tratto da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 6 gennaio 2005
di CESARE COLAFEMMINA
Posta sul confine tra la Puglia bizantina e
quella longobarda, Oria acccoglieva nell'alto Medioevo tra le sue mura
genti dell'una e dell'altra etnia, insieme con i discendenti di ceppo
latino e degli ebrei venuti dalla terra d'Israele al tempo in cui Tito
ne distrusse la capitale, Gerusalemme. L'espressione più feconda di
questa convivenza fu lo scienziato e filosofo Shabbetai bar Abraham
detto Donnolo, fiorito nel pieno X secolo. Donnolo era sopravissuto,
dodicenne, all'eccidio di Oria compiuto il 4 luglio 925 dai berberi di
Giaf'ar Ahmad ibn 'Ubayd a nome del suo signore 'Ubaidallah al-Madhi,
l'iniziatore della dinastia fatimita in Africa settentrionale (909-975).
Fatto schiavo con altri superstiti, fu riscattato a Taranto dai
parenti, mentre il resto della famiglia veniva deportata a Palermo e in
Africa. Donnolo crebbe nelle dotte comunità ebraiche di Puglia e
Calabria, trovando nello studio e nell'arricchimento sapienziale il
rimedio alle afflizioni e alla vanità della vita. Viaggiando per le
terre bizantine, Donnolo ricercò e copiò libri di medicina e di scienza
composti da antichi maestri ebrei, greci, arabi, babilonesi, indiani,
opere tutte che egli dice di avere letto nella loro lingua originale.
Nel suo desiderio di sapere, si fece discepolo di gentili - e quindi
anche di cristiani- dotti in astronomia, e in particolare di un sapiente
che veniva da Babilonia, di nome Bagdash. Alla luce delle conoscenze
teologiche, filosofiche e scientifiche che aveva acquisito, Donnolo
concepì l'uomo come un microcosmo che riassume in sé tutte le realtà
dell'universo. L'originalità del suo pensiero si trova nel suo commento
al versetto del "Genesi" (1, 26), in cui Dio, accingendosi a creare
l'uomo, dice: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e nostra somiglianza".
"A chi rivolge Dio queste parole? - si domanda Donnolo - Come è
possibile che l'uomo possa essere immagine di Dio, che è spirito
invisibile?". Ed ecco la sua risposta: Dio rivolse quelle parole
all'universo, che aveva dapprima progettato e programmato e poi
realizzato con la sua sapienza, associandolo quindi nella creazione
dell'uomo. Questi, nella sua natura e nelle sue azioni, è perciò
somigliante sia a Dio sia all'universo materiale. Somiglia a Dio, ma in
scala ridottissima, per l'immortalità del suo spirito, per la sua
capacità di governare, conoscere, prevedere e provvedere; somiglia
all'universo materiale per la struttura del corpo e delle sue funzioni.
Ma già somigliando all'universo egli assomiglia a Dio, perché Dio si
rivela nella creazione. E l'uomo può risalire a Dio e comprenderlo
studiando la natura. Come scrive J. Dan, la teologia è per Donnolo
soprattutto una ricerca delle leggi scientifiche del cosmo. Donnolo
espose nel suo Libro sapiente, una summa in cui confluirono Bibbia,
mistica ebraica, scienza, filosofia (in particolare la neoplatonica) la
sua visione unitaria del reale. Ed essendo primariamente medico, egli
scrisse anche testi medici, che dice frutto non tanto di studi, quanto
della sua personale esperienza. Il più noto è un prontuario di
farmacologia, noto come Sefer Mirqahot, "Libro delle misture". Composto
verso il 970, il libro descrive in venti brevi paragrafi oltre un
centinaio di rimedi e il modo per prepararli. Il suo titolo per esteso e
la premessa ne indicano chiaramente lo scopo: "Questo è il libro delle
misture, pozioni, polveri, impiastri, unguenti e miscugli chiamati il
corredo della medicina [o farmacopea] che Shabbetai il Medico, detto
Donnolo figlio di Abramo, che fu deportato dalla città di Oria, ha
composto per insegnare ai medici di Israele la preparazione dei farmaci
secondo la scienza d'Israele e di Macedonia e sulla base della sua
esperienza acquisita nell'arte della medicina, studiando e ricercando in
profondità per quarant'anni, secondo la parola di Dio". Proprio per
istruire con esattezza i medici, Donnolo si premura di indicare i nomi
delle piante e delle erbe sia in ebraico (ma non abitualmente), sia
nelle lingue parlate nelle contrade in cui operava, ossia in greco e in
latino, talora in volgare. E questo ultimo aspetto fa sì che il libro di
questo ebreo oritano rappresenti una delle testimonianze più antiche
del volgare salentino-calabrese. A Donnolo è attribuito anche uno
scritto medico intitolato Practica. Il libro, giuntoci incompleto, è un
catalogo sistematico di malattie riguardanti le varie parti del corpo, e
di ogni malattia viene indicato il trattamento appropriato. La lista
inizia con l'emicrania e s'interrompe con l'emottìsi. Da notare che
mentre l'ebraico è usato per indicare i nomi di alcune medicine e di
altri mezzi di cura, tutti i nomi delle malattie e delle varie parti del
corpo sono traslitterazioni dal greco e dal latino, ma per lo più dal
greco. E sotto questo aspetto la Practica s'accomuna agli scritti che
appartengono certamente a Donnolo, la dipendenza dei quali dal mondo
culturale bizantino è evidente. Questa insigne e poliedrica personalità
si è imposta di recente all'attenzione di studiosi di varie branche del
sapere. Ultima espressione di tale attenzione è l'uscita nei giorni
scorsi, presso l'Istituto Orientale di Napoli, di una raccolta di studi
intitolata Shabbetay Donnolo. Scienza e cultura ebraica nell'Italia del
secolo X. Il volume si apre con l'edizione critica del testo ebraico e
la traduzione inglese del Libro delle misture a cura di L. Ferre.
