Alcuni estratti dai sermoni di Mesister Eckart contenuti nel libro "l nobiltà dello spirito", SE edizioni a cura di Marco Vannini.
"La purezza dell'anima risiede nel fatto di purificarsi da una vita divisa e di entrare in una vita unitaria. Tutto ciò che è diviso nelle cose basse, è unificato quando l'anima si eleva a una vita in cui non v'è più opposiuzione" (Sermone 8)
"[...] tutto quel che è temporale è lontano ed astraneo a Dio"
"Finché l'uomo ha tempo e spazio, numero, molteplicità, egli non è come deve essere, e Dio gli è lontano ed estraneo"
"Se dicessimo che Dio ha creato ieri il mondo o lo creerà domani, ci comporteremmo in modo insensato. Dio crea il mondo e tutte le cose in un istante presente, e il tempo che è trascorso da mille anni è ora tanto presente a Dio e tanto vicino quanto i ltempo che è adesso" (Sermone 10)
"Quando è compiuto il tempo? Quando non v'è più tempo."
"Un testo dice: Tre cose sono un ostacolo per l'uomo, in guisa tale che egli non può riconoscere in alcun modo Dio. La prima è la temporalità; la seconda la corporeità, la terza la molteplicita"
"[..] nell'eternità non v'è né ieri né domani, ma solo l'istante presente: ciò che è stato mille anni fa e ciò che sarà tra mille anni, è presente, e nello stesso modo lo è quello che sta dall'altra parte del mare" (Sermone 11)
"Tre cose ci impediscono di ascoltare la parola eterna. La prima è la corporalità, la seconda la molteplicità, la terza temporalità." (Sermone 12)
"[...] nella Divinità e nell'eternità vi è unità; ma la rassomiglianza non è affatto l'Uno. Se io fossi uno, non sarei simile. Non v'è nulla di estraneo nell'unità. Nella eternità mi è dato di essere uno, non di essere simile" (Sermone 13)
Blog dedicato ai misteri, esoterismo, antiche civiltà, leggende, Graal, Atlantide, ufo, magia
sabato 10 gennaio 2015
giovedì 1 gennaio 2015
Il Viaggio Iniziatico di Alice nel Paese delle Meraviglie
tratto da Lex Aurea n. 38 (http://www.fuocosacro.com/pagine/lexaurea/lexaurea38.pdf)
di Vito Foschi
di Vito Foschi
Una premessa. In questo articolo andrò a interpretare il
racconto di Alice nel Paese delle Meraviglie, precisando che l'autore non aveva
interessi esoterici e il suo libro non ha intenti simili, ma è semplicemente
una storia pensata per i bambini. Ciò chiaramente non esclude
un'interpretazione simbolica del testo. Dopotutto se è accettabile dalla
critica letteraria un'interpretazione sessuale simil freudiana non si riesce a
capire perché non sia possibile farne una simbolica: nell’in-terpretazione di
una favola la tana del coniglio può essere tranquillamente un simbolo sessuale,
ma non per esempio un simbolo della Dea
Madre che si adorava nelle grotte. Se va bene che il coniglio sia un simbolo
sessuale e sinceramente di primo acchito non è la prima cosa che viene in mente
del coniglio, ma semmai la sua velocità, allora dovrebbe andar bene affermare
che la tana sotterranea possa rappresentare gli stati inferi dell’essere, da
attraversare prima di passare agli stati superiori.
Alice è una bambina ben educata, ma sopratutto è immersa nel
razionalismo ottocentesco. La sua è una mente razionale e va finire in un mondo
che sovverte le regole: gli animali parlano, le persone cambiano dimensioni,
ecc. Cose che una mente razionale non può accettare, ma nel racconto deve
imparare a fare. Certo può essere un semplice scontro fra razionalità della
società vittoriana ottocentesca e un modo di pensare più spontaneo, più
infantile, ma a volte l'irrazionale può aprire altre porte.
Alice si trova in un prato quando si addormenta sognando
tutta l’avventura, che solo alla fine del racconto si svela essere solo un
viaggio onirico. Nel suo sogno-viaggio, Alice, incontra molteplici animali e
ciò in qualche modo ricorda i viaggi degli sciamani con i loro animali
totemici.
Fra i tanti animali sicuramente quello che occupa il posto
di rilievo è il coniglio che è l’iniziatore, colui che fa intraprendere il
viaggio ad Alice e che la guida durante il percorso.
Dopo la caduta nella tana del coniglio Alice si trova in una
strana stanza sostanzialmente vuota, ma cosparsa di porte. Su un tavolino di
vetro trova una piccola chiave che apre una porticina occultata da una tenda.
Alice compie vari tentativi per aprire la porticina e penetrarci, ma senza
successo. Prende la chiave e apre la porta, ma l’apertura è troppo piccola per
passarci e riesce solo a vedere che dà su un bellissimo giardino. Sarà il
Paradiso riservato agli iniziati? Torna indietro e trova una bottiglietta da
cui beve e si rimpicciolisce alle giuste dimensioni per attraversare la
porticina, ma trova la porta chiusa e la chiave sul tavolino, ormai
irraggiungibile. Alice riconquista la sua altezza, recupera la chiave, apre la
porta, riesce a rimpicciolirsi ma ritrova la porta chiusa. Dopo un altro
tentativo la scena cambia completamente. Alice non è pronta a superare la
prova. Per tutto il racconto cambia le sue dimensioni alla ricerca di quelle
giuste.
Per superare la prova deve possedere due qualità, la chiave,
ovvero il mezzo per penetrare la
Verità e la giusta altezza ovvero la giusta predisposizione
d’animo. Non bisogna essere alti, ovvero avere orgoglio, perché ciò non può che
far perdere la verità.
Dopo la scena della stanza dalle molteplici porte Alice si
ritrova rimpicciolita in un mare formato dalle lacrime cadute quand’era un
gigante. Vi ritrova vari animali con qui intavola una discussione e con cui fa
una corsa “confusa” ovvero una corsa in cui ogni partecipante corre dove vuole
senza curarsi di seguire un percorso. In questo episodio prevale l’assurdità è
sembra solo un intermezzo per far uscire Alice dalla stanza dalle molteplici
porte e proseguire il racconto con altre prove. In effetti il racconto si
conclude con l’avvistamento del Bianconiglio che corre come al suo solito ed
Alice che prontamente lo rincorre. Il coniglio la continua ad indirizzare nella
giusta direzione. Seguendo il Bianconiglio, Alice finisce nel Paese delle
Meraviglie e seguendolo ancora si allontana dall’assurda situazione della corsa
confusa per proseguire nel suo viaggio.
Altro animale simbolico è il bruco che Alice incontra a metà
racconto. Il bruco rimanda alla crisalide, alla trasformazione, alla morte
simbolica e alla rinascita come farfalla ovvero come essere nuovo non più
legato alla terra, ma al cielo. Il bruco è perciò perfetto simbolo
dell’iniziazione.
