di Giorgio Borroni
L’Uomo Selvatico ha fatto la sua comparsa sin dalle culture più arcaiche, rivestendo con più o meno sfaccettature il ruolo dell’opposto, del contrario, che si ribella ad un sistema di regole che gli uomini di una determinata comunità si sono dati al fine di sceglierne uno più vicino all’animalità e alla natura; lo stesso aggettivo “selvaggio” o “ selvatico” identifica qualcosa di non addomesticato, incontrollabile e violento, (se riferito ai luoghi) impervio e inaccessibile, rozzo, che non ha a che fare con la civiltà urbana, contrapposto alle regole e soprattutto privo di controllo e di ragione.
Hayden White, in The forms of wildness ha fatto un’interessante comparazione tra la concezione di Uomo Selvatico degli ebrei, degli antichi greci e quella dei primi cristiani: sebbene vi siano alcune differenze di fondo, ciò che emerge è una sorta di opposizione, più o meno negativizzata o riguardante principi morali, tra i cosiddetti uomini “civilizzati” e quelli “selvatici”; ciò che risulta da tale analisi è che il pensiero ebraico, che vede il Selvatico come una sorta di frutto di stirpe maledetta, ha la controparte nella cultura dell’antica Grecia, in cui esso era alla stregua di proiezione della paura della possessione demonica. In entrambe le culture la mente del Selvatico viene descritta o identificata con la follia e la depravazione, sebbene gli ebrei, al contrario degli antichi greci, tendano a dare un significato morale alle caratteristiche fisiche: in altre parole, la civiltà ebraica era incline a identificare attributi esterni come la manifestazione di quelli interiori e questa tendenza si riversò anche in futuro nei processi mentali dell’uomo occidentale.
Secondo White, queste condizioni che designeremmo con i termini di ferinità, insania o crudeltà furono tutte ideate dagli antichi ebrei per essere aspetti della stessa condizione morale malvagia. La relazione tra la condizione di grazia e quella di ferinità è perfettamente simmetrica: colui che è nello stato di grazia prospera e la sua condizione è riflessa nel benessere e nella salute, nel numero della prole, la longevità, e l’abilità di produrre. Il maledetto, invece, si corrompe e girovaga in luoghi aspri, deforme, violento, e la sua animalità, la sua bruttezza e la violenza sono prove della sua maledizione.
Gli Uomini Selvatici archetipi del Vecchio Testamento sono i grandi ribelli contro il Signore, coloro che sfidano Dio, gli anti-profeti, giganti, nomadi come Caino, Ham e Ismaele, proprio quei particolari “eroi” che, nella mitologia e nelle leggende della Grecia, avrebbero avuto un posto d’onore al fianco di Prometeo, Odisseo ed Edipo. Come gli angeli che si ribellarono contro il Signore e vennero scaraventati giù dal cielo, questi sono ribelli nei confronti del Signore e si potrebbe dire che continuano senza freno a commettere il peccato di Adamo. […] essi sono dipinti come Uomini Selvatici che abitano una terra selvatica, sopra a tutti come cacciatori, seminatori di confusione, dannati, e generatori di razze che vivono nell’ignoranza irrimediabile o nella violazione delle leggi che Dio ha stilato per governare l’universo. La loro progenie sono i bambini di Babele, di Sodoma e Gomorra, una razza conosciuta per la sua corruzione. Ci sono uomini caduti al di sotto della stessa condizione di animalità; ogni uomo è contro di loro ed in generale (Caino è una notevole eccezione) possono essere uccisi impunemente.[2]
Questa forma mentis nei confronti della diversità dell’essere Selvatico rappresentò anche il seme per la concezione di “inquinamento” della stirpe e delle razze, con tutto quello che poi è conseguito nel pensiero occidentale nel corso delle epoche.
White continua la sua analisi descrivendo il concetto di ferinità che si era venuto a creare in epoche successive:
I pensatori medievali, così come quelli degli antichi romani, concepivano sia i barbari che gli Uomini Selvatici come schiavi della natura, come, similmente agli animali, schiavi del desiderio e incapaci di controllare le loro passioni; come volubili, mutevoli, confusi, caotici; incapaci di una esistenza sedentaria e di auto-discilplina […] e ostili alla umanità “normale”[…].
