tratto da L'Indipendenza del 10 giugno 2012
http://www.lindipendenza.com/dante-galileo-chiesa/
di PAOLO ZANOTTO
Per chi, come lo scrivente, respinge i cardini del materialismo
storico-dialettico, gli eventi umani non rappresentano unicamente le
meccaniche conseguenze di azioni meramente pratiche e contingenti, bensì
l’espressione di moti ideali. Sulla base di tale premessa, acquisiscono
un’importanza fondamentale le differenti impostazioni culturali; a
volte determinate, certamente, da cause immanenti, ma latrici di istanze
universali. La formazione culturale di un individuo, come ben sanno
coloro che hanno monopolizzato il settore dell’istruzione e
dell’informazione, risulta decisiva. A contribuirvi concorrono numerose
concause, fra le quali quelle di carattere esplicitamente
politico-sociale non rappresentano che una semplice porzione. Al fianco
dell’influsso esercitato da filosofi, politologi, politici, giornalisti,
c’è quello giocato da poeti, romanzieri, scienziati.
Per coloro che respingono un indottrinamento da parte delle
correnti di pensiero dominanti quest’ultimo si rivela come il più
subdolo ed insidioso, giacché alcune teorie scacciate dalla porta
potrebbero fare il loro pericoloso ingresso dallo spiraglio di una
finestra lasciata socchiusa sul retro.
A tale proposito si è inteso tracciare una sorta di lista dei
“buoni” e dei “cattivi” maestri, che possa rivelarsi d’aiuto nell’ardua
impresa di ritagliarsi i margini indispensabili per fare delle buone
letture nel poco tempo libero a disposizione, se non di rimediare
all’opera di “controformazione”. Si tratta di una lista senza pretese,
in quanto chi scrive non s’illude certo di possedere gli strumenti
adeguati per suggerire alcunché a nessuno, se non a se stesso. Essa si
configura, allora, come una riflessione a voce alta; quasi come una
sorta di divertissement, al quale ciascuno possa contribuire in un
esercizio corale (perché no?) per accrescere questo elenco, del quale il
presente articolo costituisce soltanto l’incipit di una serie limitata.
I nomi famosi che hanno contribuito a segnare, nel bene o nel
male, pietre miliari della storia umana sono numerosi. Per non
attribuire ai ritratti una connotazione eminentemente “negativa”, si è
pensato di prendere le mosse da un esempio alto e imprescindibile: Dante
Alighieri. Tuttavia, l’insidia procede dalla deviazione. È lì,
pertanto, che occorre soffermarsi. Pensando alle teorie da criticare, la
mente spazia velocemente (la Verità è unica, l’errore molteplice). Ecco
che sopraggiungono, fra i primi, i nomi di Martin Luther (sia il “re”
che il monaco agostiniano); Sigmund Freud, il padre della psicanalisi;
Arnold Toynbee, il morfologo della Storia, di cui bisognerà senza dubbio
occuparsi. Innanzi tutto, però, hanno influito sui recenti avvenimenti
politico-sociali alcuni personaggi che vengono solitamente indicati come
capisaldi indiscussi del moderno pensiero occidentale: nobili
scienziati o filantropi disinteressati e impegnati nel tentativo di
emancipare l’Uomo dalle catene che lo imprigionano dall’eternità. E,
forse, si riuscirà a far emergere come non tutto ciò che luccica è oro.
La Commedia oltre Benigni
«Io veggio ben che giammai non si sazia / Nostro intelletto, se
il Ver non lo illustra, / Di fuor del qual nessun vero si spazia». Dante
Alighieri, Paradiso, IV, 124-126.
Tutti rammentano — anche perché ne è stato fatto un caso nazionale —
le performance catodiche di Roberto Benigni in prima serata, nelle quali
il comico toscano recitò alcuni versi scritti dal suo celebre
compatriota Dante Alighieri. Ma ben prima che Benigni scoprisse che
esisteva la Divina Commedia e si piccasse di farne scempio in diretta
televisiva (checché ne pensino stimati ingegni, questo rimane un modesto
giudizio personale), qualcun altro aveva già pronunciato la propria
Lectura Dantis di fronte a ben altro uditorio rispetto a quello che
affolla i programmi della TV di Stato. Si trattava di Luigi Valli,
docente di filosofia morale presso l’Università di Roma, che il giorno 4
marzo del 1906 illustrò ad un folta platea il canto XIX del Paradiso
nella sala del Collegio Nazareno. Negli anni seguenti, il Valli avrebbe
scritto numerose opere nelle quali si esponeva “Il linguaggio segreto di
Dante e dei «Fedeli d’Amore»”, come recitava il suo ultimo e più
completo lavoro, pubblicato a Roma nel 1928 dalle edizioni Optima.
