrivo dei
primi missionari cristiani. Costante anche in questa area è la presenza di
Sedna, ma molteplici sono gli altri Spiriti naturali che circondano l’uomo.
Ancora importante funzione hanno i tarniit,
le anime degli uomini o animali defunti, ijirait
lo spirito delle montagne e molti altri.
Chiunque poteva divenire uno sciamano, uomo o donna, era però
indispensabile avere il dono della visione, Spiriti Guida, o tuurngait, in questa tradizione tra i
sei e i dieci, ognuno dei quali aveva le sue qualità specifiche. Strumento
essenziale per lo sciamano era l’angaluk, una cintura sciamanica, fatta della
pelliccia bianca della la pancia di un caribù, nonché numerosi coltelli che
sarebbero serviti nella lotto contro il tupilak. Funzione importante avevano
anche i cristalli, utilizzati anche nelle pratiche di guarigione secondo
istruzioni date in viaggio direttamente allo sciamano. In Alaska e nell’area
più orientale della Siberia, la maggioranza etnica è invece detenuta dagli
Yupik e dai Chukchi. Gli Yupik sono anch’essi fortemente animisti, ogni
fenomeno naturale, la pioggia, il tuono, il lampo, l’aurora boreale, ma anche i
corpi celesti e le formazioni terrestri, sono espressione dello spirito.
In particolare il lupo, la balena e il corvo imperiale sono
tra gli animali più sacri e non possono essere uccisi, le orche sono
considerate come protettori dei cacciatori, mentre speciali cerimonie si
svolgono per placare gli Spiriti degli animali prima della caccia o della
pesca.
Ancora una volta, dunque, ruolo predominante aveva lo
sciamano, detto angalkuq, colui che poteva dialogare con le potenze dei mondi.
Non esisteva una vera e propria iniziazione, se non quella
“donata” dagli Spiriti, che però doveva essere sigillata con un patto. Tra gli
strumenti più utilizzati, oltre all’indispensabile tamburo, troviamo molteplici
amuleti, ad esempio la testa di corvo appeso all'ingresso della casa serviva da
protezione, statue con la forma della testa di tricheco o di testa di cane
erano invece utilizzati come amuleti individuali. Estremamente importante era
poi la funzione della maschera, dalle sembianze umane, di animale o di spirito
marino.
Molto interessante è poi la tradizione sciamanica Sami che io
stesso ho avuto la fortuna di studiare durante uno dei miei viaggi.
L’antica religione Sami si basava su una percezione
animistica e una forma di culto di stampo sciamanico nel quale battere il
tamburo ed eseguire lo joink rivestivano un ruolo fondamentale. Il tamburo era
per i sami l’equivalente dell’Altare di una chiesa, su di esso venivano svolte
le cerimonie e grazie ad esso lo sciamano poteva viaggiare. Era battuto
attraverso un martelletto o Allem, a forma di “T” o “Y”, ricavato dalla larga
punta di un corno di renna non castrata.
Lo sciamano, chiamato Noaidi, batteva il tamburo fino a che
non cadeva in trance per intraprendere così il viaggio verso gli Altri mondi.
Inoltre, poggiando l’orecchio sul tamburo e “ascoltando” le sue parole era in
grado inoltre di predire il futuro.
Le prime descrizioni del tamburo magico e delle sedute dello
sciamano si devono all’Historia Norvegiae della fine del XII secolo nel
capitolo intitolato De Finnis (gli abitanti del Finnmark): “…Ora il mago prende un tappeto e lo srotola e su di esso si prepara ad
eseguire i suoi riti. Poi prende un oggetto, che ricorda un sole, e lo solleva
in alto tenendolo con entrambe le mani. L'oggetto è adornato con piccole figure
di balene e renne, con redini e piccoli sci, e anche una piccola barca a remi.
Questi strumenti serviranno allo spirito assistente del mago per passare nella
neve alta, scalare montagne ripide e attraversare acque profonde. Dopo aver
danzato a lungo con questi oggetti, il mago si accascia a terra, nero in volto
da sembrare un negro, con la bava alla bocca, come far intendere che portasse
un morso (la briglia). Infine, mentre sembra che stia per spezzarsi in due
all'altezza dello stomaco, l’uomo finalmente muore emettendo un urlo terribile.
A quel punto, viene domandato ad un altro uomo, che si intende di magia, cosa
fosse accaduto ai due. L’uomo si accinge, a sua volta, a compiere lo stesso
rituale, ma con un risultato diverso. Riesce a riportare lo spirito in vita e
racconta loro il motivo della morte del mago…”.
Al culto dei “Mondi” era associato quello delle divinità
naturali, Haragallis, il dio delle Tempeste, portatore di pioggia ed
abbondanza, Beaivi, il dio Solare, Bieggolmmai, il dio del Vento, Varaldenolmmai,
la dea della Fertilità. Importantissimo era poi il culto degli Antenati legati
alla Montagna Ancestrale Saivù, il luogo dove i defunti vivevano una vita
beata. Le montagne erano infatti per i Sami sacre presentando dimensioni tali
da non poter essere paragonate ad alcun altro luogo. Non tutte però sono
ritenuta sacre, solo quelle poste in posizione isolata e che terminano con cime
a punta o creste che si stagliano nel cielo blu o tra le nuvole. Un esempio è
Haldi è il nome di una montagna sacra che si trova ad Alta e che appartiene ad
un imponente massiccio montuoso. Qui si trova la roccia sulla quale venivano
sacrificate le renne o grasso di pesce.
Insomma, i culti nordici sono fortemente permeati di
sciamanesimo e pratiche proto-sciamaniche. L’indagine continua….
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