venerdì 13 novembre 2015

Psicologia alchemica di James Hillman

tratto da L'Opinione dell'8 novembre 2015 (http://www.opinione.it/cultura/2015/11/08/talarico_cultura-08-11.aspx)

di Giuseppe Talarico

In un suo famoso saggio, Giuseppe Pontiggia, grande autore, scrisse che nella storia della cultura vi sono stati filosofi geniali che con i loro scritti e libri hanno dimostrato di essere anche grandi scrittori. Rientra in questa categoria di pensatori James Hillman, del quale da poco la casa editrice Adelphi ha pubblicato un libro importante e notevole, il cui titolo è Psicologia Alchemica. In questo saggio, che incanta ed affascina il lettore per la eleganza e la raffinatezza della prosa con cui è stato scritto, Hillman ha con chiarezza esemplare spiegato il rapporto tra L’alchimia e l’opus analitico.


Carl Jung, di cui Hillman è stato un allievo, a questo tema ha dedicato una delle sue opere fondamentali, intitolata Psicologia ed Alchimia. Hillman nella prima parte del suo saggio chiarisce che per la psicanalisi esiste il rischio di usare un linguaggio intriso di letteralismo, incapace di delineare una distinzione tra la parola e la cosa. L’alchimia, intesa ovviamente in senso metaforico, poiché si riferisce ad elementi della materia fissati ed individuati, possiede un grado di concretezza che si rivela utile per superare il letteralismo, che rischia di rendere arido e sterile la terminologia del metodo psicanalitico. Infatti l’alchimia offre espressioni concrete che non sono letterali. In tal modo il linguaggio della psicanalisi subisce un processo di rettificazione, che è necessario per accrescerne la efficacia terapeutica. Nel medioevo e nel rinascimento vi era la convinzione che il metodo alchemico, consentendo la trasformazione della materia, rendesse possibile ricavare l’oro prezioso da metalli di scarso valore. Infatti Hillman nel testo cita il pensiero e le opere di Marsilo Ficino. Alla stessa maniera il terapeuta deve con il metodo psicanalitico sottoporre l’anima umana ad un processo di trasformazione, perché si liberi dal dolore e dalla sofferenza.

Le fasi in cui questo processo di guarigione dell’anima avviene sono sostanzialmente quattro: la Nigredo, che designa la depressione e la sofferenza cupa ed inconsolabile della psiche umana, l’ Albedo, periodo di tristezza in cui si ha la elaborazione del dolore, la citrinitas in cui la mente umana si libera dalla disperazione e il Rubedo, che indica il momento in cui si ha la guarigione. Per segnalare e chiarire la transizione che nella terapia analitica vi è tra questi stadi, Hillman con la bravura del grande scrittore, facendo riferimento al metodo alchemico, ricorda e sottolinea le differenza tra le sostanze fondamentali presenti nella materia, quali piombo, rame, argento ed oro. Si sofferma anche nel descrivere la diversità tra i colori che i nostri sensi possono cogliere e distinguere mediante i sensi, il nero, il bianco, il giallo, il rosso. Mentre segue questa narrazione analogica tra il metodo psicanalitico e quello alchemico, Hillman afferma e sostiene che la nostra mente ha un fondamento poetico. Infatti per Hillman esiste un rapporto inscindibile tra il pensiero e la immaginazione, sicchè la nostra mente ha il potere di creare la realtà mediante la fantasia. Per Hillman è essenziale tenere presente e comprendere i rapporti esistenti tra la psicologia e la letteratura.

Come l’alchimia opera secondo il metodo dissolvi e coaguli, allo stesso modo la terapia psicanalitica deve dissolvere e coagulare i processi psichici perché si arrivi ad avere il predominio nella vita interiore della Unio Mentalis. Hegel scrisse che la follia è il sintomo che rivela come l’anima sia alla ricerca della sua guarigione. Infatti secondo Hillman una coscienza più chiara e in grado di raggiungere la pace interiore deriva sempre da uno stadio di follia. Questo processo di guarigione della psiche, che lotta per liberarsi dalla infelicità e dalla disperazione, avviene attraverso una transizione, che per Hillman da vita ad una conversione dell’anima. Jung a questo proposito nei suoi studi sull’alchimia e la psicanalisi aveva individuato quattro stadi: l’innerimento, l’imbiancamento, l’ingiallimento, l’irrosimento. Questo modo di ragionare di Jung, si spiega con la circostanza che per il grande pensatore l’alchimia, grazie alle sue metafore, permette di comprendere gli oscuri e tenebrosi processi che hanno luogo nella psiche. Per Spinoza la sostanza ha la tendenza natuirale ad opporsi da ogni cambiamento. Lo stesso accade con la psiche umana, che si rivela sovente e in più circostanze riluttante a mutare il suo stato.

Per questo motivo, nel suo saggio Hillman nota che durante la terapia è importante che la transizione tra le varie fasi sia progressiva e lenta, poiché nei casi in cui si abbia un fallimento terapeutico, si produce un fenomeno devastante nell’anima, quello che lui ha definito come il processo dei vetrificazione della psiche. Ad un certo punto nel libro Hillman cita le famose colombe di diana, che per Newton avevano la funzione di mediare tra il mercurio e l’antimonio. Per Hillman le colombe di diana diventano un simbolo che chiarisce in che modo si ha con la guarigione della psiche umana il congiungimento della immaginazione con la natura. Infatti è necessario che alla fine della terapia psicanalitica si abbia una armonia, capace di dare pace e serenità all’anima umana, tra mente, immaginazione e mondo. In un capitolo bellissimo, dove riflette su come il colore azzurro abbia ispirato i pensieri di grandi geni come Proust e Cézanne, Hillman dimostra che non è la mente che si perde nel cielo azzurro, ma è il cielo azzurro che è racchiuso nella mente umana. In tal modo spiega con esemplare chiarezza cosa sia e designi la figura archetipica nella cultura umana.

L’anima Mundi, su cui Hillman si sofferma nel libro, dimostra che vi è un rapporto strettissimo tra le cose che esistono, poiché è l’amore universale che costituisce il fondamento su cui poggia il mondo esistente. Infatti Freud parlava della libido oggettuale. Il cielo azzurro designa in modo simbolico L’unus Mondus. Per Hillman è fondamentale seguire il metodo estetico nella psicanalisi, poiché la psicoterapia si basa sull’ascolto della parola di chi è gravemente invischiato nei gorghi oscuri e impenetrabili della sofferenza interiore, provocata dalla depressione, dalla paranoia delirante e dalla depersonalizzazione. Con la modernità l’alchimia, dopo la rivoluzione scientifica e meccanicista di Newton, è stata sostituita dalla chimica. Per Alfred Ader il fine della psicoterapia è la realizzazione della solidarietà umana. Un libro indimenticabile.

mercoledì 11 novembre 2015

Nel castello del Re Pescatore

Nota: articolo trovato in rete senza altre indicazioni

ALLE ORIGINI DEL MITO, L'INIZIAZIONE DI PARSIFAL E L'INCONTRO CON PERSONAGGI ENTRATI A FAR PARTE DEL NOSTRO IMMAGINARIO

Giunto al castello del Re Pescatore, dopo una serie di avventure, Perceval, il "giovane ospite", assiste a questa strana processione: «Mentre parlano di questo e d'altro, un valletto viene da una camera, e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell'asta. Passa tra il fuoco e coloro che sono assisi sul letto. E tutti i presenti vedono la lancia chiara e il ferro bianco. Una goccia di sangue stillava dalla punta di ferro della lancia. Fin sulla mano del valletto colava la goccia di sangue vermiglio. Il giovane ospite vede tale meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. È perché rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che non si deve mai parlare troppo? Porre domande sarebbe villania. Non dice parola. Poi arrivano due valletti, tenendo in mano candelabri d'oro fino lavorato a niello. [...] Una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal. Quando fu entrata nella sala col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero il chiarore, come stelle quando si leva il sole o la luna. Dietro di lei un'altra damigella recava un piatto d'argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell'oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare o in terra...».

CODICE CORTESE

Il Perceval di Chrétien de Troyes, che per la prima volta ne racconta le vicende, è una sorta di "romanzo iniziatico". Vi si narra infatti di come il giovane Perceval il Gallese, «figlio della dama Vedova» e abitante nella «Guasta Foresta» - dov'è cresciuto all'oscuro dei costumi cavallereschi giacché la madre (che a causa della cavalleria ha perduto gli altri suoi cari) ha voluto tenerlo al riparo da tale conoscenza - intraprenda la professione delle armi cortesi giungendo, attraverso differenti insegnamenti, a un alto grado di perfezione spirituale. Un giorno, nella foresta, egli si imbatte in alcuni cavalieri: spaventato e affascinato dalla loro bellezza e potenza, pone alcune petulanti domande e, sulla base delle loro risposte, decide di recarsi alla corte di Artù a Carduel, nel Galles, per ricevere dalle sue mani le armi e la dignità cavalleresca. La madre, pur acconsentendo con molto dolore al suo desiderio, gli impartisce alcuni elementari insegnamenti d'etica cavalleresca.
Seguendo in modo maldestro queste indicazioni, il giovane ingenuo, rozzo e selvatico (un "puro folle") giunge alla corte di Artù, uccide il Cavaliere Vermiglio che ha recato offesa al re e riceve i veri insegnamenti sul modo di combattere e sull'etica cavalleresca dal gentiluomo Gornemant de Goort. Questi, in particolare, gli impone di risparmiare sempre il nemico inerme, di astenersi dal parlar troppo, di assistere i bisognosi, di serbare la fede e pregare.
Forte di tali precetti Perceval arriva nel castello del cosiddetto "Re Pescatore", dove ha luogo la misteriosa processione del graal, che si ripete più volte durante il banchetto.
Un graal «tutto scoperto» passa a ogni portata, e il giovane desidererebbe chiedere che cosa significhi la scena e cosa sia quel graal: ma, ben ricordando gli insegnamenti di discrezione impartitigli da Gornemant, non osa porre alcuna domanda.

LA COLPA DI PARSIFAL

Il mattino seguente, il castello è vuoto. Perceval si ritrova da solo; sconcertato, riparte e dal casuale incontro con una fanciulla nella foresta apprende che il Re Pescatore è gravemente ferito: se egli avesse posto la domanda relativa alla natura e alla funzione del graal quegli sarebbe stato risanato.
L'errore di Perceval deriva da una colpa, quella di aver fatto morire di dolore sua madre quando l'aveva abbandonata per dirigersi alla corte del Re Artù.
Dopo altre avventurose vicende - che si intrecciano con quelle di Galvano, un cavaliere della Tavola Rotonda - il giovane gallese perviene a un eremo nel quale incontra un santo anacoreta. Questi gli rivelerà di essere fratello di sua madre e del re al quale è servito il graal, il cui contenuto è un'ostia: «quest'ostia sostiene e conforta la sua vita, tanto essa è santa, ed egli stesso è sì santo che nulla lo fa vivere se non l'ostia del graal».
Dopo questa rivelazione, Perceval resta presso lo zio eremita e si sottopone a una dura penitenza per espiare i suoi peccati. L'educazione cavalleresca del giovane folle si perfeziona così, grazie all'affinamento dello spirito. Per molte pagine il romanzo prosegue parlando delle avventure di Galvano, per poi restare incompiuto.
I pochi versi relativi all'apparizione del graal nel castello del Re Pescatore e quelli successivi, sull'ostia contenuta nel recipiente e della quale il Re Ferito si ciba, hanno segnato profondamente l'immaginario europeo: da allora quel graal è divenuto il Santo Graal, oggetto d'innumerevoli altri racconti, nonché di studi, di polemiche, di riflessioni artistiche, di improbabili leggende.