A fine racconto Alice incontra un grifone, animale
mitologico unione di cielo e terra, leone ed aquila, simbolo dell’iniziazione
proprio per la sua doppia natura. L’iniziazione non è un passaggio? Un
passaggio da una condizione umana, terrena ad una superiore? E il leone a cui
spuntano le ali non ne è che un simbolo. E tale animale compare alla fine del
racconto quasi a voler simboleggiare l’ormai acquisita iniziazione di Alice che
da lì a poco si sveglierà dallo stato di sonno: si risveglia alla sua nuova
condizione, come una qualsiasi iniziazione con la morte iniziatica e il
successivo risveglio. Altro elemento caratterizzante il grifone è la coda
formata da un serpente, animale sicuramente legato alla terra, ma in grado di
infilarsi nei buchi, quindi in qualche modo partecipe della natura sotterranea
e in tal modo ideale completamento con il leone e l’aquila dei tre mondi, dando
così al grifone una completezza. Ma non solo questo, il serpente oltre alle
note valenze negative, che nel grifone non compaiono, è un altro simbolo
iniziatico per la sua caratteristica di cambiare pelle, quindi di lasciare la
sua vecchia natura e di acquisirne un’altra.
A livello allegorico l’aquila rappresenta l’intelligenza per
la sua capacità di guardare lontano, il leone la forza e il coraggio e il
serpente la furbizia. Quindi anche a livello allegorico il grifo è un simbolo
di completezza, la forza guidata dalla intelligenza ed aiutata dalla furbizia
per svelare gli inganni.
“Ecco: io
vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e
semplici come le colombe”. (16 Vangelo secondo Matteo)
Sulla Regina di Cuore collerica si sprecherebbero le
congetture psicologiche dal classico complesso di Edipo alla madre della vera
Alice che proibisce al giovane Carrol di vedere la bambina. D’altro canto la
regina è di cuori e non può essere che preda di forti emozioni essendo il cuore
l’organo deputato a ciò. Il rosso è anche il colore delle forti emozioni e
della rabbia, ma non dimentichiamo che il rosso è anche il colore della
nobiltà, e quindi naturale corollario della sovranità. Per tutto l’episo-dio la Regina minaccia tutti di
far tagliare loro la testa ed è emblematico che ciò accade alla fine del
racconto. La decollazione ha un forte significato simbolico, di morte e poi di
rinascita. Staccare il capo dal corpo ovvero lo spirito dal corpo, dalla
componente materiale, liberarlo dalla materia, non a caso decollare, è anche
etimologicamente far volare.
L’ultimo episodio del racconto vede Alice imputata in un processo. La
bambina ha già conosciuto il Grifo che come abbiamo visto ha un preciso
significato iniziatico e durante il processo mantiene un atteggiamento di
sufficienza e quasi di irritazione per tutti quei buffi personaggi: oramai il
suo viaggio volge al termine. Il passaggio è terminato, l’iniziazione è
avvenuta, la testa simbolicamente si è staccata dal corpo e può volare libera e
tutti quei buffi personaggi, rappresentanti gli stati dell’essere precedenti
all’iniziazione, sono solo d’intralcio
martedì 23 dicembre 2014
Sul Destino, Giamblico
tratto da: http://letteraespirito.wordpress.com/giamblico-sul-destino/
Giamblico (Calcide 245-325 ca.). Si adoperò per rivivificare le dottrine pitagoriche e platoniche. Allievo di Porfirio alla scuola neoplatonica d’Alessandria, fondò poi la “scuola siriaca”. Oltre a molti frammenti (noti attraverso l’Eklogon di Stobeo), restano di lui cinque libri della stessa opera principale Συναγωγὴ τῶν Πυϑαγορείων δογμάτον (De vita Pythagorica, Protrepticus o Adhortatio ad philosophiam, De communi mathematicæ scientia, In Nicomachi arithmeticam introductio, Theologumena arithmeticæ) e l’opera De mysteriis.
Giamblico (Calcide 245-325 ca.). Si adoperò per rivivificare le dottrine pitagoriche e platoniche. Allievo di Porfirio alla scuola neoplatonica d’Alessandria, fondò poi la “scuola siriaca”. Oltre a molti frammenti (noti attraverso l’Eklogon di Stobeo), restano di lui cinque libri della stessa opera principale Συναγωγὴ τῶν Πυϑαγορείων δογμάτον (De vita Pythagorica, Protrepticus o Adhortatio ad philosophiam, De communi mathematicæ scientia, In Nicomachi arithmeticam introductio, Theologumena arithmeticæ) e l’opera De mysteriis.
Dall’epistola di Giamblico a Macedonio
Stobeo I 5. 17
Stobeo I 5. 17
Tutti gli esseri sono esseri in forza
dell’uno, e infatti anche ciò che è in modo primario da principio si
produce a partire dall’Uno, ma in modo del tutto particolare le cause
totali in forza dell’Uno ricevono il potere di produrre e secondo un
unico intreccio sono tenute unite e allo stesso tempo sono ricondotte
insieme al principio dei molti, in quanto presussistono.
In base a questo ragionamento, dunque, a
un’unica causa totale è sospesa anche la molteplicità delle cause
naturali, che sono costituite di molteplici specie, divise in un gran
numero di parti e dipendono da più principi; d’altra parte tutte le
cause si intrecciano l’una con l’altra secondo un unico legame e la
connessione delle molte cause rimonta a un’unica forza causale, la più
comprensiva.
Dunque questa unica concatenazione non è
formata alla rinfusa a partire dal molteplice, né realizza l’unità
acquisendo consistenza a partire dall’intreccio, né si trova dispersa
negli esseri individuali; piuttosto è secondo un unico intreccio
causale, superiore e antecedente agli esseri individuali, che questa
unica concatenazione porta a compimento tutte le cose e le lega insieme
in sé e le riconduce a sé secondo l’unicità formale.
Si deve dunque definire il destino un ordine unico che comprende in sé allo stesso tempo tutti gli ordini.
Dall’epistola di Giamblico a Macedonio sul destino
Stobeo II 8. 43
Stobeo II 8. 43
È sostanza immateriale quella dell’anima che
esiste in sé, incorporea, del tutto ingenerata e indistruttibile – dal
momento che possiede a partire da se stessa l’essere e il vivere –, si
muove di moto del tutto proprio ed è principio della natura e di tutti i
movimenti. Dunque in quanto essa è tale, contiene in sé la vita che
detiene il potere di determinarsi e quella indipendente. [E] per quanto
si dà alle cose soggette al divenire e si subordina al moto
dell’universo, in tale misura è sia spinta sotto il dominio del destino
sia sottomessa alle necessità della natura; invece, per quanto esercita
la sua attività intellettiva, che è realmente libera da tutte le cose ed
è di propria elezione, in tale misura compie volontariamente le sue
funzioni proprie e raggiunge davvero il contatto col divino e buono e
intelligibile.
Stobeo II 8. 44
Bisogna, allora, darsi cura di vivere quel
tipo di esistenza che è secondo intelletto ed è degli dei; solo questa
infatti ci dà un’anima che non ha padrone, ci scioglie dai legami
necessari e ci fa vivere non una forma di esistenza umana, bensì divina,
cioè colma di beni divini, per volontà degli dei.