Con tali studi, pur non abbandonando il metodo storico d’impronta
positivistica, egli si poneva nel solco dell’interpretazione
“tradizionale” dell’opera dantesca. In Italia, gli inziatori di questo
filone — che privilegiava il messaggio “esoterico”, recuperando lo
spirito in voga nel Medioevo — erano stati in modo particolare
Michelangelo Caetani e Giovanni Pascoli. Nel 1852, infatti, Michelangelo
Caetani, duca di Sermoneta, aveva pubblicato una breve nota, di una
ventina di pagine, intitolata “Della dottrina che si asconde nell’ottavo
e nono canto dell’Inferno della Commedia di Dante Alighieri”, uscita a
Roma presso l’editore Menicanti, cui sarebbero seguite altre ricerche
nella medesima direzione. Quarant’anni più tardi, il Pascoli aveva
raccolto questa singolare interpretazione del Poema Sacro in opere come
Minerva Oscura, Sotto il Velame o La mirabile visione. In esse il poeta
romagnolo dava conto degli aspetti esoterici dell’opera scritta
dall’Alighieri.
Lo studio del Valli, unico per concezione e per metodologia di
costruzione, giungeva a compimento di alcune ricerche che già da lungo
tempo il docente romano portava avanti. Il libro, poi, sarebbe stato
integrato, due anni più tardi, da un secondo scritto dedicato alle
«Discussioni e note aggiunte»; entrambe le opere, pubblicate in un unico
volume nel 1994 dalla casa editrice Luni di Milano, sono state
ristampate. Il lavoro del Valli s’interrompeva qui, sopraggiungendo la
morte improvvisa nel 1931. Il suo grande merito rimane quello di aver
fornito una chiave interpretativa «prossima a un metodo matematico»,
secondo le sue stesse parole, di quei poemi ed oscurissimi scritti
composti dai maggiori uomini di lettere d’epoca medioevale: Guinizelli,
Cavalcanti, Boccaccio, Petrarca ed altri ancora, oltre allo stesso
Dante.

Nel
1925 anche il celebre iniziato René Guénon si era interessato a questi
studi dedicati alla Divina Commedia, prendendo le mosse da alcuni
scritti che il cattolico francese Eugéne Aroux aveva steso a partire dal
1854, ispirandosi a sua volta alle intuizioni avute da Ugo Foscolo e
Gabriele Rossetti. Pur senza alcuna pretesa di sistematicità, dopo aver
esaminato le analogie e le corrispondenze con gli ordini cavallereschi,
il Rosicrucianesimo, l’ermetismo, l’Islam e fedele al principio secondo
il quale le somiglianze, in realtà, dimostrerebbero unicamente «l’unità
dottrinale comune a tutte le tradizioni», il Guénon procedeva ad una
geometrica esposizione del simbolismo intrinseco ad alcuni temi cruciali
dell’opera scritta dal grande poeta fiorentino: i tre mondi, i numeri,
il tempo. L’Inferno appariva, così, come ricapitolazione di quegli stati
che precedono logicamente la condizione umana, nonché quale
manifestazione delle possibilità di ordine inferiore che l’essere reca
ancora dentro di sé. Il Purgatorio veniva dipinto, invece, quale
prolungamento dello stato umano ed il Paradiso come ascesa agli stati
superiori dell’essere. Sulla stessa linea, il celeberrimo «mezzo del
cammin di nostra vita» diveniva occasione per una magistrale spiegazione
del “centro” secondo un simbolismo che si rifletteva, con perfetta
simmetria, nel tempo e nello spazio, nella dottrina dei cicli cosmici
basata sulla precessione degli equinozi e nella struttura tripartita
dell’universo dantesco.
Sempre nella medesima prospettiva andrebbero inquadrate anche le
riflessioni che egli fece in relazione ai famosi versi: «O voi, che
avete gl’intelletti sani, / Mirate la dottrina che s’asconde / Sotto il
velame degli versi strani» (Inferno, IX, 61-63). Secondo quanto
affermato dal noto scrittore Alfredo Cattabiani, recentemente scomparso,
anche qui Guénon proiettava le proprie idee ed impressioni riguardo
all’opera dantesca, la quale del resto continua tutt’oggi a suscitare
svariate considerazioni a causa del proprio legame con l’associazione
della «Fede santa» — della quale il poeta fiorentino sembra fosse una
delle guide — con l’ermetismo e perfino con la tradizione islamica; gli
spunti “arabi” contenuti in quell’opera formidabile di allegoria
cristiana, così attentamente rilevati anche dal Padre Asin Palacios fin
dai primi del secolo scorso, sono la testimonianza di una profonda e
rispettosa relazione fra civiltà cristiana e mondo musulmano, confermata
anche dalle analogie fra il “viaggio” dantesco dall’Inferno al Paradiso
sia rispetto a quello che è possibile ritrovare nel Kitâb el-isrà
(Libro del viaggio notturno che fece Maometto), sia alle Fûtûhât
el-Mekkihah (Rivelazioni della Mecca) di Mohyîddîn ibn ’Arabî: opere
pubblicate circa ottant’anni prima della Divina Commedia.