INCANTESIMO CELTICO

Tra la fine del XII secolo e la prima metà del successivo si andò formando, in Francia e in tutta Europa, un corpus di testi letterari, tanto in versi quanto in prosa, che continuarono e ampliarono - con innumerevoli varianti - il racconto del Graal. Il fatto che la parola "graal" fosse scarsamente comprensibile fuori dal contesto franco-celtico favorì il passaggio del termine da nome comune a nome proprio.
>Si immaginarono le vicende che avrebbero potuto concludere il Perceval di Chrétien e se ne proposero varie "continuazioni" nelle quali si seguivano sia le avventure del protagonista, sia quelle di Galvano. Ma si volle anche chiarire e risolvere il "mistero" del Graal in chiave pienamente cristiana. Per questo se ne narrarono antefatti e vicende più o meno come si era fatto e si andava facendo per la più celebre e gloriosa reliquia della cristianità: la Santa Croce. Così come esiste, redatta nel corso del XIII secolo, una Legenda Crucis che segue la sorte del legno della croce dal Paradiso terrestre sino al Calvario, abbiamo anche una "Leggenda del Graal", che percorre le vicende del santo recipiente dal momento della sua realizzazione in poi.
Intorno al 1200, il piccardo Robert de Boron - non sappiamo se a conoscenza del testo di Chrétien - scrisse in versi il Roman de I'Estoire du Graal, noto anche sotto il titolo di Joseph d'Arimathie. Con Robert, l'atmosfera di incantesimo celtico - la visita al magico castello del Graal, la misteriosa infermità del Re Pescatore che rende il regno esposto ai pericoli e ai malefici, i recipienti e le armi prodigiose, l'eroe destinato a rompere l'incantesimo - scompariva per dar luogo a un racconto ispirato a scritti evangelici apocrifi come il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull'Eucarestia. Nel racconto di Robert de Boron si narra, infatti, il trasferimento del Sacro Vaso - in cui Gesù aveva celebrato l'Eucarestia nel corso dell'Ultima Cena - da Gerusalemme in Inghilterra, grazie a Giuseppe d'Arimatea.

LA TESTA SUL PIATTO

All'inizio del XIII secolo appartiene anche il Peredur, un racconto gallese in prosa, che richiama ampiamente il Perceval di Chrétien de Troyes, ma che presenta alcuni elementi distintivi: vi si narra infatti che il Re Pescatore è stato ferito dalle incantatrici di Caer Loyw, che hanno assassinato anche un cugino di Peredur. Il fine delle avventure sembra dunque essere la vendetta di Perceval, con cui infatti si chiude il romanzo.
Il Graal, pur non essendo mai indicato con questo nome, appare al protagonista in modo simile a quanto si è visto per il romanzo di Chrétien; tuttavia, particolare certo non insignificante, esso è presentato come un vassoio nel quale è posta la testa tagliata del cugino di Peredur: «Peredur conversava con lo zio quando vide due uomini attraversare la sala ed entrare in una camera: portavano una lunga lancia dalla cui punta colavano a terra tre rivoli di sangue. [...] Dopo qualche istante di silenzio, entrarono due fanciulle che portavano un grande vassoio sul quale poggiava la testa di un uomo immersa nel sangue...».
Sull'origine del romanzo gallese, il più vicino al Perceval, sono state avanzate diverse ipotesi: derivano entrambi da un'unica fonte scritta comune, poi perduta? Sono varianti di una tradizione orale? Oppure il Peredur non è che una fra le tante rivisitazioni del Perceval?
Tra il 1200 e il 1230 apparvero quattro "continuazioni" in versi del Perceval di Chrétien, tutte d'autore anonimo o d'incerta attribuzione. Della prima abbiamo tre redazioni, diverse l'una dall'altra. Nel testo, ovviamente molto complesso, il protagonista principale non è Perceval, bensì Gauvein. Nella vicenda è presente tanto l'impronta cristiana quanto quella celtico-meravigliosa: probabilmente a causa delle sovrapposizioni verificatesi nel corso di almeno tre decenni.
Nella seconda continuazione - generalmente attribuita a Wauchier de Denain, un autore degli inizi del Duecento che lavorava per i sovrani di Fiandra - il protagonista torna a essere Perceval, ma il Graal è del tutto cristianizzato e viene presentato come il calice che raccoglie il sangue di Cristo. Anche il probabile autore della terza continuazione, Manessier, lavorava presso la Casa di Fiandra; la datazione dell'opera è incerta e va dal 1214 al 1230. Da notare che, proprio nel XIII secolo, il culto della reliquia del Sangue del Cristo era molto forte in Fiandra, specie nelle città di Liegi e di Bruges. È da lì, e da allora, che prese le mosse la festa eucaristica del Corpus Domini. Il testo di Manessier parte dalla seconda continuazione e unisce elementi provenienti da svariati racconti, ma fa emergere anche distintamente il tema della vendetta che domina il Peredur gallese. La quarta continuazione, composta tra il 1226 e 1230, si deve a un certo Gerbert, da alcuni identificato con Gerbert de Montreuil. Come Manassier, anche Gerbert prende lo spunto iniziale dalla seconda continuazione, ma con una impronta più marcatamente cristiana.

GIOIELLO DEL CIELO

Intanto, tra il primo e il secondo decennio del XIII secolo, sul tema interveniva il poeta tedesco-meridionale Wolfram von Eschenbach, il cui Parzival immette nel tessuto simbolico e narrativo impiantato da Chrétien una serie di elementi alternativi che sembrano d'origine orientale, al posto di quelli celtici che la tradizione tedesca riteneva evidentemente estranei. La differenza più evidente risiede nella descrizione stessa del Graal, che viene rappresentato come una pietra preziosa: «Il più bel gioiello del cielo, fonte e meta d'ogni gioia. Questa cosa è detta il Graal, segno d'ogni bene in terra». Per il castello del Graal descritto da Wolfram si sono recentemente proposte identificazioni con una fortezza persiana del Kurdistan o dell'Azerbaigian; ma è ignoto attraverso quale fonte il poeta avrebbe avuto accesso alla descrizione di tali edifici.
Altri romanzi duecenteschi in prosa hanno trattato del Graal. Il franco-settentrionale Perlesvaus è stato datato da alcuni al 1200-1210, da altri al 1230-1240; il testo differisce sostanzialmente rispetto alle altre continuazioni del Perceval e rivela in alcuni tratti un substrato celtico piuttosto marcato.

LA VISIONE DI GALVANO

I personaggi principali del Perlesvaus sono quattro: Perceval (chiamato "Perlesvaus" da Perd-les-vaux, "perde le valli", con riferimento alla perdita dell'eredità e dell'assassinio del padre che innesca la sua volontà di vendetta: tema che dunque lo approssima al Perceval), Lancillotto, Artù e Galvano, al quale spetta la visione del Graal, tema che rivela anche una netta influenza cristiana, nonché una maggior chiarezza rispetto a Chrétien: «D'un tratto, da una cappella uscirono due damigelle: una teneva tra le mani il Santo Graal e l'altra la Lancia dalla cui punta il sangue stillava cadendo nel Santo Vaso. Camminando fianco a fianco entrarono nella sala in cui i cavalieri desinavano con messer Galvano. E l'aroma che si sprigionava dal Sacro Vaso era così soave e santo che essi dimenticarono il mangiare. Galvano osservò il Graal, e gli parve che dentro vi fosse un calice di una foggia rara per quei tempi, e guardando la punta della lancia da cui stillava il sangue vermiglio gli sembrò di vedere due angeli che portavano due candelabri d'oro con i ceri accesi. Le damigelle gli passarono davanti ed entrarono nella cappella. [...] Gli sembra anche che nel Graal vi sia la figura di un bambino. Il capo dei cavalieri gli disse qualcosa, ma Galvano tenne gli occhi fissi davanti a sé e vide che sulla tavola cadevano tre gocce di sangue. [...] Ed ecco che le fanciulle ripassano ancora una volta davanti alla tavola. Ora a messer Galvano sembra che siano tre, e quando solleva lo sguardo gli pare che il Graal sia sospeso in aria e che sopra ci sia un uomo inchiodato a una croce con una lancia conficcata nel costato. Preso da profonda compassione, Galvano non riesce a pensare ad altro che alle tremende sofferenze del Re. Il capo dei cavalieri lo esorta di nuovo a parlare, e gli dice che se non lo farà subito non ne avrà mai più l'occasione, ma Galvano continua a tacere, non lo ascolta e tiene lo sguardo fisso verso l'alto. Allora le damigelle rientrano nella cappella e scompaiono insieme al Santo Graal e alla lancia».

UN ROMANZO FIUME

Il Didot Perceval del cosiddetto Pseudo Robert de Boron è, con il coevo Perlesvaus, il primo romanzo francese in prosa a trattare del Graal. Il testo si presenta come una combinazione tra la queste del Graal e il tema del declino del ciclo arturiano, che l'autore presenta come una trasposizione in prosa del Perceval di Robert de Boron, opera che non ci è mai giunta.
Tra il 1215 e il 1235 furono redatte le anonime Estoire del Saìnt Graal e Queste del Saìnt Graal, entrambe in versi, che finirono con il costituire insieme una specie di "romanzo-fiume" noto come Lancelot-Graal o più semplicemente come «ciclo vulgato» (composto anche dal Merlin, dal Lancelot e dalla Morte Darthur, da cui sarebbero scaturiti fino al Quattrocento continui rifacimenti, fra cui quello toscano della Tavola Rotonda. Nel «ciclo vulgato» il Graal è del tutto cristianizzato alla luce della vicenda di Giuseppe d'Arimatea narrata da Robert de Boron. Nel l'Estoire del Saint Graal è la coppa utilizzata da Gesù nel corso dell'ultima cena; nella Queste la vastità della materia fa sì che l'oggetto appaia in diverse occasioni e sia al centro delle avventure di numerosi personaggi. Ormai, esso sarebbe rimasto definitivamente il calice usato da Gesù nell'Ultima Cena per fondare il rito dell'Eucarestia, poi utilizzato anche dagli angeli per raccogliere il sangue sparso dal Signore durante il suo martirio.

Chi vuol bere a quella coppa?

ALLEGORIA EUCARISTICA, SIMBOLO DI SALVEZZA O DEL POTERE: LA FORZA MAGICA DEL SACRO GRAAL APPARE DENSA DI SIGNIFICATI

Nello sviluppo del ciclo di romanzi del Graal si era dunque evidenziata una graduale prevalenza degli elementi di origine cristiana rispetto a quelli presumibilmente derivati dalla tradizione celtica. L'incompiuto romanzo in versi di Chrétien de Troyes aveva lasciato aperti problemi e interrogativi di ogni genere. Il Peredur, il Perlesvaus e la prima continuazione del Perceval insistevano sul versante celtico; la seconda e la terza continuazione, ma soprattutto il testo di Robert de Boron e la Queste, ci pongono invece dinanzi a un quadro completamente cristianizzato ed eucaristico (sia pure complicato da qualche elemento gnostico); piuttosto defilato il romanzo di Wolfram von Eschenbach, che ambienta il Graal in un contesto orientale. Il significato dei testi del Graal "cristianizzato" del pieno Duecento è sostanzialmente chiaro, mentre più dibattuto è il problema di quale senso dare tanto al corteo del Graal quanto, più in generale, all'intera vicenda che si narra nel Perceval di Chrétien e nelle prime continuazioni.
Alcuni avevano voluto vedere già in questi primi testi un'ispirazione pienamente cristiana: le immagini che compongono il corteo del Graal (in particolare, il Graal stesso e la lancia insanguinata) sarebbero mutuate dall'iconografia cristiana. Il Graal richiamerebbe l'allegoria eucaristica, mentre la lancia sarebbe quella di Longino (il santo leggendario che trafigge il costato del Salvatore, il cui nome deriva forse dal greco longkhè, "lancia"). L'iniziazione di Perceval andrebbe letta come una metafora dell'evoluzione del ceto cavalleresco del tempo: dalla cavalleria mondana della Tavola Rotonda a quella mistica, ascetica e cristiana. L'interpretazione integralmente "cristiana" - che cioè esclude "prestiti" da altri contesti culturali - dei primi testi che parlano del Graal non è tuttavia quella prevalente nella storiografia contemporanea, in quanto appare evidente la presenza di sicuri e abbondanti riferimenti al mondo celtico. Quel che appare, invece, certo è la piena appartenenza degli autori al mondo e allo spirito cristiani: non è credibile l'ipotesi di una sopravvivenza, nella Francia dei secoli XII e XIII, di un culto pagano-celtico, di una persistenza cosciente o di un revival pagano, di un'"Antichiesa" del Graal erede di un qualche sistema mito-cultuale precristiano travestito da leggenda eucaristica.
Gli elementi essenziali che appaiono nella cerimonia del Graal, oltre alla coppa-piatto, sono la lancia e, in un caso, la testa. Vediamo dunque quale può essere il senso complessivo dell'episodio, da una parte, quello dei singoli elementi che lo compongono, dall'altra.