Seguono uno studio di S. Kotter sull'anatomia e la fisiologia in Donnolo
medico e una ricerca di G. Lacerenza, che è anche il curatore del
volume, sulla formazione di Donnolo e sull'originalità della sua
sintesi. "Cresciuto nell'area più esposta, in quel momento - scrive
Lacerenza - allo scontro fra la tradizione classica e l'affermarsi di
ogni tipo di innovazioni linguistiche, culturali, religiose e
scientifiche, con le sole sue forze sembra essersi portato su un piano
molto più progredito rispetto agli intellettuali cristiani con cui è
venuto in contatto: ambiente sì in grande fermento culturale, ma ancora
troppo vincolato agli interessi religiosi". Altri studi raccolti nel
volume riguardano i trattati di astrologia di Donnolo (G. B. Sarfatti), i
rapporti di Donnolo con la mistica ebraica in Puglia (V. Putzu), la
figura di Donnolo nello specchio della Vita del coetaneo e amico san
Nilo di Rossano Calabro (F. Lazzati Laganà).
Blog dedicato ai misteri, esoterismo, antiche civiltà, leggende, Graal, Atlantide, ufo, magia
domenica 9 giugno 2013
sabato 8 giugno 2013
“…E SE AVESSIMO TROVATO LA «CASA» DI DIO?”
Prima di tutto, c’è la fede, ossia la capacità degli uomini di relazionarsi a Dio.
In secondo luogo, c’è la scienza, che ricerca fatti dimostrabili.
Fede e scienza, spesso, sono considerate antagoniste.
Se chiedessimo a uno scienziato ateo e poi a un credente convinto di dimostrare, rispettivamente, l’assenza e l’esistenza di Dio, è probabile che nessuna delle due posizioni porterebbe a suo favore fatti naturali incontrovertibili.
Almeno, fino a oggi.
Il CERN (Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare) l’ha confermato: con un margine di incertezza minuscolo (una probabilità del 99,999972%) possiamo finalmente dire che il Bosone di Higgs esiste.
Di cosa si tratta? Il bosone di Higgs è una particella subatomica e, se la sua esistenza venisse effettivamente confermata, potrebbe aiutare a spiegare perché la materia ha una massa.
Insomma, si tratterebbe della particella che crea le altre: una forza creatrice da cui ogni parte della materia trarrebbe origine.
Viene da sé che parlare di “creatore” e riferire questa parola a un risultato scientifico, pone immediatamente il problema del rapporto tra la religione (intesa nel suo significato più ampio) e, appunto, la scienza.
Il Bosone di Higgs sarebbe, in sostanza, l’impronta di Dio.
La Scienza, quindi, rivelerebbe l’esistenza di un Dio effettivo, tangibile.
Un Dio che, allora, dimorerebbe nell’infinitamente piccolo, nelle regioni sub atomiche della materia.
Scienza e religione sarebbero dunque a un passo dall’incontrarsi.
Questa rivelazione non sarebbe neppure in antagonismo con le basi dogmatiche del cristianesimo.
Si legge, infatti, nel Vangelo di Luca: “Il regno di Dio non viene in maniera che si possa osservare: né si dirà: ‘Eccolo qui’, o ‘eccolo là’: poiché, ecco, il regno di Dio è dentro di voi" (Lu. 17:21).
Una conferma di questa interessante coincidenza la si ritrova anche nei testi dei papiri di Nag Hammadi, ossia antichi vangeli apocrifi scoperti in Egitto e, più precisamente, nel Vangelo di Tommaso.
Un passaggio, in particolare, di questa opera, recita così: “3. Gesù disse, «Se i vostri capi vi diranno, 'Vedete, il Regno è nei cieli', allora gli uccelli dei cieli vi precederanno. Se vi diranno, 'È nei mari', allora i pesci vi precederanno. Invece, il Regno è dentro di voi…»”.
Sarebbe sconcertante dover ammettere che l’insanabile disputa che per millenni ha contrapposto ispirati uomini di fede a scettici scienziati, possa essere risolta proprio ricorrendo all’empirismo, alla fisica quantistica.
Che, cioè, finalmente, l’uomo abbia trovato la “casa” di Dio.
E che le pareti di questa casa altro non siano che le molecole, gli atomi e le particelle infinitamente piccole.
Tutto questo confermerebbe la validità di un altro postulato scientifico: la cosiddetta progressione di Fibonacci.
Una sequenza di numeri, cioè, rispettata in natura per determinare la forma di ogni cosa:
Gli atomi, le molecole, la forma di una conchiglia o di una galassia, perfino di una nuvola in cielo non sfuggono a questa regola matematica.
Perciò Dio, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, agirebbe come un matematico, ordinando il creato secondo ferree regole aritmetiche e geometriche.
Il grande neuro-scienziato statunitense Michael Persinger ha certamente contribuito, con i suoi studi sul cervello umano, ad alimentare la teoria secondo cui la “casa” di Dio sarebbe da cercare dentro l’uomo.
Egli, infatti, ha sperimentato con successo, su un campione significativo di volontari, un casco transcranico elettromagnetico capace di provocare in chi lo indossa delle vere e proprie visioni mistiche.
L’ottanta per cento delle persone sottoposte all’esperimento hanno infatti affermato di aver avuto delle esperienze sovrannaturali, di aver “avvertito” la presenza di “entità” attorno a loro e, in molti casi, di aver addirittura visto Dio.
Alcuni metafisici suggeriscono che Dio sarebbe “caduto dal cielo” e che si stia risvegliando in ogni individuo per testimoniare se stesso mediante le proprie creature.