Sebbene sia i barbari che gli Uomini Selvatici fossero supposti condividere queste qualità, una importante differenza rimase irrisolta tra loro: l’Uomo Selvatico vive sempre da solo, o al massimo con una compagna. Secondo il mito che prende forma nel Medioevo, l’Uomo Selvaggio è incapace di assumere le responsabilità di padre e se la sua compagna ha bambini, essa li abbandona nel luogo in cui li partorisce […]. Il Selvatico è convenzionalmente rappresentato come […] abitante degli immediati confini della comunità, è lontano dalla vista, sull’orizzonte, nella foresta vicina, nel deserto, le montagne o le colline. Egli dorme negli anfratti, sotto grandi alberi, nelle caverne degli animali selvaggi in cui porta bambini indifesi o donne per fare loro cose indicibili. Egli è pure scaltro: ruba le pecore dal recinto, i polli dal pollaio, beffa i pastori […]. Specialmente nel mito medievale l’Uomo Selvatico è detto essere coperto di peli, nero e deforme. Può essere un gigante o un nano oppure orribilmente sfigurato […]. Ma in qualunque modo egli è raffigurato, l’Uomo selvatico rappresenta sempre l’immagine dell’uomo uscito dal controllo sociale, l’uomo su cui gli impulsi della libido hanno raggiunto una piena ascendenza.[3]
La concezione negativa dell’Uomo Selvatico come schiavo delle sue pulsioni dette però origine, nel Medioevo, anche ad un altro tipo di considerazioni su di esso che lo identificarono quale simbolo dell’evasione da un sistema sociale chiuso e rigido: forse è questa una delle ragioni principali del suo successo o della sua presenza quasi obbligata nell’ambito delle feste di piazza; White, infatti, sostiene che, nel Medioevo cristiano, il Selvatico era una sorta di distillato delle specifiche ansietà che giacevano al disotto delle tre sicurezze date dalle istituzioni cristiane della vita civilizzata: questi principi si traducevano nella “sicurezza del sesso”, ovvero nell’istituzione della famiglia, nella “sicurezza del sostentamento”, provveduta dalle istituzioni sociali, politiche ed economiche, e la “sicurezza della salvezza”, data dalla religione.
L’Uomo Selvatico non gode di nessuno dei vantaggi del sesso civilizzato, né di una regolarizzata esistenza sociale, né della grazia istituzionalizzata. Ma, deve essere sottolineato, nell’immaginario dell’uomo del Medioevo, egli non soffre di nessuna delle imposizioni richieste dall’appartenenza a queste istituzioni. Egli è l’incarnazione del desiderio, possedendo la forza, l’astuzia e la furbizia per dare piena espressione alla sua lussuria. La sua vita è instabile come il suo carattere. Egli è un ghiotto, mangia per soddisfarsi un giorno e muore di fame il successivo; è lascivo e promiscuo, senza essere conscio di cosa sia il peccato o la perversione (e per questo motivo privato dei piaceri dei più sofisticati vizi[4]). La sua forza fisica e la sua agilità sono concepite in modo da sopperire alla diminuzione della sua coscienza.
Nella maggior parte delle credenze medievali sull’Uomo Selvatico, egli è forte come Ercole, veloce come il vento, astuto come il lupo e perverso come la volpe. In alcune storie questo essere imbroglione è tramutato in una sorta di saggezza popolare che lo rende un mago[5] o alla fin fine un creatore di confusione.[6]
Nell’ambito della concezione del vivere al di fuori degli schemi o di ogni regola e dello stato di ferinità rispetto a quello di civiltà, vennero accentuati, così come il carattere e le abilità, anche i tratti fisici: secondo la tradizione popolare il Selvatico è infatti irsuto o vestito di pelle e la sua arma caratteristica è una grossa clava o, in alcuni casi, un tronco d’albero sradicato come simbolo della sua forza spropositata.
Riguardo al suo carattere, in alcune tradizioni come quella della mitologia alpina, il modo di vivere del Selvatico è visto come letteralmente e totalmente “opposto” a quello dell’uomo civilizzato, così, questo personaggio è detto essere
[…] triste per il bel tempo e felice per il maltempo e per questa sua caratteristica è divenuto emblema, nella poesia cortese delle origini, dell’amante speranzoso nonostante la ritrosia dell’amata.
Fé com’omo selvaggio veramente / quand’ha rio tempo, forza lo cantare / co lo sperare / ca ‘l buon venga, ch’abassi sua doglianza; Con sì dolce parlar e con un riso / da far innamorare un uom selvaggio (C. Davanzati)[7].