Tali considerazioni dischiudevano problematiche di portata talmente
ampia e profonda che la loro comprensione potrebbe arrivare a mettere in
discussione perfino alcuni dei cardini su cui si fonda la scienza
moderna. Dalle criptiche parole di Dante, infatti, è possibile evincere
talune informazioni sia di ordine fisico che metafisico, intendendosi
con il termine “metafisico” — secondo l’etimo stesso, prezioso in simili
congiunture — ciò che va “al di là della natura”, ossia
“soprannaturale” nel senso più pregnante del termine. D’altronde, in un
“viaggio ultraterreno” le implicazioni di ordine metafisico sono quelle
in cui è più logico imbattersi. Tuttavia, la loro complessità è tale che
non concede una trattazione sintetica e, tanto meno, divulgativa.
Per quanto, senza dubbio, ciò non abbia minimamente sfiorato la mente
del Benigni — troppo intento a dimostrare sofisticamente, a uomini di
Chiesa, il valore evocativo dell’imprecazione per quei “maledetti
toscani” di cui egli è insigne rappresentante — la dottrina esposta da
Dante è ben lungi dall’esaurirsi in una tanto materiale celebrazione
della donna e dell’amore passionale. Al contrario, il valore simbolico
delle allegorie contenute nella Commedia è talmente portentoso che
l’effetto plastico della poesia altro non si rivela se non opportuno
filtro artistico il quale, solo, può esprimere in maniera tanto
immediata e compiuta una così complessa verità. Chi, infatti, consideri
le terzine dantesche come una semplice fantasia non ne coglie affatto il
reale significato, osservava giustamente Titus Burckhardt. Allo stesso
modo, chi anche ne riconoscesse il contenuto dottrinario riducendola,
però, soltanto ad una costruzione concettuale sotto forma di poema non
le renderebbe giustizia. La Commedia è ben altro che Sigieri di Brabante
messo in rima. Essa è pura arte sacra. Qui l’artista non è “inventore”,
ma semplice “tramite” (metaxú avrebbe detto Platone) fra il mondo
sensibile e la verità superiore che percepisce. Qui i versi non
scaturiscono da una mera ispirazione, bensì da una vera e propria
“illuminazione”. Ma questo i Benigni che popolano gli studi televisivi
in prima serata, per quanto si sforzino in un esercizio mnemonico sul
XXXIII canto del Paradiso, non potranno mai arrivare a comprenderlo se
non mutano prospettiva d’osservazione.
Ma, tornando alle implicazioni teoriche di cui si diceva, conviene
osservare qualcuna di esse più nel dettaglio. Per quanto il rischio di
eccessiva semplificazione riguardi anche le tematiche più prossime alla
realtà sensibile, in questo caso si può perlomeno tentare di abbozzare
alcune considerazioni in merito ad un unico esempio. Sia concessa,
dunque, una breve digressione. È stato osservato come, nonostante
l’”ingenuità scientifica” del sistema geocentrico, che viene espresso
nella Divina Commedia con l’immagine delle “sfere celesti”, a tale
ipotesi cosmologica inerisca pur sempre un profondo realismo metafisico.
Il sistema tolemaico, del resto, godeva di una notevole chiarezza
spirituale. Per l’epoca in cui esso venne utilizzato, la sua rispondenza
scientifica era perfettamente soddisfacente, in quanto forniva una
risposta a tutti i quesiti che l’osservazione del mondo naturale
suscitava ed è fin troppo evidente che la “scientificità” non può certo
avere un grado maggiore. Essa deterrà sempre e comunque, in maniera
inevitabile, un carattere unicamente provvisorio. La validità relativa
di un sistema del mondo si basa sulla sua unità logica, mentre la sua
portata spirituale si fonda sulla sua simbologia. Pertanto, si deve
concludere che la Chiesa cattolica, quando pretendeva che Galileo
presentasse le proprie teorie relative al moto della terra e del sole
come semplici ipotesi, anziché quali verità definitive ed inconfutabili,
aveva senza dubbio le sue buone ragioni. Da un punto di vista assoluto,
infatti, il sistema elaborato da Copernico non poteva essere nulla di
più che una semplice congettura ipotetica, come hanno dimostrato tesi
successive (non ultima la ‘relatività’ einsteiniana che, per chi le
attribuisca un qualche valore, l’ha confutato). D’altronde, il compito
principale della Chiesa consisteva nella salvaguardia di una visione
spiritualmente veritiera del mondo. E tale esigenza trovava piena
soddisfazione nel sistema omocentrico, che preservava dal pericolo
derivante da una concezione puramente matematico-meccanicistica delle
cose.