Stobeo II 8. 45
E infatti, riassumendo, i movimenti cosmici
del destino si svolgono in maniera simile alle attività e alle
rivoluzioni immateriali e intellettive; l’ordine del destino rispecchia
il buon ordine intelligibile e non contaminato; le cause seconde sono
connesse alle cause superiori e il molteplice nella generazione è in
relazione all’essenza indivisibile e allo stesso modo tutte le cose del
destino sono unite alla superiore provvidenza. In conclusione, per la
sua stessa essenza il destino è intrecciato alla provvidenza e, per il
fatto che la provvidenza esiste, esiste il destino e sussiste a partire
da essa e in relazione a essa.
Stobeo II 8. 45a
Dato questo stato di cose, anche il principio umano dell’agire ha consonanza con entrambi questi principi dell’universo [i.e.
destino e provvidenza]; d’altra parte, implica in
noi anche un
principio delle azioni staccato dalla natura e sciolto dal movimento
dell’universo: per questo tale principio non è contenuto nel principio
dell’universo. Infatti, poiché [non] deriva dalla natura né dal
movimento dell’universo, essendo più eminente e non essendo dato
dall’universo, è posto prima nell’ordine; ma poiché si è distribuito
alcune parti a partire da tutte le regioni del cosmo e da tutti gli
elementi e si serve di tutte queste parti,
è compreso esso stesso anche
nell’ordine del destino, contribuisce a tale ordine, ne porta a
compimento la costituzione e se
ne serve opportunamente.
E per quanto l’anima contiene in sé una
ragione pura, autosussistente e che si muove di moto del tutto proprio e
svolge la sua attività a partire da sé ed è perfetta, in tale misura
essa è sciolta da tutte le cose esterne; ma per quanto proietta anche
altre vite che inclinano verso la generazione ed è in comunione col
corpo, in tale misura è intrecciata anche con l’ordine del cosmo.
Stobeo II 8. 46
Se poi qualcuno, introducendo la spontaneità
e la sorte, crede di eliminare l’ordine, sappia che nell’universo non
c’è niente che sia privo di ordine, episodico, senza causa,
indeterminato, fortuito, che consegua dal nulla e sia per accidente. Né
dunque possono essere eliminati l’ordine, la continuità delle cause,
l’unione dei principi e il predominio delle realtà prime che si estende
attraverso il tutto.
Allora è preferibile dare la seguente
definizione: la sorte è causa degli ordini molteplici o anche di ordini
di altro genere, causa che sorveglia e unifica, più eminente della
combinazione degli eventi; ora la chiamiamo dio, [ora] la consideriamo
[invece demone].
Infatti, quando cause delle combinazioni
degli eventi sono gli esseri superiori, è un dio a sorvegliarle, ma
qualora lo siano le cose naturali, un demone. Sempre, dunque, tutte le
cose sono portate a compimento grazie a una causa e tra le cose che
divengono non ce n’è proprio nessuna che sopraggiunge fuori dall’ordine.
Stobeo II 8. 47(-48)
Allora perché le distribuzioni vengono
assegnate contro il merito? O questo è del tutto empio anche solo
chiederlo? I beni infatti non risiedono in qualcos’altro, ma nell’uomo
stesso e nella scelta dell’uomo, e anzi essi sono definiti in senso più
proprio solo nella libertà di scelta, invece i dubbi sono avanzati dai
più per ignoranza. Dunque il frutto della virtù non è altro che la virtù
stessa.
Né chi è virtuoso è sminuito dalla sorte,
giacché la nobiltà d’animo lo rende superiore rispetto a ogni cattiva
sorte. Né ciò accade contro natura: la vetta dell’anima e la sua
perfezione, infatti, bastano a portare a compimento la natura migliore
dell’uomo. E certamente le cose che sembrano essere contrarie
esercitano, mantengono salda e accrescono la virtù e senza di esse non è
possibile raggiungere l’eccellenza nella virtù. E quindi questa
disposizione dell’uomo virtuoso preferisce specialmente ciò che è bello e
ripone la sola perfezione della ragione in una vita beata, mentre le
altre cose non le tiene in alcun conto e le disprezza.
Poiché quindi nell’anima consiste l’uomo, e
poiché l’anima è intellettiva e immortale, e il bello e il bene e il
fine di essa sussistono nella vita divina, nessuna delle cose mortali ha
il potere di dare un qualche contributo alla vita perfetta,
né di
diminuirne la felicità. In generale, infatti, la nostra beatitudine
sussiste nella vita intellettiva, e nessuna delle cose intermedie la fa
accrescere né è possibile ridurla. Allora invano gli uomini vanno
parlando dei casi e dei favori iniqui della sorte.
Protreptico o Esortazione alla Filosofia
3. Sentenze protrettiche pitagoriche in versi, capaci di invitarci a ogni filosofia che sia la migliore e la più divina
3. Sentenze protrettiche pitagoriche in versi, capaci di invitarci a ogni filosofia che sia la migliore e la più divina
C’è anche un altro tipo di esortazione che
si serve anch’esso di sentenze, ma che non pone più a mo’ di parabola le
immagini alle sentenze, giacché è già in versi e in musica, ed è
genuinamente pitagorico, e noi lo possediamo per averlo appreso tra
l’altro nei Versi aurei, di cui è giusto presentare qui poche indicazioni, e cioè le seguenti:
Fatica su queste cose, praticale, occorre che tu le ami:
esse ti porranno sulle tracce della divina virtù.
Attraverso queste parole Pitagora esorta a
tutto ciò che di bello c’è nelle scienze e nelle occupazioni
matematiche, ritenendo che non ci si debba risparmiare le fatiche, né
trascurare alcuna pratica di studio, stimolando all’amore e all’impegno
per le cose belle, e riducendo tutto questo alla pratica della virtù, e
non semplicemente di una qualsiasi virtù, ma di quella che ci allontana
dalla natura umana, e ci conduce alla divina essenza e alla conoscenza e
all’acquisizione della divina virtù. Ma in effetti Pitagora ci invita
alla sapienza contemplativa con le seguenti parole:
Quando tu avrai dominato queste cose,
conoscerai la costituzione degli dei immortali e degli uomini mortali,
dove cioè ciascuna [di tali realtà] si sviluppa [liberamente] e dove viene trattenuta;
e tu conoscerai, per quanto ti è consentito, che la natura è sempre la medesima,
sicché né tu puoi sperare ciò che è insperabile, né alcunché ti rimane nascosto.
Ebbene, non esistono cose più straordinarie
di queste per coloro che sono capaci per natura di slanciarsi nobilmente
verso la filosofia contemplativa, perché la conoscenza degli dei è
perfetta virtù e sapienza e felicità, e ci rende simili agli dei, e
d’altra parte la scienza delle cose umane fornisce le virtù umane e ci
rende esperti delle nostre faccende, e serve a farci distinguere ciò che
esse producono di utile o di nocivo, e ci preservano da alcune cose e
ce ne procurano delle altre, e insomma ci fa apprendere a parole e a
fatti la costituzione che è propria della vita umana. Ma la cosa più
straordinaria che viene insegnata da un sapere siffatto è il conoscere
come si sviluppi liberamente e senza intoppi ogni aspetto della nostra
vita, quali siano le sue parti migliori, e come siano trattenute e
impedite al punto che non si possa facilmente uscirne svincolandosi dai
legami.