Un altro modo di manifestare l’opposizione con il mondo civilizzato da parte del Selvatico è il suo essere depositario di conoscenze culturali dispensate ab origine agli uomini, che si possono tradurre ad esempio nel detenere il segreto dell’arte casearia o di quella della caccia: ed in questi casi spesso e volentieri, nel mito, si ha il contatto tra la cultura civilizzata e quella che segue la natura quando gli uomini civili imparano determinati segreti dal loro opposto; un simile tratto non può certo non ricordare, come già accennato da White nel suo saggio, una figura come quella di Prometeo, sacrilega ed innovatrice allo stesso modo, e forse capace di raggiungere una conoscenza di tipo diverso proprio grazie alla sua stranezza ed al suo modus vivendi al di fuori della norma:ciò è quanto di più simile allo status ambiguo del pazzo, la cui insania di volta in volta viene interpretata come la manifestazione del male ( ad esempio dettata da una possessione demoniaca) o come una sorta di stato di grazia, in cui la “sragione” diviene lo specchio inscindibile della ragione e sinonimo di verità altrimenti inespresse.[8]
Anche il Selvatico non si sottrae a queste apparenti contraddizioni ideologiche e diviene, a seconda delle epoche e delle occasioni, simbolo della malvagità, della ricerca di libertà o paradossalmente dell’innocenza, oppure, proprio come il pazzo, dispensatore di un tipo di saggezza “altra” che può essere molto utile all’uomo civilizzato (anche se la scienza di quest’ultimo in assai pochi casi è conveniente per i Selvatici).
L’Uomo Selvatico, al pari del pazzo e specialmente nella cultura del Medioevo, attraverso la sua stranezza rappresentava allo stesso modo il pericolo di un allontanamento dalle istituzioni civilizzate, con il suo aspetto bizzarro ed il suo modo di vivere animalesco, ma anche una sorta di traguardo irraggiungibile ed affascinante per evadere dalla chiusura della società.
Non è possibile quindi dare un valore totalmente negativo o totalmente positivo ad una tale figura che si collocava sempre in uno status di ambiguità: è però possibile considerarlo al pari di un elemento chiave di più di una cultura che riassume in sé la condizione dell’opposto, del reietto, e con tutti i limiti ed i pregi delle sue stranezze amplificati in caratteristiche sovrumane, o al di fuori di qualsiasi logica del vivere “civilizzato”, volte ad esaltare ora il lato più negativo , ora quello più positivo (a seconda che incutesse terrore o curiosa ammirazione nei “civilizzati”); questo il motivo per cui, in determinate opere letterarie, il Selvatico compare spesso in contrapposizione con personaggi legati alla società civilizzata o come metafora stessa dello stile di vita naturale selvaggio: si può dire che, in alcuni casi, sebbene determinati personaggi non siano dei veri e propri “Selvatici” tendono (a causa del loro stile di vita improntato sulla natura o semplicemente “ribelle”) ad assumere tratti propri dell’Uomo Selvatico, quasi a simboleggiare una sorta di schieramento o a richiamare una determinata condizione o uno status sociale di outsider.
Un vero e proprio Uomo Selvatico di epoca antica è presente nell’epopea di Gilgamesc, dove la descrizione del selvaggio Enkidu, aspro e dai capelli come quelli di una donna non lascia dubbi sugli elementi comuni a molti altri “Selvatici” mitologici e letterari:
[Enkidu] era coperto di pelo arruffato come quello di Sumuqan , dio del bestiame. Era ignaro dell’umanità, nulla sapeva della terra coltivata. Enkidu si pasceva dell’erba sulle colline assieme alle gazzelle, con le bestie selvatiche si appostava presso le pozze d’acqua; dell’acqua gioiva in compagnia di branchi di animali selvatici[9].
Anche in Daniele (4,22-30) un personaggio come Nabuconosor viene presentato con le caratteristiche più ricorrenti degli Uomini Selvaggi, essendo detto abitare con le bestie e le fiere e cibarsi di fieno come i buoi (un’assimiliazione estrema allo stato animale); riguardo all’aspetto fisico il suo corpo è coperto completamente di peli, mentre al posto delle unghie è munito di artigli. Nella Genesi (25,25), invece, Esaù, che letteralmente significa “mantello di pelo”, è detto essere ricoperto di peli rossicci sin dalla nascita.