VIAGGIO NELL'ALTRO MONDO

È probabile che la queste del Graal si rifaccia alle avventure nell'aldilà e alla ricerca di oggetti magici di cui la letteratura di derivazione celtica offre frequenti esempi. Secondo l'opinione comune, i Celti che durante il VI-V secolo a.C. occuparono i territori dell'attuale Francia centro-settentrionale, del Belgio, del bacino renano (conosciuti con il nome di "Galli") o delle Isole Britanniche e della Penisola iberica (i Celtiberi), avrebbero lasciato le tracce più evidenti della loro civilizzazione in Irlanda, nel Galles, nella Cornovaglia e nell'Armorica: le aree che meno avevano subito la conquista e l'acculturazione romane. Da queste regioni scaturì un tipo di letteratura in cui emergono diversi tratti culturali di origine celtica; si tratta tuttavia di prodotti tardi, di epoca medievale, che dunque non presentano una tradizione originaria, ma intrecci di tradizioni differenti, in cui gli elementi riconoscibili come "celtici" non sono che uno fra i molti influssi presenti.
La Tavola Rotonda ricalcherebbe una tavola dei festini celtica; a questa "corte" di guerrieri la tradizione celtica ne farebbe corrispondere una parallela nell'aldilà, governata da un re prodigo che dimora in un castello meraviglioso, in cui un calderone magico garantisce universalmente l'abbondanza. Come già detto, l'aventure alla ricerca di oggetti magici (pietre, talismani, coppe meravigliose, armi dotate di straordinari poteri ecc.) nell'Altro Mondo è alla base di molti racconti irlandesi e gallesi, come per esempio quelli detti Mabinogion, composti agli esordi del XIII secolo; l'eroe designato a tale queste deve superare molte difficili prove, in una sorta di iniziazione che gli consentirà l'accesso al misterioso aldilà.

LE FONTI DEL POTERE

Nel Perceval di Chrétien de Troyes uno degli oggetti magici, la lancia - che sanguina per il colpo inferto - ferisce il Re Pescatore, il cui nome potrebbe derivare dall'associazione fra questi e alcune divinità legate all'acqua, come Nuadi e Bran. La ferita rende il re, e specularmente le sue terre, sterili. La "cerca" del Graal, cioè del calderone dell'abbondanza, da parte di un eroe giovane e puro consente il ripristino dell'integrità del sovrano e del regno. La lancia e la coppa sono i segni della regalità: se Perceval avesse chiesto il significato di questi oggetti, avrebbe svelato le fonti del potere regale, ripristinandolo. Inoltre, il Peredur e il Perlesvaus presentano forse alcuni elementi arcaici, vivi nella tradizione orale, ma non ripresi da Chrétien: la testa tagliata sul piatto e la vendetta di sangue che guida l'aventure del protagonista ne sarebbero le prove più evidenti.
L'incertezza nella decifrazione del mito del Graal deriva essenzialmente dalla presenza in culture anche geograficamente lontane tra loro di simboli formalmente molto simili. A metà del IX secolo, al tramonto dell'impero carolingio, il vescovo Audrado di Sens, autore di scritti profetici frutto di visioni, compose un poemetto, il De fonte vitae, dedicatario del quale era lncmaro di Reims, il grande studioso ed ecclesiastico del quale Audrado si sentiva evidentemente debitore. In questo poemetto si narra di un viaggio verso «il luogo più bello del mondo», nel quale scaturisce il Fonte della Vita alla quale si puà attingere solo se si è in possesso di uno speciale vaso.
Nel contesto del poema di Audrado, i simboli sono chiari: la sorgente è il Cristo "Fonte di Vita"; l'Acqua è il Divino Sangue, sprizzato nella Passione, che rivive attraverso il mistero eucaristico; il Vaso è Io Spirito che consente di attingere al Fonte e di bere, entrando in piena comunione, materiale e spirituale, con il Cristo.
Le fonti cui Audrado si ispira sono anzitutto bibliche ed evangeliche - dal Cantico di Salomone all'Apocalisse - ma anche classiche. Attraverso la cultura classica - mediata da autori come Boezio, Venanzio Fortunato e Alcuino - giungevano ad Audrado echi della tradizione greca e di quelle orientali, che erano peraltro presenti anche negli stessi testi vetero e neotestamentari.
Il calice e la coppa, insomma, sono dei veri e propri grandi archetipi, densi di significato presso tutte le culture del mondo eurasiatico-mediterraneo.
Nei Salmi biblici il cantore offre a Dio la coppa della salvezza e riceve da lui quella delle benedizioni o del castigo; il Vangelo parla del calice del dolore; al contrario, la coppa che trabocca è simbolo di gioia e di abbondanza (proprio come nella tradizione celtica). Nell'Apocalisse, infine, sono menzionate le coppe ricolme dell'ira divina.

FINESTRA SULL'UNIVERSO

Ma la coppa è centrale anche nei riti vedici e nelle liturgie brahmanico-induiste; mentre nella tradizione islamo-persiana. Il mitico re Gemshid possiede una coppa nella quale si può vedere l'intero universo: coppe e bacili sono infatti strumenti abituali per i riti divinatori come per l'elaborazione di potenti filtri. Quest'idea della coppa come sede di potenza e di sapienza si ritrova nella tradizione islamca della mistica sufi, allorché a una coppa è paragonato il cuore dell'arif (cioè il saggio, l'iniziato) Spieghiamoci meglio: nell'Avesta, il libro sacro deillo zoroastrismo, il segno visibile della regalità solare, lo xvarenah, da cui hanno origine le tre funzioni sociali - studiate da Georges Dumèz per gli indoeuropei e da Georges Duby nel Medioevo occidentale -, cioè i sacerdoti, i guerrieri e i produttori, è detenuto dal sovrano primordiale Yimi Xshaàta. Questo sovrano è identificato nella tradizione islamica, nella quale, con la conquista della Persia, molti miti iranici sono confluiti con l'eroe civilizzatore Gemshid, che altri non sarebbe se non il Salomone biblico, il fondatore del Tempio sulla roccia del monte Moriah. E a Gemshid-Salomone apparterrebbe appunto l'oggetto magico e regale della prodigiosa coppa "che mostra il mondo".
Ritroviamo coppe e bacili come simbolo di potere o come oggetti magici anche nella tradizione greca. Ma è nel mondo germanico che la coppa ha certamente un significato di trasmissione della sovranità. Per esempio, si conserva nel tesoro del duomo di Monza il calice che la regina Teodolinda avrebbe offerto ad Agilulfo, da lei prescelto nel 590 alla successione del defunto marito Autari, come simbolo del passaggio del potere regale.

LANCIA DI FUOCO

Allo stesso modo, nel sistema mitico-simbolico celtico la coppa emblema di regalità e il bacile-calderone dell'abbondanza e della conoscenza, appartenente al dio Dagda, si sovrappongono; le leggende testimoniano come la coppa colma di idromele o di vino offerta da una ragazza - ricordiamo che nel Perceval di Chrétien è una donna a portare il Graal - a un candidato al trono sia il segno della sua elezione e la coppa più bella e preziosa sia l'offerta atta a celebrare l'eroe, il più valoroso fra i guerrieri. Si può dunque ipotizzare che la coppa come simbolo al contempo di regalità e di abbondanza sia un archetipo delle culture indoeuropee.
Al pari della coppa, anche la lancia è un intenso e diffuso simbolo. Una coppa e una lancia (quella di Longino) sono entrambi simboli della Passione, ed è la loro presenza associata a suggerire che la "processione del Graal", descritta da Chrétien de Troyes nel Perceval, abbia un significato anzitutto eucaristico.
Ma la lancia è a sua volta simbolo di sovranità. Da essa deriva lo scettro, e in greco il termine sképtron (verga, lancia, scettro) si associa al concetto di "fulmine" e ha valore magico quale strumento al tempo stesso di salvezza e di perdizione: come la lancia di Achille che - non diversamente dalla clava del dio celtico Dagda - poteva al contempo ferire e guarire. Conosciamo, per i Longobardi, un chiaro uso della lancia come simbolo supremo di regalità: il gesto di afferrare la lancia, nel corso della saga longobarda, è il simbolo del passaggio del potere quando i legami di sangue nella successione regale vengono a mancare, secondo il modello esemplato dalla vicenda del mitico re Lamissione, distintosi già nell'infanzia per aver afferrato la lancia protesa verso di lui dal sovrano Agilmundo.
Nella mitologia celtica la lancia è attributo del dio Lug, che la prende dalle mitiche "Isole del mondo": è una lancia di fuoco che infligge colpi mortali, dunque è prossima al fulmine. La stessa arma compare nelle mani di molti fra i guerrieri mitici della tradizione celtica, come Cuchulainn e suo fratello Conall.

IL SACRIFICIO DI BRAN

Un motivo di origine celtica è quasi sicuramente la testa tagliata e recata nel piatto-Graal che appare nel Peredur, anche se tale immagine in ambito cristiano non poteva non ricordare la decollazione di San Giovanni Battista. Troncare la testa ai nemici era abitudine comune per i guerrieri celti; l'atto aveva un significato rituale e cultuale, oltre che semplicemente guerriero. Lo si deduce, per esempio, dall'episodio del Mabinogion noto come Branwen, figlio di Llyr: il protagonista, Bran il Benedetto, ferito, ordina ai suoi uomini in difficoltà di mozzargli la testa che li accompagnerà e li guiderà nel corso di un lungo viaggio; quando infine viene sepolta essa è talmente potente da allontanare ogni calamità dalla terra in cui giace. Il costume sopravvisse fino ai primi secoli della cristianizzazione: nella Vita del vescovo - e poi santo - Germano di Auxerre si racconta, ad esempio, che prima di abbracciare il cristianesimo egli fosse solito sospendere, secondo l'antico costume pagano, le teste degli animali cacciati ai rami di un albero sacro; l'impiccagione rituale, d'altronde, era costume dei Germani e degli Scandinavi, che sacrificavano così al dio Wotan/Odino. Il tema della testa tagliata e del valore della testa (e del cranio scarnificato) sul piano magico è ben noto in molte culture, soprattutto - ma non soltanto - indoeuropee e uraloaltaiche. Il fatto che in area eurasiatica si ricavassero coppe dai crani dei nemici uccisi (come nel noto episodio di Alboino e del re dei Gepidi narrato da Paolo Diacono) collega il tema del sacrificio con quello della regalità, del potere e dell'abbondanza: i temi del Graal.
Possiamo dunque affermare che il duplice significato dell'abbondanza e del potere-regalità connota con una certa costanza gli oggetti che compongono la cerimonia del Graal. La leggenda graalica potrebbe dunque esser letta come la versione medievale, pervenuta attraverso un'eredità celtica reinterpretata in termini cristiani, del racconto archetipico dell'iniziazione di un giovane re-guerriero destinato a ristabilire la prosperità del suo regno, minacciata dalla vecchiaia, dalla malattia e dall'impotenza di un Re Ferito. Un racconto che, con molte variabili, i folcloristi hanno individuato e analizzato nel patrimonio mitico di molte civiltà.
Tuttavia, la scomposizione di un mito e l'analisi dei suoi elementi di base può condurre a una comprensione solo parziale del medesimo in quanto, come si è visto, miti e simboli finiscono per somigliarsi in tutte le civiltà del mondo: all'analisi delle forme sarà dunque opportuno affiancare alcune considerazioni sul contesto più propriamente storico-sociale in cui la leggenda del Graal nacque e si sviluppò.