La sentenza successiva a questa è la
raccomandazione all’indagine sulla natura e a ogni forma di
contemplazione del cielo. La natura di quest’ultimo, infatti, è sempre
la medesima, perché ruota allo stesso modo secondo la stessa
rivoluzione, e se qualcuno la vuole apprendere, né potrà attendersi cose
inaspettate, né potrà ignorare che cosa stia per accadergli
necessariamente.
Le sentenze successive a queste sono raccomandazioni prodotte dalla vita che noi stessi scegliamo, ad esempio:
Tu conoscerai che gli uomini, quando sono sventurati,
subiscono le sventure che si sono scelte.
Se infatti gli uomini sono causa delle loro
azioni, possiedono anche il potere, che deriva proprio da loro stessi,
di scegliere i beni e di fuggire i mali, perché colui che non si serve
di questo potere è indegno dei vantaggi che la natura gli dà.
Nient’altro dunque dice [questa sentenza] se non questo, cioè che noi
scegliamo il nostro demone, e che siamo per noi stessi nel ruolo della
fortuna e del demone, e che ci procuriamo da noi stessi la nostra
felicità: cosa che esorta alla sola bellezza e mostra che il valore di
questa è l’essere scelta per se stessa.
Più o meno vicine a questa sono le sentenze del tenore seguente:
Coloro che, da un lato, quando sono vicini ai beni né li guardano né li ascoltano,
raramente, dall’altro lato, comprendono come liberarsi dai mali.
Che i beni ci siano vicini, infatti, e siano
connaturali all’anima di tutti noi e ci appartengano come le cose più
proprie, tutto ciò è straordinariamente protrettico. E il non guardare e
il non ascoltare, da un lato, e l’essere ottenebrati dalla sensibilità,
dall’altro lato, sono uno splendido invito alla vita intellettiva, come
se fosse il solo intelletto a guardare e ascoltare ogni cosa. E la
liberazione dai mali, che pochi osservano, esorta a liberarci dal corpo e
a vivere la vita dell’anima in se stessa, che noi chiamiamo
“meditazione sulla morte”.
C’è, in successione, anche un altro metodo
protrettico che è quello che deriva dalla ripugnanza verso i malvagi.
Non è tollerabile, infatti, che simili a oggetti cilindrici
i malvagi, pur subendo infinite sventure, si muovano di qua e di là.
La malvagità infatti produce la violenza e
l’irrazionalità e il muoversi a caso, e ora qua ora là, e soprattutto
l’illimitatezza, cose che bisogna assolutamente fuggire.
La sentenza successiva è la seguente:
Malefica compagna, infatti, colpisce di nascosto l’innata contesa,
che non bisogna alimentare, ma fuggire cedendole il passo.
E qui la sentenza indica la doppia natura
dell’uomo, nonché l’animale straniero che la natura ci ha messo accanto
fin dalla nascita, e che alcuni chiamano mostro policefalo, altri una
specie mortale di vita, altri ancora natura generatrice; ma qui Pitagora
ha denominata “innata” la contesa, non in quanto ha un posto uguale a
quello che hanno gli aspetti relativi alla nostra vita più propria, ma
in quanto è compagna che segue la nostra vita più nobile. È quella
appunto che Pitagora prescrive di fuggire, e cioè quella che noi
dobbiamo sostituire con la nostra attività intellettiva che è uniforme e
priva di contrasti, attività intellettiva che, invece che colpire, è
affine al bene e, invece che inclinare verso la rovina, è punto di
partenza per la salvezza, e lascia fuori come straniera la realtà
avventizia e quella secondaria che ne consegue, e assume la vita
primordiale e perfetta che ha da sé e in sé ogni cosa. Per tutto ciò,
dunque, è opportuno ridurre al minimo la prima e alimentare al massimo
quest’ultima; e cosi tale esortazione alla vita secondo intelletto
diviene la più efficace.
In effetti alla divina perfezione e alla migliore collocazione nel seguire gli dei ci invitano le sentenze del tipo seguente:
Padre Zeus, tu ci renderai tutti liberi da molti mali
se indicherai a noi tutti di quale demone dobbiamo servirci.
Ma tu abbi coraggio, perché divino è il genere dei mortali.
In queste parole c’è in primo luogo una
raccomandazione alla felicità divina, che è la migliore, perché è
mescolata alle preghiere e alle invocazioni degli dei e soprattutto di
Zeus che è il loro re, ma in secondo luogo una chiara indicazione del
demone che ci è concesso o dato in sorte dagli dei, e dell’ascesa per
mezzo di lui di nuovo verso gli dei. Non si potrebbe, infatti, per
nient’altro risalire verso l’aspetto più divino e più importante della
propria essenza, se non per mezzo di tale demone, di cui ci si serve
come guida, e che ha il compito di rendere autenticamente puro ogni
amante degli dei. Da ciò appunto verrà una prima cessazione dei mali che
ci sono connaturali fin dalla nascita, poi ci sarà dato di conoscere
veramente la vita divina e beata, e quanto grande e di che natura essa
sia: innalzandoci assieme a essa, noi osserveremo la primigenia e divina
natura degli uomini, e stabilendoci in essa possiederemo il fine della
vita più beata che è stata proposta dagli dei agli uomini.
Alla fine, dunque, Pitagora esorta l’anima a
trasferirsi [lassù] e a vivere la sua propria e autonoma vita, secondo
la quale essa si allontana dal corpo e dalle disposizioni naturali da
esso dipendenti. Ecco che cosa dice:
Assumi come auriga l’ottima intelligenza che è quella che viene dall’alto [dagli dei],
e se dopo avere abbandonato il corpo giungerai al libero etere,
sarai immortale come un dio, non più un uomo mortale.
Orbene, il fatto che il migliore intelletto
si colloca come guida al posto più elevato, questo mantiene intatta la
somiglianza dell’anima agli dei, somiglianza a cui è rivolta anche la
prima esortazione; mentre il fatto di abbandonare il corpo e l’emigrare
verso l’etere, e il trasferire la natura umana alla purezza degli dei e
lo scegliere una vita immortale al posto di una mortale, tutto questo
consente di restituirla all’essenza degli dei e alla rivoluzione in loro
compagnia, situazione che noi avevamo prima di giungere alla forma
umana. È chiaro dunque che il metodo di tali raccomandazioni ci esorta a
tutti i generi dei beni e a ogni forma di vita migliore.
I Misteri egiziani **
Libro VIII, 6-8
6. [Astrologia e destino, secondo gli Egiziani. La teoria delle due anime negli scritti ermetici.]
Libro VIII, 6-8
6. [Astrologia e destino, secondo gli Egiziani. La teoria delle due anime negli scritti ermetici.]