Come immaginare, allora, un futuro in cui la materia “divina” possa essere controllata dall’uomo, indirizzata, a livello subatomico, per rigenerare le cellule, curare malattie, sconfiggere l’invecchiamento?
venerdì 24 maggio 2013
Perceval, Re e Sacerdote
In Perceval è ravvisabile l’eterna figura del Re Pontefice,
guida politica e spirituale dalla cui salute dipende il benessere del regno
di Vito Foschi
Introduzione
Nel Perceval, il romanzo di Chétien de Troyes, si racconta
di come il giovane Perceval da selvaggio ed incolto si trasformi in un perfetto
cavaliere affrontando varie avventure, tra cui alcune di natura fantastica. Ma
dietro questo percorso è possibile scorgere una vera e propria iniziazione. Ad
esempio l’avventura nel castello del Graal non trova facilmente spiegazione
come semplice favola e molti autori hanno rilevato i riferimenti mitici sia
celtici sia alla tradizione dei Re Taumaturghi. Come abbiamo scritto in altri
lavori Perceval riceve due iniziazioni, la prima alla cavalleria profana o
terrena ricevuta dal gentiluomo Gorneman di Gorhaut, e la seconda alla
cavalleria spirituale o celeste dallo Zio Eremita che gli trasmette una
preghiera segreta. Questo particolare non è facilmente riconducibile a un
contesto cristiano o semplicemente favolistico. Rappresenta la trasmissione di
un sapere iniziatico, segreto, che si trasmette da maestro ad allievo.
L’opera di Chrétien manca della fine, non si capisce se per
volontà dell’artista o meno ed il suo successo è in parte dovuto alle diverse
continuazioni scritte da altri autori. Il romanzo ha, inoltre, la particolarità
si essere quasi diviso in due parti di cui una dedicata ad un altro
protagonista: Galvano. Si può ben dire che si tratti di una opera molto
particolare e nonostante o forse proprio per questo di ampia diffusione.
Il Castello del Graal
Perceval raggiunge il castello del Graal ma non ponendo la
domanda su cosa sia ciò che vede fallisce la prova e si allontana non riuscendo
a capire cosa sia successo. Il tutto gli viene spiegato da una sua cugina con
una specie di interrogatorio. Anche qui le tracce di un rituale con delle
domande prefissate e le risposte dell’adepto che non sa. E d’altronde cosa
potrebbe sapere Perceval se è ancora un semplice cavaliere? Quando raggiunge il
castello del Graal è stato appena iniziato cavaliere da Gorneman ed ha liberato
Biancofiore dai suoi nemici. Quindi ha fatto solo esperienza di guerra e di
cortesia e questa non è sufficiente a conquistare il Graal.
Nel racconto di Chrétien bisogna rivelare la presenza di uno
schema: tentativo, fallimento, nuovo tentativo, successo. La prima volta che
Perceval incontra una donna, la dama dell’Orgoglioso della Landa, segue i
consigli della madre e combina un guaio. Non era ancora pronto. Incontra
Gorneman che oltre ad insegnargli le regole della cavalleria gli insegna le
regole della cortesia. E così la seconda volta con Biancofiore, essendo ormai
un uomo e un gentiluomo riesce a conquistarla. Si noti lo schema: tentativo e
fallimento con la dama dell’Orgoglioso, nuovo tentativo e successo con
Biancofiore. Così succede con le donne, ma così appare lo schema della ricerca
del Graal, solo che lo schema non si completa, perché il romanzo si interrompe.
Il primo tentativo col Graal fallisce, perché l'eroe ha avuto solo
l'iniziazione alla cavalleria terrestre e ciò non è sufficiente per recuperare
il Graal. Sono i primi due passi dello schema. Verso la fine del romanzo, come
accennato prima, riceve l'iniziazione Spirituale ed è pronto per ritentare l'impresa.
Purtroppo il racconto si interrompe, ma si può ipotizzare con una certa
sicurezza una conclusione positiva.
Un romanzo di formazione?
Alcuni autori hanno considerato l’opera solo come un romanzo
di formazione con intenti didascalici senza vederne gli aspetti mitologici, ma
anche questa interpretazione non fa che rafforzare l’ipotesi della conquista
del Graal da parte di Perceval. Se il protagonista deve imparare certe cose per
poter superare le prove della vita, si intuisce che alla fine del racconto dopo
aver imparato ciò che serve ritroverà il castello del Graal e porrà la domanda
e libererà il Re Magagnato dal suo dolore.
Quando Perceval raggiunge il castello del Graal la prima
volta, è cavaliere ed ha appena lasciato il castello di Biancofiore, ha
ricevuto l’iniziazione alla cavalleria terrena ed è ancora un semplice
guerriero. È anche maturato da adolescente a uomo conoscendo l’amore terreno.
Qui finirebbe il romanzo se si trattasse solo di un romanzo di formazione, come
se in una società tradizionale possa aver senso parlare di formazione, o di
passaggio dall’adolescenza all’età adulta senza un cerimonia iniziatica. Gli
insegnamenti terreni non sono sufficienti a conquistare il Graal.
L’investitura del re sacerdote
Nella visita al castello del Graal, il Re Pescatore dona a
Perceval una spada dicendogli che è fatta per lui. Ora il simbolo della spada è
molto chiaro, oltre a simboleggiare le virtù guerriere rappresenta la Giustizia e la Regalità. In
Matteo 10, 34 “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non
sono venuto a portare pace, ma una spada”. La spada è simbolo della giustizia e
Gesù vuole intendere di essere venuto a portare la Giustizia, tra gli altri
significati. Nel momento in cui riceve la spada viene riconosciuta a Perceval
la sua qualità di guerriero e riceve l’investitura di re. Naturalmente il Graal
è un dono spirituale e non può essere posseduto da un semplice re guerriero.