Il segreto dei Templari

DAL QUATTROCENTO NON SI SENTE PIU' PARLARE DI SANTO CALICE. MA, TRE SECOLI DOPO, LA RICERCA RIPRENDE. FINO AI GIORNI NOSTRI.

Il XII secolo conobbe la grande espansione di sovrani angiomo-plantageneti. Pur regnando in Inghilterra, essi avevano vasti feudi in Bretagna, in Normandia e nell'Anjou; il che li rendeva vassalli dei re Luigi VII di Francia. Il matrimonio tra Enrico II ed Eleonora d'Aquitania, nel 1152, schiudeva nuove possibilità egemoniche. Il regno di Luigi VII di Francia - che di Eleonora era stato il primo marito - era ormai molto meno esteso di quello di Enrico. A bloccare per il momento le mire della monarchia angioino-plantageneta vi era tuttavia la poca stabilità dell'Inghilterra, dove i Normanni si erano violentemente sovrapposti agli Anglosassoni relativamente da poco.

ATTESTATO DI SACRALITÀ

È in questo contesto che la dinastia angio-francese elaborò il progetto di rintracciare o, se necessario, di inventare elementi di coesione fra le etnie in radici mitiche che fossero in grado di risultare accettabili per i Celti insulari, per gli Anglosassoni, per i Normanni. D'altro canto, le dinastie di Francia e di Germania avevano i loro antenati che infondevano sacralità alle stirpi. La monarchia francese aveva i suoi centri sacrali in Reims, dove si conservava la Sacra Ampolla dell'olio recato dagli angeli con cui si ungevano i sovrani, e nell'abbazia di Saint-Denis, che custodiva l'Orifiamma, il vessillo direttamente concesso da Dio a Carlomagno; l'impero romano-germanico traeva invece la sua sacralità dalla Cappella Palatina di Aquisgrana, dove riposavano le reliquie di Carlomagno, per il quale nel 1165 Federico Barbarossa avrebbe ottenuto la canonizzazione. Occorreva dunque qualcosa in grado di competere con tanta nobiltà: i sovrani celti cristianizzati avrebbero coperto questo ruolo.
Già nell'VIII-IX secolo, l'Historia Brittonum di Nennio aveva nominato un "Arturus Rex" - chiamato in soccorso dal re dei Bretoni Vortiger per contrastare l'invasione dei Sassoni - tra le cui azioni in battaglia si ricorda l'uccisione di 960 nemici. Oggi si tende a ritenere che il suo nome potrebbe venire dal latino Artorios, il che lo farebbe identificare con un funzionario romano - Lucius Artorius - la cui esistenza storica è documentata da un'iscrizione funeraria bretone; il nome era comunque ampiamente attestato in quell'area intorno ai il secolo d.C. Nella seconda metà del X secolo, gli Annales Cambrìae parlavano di una vittoria riportata dai Britanni contro i Sassoni nei 516 o 518, durante la quale un "rex Arturus" avrebbe portato sulle spalle per tre giorni consecutivi la croce dei Cristo.

NELLA VALLE DI AVALON

Le tradizioni arturiane vennero raccolte, ampliate e ordinate verso il 1135 dalla Hìstorìa regum Britannìae di Goffredo di Monmouth, alla quale s'ispirò Guglielmo di Malmesbury per la seconda edizione di un suo scritto, il De antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, redatto tra il 1135 e il 1137 e nel quale la leggenda arturiana appare nella sua sostanziale completezza.
L'opera di Goffredo fu ben presto tradotta dal latino nella lingua d'oil per guadagnare rapida circolazione tanto nei mondo angio-normanno quanto in quello francese: a essa s'ispirava nel 1155 il Roman de Brut di Robert Wace, dedicato a Eleonora d'Aquitania, nel quale si descriveva la Tavola Rotonda, intorno alla quale i cavalieri prendevano posto. Essi avevano alla Tavola un seggio, ciascuno identico agli altri e venivano serviti alla stessa maniera in segno di uguaglianza di condizione. Per Artù si inventò anche un centro sacrale, l'abbazia di Glastonbury nel Somerset, da contrapporre ad Aquisgrana e a Saint-Denis: nel 1191, nel corso della terza crociata, fu addirittura annunciato il rinvenimento delle tombe del Re Artù e della regina Ginevra e, di conseguenza, Glastonbury fu identificata con la leggendaria terra di Avalon.
Entro la metà del Duecento, quindi, la "cerca" del Graal era un tema letterario ormai noto e ricco di varianti: suo oggetto, la ricerca del misterioso e prodigioso vaso da parte dei cavalieri della Tavola Rotonda. A essa l'autore anonimo della Queste - forse influenzato dalla mistica cistercense - aveva fornito un esito mistico, eucaristico e cristologico. Il puro eroe della Queste, Galahad - figlio di Perceval e della principessa del Graal - è in effetti un typus Christi. Con l'aiuto anche dei testi evangelici apocrifi, si era andato così tessendo un "romanzo del Sacro Calice", che coinvolgeva le leggende relative a Pilato, all'imperatore Vespasiano, alla reliquia romana dell'immagine del volto di Gesù (la "Veronica"), e dove soprattutto si narrava come Giuseppe d'Arimatea, ereditato il Graal, lo avesse affidato a compagni sicuri ed esso fosse finito in «una terra verso Occidente [...] ancora tutta selvaggia», nella valle di Avalon. Dalla generazione di Bron, cognato di Giuseppe di Arimatea, sarebbero discesi i "Re Pescatori", detti così perché avrebbero pescato quel pesce - un richiamo simbolico all'ICHTYS: il Cristo-Salvatore - necessario al rito del Graal.
Attraverso il "romanzo" di Giuseppe d'Arimatea, la Terrasanta e la terra di Avalon, identificata con l'Inghilterra angionormanna, si collegavano strettamente fra loro. D'altro canto, lo stesso stava avvenendo sul piano della realtà storica proprio a partire dalla seconda metà del XII secolo, quando i sovrani d'Inghilterra e molti loro vassalli continentali - fra cui i Lusignano, pretendenti alla corona di Gerusalemme - cercavano di porsi alla guida della crociata. Le avventure crociate in Terrasanta, a loro volta, avrebbero rinforzato in Occidente proprio nei secoli XII-XIII il culto eucaristico - così importante nella formazione della leggenda dei Graal - legato a miracoli come quello del Santo Sangue di Bolsena (che dette luogo alla fondazione della cattedrale di Orvieto) e alle importazioni di reliquie illustri provenienti dalla Terrasanta e dal saccheggio crociato di Costantinopoli del 1204: tra le molte, vanno ricordate almeno le reliquie della Passione per ospitare le quali Luigi IX fece edificare a Parigi la Sainte-Chapelle.

REVIVAL ROMANTICO

Nel 1485, Thomas Malory, cavaliere e avventuriero inglese, pubblicava la Morte Darthur, un romanzo-fiume in cui si riassumeva e si elaborava ancora una volta la materia del ciclo di Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda e del Graal. Da allora, il mito che tanto aveva dato alla poesia medievale sarebbe tramontato per circa tre secoli.
Fino ai Romanticismo, infatti, il Santo Graal sarebbe scomparso. La letteratura cavalleresca, che pure conobbe revivals e rielaborazioni, seguì altri percorsi. Il mito carolingio era tenuto in vita dall'impero asburgico e dalla monarchia francese che se ne contendevano l'eredità morale e spirituale; e le gesta dei paladini di Carlo in lotta contro i musulmani sembravano rinverdite dalla lotta contro i Turchi ottomani. Al contrario, la letteratura arturiana e graalica segnava il passo: troppo "sospetta" tanto per il cattolicesimo della Controriforma, quanto per l'austerità dei mondo protestante, entrambi preoccupati dalle molte ambiguità di stampo celtico e cortese.
Bisognò aspettare il tardo Settecento perché il Medioevo tornasse in auge, insieme alle fonti celtiche e germaniche, alle atmosfere gotiche di Ossian, alle radici della cultura europea. Nell 777, Christof Martin Wieland aveva elaborato una rinnovata versione della storia del mago Merlino; nella Parigi napoleonica del 1803-1804, Friedrich Schlegel teneva un ciclo di lezioni dedicate all'antica letteratura francese, mentre a Lipsia usciva appunto l'opera del Wieland edita da lui e dalla moglie Dorothea Mendelssohn.
Nel 1792, Walter Scott studiava e annotava il romanzo di Malory, mentre nel 1808 introduceva citazioni dal «ciclo vulgato» nel primo "canto" del suo Marmion. Non casualmente, quell'Inghilterra che più aveva promosso la letteratura arturiana riscopriva interesse per questa materia. Nella prima metà dell'Ottocento vi furono molte riedizioni e riduzioni dei poemi arturiani, mentre veniva riscoperta anche la raccolta dei Mabinogion celtici. È dell'842 la prima apparizione a stampa del Sir Launcelot and Queen Guinevere, della Morte d'Arthur e del Sir Galahad di Alfred Tennyson, mentre fra 1849 e 1862 gli affreschi di William Dyce nel palazzo di Westminster illustravano anche, tra le altre cose, la visione di Galahad.

DA WAGNER ALLA NEW AGE
La cultura romantica britannica, e in particolare la produzione preraffaellita, si configurava quindi come profondamente segnata dai sogni cavallereschi, nei quali il Graal assumeva ora una connotazione mistico-religiosa, ora invece una etico-misterica, con accenti erotici purificati in termini spirituali, secondo i dettami - sia pur trasfigurati - della cultura cortese. Tra 1857 e 1858, la Oxford Union venne decorata da pitture di argomento arturiano eseguite da Dante Gabriel Rossetti, da Edward Burne-Jones, da William Morris.
Tutte queste tendenze parvero aggregarsi ed esaltarsi nell'opera di Richard Wagner, che più di ogni altra consegnò il mito del Graal al Novecento attraverso il Lohengrin e soprattutto il Parsifal, ispirato da Wolfram von Eschenbach, che fu rappresentato per la prima volta nel 1882 a Bayreuth. Non c'è dubbio che Tennyson, Scott, i preraffaelliti e Wagner abbiano accostato il pubblico moderno al Graal: non certo i romanzi medievali, che sono restati una lettura familiare solo agli specialisti.
Nel corso del Novecento si è verificato un caratteristico intrecciarsi e sovrapporsi fra le istanze della ricerca scientifica attorno al mito del Graal e l'interesse suscitato dal tema negli ambienti occultistici e mistico-esoterici. Nella Parigi fin de siècle, invasa dall'entusiasmo per l'occultismo, si agitavano numerosi gruppi che pretendevano di rifarsi ai Templari e ai Rosa-croce e che erano in contatto con ambienti massonici, senza tuttavia sovrapporsi mai del tutto con essi. Un elemento catalizzatore di queste tendenze fu un artista, Joséphin Péladan, che nel 1890 - dopo un viaggio a Gerusalemme - guidato da un impulso mistico, fondò un "Ordine Cattolico della Rosacroce, del Tempio e del Graal", dal quale nacque il "Salon de la Rose-Croix"; un gruppo che si poneva, sia pur in modo defilato, all'interno del movimento simbolista. Frattanto il folclorista inglese Alfred Nutt e, soprattutto, la sua allieva Jessie Ledley Weston interpretavano la leggenda del Graal come il disvelamento di una "Chiesa del Graal", alternativa a quella ufficiale e di essa più autentica e propriamente cristiana, sul modello dell'etica templare. Forzando un po' il testo di Wolfram von Eschenbach, si sosteneva che egli avesse affidato ai Templari il ruolo di "guardiani del Graal". Alla base della dottrina templare vi sarebbe stata, quindi, la conoscenza del "segreto del Graal", riconducibile, attraverso la tradizione gnostica, ai miti e ai riti connessi con la fertilità e la morte e rinascita della vegetazione; quindi ai culti di antiche divinità quali Attis, Adone e Mitra. È a causa di questi studi che leggenda templare e mito del Graal si sono presentati inestricabilmente uniti sino ai nostri giorni, in una visione d'insieme, ricca di variabili e non priva di aspetti tra il ridicolo e il fantastico, ma che nel corso del secolo ha influenzato l'arte, la letteratura esoterico-occultista, ambigue frange politiche e sette pseudo e parareligiose. Oggi, ambienti vicini alla New Age sembrano aver ripreso ed elaborato i cascami moderni di queste leggende, sforzandosi di legittimare una loro pretesa antichità.