Tu, dunque, dici che la maggior parte degli Egiziani fa dipendere la nostra libera volontà dal movimento degli astri.
Come la cosa stia, occorre spiegartelo con più dettagli, partendo dalle
concezioni ermetiche. L’uomo, come dicono questi scritti, ha due anime:
l’una deriva dal primo intelligibile e partecipa anche della potenza
del demiurgo, l’altra è ingenerata in noi dal movimento dei corpi
celesti, in cui entra l’anima che contempla Dio. Stando così le cose,
l’anima che dai mondi scende in noi accompagna i movimenti di questi
mondi, mentre l’anima derivata dall’intelligibile, intelligibilmente
presente in noi, è al di sopra del ciclo del divenire e per essa noi ci
liberiamo dal destino, e saliamo agli dei intelligibili: la teurgia che
si eleva al non-generato si realizza secondo tale vita.
7. [Non tutto è stretto nei vincoli del destino.]
Perciò, non tutto, come s’intravede nei tuoi
dubbi, è legato nei vincoli indissolubili della necessità, che noi
chiamiamo destino: poiché l’anima possiede in se stessa il principio che
la fa volgere all’intelligibile, l’allontana dagli esseri del divenire,
l’unisce con l’essere e con il divino. Né d’altra parte attribuiamo il
destino agli dei, che veneriamo con templi e con statue come liberatori
dal destino. Ma se gli dei liberano dal destino, le nature che ultime
derivano da essi, scendendo nel divenire del cosmo e nel corpo e
congiungendosi con essi, mettono in atto il destino. A ragione, dunque,
noi offriamo agli dei tutto il sacro culto, affinché essi, che soli
dominano la necessità con la persuasione intellettuale, allontanino i
mali che vengono dal destino.
Ma non tutto è stretto nei legami del
destino: c’è un altro principio dell’anima, superiore a ogni natura e a
ogni conoscenza, per cui possiamo unirci agli dei, sovrastare
sull’ordine cosmico, partecipare alla vita eterna e alle attività degli
dei sopracelesti. Secondo questo principio, siamo in grado di liberare
noi stessi. Infatti, quando agisce la parte migliore di noi e l’anima si
eleva agli esseri superiori a essa, allora l’anima si separa tutta da
ciò che la trattiene nel divenire, si allontana dal meno perfetto,
prende una vita diversa in cambio della sua, si dà a un altro ordine,
abbandonando completamente il precedente.
8. [Quali dei liberano dal destino.]
E che, dunque? È mai possibile liberarsi
tramite gli dei che s’aggirano nel cielo e credere al tempo stesso che
essi reggano il destino e incarcerino le nostre vite con vincoli
indissolubili? Forse niente impedisce anche questo, se è vero che,
contenendo gli dei in sé molte essenze e potenze, ci sono in essi
innumerevoli differenze e opposizioni. Si può tuttavia dire che in
ciascuno degli dei, anche in quelli visibili, ci sono alcuni principi
intelligibili di essenza, per mezzo dei quali viene alle anime la
liberazione dal divenire cosmico. Se perciò si lasciassero soltanto due
generi di dei, pericosmici e ipercosmici, la liberazione verrà alle
anime per mezzo degli ipercosmici. Questi problemi sono discussi con
maggiore accuratezza negli scritti sugli dei: quali dei elevano
all’intelligibile e secondo quali loro potenze, in qual modo liberano
dal destino e mediante quali ieratiche ascensioni, qual è l’ordine della
natura cosmico-siderea e in qual modo l’attività intellettuale più
perfetta domina su questa; sicché non è pio dire neppure ciò che tu hai citato da Omero che cioè gli dei sono pieghevoli.
Perché le operazioni del culto sacro sono state da tempo antico fissate
con leggi immacolate ed intellettuali, ciò che è inferiore è affrancato
da un ordine e da una potenza superiore, e dall’inferiore noi ci
distacchiamo, appena passiamo ad una sorte migliore. E niente in tutto
ciò si compie in contrasto con la legge stabilita ab origine,
sicché gli dei siano suscettibili di cambiamenti secondo una norma
cultuale istituita successivamente, ma fin dalla loro prima discesa Dio
mandò giù le anime perché ritornassero di nuovo a lui. Perciò, non
avviene a causa di siffatta elevazione nessun mutamento, né stanno in
contrasto le discese e le ascese delle anime. Infatti, come nel tutto il
divenire e questo universo sono strettamente connessi con l’essenza
intellettiva, così nell’ordine delle anime con la loro cura per il monde
creato s’accorda la liberazione dal divenire.
Dall’epistola di Giamblico a Sopatro
Stobeo I 5. 18
Stobeo I 5. 18
E del destino l’essenza risiede tutta nella
natura. Chiamo natura la causa del cosmo che non è separata da esso e
abbraccia in modo inseparato le cause totali della generazione per
quanto, in modo separato, le essenze e gli ordini superiori comprendano
in sé. E dunque la vita corporea e la ragione generatrice, le forme
unite alla materia e la materia stessa, la generazione composta da tutto
ciò, il movimento che tutto trasforma e la natura che amministra in
modo ordinato le cose che si generano, i principi della natura e i suoi
fini e le sue operazioni, e anche i legami reciproci di queste cose e i
processi dall’inizio alla fine, tutto ciò costituisce il destino.
* Estratti da varie opere: Dall’epistola di Giamblico a Macedonio (Stobeo I 5.17, II 8.43-48; cfr. Giamblico, I frammenti dalle epistole, a cura di Daniela P. Taormina e Rosa Maria Piccione, Bibliopolis, Napoli, 2010), Protreptico o Esortazione alla Filosofia (Capitolo 3; cfr. Giamblico, Summa pitagorica, a cura di Francesco Romano, Bompiani, Milano, 2012), I Misteri egiziani (Libro VIII, 6-8; cfr. Giamblico, I misteri egiziani, a cura di Angelo R. Sodano, Rusconi, Milano, 1984), Dall’epistola di Giamblico a Sopatro (Stobeo I 5.18; cfr. Giamblico, I frammenti dalle epistole, ibid.).
** Trattasi della Risposta del maestro Abammone alla lettera di Porfirio ad Anebo e soluzione delle questioni poste in essa.
I singoli capitoli sono preceduti da un breve riassunto del loro
contenuto. Nel corpo del testo sono in corsivo le citazioni, letterali o
parafrasate, della Lettera ad Anebo di Porfirio.
domenica 14 dicembre 2014
Il Papà Racconta: favole per piccini e non più piccini
Questa volta vi segnaliamo un libro non propriamente misterioso, ma che in ogni caso attinge al mondo fantastico ed in particolare a quello fiabesco con draghi, elfi, nani minatori, fate e le altre classiche creature immaginarie. Fra i racconti non mancano quelli con protagonisti gli animali che nella migliore tradizione, cercano di inseganre qualcosa ia piccoli lettori. Il libro è in formato ebook ed è scritto dal nostro collaboratore Vito Foschi e lo potete scricare dal seguente link:
Non possiamo che consigliare di acquistare questa piccola chicca, che può essere anche un simpatico regalo di Natale.
domenica 9 novembre 2014
Le tre vie e le forme iniziatiche
tratto da Lettera e Spirito n. 33
http://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-le-tre-vie-e-le-forme-iniziatiche/
di René Guénon
http://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-le-tre-vie-e-le-forme-iniziatiche/
di René Guénon
È noto che la tradizione indù distingue tre “vie” (mârga) che sono rispettivamente quelle di Karma, di Bhakti e di Jnâna;
non ritorneremo sulla definizione di questi termini, che dobbiamo
supporre sufficientemente conosciuta dai nostri lettori; preciseremo
però subito che, giacché a essi corrispondono tre forme di Yoga, ciò implica essenzialmente che tutti hanno o sono suscettibili d’avere un significato d’ordine propriamente iniziatico [1].