Dopo questo episodio Perceval affronta varie avventure, ma si tiene lontano
dalla chiesa: è un cavaliere in cerca di avventure. Un venerdì santo incontra
una processione e viene rimproverato da uno degli astanti di andare in giro
armato in tale giorno. Perceval non sa di che giorni si tratti, lo chiede e
quando lo apprende sente la necessità di fare penitenza e saputo della presenza
lì vicino di un eremita ci si avvia. Qui apprende che l’eremita è suo zio da
parte di madre e i misteri del Graal. Il Graal serve l’ostia al padre del Re
Pescatore che da 12 anni si nutre solo di quella. Infine l’Eremita gli insegna
una preghiera segreta che «conteneva molti nomi del signore Iddio, i più
potenti, che nessuna bocca umana deve pronunciare se non per paura della
morte»; preghiera segreta, che rappresenta il filo ininterrotto della
tradizione che lega i rappresentati nelle varie generazioni: riceve una
definitiva iniziazione. In quest’ultima si può scorgere una iniziazione
sacerdotale, e non a caso a impartire l’insegnamento è lo zio materno di
Perceval. Ci piace ricordare la tradizione ebraica per cui la discendenza è da
parte di madre ed erano i membri della tribù dei leviti a poter accedere alle
cariche sacerdotali.
Il costruttore di ponti
Perceval è re sacerdote o per meglio dire re pontefice. Il
Pontifex è letteralmente un «costruttore di ponti», qui inteso simbolicamente
quale mediatore fra il nostro mondo e i mondi superiori. In effetti quando
Perceval incontra la prima volta il Re Pescatore è alla ricerca di un guado
dove attraversare un fiume; il Re è in barca intento a pescare e gli indica la
strada, funzione di pontefice, per raggiungere il Castello del Graal dove
avrebbe alloggiato quella notte per poi ripartire. Il Castello è un regno non
terreno ed il Re Pescatore funge da intermediario fra il mondo terreno e il
mondo superiore. Infatti il Castello appare a Perceval ad un tratto, quando
disperava di trovarlo pensando di essere stato burlato dal pescatore, e
nonostante lo abbia visitato, non sarà più in grado di ritornarvi a
dimostrazione che la sua ubicazione non è di questo mondo.
Ricevuta l’iniziazione spirituale o sacerdotale, Perceval è
in grado di liberare il Re Magagnato dal suo male o meglio di succedergli al
trono e di essere lui il nuovo Re Pescatore che farà rifiorire la terra. Qui si
intravede l’ombra di antichi rituali legati ai culti di fertilità e alla
successione di un sovrano o di un capo che svolge funzioni sia guerriere che
religiose.
La funzione di Perceval è restauratrice, ovvero di riportare
ordine in una situazione degenerata. In Perceval riconosciamo la figura
dell’eroe nel senso tradizionale del termine come spiegato da Julius Evola nel
suo “Il mistero del Graal”. L’eroe a differenza dell’uomo primordiale completo
in sé, deve riconquistare la sua pienezza perché non è per “natura” completo.
Da “Il Mistero del Graal”: “Secondo Esiodo la «generazione degli eroi» fu
creata da Zeus, cioè dal principio olimpico, con la possibilità di
riconquistare lo stato primordiale e dar quindi vita a un nuovo ciclo «aureo»”.
Compito dell’«eroe» è quindi quella di far rinascere una
nuova età dell’oro. In effetti nell’avventura di Perceval, osserviamo una
situazione di disordine in cui è caduta la società umana a causa dell’infermità
del Re Pescatore. Possiamo pensare che la malattia del Re Pescatore si
ripercuota sul mondo perché come è raccontato da altri testi del ciclo
arturiano, sia Merlino che Artù sono traditi da una donna, da intendersi anche
qui in senso simbolico, generando il caos nel regno.
Accenniamo al fatto che nelle tre figure del re Pescatore,
di Merlino e d’Artù possiamo vedere le “tre funzioni supreme” indicate da
Guénon nel Re del mondo: “…il capo supremo dell’Agarttha porta il titolo
Brahâtmâ (sarebbe più corretto scrivere Brahmâtmâ), «supporto delle anime nello
spirito di Dio»; i suoi coadiutori sono il Mahâtmâ, «rappresentante dell’Anima
universale» e il Mahângâ, «simbolo di tutta l’organizzazione materiale del
Cosmo»: questa è la divisione gerarchica che le dottrine occidentali
rappresentato mediante il ternario «spirito, anima e corpo»”.
Ora, Perceval secondo lo schema da noi individuato, guarisce
il Re Pescatore e gli succede instaurando un nuovo regno e quindi una nuova era
di pace e prosperità che potrebbe essere considerata come il ritorno all’età
dell’oro primordiale.
Re Pescatore
L’aggettivo pescatore associato a re non è casuale e non
riguarda semplicemente il passatempo del re malato ma ha un chiaro significato
simbolico. Il Re Pescatore per eccellenza è Gesù, re perché discendente dalla
stirpe davidica e pescatore perché pescatore d’anime. Nel vangelo sono ben noti
i passi in cui dice a Pietro di gettare le reti (Luca 5, 4) e quando gli dice
di lasciare le reti che lo avrebbe fatto pescatore di uomini (Luca 5, 10). Qui,
è da citare il cosiddetto anello piscatorio indossato dal Papa che ha l’effige
di Pietro che pesca con la rete. In questo oggetto è racchiusa una doppia
simbologia regale e sacerdotale. L’anello sta spesso a denotare la nobiltà di
chi lo indossa, mentre l’effige di S. Pietro che getta le reti è un esplicito
simbolo della funzione sacerdotale della chiesa. Dobbiamo qui citare la
diffusione nel medioevo di una leggenda di origine araba che racconta di come
Re Salomone possedesse un anello magico capace di scacciare i demoni e
perdendolo lo ritrovi dentro un pesce che aveva appena pescato e da cui l’appellativo
re pescatore. Sottolineiamo l’esistenza di una leggenda simile che ha come
protagonista Alessandro Magno, anch’egli simbolo di quella regalità
sacerdotale, perché in un certo qual modo ne ha incarnato i principi nella
storia.