martedì 27 ottobre 2015

MERAVIGLIOSO O FANTASTICO? L'immaginario nella letteratura Medievale Parte II

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleoneblog.blogspot.it/2013/05/meraviglioso-o-fantastico-limmaginario_27.html


La seconda ed ultima parte

Passando velocemente ad una breve osservazione di Rossana Brusegan sui Fabliaux francesi medievali, si noterà come anche in queste brevi storie il ricorso al meraviglioso è quasi inevitabile: "Realtà e irrealtà si fondono infatti in iperrealismo nell'atmosfera notturna delle notti d'inganni, negli effetti fantastici-mostruosi della descrizione del villano carico di vits e della moglie di cons presi in una priapica metamorfosi, nella minuziosa descrizione dei membri entro la cornice evanescente del folle sogno, in quella delle morti cruente da Grand Guignol dei preti portati a seppellire da Estormi, negli effetti grotteschi della finta morte del villano di Bailluel. Quello che importa è lo stupore, la meraviglia e la sorpresa".[1]
Sul concetto di meraviglioso come altro e come qualcosa che rimanda ad un passato troppo lontano per dare dimostrazione di ciò che esisteva nuovamente il pensiero di Poirion potrà esserci d'aiuto: "Il meraviglioso è dunque legato alla stranezza di un desiderio, in quanto timore letterario ci rimanda a un desiderio di timore. Il ricorso ad una tradizione diversa permette di affrancarsi dalle norme morali, sociali o scientifiche. La stranezza del desiderio colto nella proiezione immaginaria del meraviglioso si confonde con la figura dell'altro, dello straniero, di una creatura venuta da un altro mondo, dall'Altro Mondo. In concreto, le forme del meraviglioso che si radicano nella nostra letteratura provengono dunque spesso dal di fuori e chi le indaga vi riconosce gli elementi di un sistema culturale diverso che si organizzano all'interno del nostro. Il meraviglioso spiega allora come la <<ricezione>> di un'altra cultura da parte della cultura comune di fronte alle manifestazioni di credenze diverse. Il meraviglioso infatti non si dà immediatamente come credibile, ma ci rimanda a un passato o a un altrove in cui quelle manifestazioni sarebbero state credute. Miti arcaici, mitologia antica, leggende celtiche si scontrano con altre figure considerate storiche. Il meraviglioso mette in risalto la differenza delle altre storie rispetto alla Storia".[2] Questo rimando del meraviglioso a qualcos'altro, lo troviamo per esempio in Isidoro di Siviglia[3], quando nei capitoli delle Etymologie dedicati a mostri, portenti e trasformati include esseri che fanno parte della mitologia classica.
"... Quando le metamorfosi delle forme e dello spirito scatenano la fantasia e l'immaginazione, ecco che ritroviamo il mostro e la bestia, le stesse divinità dell'Olimpo rivestono spesso un carattere selvatico, quasi animale. Con questo spirito vi ha generalmente attinto l'iconografia romanica. Il fenomeno ricompare nel Duecento e si sviluppa con il disgrgarsi del classicismo gotico. L'Antichità mostruosa si sostituisce progressivamente all'Antichità umanista. La mitologia moralizzata si snatura".[4] Il meraviglioso potrebbe essere il linguaggio, ermetico e limitato, della società medievale, atto ad esprimere i suoi sogni, i suoi desideri e le sue proteste.[5]
"Le pietre incise con queste effigi (mostruose) avevano indubbiamente dei poteri magici. Una forza sovrannaturale sgorga dallo spostamento, dalla ripetizione, dalla dilatazione mostruosa e dalla mescolanza delle forme viventi. Secondo il Blanchet, la parola 'accrescimento che accompagna un grillo e la frequenza delle teste d'ariete indicherebbero che questi amuleti avevano a che fare con la fertilità e la ricchezza".[6]
Per l'origine della parola meraviglioso Le Goff potrà esserci d'aiuto: "E poi, c'è il problema dell'etimologia. Con il termine mirabilia ci troviamo di fronte ad una radice mir (mirir, mirari) che comporta qualcosa di visivo. Si tratta di un guardare. I mirabilia naturalmente non sono solo cose che l'uomo può ammirare con gli occhi, cose davanti alle quali si spalancano gli occhi; originariamente, però, c'è questo riferimento all'occhio che mi pare importante,  in quanto tutto un immaginario può organizzarsi attorno a questo richiamo ad un senso, quello della vista, e attorno a una serie di immagini e metafore che sono metafore visive. Se pensiamo allo spesso citato libro di Pierre Mabille, Le Miroir du merveilleux (1962), siamo indotti a fare un accostamento particolarmente pertinente per l'Occidente medievale fra mirari, mirabilia (meraviglia) e miror (benché il latino abbia qui speculum, da cui l'italiano <<specchio>>; ma il francese ristabilisce le parentele) e tutto quello che un immaginario e una ideologia del <<miroir>>-specchio possono rappresentare... Una indagine sul meraviglioso nel mondo medievale non può trascurare l'apporto delle lingue volgari. Ancora una volta mi limiterò qui a un'osservazione molto semplice, ma fondamentale: quando le lingue volgari affiorano, e diventano lingue letterarie, il termine meraviglia compare in tutte le lingue romanze ed anche in inglese. Non esiste invece nelle lingue germaniche, dove il campo del meraviglioso si articolerà piuttosto attorno al Wunder".[7]
Bisogna tener presente un'altro elemento per tentare di comprendere la mentalità che è in grado di cogliere e far suo il meraviglioso, ovvero, la "nascita" nel Medioevo di un occhio e di un orecchio interni pronti a cogliere e comprendere la verità eterna, questi organi vedono e sentono, agiscono nel mondo delle immagini.[8]
Tra le varie immagini dobbiamo prendere in considerazione quelle che per questo studio sono fondamentali (Due sono i tipi di immagini che a noi interessano in particolar modo. Le prime sono quelle letterarie che possono essere viste solo con l'occhio dell'immaginazione da parte del lettore dei Bestiari e di altre opere del genere. Le seconde sono quelle che chiunque poteva e può vedere nelle sculture delle chiese o nei dipinti sacri e profani). "La rinascita dei cicli dell'inferno, delle creature deformi, degli esseri favolosi che si moltiplicano nei Bestiari, nei margini dei manoscritti o nella decorazione scultorea, e il reintegrarsi di tutto un mondo fittizio all'interno del mondo vivente, alterano l'unità dei temi e dei principi della prima fase di questa genesi. Essi fanno rivivere allo stesso tempo le fonti che hanno sempre alimentato le fantasie e le leggende: l'Antichità classica e l'Oriente."[9]

[1] AA.VV. Fabliaux. Racconti francesi medievali, A cura di R. Brusegan, Giulio Einaudi editore, Torino 1980, p. XIV.
[2] D. Poirion, Op. cit. pp. 4-5.
[3] Isidori Hispalensis, Etymologiarum sive Originum  libri XX, P.L.?
[4] Baltrusaitis J., Op. cit., pg,43.
[5] Cfr. Anonimo, Liber monstrorum, Intr., ed., vers., e comm. di F. Porsia, Dedalo Libri, Bari 1976, pp. 35 e ss.
[6] Baltrusaitis J., Op. cit., pg. 52.
[7] J. Le Goff, Op. cit. p. 6.
[8] Cfr. J. Le Goff. L'immaginario medievale, trad. it. di A. Salomon Vivanti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993.
[9] J. Baltrusaitis, Op. cit. p. 39.

sabato 24 ottobre 2015

MERAVIGLIOSO O FANTASTICO? L'immaginario nella letteratura Medievale Parte I

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleoneblog.blogspot.it/2013/05/meraviglioso-o-fantastico-limmaginario.html


La prima parte di un lavoro sull'estetica medievale ed i bestiari



MERAVIGLIOSO O FANTASTICO?

L'immaginario nella letteratura Medievale


In questa prima parte, si ritiene necessario definire la differenza tra meraviglioso e fantastico all'interno della letteratura medievale.

Questa distinzione è utile sia per il lavoro ermeneutico che verrà fatto sui bestiari, sia per definire con la maggior chiarezza possibile il concetto di meraviglioso.

"Il <<meraviglioso>>: si tratta in primo luogo di sapere che cosa noi intendiamo per meraviglioso e di capire in secondo luogo come gli uomini del Medioevo intendevano ed esprimevano quello che noi oggi chiamiamo meraviglioso. Nell'Occidente medievale esisteva un termine corrispondente. In ambiente colto era d'uso corrente nel Medioevo il termine mirabilis, che aveva più o meno lo stesso significato del nostro aggettivo. Dobbiamo tuttavia rilevare che i clerici del Medioevo a voler essere precisi non possedevano una categoria mentale, letteraria, intellettuale, che ricalchi esattamente quello che noi chiamiamo il meraviglioso. Al nostro <<meraviglioso>> corrisponde piuttosto il plurale, mirabilia. Se si può dunque riconoscere una continuità di interesse fra il Medioevo e noi per un medesimo fenomeno che chiamiamo <<il meraviglioso>>, dobbiamo osservare che là dove noi vediamo una categoria - una categoria dello spirito o della letteratura -, gli uomini colti del Medioevo e quelli che da loro ricevevano la propria informazione e formazione vi vedevano, certo, un universo - e questo è molto importante -, ma un universo di oggetti, una collezione più che una categoria"[1].

"Per la letteratura esemplare sembra più conveniente impiegare il termine meraviglioso, intendendo con esso la dimensione del sovrannaturale, sia esso folclorico o cristiano. Nella mentalità medievale il meraviglioso fa parte integrante dell'universo, si incontra e si confronta con la sfera dell'esperienza quotidiana, suscitando spesso effetti di un sublime grottesco. Il patto sotteso tra narratore e destinatario dei racconti esemplari, fondato sulla comune credenza nel sovrannaturale, elimina alla radice la possibilità di quella vertigine epistemologica, di quella  <<crispation du rationalisme>>, in cui risiede il fascino peculiare della letteratura fantastica moderna. Posto di fronte ad un evento meraviglioso il lettore medievale deve decidere non già se esso sia verisimile, ma se esso ricada nella categoria dei mirabilia naturali, o non sia piuttosto un miracolo, o una diablerie, cioè un finto miracolo, costruito dalla scienza diabolica mediante la manipolazione dei processi naturali. Angeli, santi e demoni per dirla con Le Goff, sono le <<milizie cristiane del meraviglioso>>, alle quali spetta il compito di orientare e di rendere significativo l'ordine banale della vita quotidiana".[2]

Da questa pagina di Delcorno emerge un dato per noi fondamentale,  quello della quotidianità del meraviglioso per l'uomo medievale. Quotidianità che dimostra l'esistenza di una mentalità del fantastico in generale e del meraviglioso in particolare. E se per Le Goff più che di categoria è opportuno parlare di universo, di collezione di oggetti, noi tenteremo di verificare, allora, se questo universo può essere una categoria. Lo scopo di questo capitolo è quello di far emergere l'"abitudine" mentale al meraviglioso, al fantastico negli uomini del Medioevo Occidentale.