D’altra parte, bisogna capire bene che qualunque distinzione di questo
genere ha sempre necessariamente un certo carattere “schematico” e
piuttosto teorico, poiché, di fatto, le “vie” variano indefinitamente
per adeguarsi alla diversità delle nature individuali, e, anche in una
classificazione molto generale come quella, non può trattarsi che della
predominanza d’uno di quegli elementi in rapporto agli altri, senza che
questi possano mai essere interamente esclusi. Questo caso è analogo a
quello dei tre guna: si classificano gli esseri secondo il guna che in essi predomina, ma è chiaro che la natura d’ogni essere manifestato comporta ugualmente tutti i guna, sebbene in proporzioni diverse, non potendo essere diversamente in tutto ciò che procede da Prakriti.
L’accostamento che facciamo tra questi due casi è d’altronde qualcosa
di più che un semplice paragone, ed è tanto più giustificato giacché
esiste realmente una certa correlazione tra l’uno e l’altro: infatti, lo
Jnâna-mârga è evidentemente quello che conviene agli esseri di natura “sattwica”, mentre il Bhakti-mârga e il Karma-mârga
convengono a quelli la cui natura è prevalentemente “rajasica”,
peraltro con delle sfumature differenti; in un certo senso si potrebbe
forse dire che vi è nell’ultimo qualcosa di più vicino a tamas
che nell’altro, benché non convenga spingere questa considerazione
troppo in là, poiché è evidente che gli esseri di natura “tamasica” non
sono affatto qualificati per seguire una qualsivoglia via iniziatica.
Nonostante quest’ultima riserva, non è men vero che esiste un rapporto tra i caratteri rispettivi dei tre mârga e gli elementi costitutivi dell’essere ripartiti secondo il ternario “spirito, anima, corpo” [2]:
la Conoscenza pura è, in se stessa, d’ordine essenzialmente
sopraindividuale, cioè in definitiva spirituale, come l’intelletto
trascendente in cui rientra; il carattere nettamente psichico di Bhakti è evidente, mentre Karma,
in tutte le sue modalità, comporta necessariamente una certa attività
d’ordine corporeo, e, quali che siano le trasposizioni di cui questi
termini sono suscettibili, qualcosa di questa natura originale deve
sempre inevitabilmente ritrovarvisi. Ciò conferma pienamente quanto
dicevamo della corrispondenza con i guna: la via “jnânica”, in
queste condizioni, può evidentemente convenire solo agli esseri in cui
predomina la tendenza ascendente di sattwa e che, per ciò
stesso, sono predisposti a mirare direttamente alla realizzazione degli
stati superiori piuttosto che attardarsi a uno sviluppo dettagliato
delle possibilità individuali; le altre due vie, per contro, fanno
dapprima appello a degli elementi prettamente individuali, non fosse
altro che per trasformarli alla fine in qualcosa che appartiene a un
ordine superiore, e ciò è ben conforme alla natura di rajas,
che è la tendenza producente l’espansione dell’essere al livello stesso
dell’individualità, la quale, non va dimenticato, è costituita
dall’insieme degli elementi psichico e corporeo. D’altra parte, risulta
immediatamente da ciò che la via “jnânica” si riferisce più in
particolare ai “grandi misteri”, e le vie “bhaktica” e “karmica” ai
“piccoli misteri”; in altri termini, si vede ancora da quanto precede
che solamente mediante Jnâna è possibile pervenire allo scopo finale, mentre Bhakti e Karma
hanno piuttosto una funzione “preparatoria”, dato che le vie
corrispondenti conducono soltanto fino ad un certo punto, ma rendono
possibile il conseguimento della Conoscenza per coloro la cui natura non
ne sarebbe idonea direttamente e senza una tale preparazione. Va da sé
d’altronde che non può esservi iniziazione effettiva, sia pure ai primi
stadi, senza una parte più o meno grande di conoscenza reale, anche
quando, nei mezzi ch’essa mette in opera, l’“accento” cade soprattutto
sull’uno o l’altro dei due elementi “bhaktico” e “karmico”; ma ciò che
vogliamo dire è che in ogni caso, al di là dei limiti dello stato
individuale, non può più esservi che una sola e unica via, che è
necessariamente quella della Conoscenza pura. Un’altra conseguenza da
tener presente è che, a causa della connessione delle due vie “bhaktica”
e “karmica” con l’ordine delle possibilità individuali e con il dominio
dei “piccoli misteri”, la distinzione tra loro è molto meno netta di
quanto non lo sia con la via “jnânica”, e ciò dovrà naturalmente
riflettersi in qualche modo nei rapporti tra le corrispondenti forme
iniziatiche; dovremo del resto ritornare brevemente su questo punto nel
seguito della nostra esposizione.
Queste considerazioni ci portano a considerare anche un’altra relazione, quella che esiste, in linea generale, tra i tre mârga
e le tre caste “due volte nate”; è d’altronde facile da capire che
debba esistere una tale relazione, poiché la distinzione delle caste non
è altro in principio che una classificazione degli esseri umani secondo
le loro nature individuali, ed è precisamente per convenire alla
diversità di queste nature che esiste una pluralità di vie. I Brâhmani,
essendo di natura “sattwica”, sono particolarmente qualificati per lo Jnâna-mârga,
ed è detto espressamente che essi devono tendere il più direttamente
possibile al possesso degli stati superiori dell’essere; d’altronde, la
loro stessa funzione nella società tradizionale è essenzialmente e prima
di tutto una funzione di conoscenza. Le altre due caste, la cui natura è
principalmente “rajasica”, esercitano delle funzioni che, in se stesse,
non superano il livello individuale e sono orientate verso l’attività
esteriore [3]:
quelle degli Kshatriya corrispondono a quel che si può chiamare lo
“psichismo” della collettività, e quelle dei Vaishya hanno per oggetto
le diverse necessità dell’ordine corporeo; da ciò risulta, secondo
quanto abbiamo detto precedentemente, che gli Kshatriya devono esser
soprattutto qualificati per il Bhakti-mârga e i Vaishya per il Karma-mârga,
e, infatti, è proprio quel che si può constatare generalmente nelle
forme iniziatiche a loro rispettivamente destinate. Vi è tuttavia
un’importante osservazione da fare a questo proposito: se si intende il Karma-mârga nel suo senso più esteso, esso si definisce con lo swadharma,
ossia con l’adempimento da parte di ciascun essere della funzione che è
conforme alla sua natura propria; si potrebbe allora considerarne una
applicazione a tutte le caste, salvo che allora questo termine sarebbe
manifestamente improprio per quel che riguarda i Brâhmani, la cui
funzione è in realtà al di là del dominio dell’azione; ma si potrebbe
almeno applicarlo allo stesso tempo, anche se con modalità diverse, al
caso degli Kshatriya e a quello dei Vaishya, ciò che è un esempio della
difficoltà che si incontra, come dicevamo sopra, a separare in modo
netto quel che conviene agli uni e agli altri, e difatti è noto come la Bhagavad-Gîtâ esponga un Karma-yoga
specificamente adatto all’uso degli Kshatriya. Nonostante ciò, non è
men vero che, se si prendono i termini in senso stretto, le iniziazioni
degli Kshatriya presentano nell’insieme un carattere soprattutto
“bhaktico” e quelle dei Vaishya un carattere soprattutto “karmico”, cosa
che verrà tra breve meglio chiarita con un esempio preso dalle forme
iniziatiche dello stesso mondo occidentale.