A completamento dell’esame della simbologia, ricordiamo che
il simbolo dei primi cristiani era il pesce dall’acronimo greco che indicava il
nome di Gesù ed a volte erano chiamati loro stessi pesciolini perché, come i
pesci erano scampati alla punizione divina del diluvio universale, così, essi
grazie alla loro fede in Cristo avrebbero superati indenni il Giudizio
Universale. Inoltre il pesce era un simbolo frequente dell’iconografia
cristiana a ricordare il miracolo dei pani e dei pesci e da qui, spesso
associato al banchetto dell’Ultima Cena.
Conclusioni
In questo simbolismo sembrano convergere tradizioni
precristiane e cristiane, anche se è più corretto dire che ambedue si
riferiscono ad un simbolismo tradizionale, esplicitandone ognuna, quella parte
che in un dato momento e in un dato luogo, è più congeniale. La presenza di
ambedue permette di chiarire meglio i principi sottesi depurandoli dalle
incrostazioni delle contingenze storiche.
Non possiamo sapere se l’utilizzo di tale simbolismo da
parte di Chrétien sia stato consapevole o meno, anche perché vivendo in
un’epoca fortemente intrisa di sacro non poteva non riversare nella sua opera
la simbologia cristiana. Sicuramente i riferimenti cristiani hanno permesso a
Robert de Boron nelle sua successiva rielaborazione della leggenda del Graal,
di rivestirla, con estrema facilità, di abiti cristiani. È da ribadire, però,
che una lettura eminentemente cristiana del racconto del Graal non è possibile,
stando un sostrato di miti non riconducibile a un alveo cristiano.
venerdì 10 maggio 2013
Un sito sui simboli biblici
Vi segnaliamo un utile sito sul simbolismo della Bibbia in senso teologico:
http://www.symbolon.net/Temi%20biblici/I%20Simboli%20nella%20Bibbia/
Sullo stesso sito potete trovare informazioni sugli angeli dal punto di vista cattolico:
http://www.symbolon.net/Temi%20biblici/Angeli/index.html
Sperando di aver fatto cosa gradito.
http://www.symbolon.net/Temi%20biblici/I%20Simboli%20nella%20Bibbia/
Sullo stesso sito potete trovare informazioni sugli angeli dal punto di vista cattolico:
http://www.symbolon.net/Temi%20biblici/Angeli/index.html
Sperando di aver fatto cosa gradito.
sabato 27 aprile 2013
La Tradizione e le tradizioni
Tratto da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 4 aprile 2004
di Manlio Triggiani
La maggior parte delle opere di René Guénon,
il famoso e fecondo filosofo tradizionalista francese, è stata
pubblicata in Italia ma restano ancora da conoscere numerosi suoi
scritti. Infatti Guénon, morto nel 1951, durante tutta la vita scrisse
molti testi di metafisica, di simbolismo e di storia delle religioni. Di
questi, parecchi furono stampati sulle più disparate riviste e spesso
senza firma, con pseudonimi o con il suo nome islamico dopo la
conversione all’Islam. Ora, appaiono in volume alcuni saggi mai
pubblicati in italiano (La Tradizione e le tradizioni, a cura di
Alessandro Grossato, Edizioni Mediterranee, pp. 230, euro 13,90) su temi
che spaziano dal Dalai Lama al Buddismo, da Cristo a Mormonismo, dal
Sufismo all’Animismo. Il titolo della raccolta sintetizza il senso della
"Tradizione" primordiale, unica, immutabile, e i suoi adattamenti nel
tempo.
lunedì 15 aprile 2013
La prima Roma, una Storia e una capanna
tratto da Il Messaggero del 15 febbraio 2005
M.Guidi
Da qualche parte, nei Campi Elisi, Tito Livio, Dionigi d’Alicarnasso, Plutarco e Varrone stanno certamente facendo festa. Le loro storie, i loro racconti, definiti leggendari, mitici, ricostruzioni a posteriori di eventi mai avvenuti o avvenuti molto diversamente dal vero ricominciano a essere considerati per quel che loro li vollero e li scrissero, come storie. Anzi come la Storia, quella storia che forse non sarà magistra vitae o magari opus oratorium maxime , ma semplicemente il racconto, come secoli dopo avrebbe scritto un grande storico tedesco, von Ranke, dei fatti come accaddero e come li sappiamo rendere.Le scoperte che va facendo ormai da anni Andrea Carandini nello spazio del Palatino e del Foro repubblicano non solo rivalutano l'opera degli storici antichi, ma restituiscono alla storia quello che era ritenuto mito, leggenda, racconto favoloso di origini troppo spostate indietro nel tempo per poter essere credibili.Quella che sta risorgendo sotto la vanga dell’archeologo è davvero la Prima Roma, quella dei re sempre meno leggendari, quei re che un tempo, alle elementari, si mandavano a memoria come una filastrocca. Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Nomi leggendari e nomi storici mischiati. Ricordi di un tempo antichissimo quando Roma era probabilmente solo un agglomerato di capanne sul Palatino. Un agglomerato però circondato da un muro fin dall’VIII secolo e non, come per decenni e decenni sostennero tanti storici, una città fondata se va bene nel VII se addirittura nel VI secolo avanti Cristo. No, Roma, ora cominciamo a saperlo davvero, sorse se non proprio il 21 aprile del 753/54 prima di Cristo, certamente in un periodo di tempo molto vicino alla data tradizionale ab urbe condita .La scoperta di un grande palazzo, una reggia?, e di una vasta capanna, forse il primitivo spazio del fuoco di Vesta e casa delle sue sacerdotesse, le vestali, sta costringendo a ripensare tutto quello che pensavamo di sapere.Certo gli scavi del Palatino ci restituiscono un’immagine estremamente arcaica, la stessa grande casa che Andrea Carandini ha trovato vicino al tempio di Vesta usava come tetto una copertura vegetale simile a quella delle capanne. Ma le mura erano già di pietra e le ceramiche, lo avete letto ieri nel pezzo che annunciava la