" Il Medioevo non rinuncerà mai al fantastico. Vi ritorna senza posa nel corso della sua evoluzione, ora facendo rivivere le sue forme primitive, ora arricchendole con sistemi nuovi".[3]

Il fantastico può cambiare modo espressivo,  si evolve, si trasforma e rimodella, ma è sempre presente nella cultura medievale". La rinascita dei cicli dell'Inferno, delle creature deformi, degli esseri favolosi che si moltiplicano nei Bestiari, nei margini dei manoscritti o nella decorazione scultorea, e il reintegrarsi di tutto un mondo fittizio all'interno del mondo vivente, alterano l'unità dei temi e dei princìpi della prima fase di questa genesi. Essi fanno rivivere allo stesso tempo le fonti che hanno sempre alimentato le fantasie e le leggende: l'Antichità classica e l'Oriente".[4] Dieci secoli nei quali possiamo individuare una sicura costante, questo universo che ha come prerogativa l'insolito e forse per questo motivo entra sì prepotentemente nel quotidiano.

Sul rapporto e sulle differenze tra il fantastico ed il meraviglioso nella letteratura del Medioevo Occidentale può essere interessante il discorso fatto da Poirion nell'introduzione al suo Il meraviglioso nella letteratura francese del Medioevo[5]: " Tuttavia i teorici del fantastico, nella loro <<poetica>>, hanno dato scarsa rilevanza alla féerie medievale. Northrop Frye, Roger Caillos, Tzvetan Todorov considerano lo strano e il meraviglioso come qualità marginali rispetto al fantastico, valorizzato dal mistero che introduce nella realtà.

Queste distinzioni risultano assai meno pertinenti se si cerca di utilizzarle per spiegare Chrétien de Troyes, Maria di Francia o il Lancelot en prose. In tal caso le opere qualificate come  <<meravigliose>> (la parola meraviglia esprime spesso il giudizio dell'autore) corrispondono esattamente alle forme che, quando ricorrono nell'iconografia gotica, lo storico dell'arte Jurgis Baltrusaitis designa col termine di fantastiche. In effetti lo strano, il meraviglioso, il fantastico indicano lo stesso fenomeno, ma visto secondo le diverse prospettive della psicologia, della letteratura e dell'arte. Se poi consideriamo il fenomeno in se stesso, possiamo definirlo come la manifestazione di uno scarto culturale fra i valori di referenza, che servono a stabilire la comunicazione fra l'autore e il suo pubblico, e le qualità di un mondo altro. Dato che il nostro oggetto è la letteratura, ci serviremo del termine meraviglioso per designare la presenza di tale alterità nelle opere medievali, senza rinunciare, in parallelo, a cercare la percezione di una stranezza su cui si fonda o l'apertura verso un immaginario fantastico che le dà forma."[6].
Michele Leone


[1] J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell'Occidente medievale, Editori Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 5-6.
[2] C. Delcorno, Illusione diabolica e meraviglioso quotidiano nell'<<exemplum>> medievale, in Gli universi del fantastico, a c. di V. Branca e C. Ossola, Vallecchi Editore, Firenze 1988, pp. 238-239.
[3] J. Baltrusaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell'arte gotica, Adelphi, Milano 1994, p. 39.
[4] Idem.
[5] D. Poirion, Il meraviglioso nella letteratura francese del Medioevo, trad. it. di G. Zattoni Nesi, Giulio Einaudi editore, Torino 1988.
[6] Idem p. 3.

giovedì 22 ottobre 2015

Rieti e la sua ricchezza sotterranea

tratto da L'Opinione del 7 ottobre 2015 (http://www.opinione.it/cultura/2015/10/07/perricone_cultura-07-10.aspx)

di Gianluca Perricone

L’Italia è il Paese più bello del mondo perché ricco di testimonianze della propria storia, del proprio passato, delle proprie origini. E, a questo proposito, diverse città italiane “nascondono”, nel loro sottosuolo, le testimonianze di quelle che furono le loro origini. Ci è capitato di recente di esplorare i sotterranei di Rieti, nel Lazio, alle pendici del monte Terminillo: sotto alle vie dell’attuale centro cittadino si apre un mondo straordinario ed affascinante (www.rietidascoprire.it), fatto di volte, architravi, antichi vicoli, che conduce al viadotto romano e che aspetta di essere scoperto dai visitatori.

Anticamente occupata da un grande bacino, Rieti fu conquistata insieme al resto della regione sabina, nel 290 a.C. da Manio Curio Dentato. Le acque del fiume Velino, ricche di sostanze minerali, avevano nel corso dei secoli incrostato le rocce, creando una barriera travertinosa che impediva il deflusso delle stesse a valle. Il console romano fece eseguire il taglio delle Marmore, consentendo così al fiume di precipitare nel Nera e liberare la pianura di Rieti dalle acque del “lacus Velinus”. Questa importante opera idraulica, citata spesso nelle fonti antiche, è considerata uno degli interventi paesaggistici più interessanti e spettacolari della storia, che da una parte mise Reate in urto con Terni per i contrastanti interessi connessi alla regolamentazione delle acque del fiume Velino; dall’altra trasformò la città in un importante centro agricolo, naturale fornitore di Roma, “vocazione” che il capoluogo sabino non ha mai abbandonato nel corso dei secoli.

Dopo la conquista Rieti fu sempre molto legata a Roma e collegata ad essa dalla Salaria, la via più antica che usciva da Roma. La denominazione dell’importante arteria si deve alla sua funzione originaria che consentiva alla popolazioni dell’entroterra sabino e dell’agro reatino di raggiungere Roma per rifornirsi di sale nel Foro Boario, trasportato qui dalle saline della foce del Tevere ed alle popolazioni del Piceno di trasportare numerosi prodotti verso la capitale. Inizialmente la strada doveva giungere a Rieti, e solo successivamente venne prolungata fino all’Adriatico, in seguito all’assoggettamento del Piceno avvenuto nel 268 a.C.

L’ampliamento del percorso richiese un notevole dispendio di energie e di risorse economiche, se si pensa che per aprirsi un varco in direzione del mare, i romani furono costretti a realizzare subito dopo l’abitato di Interocrium (l’odierna Antrodoco) dei tagli verticali nelle rocce che ancora oggi caratterizzano le “gole del Velino”. In loco il fiume ha scavato una forra profondissima , forse la più selvaggia e suggestiva di tutto l’Appennino, dove è possibile ammirare il “Masso dell’Orso”, rupe tagliata dai romani per un’altezza di circa 30 metri e una lunghezza di 20 a perpendicolo sul fiume. Queste ed altre modifiche, furono necessarie per rendere la consolare Salaria, la principale via di comunicazione per l’intero territorio sabino, utilizzabile in qualsiasi periodo.

Insomma, proprio all’acqua sono state, nella storia, collegate le vicende del capoluogo sabino. L’abbondanza delle acque della città di Rieti infatti, e le ricorrenti piene del Fiume Velino, resero altresì necessaria la costruzione di un viadotto formato da fornici rampanti per elevare la Salaria. Questo manufatto, superando il fiume con un solido ponte in pietra dove sono ancora visibili i profondi solchi lasciati dalla ruote dei carri utilizzati per il trasporto del sale, permetteva alla strada di raggiungere la città sviluppatasi su una rupe, evitando allagamenti ed impaludamenti. La struttura inglobata nei sotterranei di alcune dimore patrizie reatine è formata da grandiosi fornici romani costruiti con enormi blocchi squadrati di travertino cavernoso, a sostegno del piano stradale.

Il rapporto tra Rieti e l’acqua è testimoniato anche dall’esistenza di quello che fu un porto fluviale posizionato sulla riva destra del fiume Velino e che veniva utilizzato per l’attracco delle barche che trasportavano granaglie dalla valle reatina ai sotterranei degli edifici citati. In loco, la presenza di archi ribassati testimonia i continui aumenti di livello delle rive del fiume, tesi ad evitare l’annoso problema delle inondazioni delle case. Nel passato infatti, le acque si addentravano per diversi metri lungo l’odierna via del Porto trasformandola in un canale navigabile. Così Rieti, con stretti canali formati da case torre appoggiate al viadotto romano, si trasformava in un piccola “Venezia di acqua dolce” per poi tornare, per brevi periodi, alla percorribilità delle sue strade. Una interazione in continua evoluzione del rapporto città-acqua-fiume-viadotto romano e le cui testimonianze sono ancora evidenti nel meraviglioso mondo sotterraneo della città.

giovedì 15 ottobre 2015

I SENTIERI DI SAN MICHELE

Culti micaelici e antica viabilità sui monti del Chianti
di R. Centri e L. Pecchioni

Sui monti del Chianti il nome di San Michele Arcangelo ritorna costantemente, caratterizzando chiese, eremi, torrenti e la vetta stessa della catena: Monte San Michele, che fino all’inizio del novecento era meta di processioni devozionali. Il contesto geografico è reso coerente dall’esistenza di una strada antichissima, che rappresentava nel medioevo un importante itinerario per i pellegrini e un punto di riferimento per le transumanze. Di essa rimane un avvincente intreccio di sentieri, ricchi di curiosità e scorci suggestivi: un patrimonio culturale che aspetta da molto tempo di essere riscoperto, sia in senso archeologico, sia semplicemente turistico.
Proprio in Chianti, in un eremo dedicato a San Michele, esattamente settecento anni fa nasceva una confraternita le cui costituzioni si sarebbero diffuse in buona parte dell’occidente europeo. I monaci, solo in seguito definiti girolamini, scelsero questi luoghi per rifugiarsi sotto la protezione dell’Arcangelo, come fecero già molti eremiti in precedenza. Per gli autori del presente volume l’anniversario è stato uno stimolo a procedere in una ricerca specificamente dedicata ai culti e alle titolazioni micaeliche del Chianti, argomento raramente affrontato in modo esteso.    

tra gli argomenti trattati:
VIABILITÀ E PROPOSTE SENTIERISTICHE
SAN MICHELE NELLE DONAZIONI PRO-ANIMA
I LONGOBARDI E LE TITOLAZIONI A SAN MICHELE
L'ABBAZIA DI SAN PIETRO E SAN MICHELE DE' MONTI
MONTEDOMINI E ORSANMICHELE
LE TRADIZIONI MICAELICHE TRA IL XVII E IL XIX SECOLO
(...)


giovedì 8 ottobre 2015

Il mistero Gesù

Dove visse Gesù durante l’adolescenza e la maturità, prima di ricomparire, a trent’anni, sulla scena pubblica?
Quelle arcane vicende sono andate veramente così come le hanno narrate i quattro Evangelisti Luca, Marco, Matteo e Giovanni?
Il Cristo sopravvisse alla crocifissione?
Si recò sul serio nel lontanissimo Ladakh ove ancor oggi è visitabile la Tomba di Issa, un predicatore che proveniva dalla Terra Santa?
Che cosa è realmente la Sindone e come si è formata quell’immagine che ricorda il corpo inanime di un uomo?
Chi era quello sventurato “imitatore” di Gesù che rispondeva al nome di Simon Mago?
Chi erano, da dove provenivano – e soprattutto! – quanti erano i Magi che avrebbero portato i doni al Divin fanciullo?
Questo libro è una buona occasione per conoscere qualcosa in più sul personaggio che ha segnato la storia.


Il Golgota racconta. Nascita, «anni perduti», presunti miracoli e morte sulla croce di Gesù
di Roberto Volterri
Scipioni Editore   -  Valentano (VT)
128 pagine

sabato 3 ottobre 2015

“Massoneria e Mediterraneo”

trattoa da "L'Opinione" del 29 settembre 2015 (http://www.opinione.it/cultura/2015/09/29/fossati_cultura-29-09.aspx)

di Gianni Fossati

Vi sono libri che valgono per un titolo che definisce il loro contenuto con una chiarezza implacabile, “Massoneria e Mediterraneo” di Francesca Parisi a cura di Luigi Danesin è molto di più: un testo che approfondisce con rigore i rapporti dell’area del mediterraneo e dei Paesi che vi si affacciano. Un approccio particolare nel quale circola aria nuova e prospettive coraggiose ma reali, nonostante la complessità della materia, in un contesto spesso caratterizzato da un linguaggio che si attarda su considerazioni non sempre supportate da rigore scientifico.