Occorre,
a questo punto, cogliere lo spunto per formulare qualche considerazione
di tipo storico. Troppo raramente viene rilevato come l’autorità
ecclesiastica non abbia ripudiato la teoria eliocentrica al momento
della sua formulazione da parte di Copernico, bensì solo ottant’anni più
tardi quando se ne appropriò Galilei, peraltro senza aggiungervi alcun
particolare significativo ai fini della sua dimostrazione scientifica.
Va, anzi, incidentalmente rilevato come, prima ancora che a Copernico,
la teoria rimontasse ad Iceta di Siracusa. Inoltre, con l’immagine dei
cori angelici roteanti attorno al centro divino, Dante medesimo
anticipava il senso del sistema eliocentrico: per dirla con Aristotele,
la fonte di ogni luce è, al tempo stesso, il “motore immobile”
dell’ordinamento cosmico. A tal proposito, non bisogna mai perdere di
vista la quadruplice possibilità interpretativa di un testo:
Gerusalemme, che in senso letterale è una città della Palestina;
allegoricamente rappresenta l’immagine della Chiesa; moralmente diviene
l’anima credente; e anagogicamente costituisce la Gerusalemme celeste,
archetipo dell’anima e del mondo, contenuto nello spirito divino, per
non limitarsi che ad un esempio classico.
Il conflitto fra Galileo e la Chiesa, assai meno eroico di quanto non
abbia tramandato la vulgata agiografica e romanzata, verteva dunque su
questioni di ordine teologico, àmbito chiamato in causa dallo stesso
pisano. Con i suoi violenti attacchi alla Curia, che stimolava a
prendere una posizione in merito, Galileo suscitò le reazioni vaticane;
ma alla conciliante proposta del pontefice Urbano VII, che suggeriva di
presentare l’eliocentrismo semplicemente come una tesi matematicamente
sostenibile anziché come la verità assoluta, lo scienziato replicò in
maniera sprezzante nel suo “Dialogo sui massimi sistemi”, raffigurando
il papa come un ignorante.
Rammento ancora un’inchiesta apparsa giovedì nel gennaio del 1999 sul
«Corriere della Sera». Una pagina intera dell’illustre quotidiano
milanese era dedicata ad un sondaggio svolto fra vari esponenti, più o
meno noti, della “cultura” italiana, con cui s’intendeva decretare
«l’italiano del millennio». Fra gli intervistati v’era anche un
architetto che — segno dei tempi — votava per Galileo «perché con lui la
scienza abbandona la metafisica». Appunto…
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI:
BURCKHARDT, Titus, Riflessioni sulla «Divina Commedia» di Dante,
espressione della saggezza tradizionale, in ID., Scienza moderna e
saggezza tradizionale, Borla editore, Torino-Leumann 1968, cap. 5, pp.
127-153.
CONTRO, Primo, Dante templare e alchimista. La Pietra Filosofale
nella Divina Commedia. Inferno, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 1998.
GUÉNON, René, L’esoterismo di Dante, Adelphi Edizioni, Milano 2002.
LERMIGEAUX, Jacques, Il caso Galileo, Centro Culturale San Giorgio, Ferrara 2002.
MINGUZZI, Edy, L’enigma forte. Il codice occulto della Divina
Commedia, ECIG (Edizioni Culturali Internazionali Genova), Genova 1988.
PASCOLI, Giovanni, Conferenze e Studi Danteschi, Zanichelli, Bologna 1914.
RICOLFI, Alfonso, Studi sui Fedeli d’Amore. Dai poeti di corte a
Dante. Simboli e linguaggio segreto, Bastogi Editrice Italiana, Foggia
1997.
VALLI, Luigi, Lectura Dantis, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981.
—, L’allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli, Zanichelli, Bologna 1922.
—, Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia, Luni Editrice, Milano 1996.
—, Lo schema segreto del Poema Sacro, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 1998.
—, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore», Luni Editrice, Milano 1994.