Va da sé, infatti, che quando parliamo delle
caste come facciamo qui, riferendoci in primo luogo alla tradizione
indù per comodità d’esposizione e perché essa ci fornisce al riguardo la
terminologia più adeguata, quel che ne diciamo si estende ugualmente a
tutto ciò che altrove corrisponde a queste caste, in una forma o
nell’altra, poiché le grandi categorie in cui si ripartiscono le nature
individuali degli esseri umani sono sempre e dovunque le medesime, per
il fatto stesso che, ricondotte al loro principio, esse non sono altro
che una risultante del predominio rispettivo dei diversi guna,
cosa evidentemente applicabile all’intera umanità, come caso particolare
di una legge valevole per tutto l’insieme della manifestazione
universale. La sola differenza notevole è nella proporzione più o meno
grande, secondo le condizioni di tempo e di luogo, di uomini
appartenenti a ciascuna categoria, i quali, se qualificati a ricevere
un’iniziazione, saranno di conseguenza suscettibili di seguire l’una o
l’altra delle vie corrispondenti [4];
e, nei casi più estremi, può succedere che qualcuna di queste vie cessi
praticamente d’esistere in un dato ambiente, se il numero di coloro che
sarebbero idonei a seguirla è divenuto insufficiente a consentire la
conservazione d’una forma iniziatica distinta [5].
Ciò si è verificato segnatamente in Occidente, dove ormai da lungo
tempo le predisposizioni alla conoscenza sono state costantemente molto
più rare e meno sviluppate della tendenza all’azione, per cui si può
dire che, nell’insieme del mondo occidentale, e persino in quel che ne
costituisce l’“élite” almeno relativa, rajas ha di gran lunga la meglio su sattwa;
così, già nel Medio Evo, non si trovano tracce chiare dell’esistenza di
forme iniziatiche propriamente “jnâniche”, che di norma avrebbero
dovuto corrispondere a un’iniziazione sacerdotale; ciò a tal punto che
anche le organizzazioni iniziatiche a quel tempo in più stretto rapporto
con certi Ordini religiosi avevano pur sempre un carattere “bhaktico”
molto accentuato, per quanto è possibile giudicare dai modi
d’espressione più abitualmente impiegati da quei loro membri che
lasciarono opere scritte. Per contro, si trova a quell’epoca, da una
parte l’iniziazione cavalleresca, il cui carattere dominante è
evidentemente “bhaktico” [6],
e dall’altra le iniziazioni artigianali, che erano “karmiche” in senso
stretto, essendo essenzialmente basate sull’esercizio effettivo d’un
mestiere. Va da sé che la prima era un’iniziazione di Kshatriya e le
seconde erano delle iniziazioni di Vaishya, prendendo la designazione
delle caste secondo il significato generale da noi appena spiegato; e
aggiungeremo che i legami che di fatto esistettero quasi sempre tra
queste due categorie, come abbastanza spesso abbiamo avuto occasione di
segnalare altrove, sono una conferma di quanto dicevamo sopra
dell’impossibilità di separarle completamente. Più tardi, anche le forme
“bhaktiche” disparvero, e le sole iniziazioni che ancora sussistono
attualmente in Occidente sono delle iniziazioni di mestiere, o che tali
erano all’origine; anche dove, in seguito a certe circostanze
particolari, la pratica del mestiere non è più richiesta come condizione
necessaria, ciò che del resto non può essere considerato che come una
diminuzione, se non come una vera degenerazione, questo non toglie
evidentemente nulla al loro carattere essenziale.
Ora, se l’esistenza esclusiva di forme
iniziatiche qualificabili come “karmiche” nell’Occidente attuale è un
fatto incontestabile, bisogna dire che le interpretazioni alle quali
tale fatto ha dato origine non sono sempre esenti, sotto vari punti di
vista, da equivoci e confusioni; è quel ci resta da esaminare per
mettere a punto le cose nel modo più completo possibile. Innanzitutto,
certuni hanno immaginato che, a causa del loro carattere “karmico”, le
iniziazioni occidentali si oppongano in certo qual modo alle iniziazioni
orientali, che, a loro modo di vedere, sarebbero tutte prettamente
“jnâniche” [7];
ciò è del tutto inesatto, poiché la verità è che in Oriente coesistono
tutte le categorie di forme iniziatiche, com’è d’altronde
sufficientemente provato dall’insegnamento della tradizione indù a
proposito dei tre mârga; se al contrario ne esiste soltanto più
una in Occidente, gli è che le possibilità di quest’ordine vi si
trovano ridotte al minimo. Che la predominanza vieppiù esclusiva della
tendenza all’azione esteriore sia una delle cause principali di questo
stato di fatto, ciò è fuor di dubbio; ma non è men vero che a dispetto
dell’aggravarsi di questa tendenza sussiste ancora oggi un’iniziazione
quale che sia, e sostenere il contrario implica un grave equivoco circa
il reale significato della via “karmica”, come vedremo più precisamente
tra breve. Inoltre, è inammissibile voler fare in certo qual modo una
questione di principio di qualcosa che è soltanto l’effetto di una
semplice situazione contingente, e considerare le cose come se ogni
forma iniziatica occidentale dovesse necessariamente essere di tipo
“karmico” solo perché occidentale; crediamo non sia necessario
insistervi oltre poiché, dopo tutto quello che già abbiamo detto, deve
essere abbastanza chiaro che una visione del genere non può
corrispondere alla realtà, che è d’altronde evidentemente ben più
complessa di quel ch’essa sembra supporre.