scoperta, erano di qualità finissima.Proviamo quindi a chiudere gli occhi e a immaginare come fosse questa Roma delle origini. Sulle estreme pendici del Palatino (perché, come ci spiega il professor Eugenio La Rocca, soprintendente archeologico del Comune di Roma, il Palatino si estendeva fino alla casa delle vestali, praticamente dal tempio del Divo Giulio all’arco di Tito era ancora Palatino) esistevano case patrizie, case che si estendevano sino ai limiti dell’area che sarebbe diventata poi il Foro.Il Foro allora era una pianura abbastanza malsana, percorsa da un ruscello, piena di acque stagnanti, tanto che, lo sappiamo, gli etruschi dovettero scavare la Cloaca Maxima, la madre di tutte le fognature, per liberarla dall’acqua. E d’altra parte proprio per evitare le acque morte, con le loro zanzare, i loro insetti e i loro miasmi, Roma prima di Roma era costituita nei secoli precedenti l’VIII, da villaggi, agglomerati di capanne sui colli. Il Palatino ma anche l’arce capitolina fu occupata da capanne e così altre alture vicine, come il Celio. Il cui nome, dice la tradizione, ricorda quel Celio Vibenna comandante etrusco, alleato di Macstarna, che in latino sarebbe diventato Magister e poi Servio Tullio. E la memoria corre alla tomba François di Vulci, dove Aule e Caile Vipinas, alleati con Macstarna, combattono contro Cnaive Tarcunies Rumach e nella scena compare anche un Marce Camitlans. Nomi che tradotti in latino assumono sembianze più note: Aulo e Celio Vibenna, appunto Magister-Servio Tullio, Cneo Tarquinio Romano, Marco Camillo.Una serie di villaggi che però dovettero cedere alla prima Roma quadrata, la Roma dei re. "Un grande merito di Andrea Carandini - è sempre il professor La Rocca che parla - è stato quello di effettuare scavi sistematici mettendo in luce la stratigrafia fino al terreno vergine. Questo è potuto avvenire perché nella zona dove ha lavorato non erano stati effettuati altri scavi come è successo altrove nel foro dove sono stati usati criteri molto più primitivi, tenendo scarsamente conto della stratigrafia, come purtroppo nel foro è avvenuto spesso. Così sono venuti alla luce la reggia, la casa delle vestali e il tempio dei Penati". I Penati, divinità familiari e private dei romani, delle gentes che costituirono almeno la S di Spqr, senatus populusque romanus (il senato e il popolo romano). I Penati che avevano il posto vicino al focolare e che proteggevano la loro gente.Ma c’è dell’altro, la reggia, il palazzo, chiamatelo come volete, messo in luce da Carandini ricorda la tradizione che volle assegnare al pio re Numa Pompilio la costruzione del tempio di Vesta. "E la vicinanza del palazzo scavato da Carandini con il tempio di Vesta va in questo senso", spiega La Rocca. E anche questo rivaluta, a ben pensare, gli storici antichi che queste notizie ci tramandarono. "Vede - osserva il soprintendente - noi sappiamo che i primi racconti furono certamente orali e un racconto orale nel giro di una generazione diventa mito, leggenda anche se porta dentro di sé sempre una parte di verità, del resto gli storici antichi credevano a quello che raccontavano e quello che raccontavano per loro era storia, era La Storia". E a guardare bene non è che poi si sbagliassero di molto. Certo, conveniamo con La Rocca, ogni tanto qualcuno più sveglio degli altri fa compiere alla narrazione storica un salto in avanti. È successo soprattutto con Tucidide, il grande narratore delle guerre del Peloponneso, ma successe per Roma con Eratostene, che obiettò che la primitiva leggenda che voleva Roma fondata da Enea o dal figlio non poteva reggere, dal momento che tra la guerra di Troia (circa 1180) e la fondazione di Roma passano oltre 4 secoli.Ma gli scavi del professor Carandini ora ci restituiscono quell’impasto di mito e di racconto reale, di fatti e di leggende che un tempo si ritenevano del tutto inattendibili mentre ora sappiamo che almeno nel quadro generale invece erano credibili e a modo loro veritieri. Anche se è sempre il professor La Rocca che spiega come a volte capiti che, ed è il caso dei due Tarquini, per mancanza di notizie, gli antichi tendessero ad attribuire a entrambi i re le stesse vicende, le stesse notizie in una reduplicazione che spetta a noi moderni risolvere.Ma a pensarci bene non è poi così importante, ora noi sappiamo che "Mito e leggenda celano sempre una narrazione storica. Bisogna soltanto saperla capire". E per capirla servono i fatti. Fatti come le mura di pietra, il grande cortile, la vicina capanna con i resti del focolare. Il ricordo di una domus ante litteram che ci piace pensare abitata dal pio Numa, reduce dai suoi colloqui con la Ninfa Egeria, mentre intorno un popolo trino, formato da latini, sabini ed etruschi andava nascendo e nella sua diversità interna nella sua mistione (ricordate le tre tribù originarie: Tities, Ramnes, Luceres?) aveva senza saperlo le fonti della sua grandezza futura, quando essere civis romanus non era necessariamente un fatto di razza o di nascita ma significava essere ascritti a un popolo che sapeva prendere un poeta come Ennio da Rudie o fare dell’umbro Plauto e dell’africano Terenzio i suoi massimi commediografi. E tutto ha inizio in quelle mura minuscole che recingevano il Palatino, in quella capanna-tempio di un fuoco perenne vigilato da vergini, in quella casa con i tetti ancora di frasche, in quel tempio dei Penati povero e primitivo.Ora non resta che sperare che Carandini trovi altro terreno non sconvolto nel foro in modo da poterci regalare qualche altra scoperta. Così apparentemente avulsa da noi ma così legata al nostro passato.