Il libro, uscito in questi giorni per i tipi di Editoriale Programma, prende le mosse dalla felice intuizione del Prof. Franco Franchi già Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia convinto che al tramonto del secondo millennio fosse giunto il momento di rivolgere l’attenzione al Mare Nostrum per risalire alla nostra matrice comune. Questo anche il senso della prefazione di Luigi Danesin che non a casa annette particolare importanza all’Università intesa anche come luogo di formazione dei giovani e della classe dirigente.

D’altra parte ciò che contorna questo grande bacino chiuso in un “habitat” che ha dato origine a civiltà che costituiscono la base stessa della nostra cultura occidentale. L’autrice ha avuto la capacità di offrire al lettore un quadro sufficientemente ampio e diversificato del ruolo che la voce popolare e certa storiografia ha ignorato sul ruolo che la Massoneria ha svolto dal punto di vista geopolitico.

L’affacciarsi di espressioni puntuali riconducibili all’Unione Massonica del Mediterraneo come concreta azione delle Obbedienze Liberali che si affacciano su quelle sponde sembrano condividere la volontà di ricercare la dimensione utile per valorizzare il processo di globalizzazione e ricomporre un tessuto di civile convivenza tra nazioni che si riconoscono in una particolare identità.

Naturalmente non vi è che non veda come la situazione attuale renda utopiche alcune visioni dopo le speranze della Primavera araba che si è trasformata in una stagione di conflitti e di profonde inquietanti incertezze sul corso di una storia che troppo facilmente avevamo creduto avviata verso un progresso in termini di democrazia e diritti. Tuttavia, obiettivo dell’istituzione massonica è proprio quello di superare barriere altrimenti insormontabili.

In questo senso, il richiamo ad Alain de Keghel, già Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Grande Oriente di Francia, appare illuminante rispetto alle sfide del terzo millennio che sembrano quasi impossibili ma sorrette da Franz Kafka, uno dei tragici protagonisti del Novecento europeo: “La vita non cessa d’insegnare, suo malgrado, che non si può mai salvare qualcuno se non con una presenza, e con nient’atro”.

Il bacino del Mediterraneo è tutt’ora distante dall’essere una zona omogenea, esistono infinite disparità che marcano i due mondi e il lavoro da compiere è assai rilevante tuttavia,ancora una volta, come nella esperienza del XVIII secolo l’istituzione di squadra e compasso potrebbe rappresentare un punto di incontro privilegiato dove in nome della tolleranza potrebbero prendere corpo condizioni che consentono di elaborare progetti a misura d’uomo utili alla pacificazione dei popoli.

mercoledì 30 settembre 2015

Appunti per un articolo su Castel del Monte

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleoneblog.blogspot.it/2015/04/appunti-per-un-articolo-su-castel-del.html


Attraversato il portale, il percorso è praticamente obbligato. L’obbligatorietà del percorso, i giochi delle luci e degli accadimenti astronomici lo rendono assai simile ad un labirinto, anzi, lo rendono un labirinto. Labirinto nella sua accezione classica ossia unicursale al pari di quelli rappresentati in molteplici cattedrali e non solo. E nel labirinto, non solo la luce anche le ombre a ricorrersi, a creare una opportunità di scelta, una necessità nel cammino. L’ombra e la luce, destrutturate da ogni valenza morale, sono parte del percorso. Ed ecco che bisogna camminare sul bianco e sul nero, a memoria del massonico pavimento a scacchi, per giungere non alla meta ma solo al passo successivo. La meraviglia ed il senso ritornano forti, perché ad un certo punto, mentre si cammina e si sale bisogna sentire ed utilizzare i sensi quelli fisici e quelli dello spirito. E meravigliarsi di quanto è in noi di luce e tenebra. Ecco allora cosa potrebbe essere, tra le altre cose Castel del Monte un labirinto e in quanto labirinto mandala, in quanto mandala può rimandare allora ad un fiore e se fiore deve essere sia rosa. Se è rosa, non può che essere la Rosa, quella degli iniziati che da un lato genererà i filosofi Rosa+Croce e dall’altro rimanderà ai custodi del Graal. Graal che secondo alcune leggende qui sarebbe custodito.

Gioia – Salute - Prosperità

© Michele Leone

sabato 26 settembre 2015

Sindone, il «giallo» del rattoppo sfuggito agli esperti

tratto da "il Giornale" del 11-04-2009


di Redazione

Ventuno anni dopo la datazione al radiocarbonio, la Sindone di Torino, che l’anno prossimo sarà di nuovo esposta, rimane un mistero. Nessuno è in grado di spiegare come quella immagine si sia formata, e la stessa datazione al medioevo è stata messa in dubbio dalle più recenti scoperte scientifiche. Va in onda alle 18 di questa sera, su Retequattro (con replica domani, giorno di Pasqua, alle 9 di mattina), Il mistero della Sindone, un documentario che presenta con immagini esclusive e tridimensionali gli studi più accreditati sul lenzuolo che secondo la tradizione avvolse il corpo di Gesù rimasto per tre giorni nel sepolcro. Particolarmente interessante è l’intervista a Raymond Rogers, uno degli studiosi coinvolti negli esperimenti al radiocarbonio eseguiti nell’88, scomparso nel 2005 e fino a pochi anni prima convintissimo sostenitore della datazione medioevale. Rogers prima di morire pubblicò su una rivista scientifica e testimoniò in un video le sue ultime ricerche e il motivo che gli aveva fatto cambiare idea. Lo studioso ha potuto provare che proprio nell’angolo della Sindone da dove erano stati prelevati i tre campioni analizzati al radiocarbonio era stato eseguito, tra XIV e XV secolo, un rammendo. I risultati di Rogers sono stati confermati nell’agosto scorso da Roberto Villareal, del laboratorio di Los Alamos, che ha dimostrato come su quel campione di Sindone siano presenti fili di lino e di cotone intrecciati con l’aggiunta di una sostanza gommosa. Dunque la presenza di materiale molto più recente ha falsato l’esperimento, come attesta il documentario e come si può leggere nell’ultimo libro sull’argomento, Inchiesta sulla Sindone (Piemme) scritto dal vaticanista Marco Tosatti.

mercoledì 23 settembre 2015

Le porte degli inferi in Toscana

Dal principe degli etruschi al sommo poeta, luoghi e leggende della discesa nell'Averno

Sin dal tempo degli Etruschi le terre di Toscana e del nord del Lazio sono caratterizzate da una speciale familiarità con l’Inferno. Prima le antiche necropoli con le loro leggende e le loro immagini inquietanti, poi la letteratura dantesca e i suoi sviluppi romantici, hanno consolidato un rapporto che sembra distinguere l’identità toscana, la sua psicologia e il suo immaginario.
Al contempo queste suggestioni si sono concentrate su luoghi assolutamente reali: i numerosi ingressi agli inferi che gli antichi hanno creduto tali utilizzandoli per il loro visionari “andirivieni”.
Dagli orridi montani ai laghi vulcanici, dai borbottii delle pozze solfuree al silenzio delle foreste sacre, questa ricerca si propone di svelare la realtà antropologica del contatto tra Toscana e Inferno e, certo osando un po’, le modalità cultuali e insediative che resero possibile l’esistenza di questi passaggi.

Autore: Bernardo Tavanti
Copertina flessibile: 108 pagine
Editore: Press & Archeos (31 dicembre 2013)
Lingua: Italiano


domenica 20 settembre 2015

Il Santo Graal

di Ingrid H. Shafer



Le leggende del Graal rappresentano una fusione di elementi Cristiani e pre-Cristiani. Motivi comuni delle varie versioni della storia date da Chrétien de Troyes (ca. 1150-1190), Wolfram von Eschenbach (c. 1170-1220), ed altri, comprendono un castello magico, abitato dal castrato Re Pescatore, una vergine che porta il Graal, e un eroe maschile che ricerca il Graal. Il testo irlandese precristiano ''Adventures of Art, Son of Conn'' (Avventure di Art, figlio di Conn) già contiene la maggior parte dei temi della ricerca del Graal. Il Graal stesso è variamente identificato come una coppa luminosa, una boccia, un gioiello e (da Wolfram) una pietra, in grado di donare un'infinità di cibo e bevande. E' una fonte di giovinezza e salute, sorgente di saggezza e verità. Durante una visita con il dio Manannan, il re Cormac (figlio di Art) e la sua famiglia si trovano ad un tavolo coperto da una tovaglia che - all'improvviso - inizia a produrre cibi e bevande a volontà. Nella sua forma cristianizzata, il Graal è stato identificato con la coppa usata da Cristo durante l'Ultima Cena, il contenitore in cui il suo Sangue è stato raccolto da Giuseppe d'Arimatea, e la coppa eucaristica. Il re Pescatore è generalmente associato ad una lancia sanguinante (che lo avrebbe ferito), a sua volta collegata con la lancia del dio celtico Lug e con la lama che ha trafitto il fianco di Gesù in croce.

Riflettendo su questi motivi, Roger Sherman Loomis ha concluso che la tradizione del Graal è celtica in origine, poiché "viola le più elementari regole dell'etica e dei rituali cristiani", e per questo "non sarebbe sorta in ambienti cristiani". Per sottolineare il concetto, egli chiede: ''Come è possibile che una sacra reliquia, o anche solo una comune patena o un ciborio, possa essere affidata ad una amabile fanciulla, e non ad un prete o un sacrestano?"
Rispondendo alla sua retorica domanda, egli conclude: "Non c'è da meravigliarsi se la Chiesa non ha mai riconosciuto i romanzi del Graal come autentici, anzi, ha mostrato sempre sospetto per il loro background non molto ortodosso".

Ovviamente, la storia del Graal, particolarmente nelle sue origini celtiche e secondo la versione di Wolfram, si sposa bene con una teologia che insiste sull'assoluta mascolinità di Dio, l'inferiorità della donna e su una morale che esalta l'ascetismo sessuale. La moderna tradizione cattolica, tuttavia, esalta il ruolo di Maria come "Madre di Dio" (con un termine greco theotokos o "Portatrice di Dio"), e le sue caratteristiche materne, che in passato erano viste nella antica Magna Mater. Ed oggi, trent'anni dopo il II Concilio Vaticano, le donne possono servire come ministri eucaristici.

I modi di interpretare e descrivere il Graal sono molti e controversi; ciò può essere giustificato dal fatto che il tema del Graal cominciò a diffondersi durante il Medioevo, periodo di intenso fermento in fatto religioso e agitazione intellettuale. Il Graal è un potente simbolo che rappresenta insieme la fecondità femminile, la saggezza, la divinità. Non soltanto la portatrice del Graal è quasi sempre una giovane fanciulla, ma il Graal stesso contiene la luminosa immagine di un bambino su di sé o sopra l'ostia che vi è contenuta. Ci vuole un po' di immaginazione per vedere in questa immagine l'archetica connessione tra il Graal-grambo materno, e la storia cristiana dell'Incarnazione-Annunciazione, simboleggiata dalla coppa eucaristica. In questo contesto è interessante notare che Henry e Renée Kahane sostengono che Graal derivi dalla parola greca krater, concetto chiave per gli ermetisti.

E' sicuramente più di una semplice coincidenza il fatto che le leggende del Graal siano nate proprio in un periodo in cui i dibattiti più accesi dell'epoca concernevano il mistero dell'Eucarestia, una controversia che culminò nella promulgazione del dogma della transustanziazione del IV Concilio Laterano del 1215. Nella liturgia, l'Eucarestia diventa "Comunione", il sacro pane sacramentale, cibo spirituale nella forma di pane e vino. Questo sottolineò l'importanza dell'Incarnazione, e della presenza di Dio-nel-mondo, in contrasto con la posizione dei Catari, i quali sostenevano che il mondo e qualsiasi cosa in esso, compreso il matrimonio e la procreazione, erano il "male", e il corpo di Cristo soltanto un'illusione. Per loro. come nelle leggende l'importante era vedere il Graal, così anche solo assistere all'elevazione dell'Ostia consacrata aveva lo stesso effetto di grazia della partecipazione alla Comunione. Dopo una durissima persecuzione, i Catari (anche chiamati Albigesi) furono sterminati. Ironicamente, la loro dottrina dualista non si estinse completamente, ma influenzò la frangia Neo-Platonica dei cattolici con la sua visione negativa della vita e del mondo.