Un altro punto molto importante è questo: il termine Karma,
quando si applica a una via o a una forma iniziatica, dev’essere inteso
prima di tutto nel suo senso tecnico di “azione rituale”; a questo
proposito, è facile vedere che ogni iniziazione presenta un certo lato
“karmico”, poiché essa implica sempre essenzialmente il compimento di
particolari riti; questo corrisponde d’altronde ancora a quanto abbiamo
detto circa l’impossibilità che l’una o l’altra delle tre vie esista
allo stato puro. Inoltre, e al di fuori dei riti propriamente detti,
ogni azione, per essere realmente “normale”, cioè conforme all’“ordine”,
dev’essere “ritualizzata”, e, come spesso abbiamo spiegato, questo
avviene effettivamente in una civiltà integralmente tradizionale; anche
nei casi che si potrebbero definire “misti”, in cui cioè una certa
degenerazione ha portato l’introduzione del punto di vista profano e gli
ha fatto un posto più o meno esteso nell’attività umana, quanto sopra
rimane ancora vero, almeno per ogni azione che è in rapporto con
l’iniziazione, ed è segnatamente così per tutto ciò che riguarda la
pratica del mestiere nel caso delle iniziazioni artigianali [8].
Si vede che ciò è quanto mai lontano dall’idea che di una via “karmica”
si fa chi pensa che, se un’organizzazione iniziatica presenta tale
carattere, debba intromettersi più o meno direttamente in un’azione
esteriore e tutta profana, come lo sono inevitabilmente in particolare,
nelle condizioni del mondo moderno, le attività “sociali” di ogni
genere. La ragione che si invoca a sostegno di questa tesi è
generalmente che una tale organizzazione ha il dovere di contribuire al
benessere e al miglioramento dell’umanità nel suo insieme; l’intenzione
può essere molto lodevole in se stessa, ma il modo in cui se ne
considera la realizzazione, anche se la si spoglia delle illusioni
“progressiste” cui troppo spesso è associata, non è per ciò meno
completamente erronea. Non è certo detto che un’organizzazione
iniziatica non possa proporsi secondariamente uno scopo del genere, “per
sovrappiù” in certo qual modo, e alla condizione di non confonderlo mai
con quello che costituisce il suo scopo proprio ed essenziale; ma
allora, per esercitare un’influenza sull’ambiente esterno senza cessare
d’essere quel che veramente deve, occorrerà ch’essa metta in opera dei
mezzi del tutto diversi da quelli che senza dubbio vengono ritenuti i
soli possibili, mezzi d’un ordine molto più “sottile”, ma per questo
dotati di ben altra efficacia. Sostenere il contrario significa, in
definitiva, misconoscere totalmente il valore di quella che abbiamo
talvolta denominato “azione di presenza”; e questa ignoranza è,
nell’ordine iniziatico, paragonabile, nell’ordine exoterico e religioso,
a quella, così diffusa ai giorni nostri, del ruolo degli Ordini
contemplativi; in fondo, nei due casi, è una conseguenza della stessa
mentalità specificamente moderna, per cui tutto ciò che non appare
esteriormente e non cade sotto i sensi è come non esistesse.
Aggiungeremo ancora, mentre siamo in
argomento, che esistono anche molti equivoci sulla natura delle altre
due vie, soprattutto della via “bhaktica”, poiché, per quanto riguarda
la via “jnânica”, è in ogni caso troppo difficile confondere la
Conoscenza pura, o anche le scienze tradizionali che ne dipendono e che
rientrano più propriamente nel dominio dei “piccoli misteri”, con le
speculazioni della filosofia e della scienza profana. A causa del suo
carattere più strettamente trascendente, è molto più facile ignorare del
tutto questa via che non snaturarla con false concezioni; e anche i
travestimenti come “filosofia”, da parte di certi orientalisti, che non
lasciano sussistere assolutamente niente dell’essenziale e riducono
tutto all’ombra vana delle “astrazioni”, equivalgono di fatto
all’ignoranza pura e semplice e sono troppo distanti dalla verità per
potersi imporre a chiunque abbia la minima nozione delle cose
iniziatiche. Per quanto riguarda Bhakti, il caso è abbastanza
differente, e qui gli errori provengono soprattutto da una confusione
del senso iniziatico di questo termine col suo senso exoterico, che
d’altronde, agli occhi degli Occidentali, assume quasi inevitabilmente
un aspetto specificamente religioso e più o meno “mistico” che nelle
tradizioni orientali non ha ragione di essere: tutto ciò non ha
assolutamente niente in comune con l’iniziazione, e, se effettivamente
non si trattasse d’altro, è evidente che non potrebbe esistere un Bhakti-Yoga;
ma questo ci ricondurrebbe ancora una volta alla questione del
misticismo e delle sue differenze essenziali con l’iniziazione,
argomento che abbiamo già sufficientemente trattato in altre occasioni
perché sia necessario ritornarvi nuovamente.
* R. Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Éditions Traditionnelles, Paris, 1952, cap. XVIII.
1. Diciamo “sono
suscettibili d’avere” poiché essi possono avere anche un senso
exoterico, ma è evidente che questo non è in causa quando si tratta di Yoga; naturalmente, il senso iniziatico ne è come una trasposizione in un ordine superiore.
2. Anche qui non
si dovrebbe vedere niente di esclusivo in una simile corrispondenza,
poiché ogni via iniziatica, per essere realmente valida, implica
necessariamente una partecipazione dell’essere tutto intero.
3. Diciamo «in se stesse» poiché esse possono essere trasformate da un’iniziazione che le prenda come supporto.
4. Per non
complicare inutilmente la nostra esposizione, non facciamo intervenire
qui la considerazione delle anomalie che, all’epoca attuale e
soprattutto in Occidente, risultano dal «miscuglio delle caste», dalla
sempre crescente difficoltà di determinare esattamente la vera natura di
ogni uomo, e dal fatto che la maggior parte degli uomini non adempie
più la funzione che converrebbe realmente alla propria natura.
5. Segnaliamo per
inciso che questo può obbligare coloro che sono ancora qualificati per
questa via a «rifugiarsi», se ci si passa l’espressione, in
organizzazioni praticanti altre forme iniziatiche che primitivamente non
erano fatte per essi, inconveniente che può d’altronde essere attenuato
mediante un certo «adattamento» effettuato all’interno di queste stesse
organizzazioni.
6. Un carattere analogo avevano altre iniziazioni come quella dei Fedeli d’Amore,
come indica espressamente il suo nome, benché l’elemento «jnânico»
sembri tuttavia avervi avuto uno sviluppo maggiore che non
nell’iniziazione cavalleresca, con la quale d’altronde esse avevano
rapporti assai stretti.
mercoledì 5 novembre 2014
Lettere e Spirito

Abbiamo il piacere di segnalare che la rivista di studi tradizionali Lettera e Spirito, che tratta vari aspetti della tradizione, della simbologia, della filosofia classica e della via spirituale, soprattutto attraverso contributi originali o testi di autori fondamentali quali René Guénon, Ananda K. Coomaraswamy, e altri, ha ora un'edizione italiana consultabile al seguente link:
Tutti gli articoli possono
essere scaricati gratuitamente in formato pdf.
sabato 18 ottobre 2014
Miracoli di Roberto Volterri

Buon ’viaggio’ e buona sperimentazione!
Edito da Acacia edizioni
Iscriviti a:
Post (Atom)