M.Guidi
Da qualche parte, nei Campi Elisi, Tito Livio, Dionigi d’Alicarnasso, Plutarco e Varrone stanno certamente facendo festa. Le loro storie, i loro racconti, definiti leggendari, mitici, ricostruzioni a posteriori di eventi mai avvenuti o avvenuti molto diversamente dal vero ricominciano a essere considerati per quel che loro li vollero e li scrissero, come storie. Anzi come la Storia, quella storia che forse non sarà magistra vitae o magari opus oratorium maxime , ma semplicemente il racconto, come secoli dopo avrebbe scritto un grande storico tedesco, von Ranke, dei fatti come accaddero e come li sappiamo rendere.Le scoperte che va facendo ormai da anni Andrea Carandini nello spazio del Palatino e del Foro repubblicano non solo rivalutano l'opera degli storici antichi, ma restituiscono alla storia quello che era ritenuto mito, leggenda, racconto favoloso di origini troppo spostate indietro nel tempo per poter essere credibili.Quella che sta risorgendo sotto la vanga dell’archeologo è davvero la Prima Roma, quella dei re sempre meno leggendari, quei re che un tempo, alle elementari, si mandavano a memoria come una filastrocca. Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Nomi leggendari e nomi storici mischiati. Ricordi di un tempo antichissimo quando Roma era probabilmente solo un agglomerato di capanne sul Palatino. Un agglomerato però circondato da un muro fin dall’VIII secolo e non, come per decenni e decenni sostennero tanti storici, una città fondata se va bene nel VII se addirittura nel VI secolo avanti Cristo. No, Roma, ora cominciamo a saperlo davvero, sorse se non proprio il 21 aprile del 753/54 prima di Cristo, certamente in un periodo di tempo molto vicino alla data tradizionale ab urbe condita .La scoperta di un grande palazzo, una reggia?, e di una vasta capanna, forse il primitivo spazio del fuoco di Vesta e casa delle sue sacerdotesse, le vestali, sta costringendo a ripensare tutto quello che pensavamo di sapere.Certo gli scavi del Palatino ci restituiscono un’immagine estremamente arcaica, la stessa grande casa che Andrea Carandini ha trovato vicino al tempio di Vesta usava come tetto una copertura vegetale simile a quella delle capanne. Ma le mura erano già di pietra e le ceramiche, lo avete letto ieri nel pezzo che annunciava la scoperta, erano di qualità finissima.Proviamo quindi a chiudere gli occhi e a immaginare come fosse questa Roma delle origini. Sulle estreme pendici del Palatino (perché, come ci spiega il professor Eugenio La Rocca, soprintendente archeologico del Comune di Roma, il Palatino si estendeva fino alla casa delle vestali, praticamente dal tempio del Divo Giulio all’arco di Tito era ancora Palatino) esistevano case patrizie, case che si estendevano sino ai limiti dell’area che sarebbe diventata poi il Foro.Il Foro allora era una pianura abbastanza malsana, percorsa da un ruscello, piena di acque stagnanti, tanto che, lo sappiamo, gli etruschi dovettero scavare la Cloaca Maxima, la madre di tutte le fognature, per liberarla dall’acqua. E d’altra parte proprio per evitare le acque morte, con le loro zanzare, i loro insetti e i loro miasmi, Roma prima di Roma era costituita nei secoli precedenti l’VIII, da villaggi, agglomerati di capanne sui colli. Il Palatino ma anche l’arce capitolina fu occupata da capanne e così altre alture vicine, come il Celio. Il cui nome, dice la tradizione, ricorda quel Celio Vibenna comandante etrusco, alleato di Macstarna, che in latino sarebbe diventato Magister e poi Servio Tullio. E la memoria corre alla tomba François di Vulci, dove Aule e Caile Vipinas, alleati con Macstarna, combattono contro Cnaive Tarcunies Rumach e nella scena compare anche un Marce Camitlans. Nomi che tradotti in latino assumono sembianze più note: Aulo e Celio Vibenna, appunto Magister-Servio Tullio, Cneo Tarquinio Romano, Marco Camillo.Una serie di villaggi che però dovettero cedere alla prima Roma quadrata, la Roma dei re. "Un grande merito di Andrea Carandini - è sempre il professor La Rocca che parla - è stato quello di effettuare scavi sistematici mettendo in luce la stratigrafia fino al terreno vergine. Questo è potuto avvenire perché nella zona dove ha lavorato non erano stati effettuati altri scavi come è successo altrove nel foro dove sono stati usati criteri molto più primitivi, tenendo scarsamente conto della stratigrafia, come purtroppo nel foro è avvenuto spesso. Così sono venuti alla luce la reggia, la casa delle vestali e il tempio dei Penati". I Penati, divinità familiari e private dei romani, delle gentes che costituirono almeno la S di Spqr, senatus populusque romanus (il senato e il popolo romano). I Penati che avevano il posto vicino al focolare e che proteggevano la loro gente.Ma c’è dell’altro, la reggia, il palazzo, chiamatelo come volete, messo in luce da Carandini ricorda la tradizione che volle assegnare al pio re Numa Pompilio la costruzione del tempio di Vesta. "E la vicinanza del palazzo scavato da Carandini con il tempio di Vesta va in questo senso", spiega La Rocca. E anche questo rivaluta, a ben pensare, gli storici antichi che queste notizie ci tramandarono. "Vede - osserva il soprintendente - noi sappiamo che i primi racconti furono certamente orali e un racconto orale nel giro di una generazione diventa mito, leggenda anche se porta dentro di sé sempre una parte di verità, del resto gli storici antichi credevano a quello che raccontavano e quello che raccontavano per loro era storia, era La Storia". E a guardare bene non è che poi si sbagliassero di molto. Certo, conveniamo con La Rocca, ogni tanto qualcuno più sveglio degli altri fa compiere alla narrazione storica un salto in avanti. È successo soprattutto con