Tra le numerose versioni medievali della Ricerca del Graal, Mircea Eliade considerò il Parzival di Wolfram von Eschenbach come ''la più completa storia e coerente mitologia del Graal''. Eliade fu colpita in particolare dal fatto che deliberatamente Wolfram incluse numerosi motivi orientali, e fece ciò con molto rispetto. Wolfram sostenne che la fonte originaria del suo racconto era una saga Ebraico-Musulmana; il padre di Parzival visse per un po' di tempo in Africa, dove si sposò con una musulmana ed ebbe un figlio; questi viaggiò a lungo in Asia ed Africa; il fratello di Parzival sarebbe presto diventato il celebre prete Gianni, monarca Indiano.
In breve, Eliade nota che


[...] è evidente che il simbolismo del Graal dell'opera di Wolfram e dei suoi successori e lo scenario da loro dipinto, rappresenta una sintesi spirituale che va oltre i contributi delle diverse tradizioni. Dietro il suo interesse nei confronti dell'Oriente, si può intravvedere la profonda disillusione causata dal fallimento delle Crociate, l'aspirazione ad una tolleranza religiosa che avrebbe incoraggiato un avvicinamento al mondo dell'Islam, una profonda nostalgia di una "cavalleria spirituale" [...]


Nella tradizione celtica originaria, tuttavia, e nel racconto di Wolfram, l'amore umano e l'aspirazione alla sessualità sono trattati come valori positivi. In contrasto con il Galahad di Chrétien (che raggiunge il Graal attraverso una vita di ascesi e di rinuncia ai piaceri della carne, mantenendosi un cavaliere vergine - e proprio per questo considerato perfetto), Parzival raggiunge il Graal spirituale pur con la sua amata Condwiramurs. Wolfram considera l'amore nuziale come un misterioso ed potentissimo sacramento.

Inoltre c'è un preciso passo in cui si evidenzia che proprio tramite il suo amore coniugale Parzival diventa degno del Graal. Il ricordo di sua moglie Condwiramurs non solo lo sostiene nel suo vagabondare, ma la sua elezione a Re del Graal è immediatamente seguita da una notte d'amore con la sua Condwiramurs in una tenda della foresta. Wolfram scrive: ''Così, io credo, si prese piacere fino a mezzo il mattino. Da ogni parte l'esercito si fece da presso a guardare [...] Ora non era più tempo di dormire. Il re e la regina si alzarono. Un prete cantò la messa" (Wolfram 802). Dal passo pare ovvio che Wolfram consideri un atto d'amore tra il re e la regina come una valida ragione per ritardare la celebrazione. Qui, come in altre opere epiche, Wolfram rifiuta il fatto che la Chiesa sia la sola mediatrice tra Dio e l'umanità. Proprio questo anticlericalismo può spiegare l'insinuazione che Wolfram fosse in realtà un Cataro.

Così Wolfgang Spiewok, il traduttore tedesco, scrive nel suo commento: ''Wolfram trasforma l'amore romantico cortese (Minne) nel genuino amore coniugale: fondamento del matrimonio, che in questo trova compimento'' e, per Wolfram ''Dio non si incontra (come sostenuto da alcuni chierici) attraverso l'ascetismo e il rifiuto del mondo, ma attraverso le relazioni sociali vissute al servizio di Dio." Secondo Spiewok, è proprio questa visione non dualistica del mondo materiale l'elemento che assicurò a Wolfram una immensa popolarità delle sue opere durante i successivi secoli che precedettero la Riforma. Se Spiewok ha ragione, allora la storia raccontata da Wolfram rappresenta un antidoto popolare al prevalente dualismo del tardo Medioevo.

Fonte primaria:

Wolfram von Eschenbach. Parzival.
Fonti secondarie:

Eliade, Mircea. A History of Religious Ideas Volume 3: From Muhammad to the Age of Reforms. Trans. Alf Hiltebeitel and Diane Apostolos-Cappadona. Chicago: The University of Chicago Press, 1985.
Jungmann, Joseph A. The Mass of the Roman Rite: Its Origins and Development (Missarum Sollemnia). 2. Vols. Trans. Francis R. Brunner. Westminster, ML: Christian Classics, 1986.
Kahane, Henry and Renée. The Krater and the Grail: Hermetic Sources of the Parzival. Urbana: University of Illinois Press, 1965.
Loomis, Roger Sherman. Arthurian Tradition & Chrétien de Troyes. New York: Columbia University Press, 1961.
Markale, Jean. Women of the Celts. Trans. A. Mygind, C. Hauch and Peter Henry. London: Gordon Cremonesi, 1975.
Matarasso, Pauline M., trans. The Quest of the Holy Grail. New York: Penguin Books, 1984.
Matthews, John. The Grail: Quest for the Eternal. New York: Crossroad, 1981.
Neumann, Erich. Die Große Mutter: eine Phänomenologie der weiblichen Gestaltungen des Unbewußten. 1974. Olten: Walter-Verlag, 1985.
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Copyright © 1996, Ingrid H. Shafer.

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sabato 19 settembre 2015

MYSTERY IN HISTORY

Sabato 3 ottobre 2015 (ore 10:00) c/o Pacific Hotel Fortino, Strada Del Fortino, 36, Torino (TO), Piemonte, Italia


La Yume Edizioni è lieta di invitarvi a "MYSTERY IN HISTORY R. Primo convegno sui misteri nella storia", che avrà luogo in data 3 ottobre 2015 presso il Pacific Hotel Fortino, Strada del Fortino 34/36 Torino, dalle ore 10 alle ore 18. Il convegno è l'occasione per affrontare da un punto di vista originale vari temi storici, per scoprire come anche in accadimenti passati, lontani da noi nel tempo e in alcuni casi nello spazio, siano ancora presenti dei punti non chiari, delle sfumature di sicuro interesse che coinvolgono la nostra cultura fin negli strati più profondi, e che hanno modificato il nostro stile di vita con gesti e tradizioni di cui magari non conosciamo l'origine. Con il consueto stile rigoroso degli studiosi che da sempre collaborano con noi, affronteremo un viaggio trasversale che dagli etruschi passa per la stregoneria per approdare alla prima guerra mondiale, con un'attenzione ai dettagli, alla documentazione e al controllo delle fonti che evita di cadere in facili sensazionalismi. Perché la storia del nostro mondo riserva più misteri di quelli che pensiamo, senza doverli inventare. La partecipazione al convegno è libera previa adesione e gratuita. Il pranzo in hotel è facoltativo, si terrà dalle 13,00 alle 14,00, e sarà composto di due portate, dolce e caffè a euro 25,00 cadauno. Deve essere necessariamente confermato entro il 15 settembre. In alternativa, nei pressi dell'Hotel ci sono numerosi punti di ristoro. La prenotazione può essere effettuata via mail all'indirizzo info@yumebook.it o, a partire dal 1 settembre, al numero di telefono 0110143030.

venerdì 18 settembre 2015

Scoperti in Siria tumuli furerari del III millennio a. C.

Riportiamo un articolo di solo qualche anno fa, già ripreso dal nostro vecchio sito. Chissà ora com'è la situazione.

Tratto da Libero del 17/12/2009

Scoperti in Siria tumuli furerari del III millennio a. C.

Nella Siria centro-occidentale gli archeologi delle università di Udine e Milano e della Direzione generale delle antichità e dei musei di Siria hanno portato alla luce quattro tumuli funerari monumentali della seconda metà del III millennio a.C., il più grande dei quali ha 17 metri di diametro.
La scoperta è avvenuta durante la terza campagna di ricerche congiunta della missione italo-siriana nel deserto della Palmirena. Le tombe fanno parte della grande necropoli di Rujum al-Majdur, costituita da una ventina di tumuli, scoperta nel 2008 vicino all'oasi di Palmira. Nella stessa area, nel corso dell'ultima campagna, gli archeologi hanno anche identificato quattro enormi trappole per l'abbattimento in massa di branchi di gazzelle, la cui costruzione precede l'utilizzo del sito a scopo funerario.
a missione archeologica italo-siriana intende ricostruire l'occupazione umana nella regione dell'oasi di Palmira, nonché il clima, l'ambiente naturale e la loro evoluzione fra la preistoria e l'epoca moderna. Si tratta di un territorio, ora desertico, mai studiato in maniera sistematica soprattutto per quanto riguarda i millenni che precedono l'epoca ellenistica e la grande fioritura di Palmira come città carovaniera in età romana.
L'utilizzo di tumuli funerari per le sepolture degli esponenti più influenti di queste comunità tribali indica l'esistenza di riti funerari, e soprattutto di un simbolismo che individuava probabilmente alcuni membri dei gruppi pastorali, per promuoverli nella limitata cerchia degli antenati della comunità, da qui la necessità da parte della comunità dei vivi di raccogliersi attorno ai monumenti funerari.
I tumuli di Rujum al-Majdur e della Palmirena occidentale rappresentavano - si pensa - anche dei marcatori del territorio tribale lungo le vie carovaniere internazionali.

giovedì 17 settembre 2015

Dèi del cielo, dèi della Terra di Giorgio Pastore

Dèi del cielo, dèi della Terra è un viaggio alla scoperta di noi stessi, attraverso l’analisi di antichi miti e leggende, che ci raccontano di un mondo precedente il nostro, sepolto dalle sabbie del tempo. Come nacque la vita sulla Terra? Come nacque l’uomo? E, perché questi è così diverso da tutti gli altri esseri viventi di questo pianeta? Queste sono solo alcune delle domande alle quali in questo libro si cercherà di rispondere, risalendo a ritroso nel tempo, per giungere su Atlantide, il mitico continente sommerso in una sola notte, in un’era nella quale gli dèi parlavano ancora agli uomini. Queste stesse divinità, sopravvivono nel tempo, in tutte le tradizioni del mondo antico. Muta il loro nome, ma non il loro volto. Sopravvivono negli antichi miti dei popoli, nei sabbiosi reperti archeologici, in meravigliose tracce che lo studioso moderno segue, nella speranza di scoprire la verità sull’uomo e sulla sua genesi. È nostro dovere conoscere chi siamo, indagare il passato alla ricerca delle nostre origini e delle risposte alle domande che pesano da millenni sull'odierna civiltà. L’umanità di oggi è il risultato di una lunga evoluzione che potrebbe trovare il suo inizio in un paradiso terrestre reale, divenuto un mito solamente in seguito. I sacri testi dell’umanità, i miti e le leggende che sempre nascondono un fondo di verità, ci narrano di un mondo ancestrale, fantastico, prodigioso e per molti aspetti incredibile. Esseri divini, creatori dell’umanità, visitavano il mondo a bordo di meravigliosi carri celesti, gli stessi oggetti volanti non identificati che, secondo alcuni ufologi, ancora oggi solcano i nostri cieli. In molti antichi testi e in preziosi manufatti sopravvissuti fino ai giorni nostri, ritroviamo straordinarie cronache di un passato ormai dimenticato, che attende ancora di essere svelato. Quando ne saremo in grado, potremo dare un nome a tutti quei reperti “impossibili” presenti nei musei, agli anacronismi scoperti dagli archeologi, a civiltà ancora senza volto, ai costruttori delle piramidi o di altre meraviglie simili, ma questo cammino si presenta ancora lungo e tortuoso. Questo libro vuole essere un contributo, un ulteriore passo verso la verità, un traguardo sempre più difficile da raggiungere, perché più soli sorgono, più lune crescono, più sono le cose che l’uomo dimentica. Già molto è andato perduto. Non lasciamo che i detriti del tempo che scorre impetuoso coprano le ultime tracce di questo prezioso passato, solo così potremo avere una visione completa del nostro essere, solo così, svelando il mistero delle nostre origini, potremo plasmare, concepire e dare un senso al nostro futuro, evitando di ripetere i medesimi errori che in un remoto passato furono la causa del tramonto di intere civiltà.