Tucidide, il grande narratore delle guerre del Peloponneso, ma successe per Roma con Eratostene, che obiettò che la primitiva leggenda che voleva Roma fondata da Enea o dal figlio non poteva reggere, dal momento che tra la guerra di Troia (circa 1180) e la fondazione di Roma passano oltre 4 secoli.Ma gli scavi del professor Carandini ora ci restituiscono quell’impasto di mito e di racconto reale, di fatti e di leggende che un tempo si ritenevano del tutto inattendibili mentre ora sappiamo che almeno nel quadro generale invece erano credibili e a modo loro veritieri. Anche se è sempre il professor La Rocca che spiega come a volte capiti che, ed è il caso dei due Tarquini, per mancanza di notizie, gli antichi tendessero ad attribuire a entrambi i re le stesse vicende, le stesse notizie in una reduplicazione che spetta a noi moderni risolvere.Ma a pensarci bene non è poi così importante, ora noi sappiamo che "Mito e leggenda celano sempre una narrazione storica. Bisogna soltanto saperla capire". E per capirla servono i fatti. Fatti come le mura di pietra, il grande cortile, la vicina capanna con i resti del focolare. Il ricordo di una domus ante litteram che ci piace pensare abitata dal pio Numa, reduce dai suoi colloqui con la Ninfa Egeria, mentre intorno un popolo trino, formato da latini, sabini ed etruschi andava nascendo e nella sua diversità interna nella sua mistione (ricordate le tre tribù originarie: Tities, Ramnes, Luceres?) aveva senza saperlo le fonti della sua grandezza futura, quando essere civis romanus non era necessariamente un fatto di razza o di nascita ma significava essere ascritti a un popolo che sapeva prendere un poeta come Ennio da Rudie o fare dell’umbro Plauto e dell’africano Terenzio i suoi massimi commediografi. E tutto ha inizio in quelle mura minuscole che recingevano il Palatino, in quella capanna-tempio di un fuoco perenne vigilato da vergini, in quella casa con i tetti ancora di frasche, in quel tempio dei Penati povero e primitivo.Ora non resta che sperare che Carandini trovi altro terreno non sconvolto nel foro in modo da poterci regalare qualche altra scoperta. Così apparentemente avulsa da noi ma così legata al nostro passato.
giovedì 4 aprile 2013
Indadine sull'aldilà oltre la vita
Esiste l’Aldilà? Se sì, quale aspetto ha? E cos’è, esattamente: il luogo che ospita le anime dei defunti o un nuovo livello di esistenza? Domande che l’uomo si pone da sempre, dando le più svariate risposte, dalle più scettiche alle più convinte.
Ade Capone, autore di Mistero, programma TV di grande successo, grazie alla sua esperienza sul campo ci accompagna in una vera e propria indagine tra scienza e paranormale, con un libro che è come un reportage di grande chiarezza e profondità.
L’autore prende in esame le varie ipotesi, intervista ricercatori e sensitivi, parla di casi sconcertanti ampiamente documentati e prende in esame anche le più recenti teorie scientifi che. Quel che ne emerge è un quadro affascinante, un libro che appassiona e si legge tutto d’un fiato.
L’autore Ade Capone è l’autore della trasmissione di Italia 1
Ade Capone – affermato scrittore, giornalista, sceneggiatore – è autore del format TV Mistero, in onda su Italia 1, e di altri programmi per la stessa rete Mediaset (tra tutti, Il Bivio e Invincibili). A varie trasmissioni televisive ha partecipato anche in veste di ospite. Da sempre appassionato di argomenti misteriosi, ha compiuto numerosi viaggi (Europa, America, India, Bali, Medio Oriente) per documentarsi su luoghi e culture. Ha assistito di persona a molte delle cose che nei suoi libri racconta con una scrittura chiara e di grande efficacia, fruibile da qualunque lettore. I suoi saggi sono vere e proprie inchieste che
appassionano e fanno riflettere. Nella sua attività di sceneggiatore, inoltre, Ade Capone è considerato
uno dei più importanti autori italiani di fumetti, vincitore di numerosi premi per la sua scrittura, che
anche nelle fiction elabora comunque elementi reali. È supervisore editoriale della rivista Mistero, versione
cartacea del programma omonimo.
Ade Capone, autore di Mistero, programma TV di grande successo, grazie alla sua esperienza sul campo ci accompagna in una vera e propria indagine tra scienza e paranormale, con un libro che è come un reportage di grande chiarezza e profondità.
L’autore prende in esame le varie ipotesi, intervista ricercatori e sensitivi, parla di casi sconcertanti ampiamente documentati e prende in esame anche le più recenti teorie scientifi che. Quel che ne emerge è un quadro affascinante, un libro che appassiona e si legge tutto d’un fiato.
L’autore Ade Capone è l’autore della trasmissione di Italia 1
Ade Capone – affermato scrittore, giornalista, sceneggiatore – è autore del format TV Mistero, in onda su Italia 1, e di altri programmi per la stessa rete Mediaset (tra tutti, Il Bivio e Invincibili). A varie trasmissioni televisive ha partecipato anche in veste di ospite. Da sempre appassionato di argomenti misteriosi, ha compiuto numerosi viaggi (Europa, America, India, Bali, Medio Oriente) per documentarsi su luoghi e culture. Ha assistito di persona a molte delle cose che nei suoi libri racconta con una scrittura chiara e di grande efficacia, fruibile da qualunque lettore. I suoi saggi sono vere e proprie inchieste che
appassionano e fanno riflettere. Nella sua attività di sceneggiatore, inoltre, Ade Capone è considerato
uno dei più importanti autori italiani di fumetti, vincitore di numerosi premi per la sua scrittura, che
anche nelle fiction elabora comunque elementi reali. È supervisore editoriale della rivista Mistero, versione
cartacea del programma omonimo.
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