Riconducibili al modello dell’Uomo Selvatico sono poi, nell’ambito della mitologia antica,
[…] gli esseri silvestri, spesso divinizzati e considerati profondi conoscitori dei misteri della natura. Il loro ambiente era il bosco o la foresta, e in questi ambienti trovarono una naturale amplificazione delle loro potenzialità innate, traendo ulteriori elementi significanti che hanno condizionato le riletture in chiave folklorica […]. Queste antiche divinità della natura sono state dunque chiamate in vari modi e dalla loro primitiva posizione sono lentamente decadute, vittime del vortice demonizzante ed esorcizzante del Cristianesimo. Il protagonista indiscusso, il predecessore assoluto dell’Uomo Selvaggio, da cui trovarono origine successive varianti e trasformazioni, è il dio Pan. Divinità dei pastori e delle greggi, quasi una sorta di antropomorfizzazione della natura. […] Il nome [Pan] deriva probabilmente da paon (colui che pascola), ma nella mitologia è anche chiamato sporcaccione dal pelo lucido […]. L’uomo-capro, con la sua inarrestabile sessualità, simboleggia la forza generatrice della natura[10], che nelle corna trova un ulteriore elemento per sottolineare la sua innata potenza virile.[11]
In ogni caso anche i satiri ed i centauri presentano dei tratti e attitudini simili al dio capro e anch’essi possono a buon diritto essere identificati come antecedenti del Selvaggio.
Passando in rassegna anche la letteratura pre-rinascimentale e rinascimentale, è possibile trovare il Selvatico in opere come il Dittamondo di Fazio degli Uberti (Come s’allegra e canta l’uom selvatico / quand’il mal tempo e tempestoso vede sperando nello buono, ond’egli è pratico.[12]) e nell’ Innamorato del Boiardo […]. Anche il epoche successive il selvatico sembrò essere oggetto di studio o di semplice curiosità, infatti nel 1667 il gesuita Scotto, nella sua Physica curiosa gli dedicò un capitolo intitolato De hominibus sylvestris ac pilosis; quest’opera fu probabilmente utilizzata come modello da Linneo, forse l’ultimo studioso a soffermarsi su tale materia, nel suo Homo sylvestris del Systema naturae: questi studi contribuirono a mantenere vivo per un certo tempo l’interesse per il Selvatico e a condizionare l’immagine collettiva, producendo miti ancora oggi molto diffusi, per utilizzare le medesime parole di Massimo Centini.
Non esistono prove a sufficienza per ipotizzare una parentela fra il mito dell’Uomo Selvatico e quello del guerriero berserk, anche se le somiglianze fra le due figure sono notevoli: entrambi hanno atteggiamenti animaleschi, se l’uno tende a comportarsi come un orso l’altro spesso viene confuso con esso, entrambi generalmente vivono isolati nei boschi e nelle foreste o lontano dalle comunità e sono dei reietti, il berserk a causa dell’irrefrenabile furia (che in frequenti tradizioni è attribuita anche al Wild Man), l’altro a causa del rifiuto dello stile di vita “civilizzato”; infine, entrambi sono sinonimo di follia. Una somiglianza, come è già stato ribadito, non dimostra una stretta parentela, ma può comunque essere una caratteristica appartenente ad un medesimo background culturale: quello del paganesimo nordico.
Sebbene Massimo Centini abbia tentato un avvicinamento fra il travestimento da animale totemico da parte dei berserk e particolari mascherate medievali a scopo ludico da Wild Man o proprio da orso, la direzione verso cui si può trovare più materia di approfondimento è orientandosi secondo l’analisi attuata dallo stesso autore di una tradizione mitologica e folcloristica diffusa nel nord Europa, tradizione che vede fra i suoi protagonisti proprio il Selvatico: “la Caccia Selvaggia” o “Infernale”; si tratta di
[…] una battuta molto rumorosa a cui partecipano esseri soprannaturali (Uomo Selvatico, Orco, streghe, folletti, demoni, ecc.) o fantasmi. In questa terribile orgia di rumori e di ferocia le leggende nordiche (in Italia la tradizione è viva in tutto l’arco alpino, in particolare però nella fascia centro-orientale) pongono anche cani ferocissimi e diabolici che con gli altri partecipanti rincorrono delle prede sconosciute. Imbattersi in tale orda può essere pericolosissimo, ma gli effetti dell’incontro variano in regione della provenienza del mito. In Inghilterra tale caccia è chiamata The Wilde Hunt , Sluagh in Scozia, Wütende heer in Germania , Chasse Arthur in Francia Struggele selvaggia , in Svizzera. Le leggende italiane ricordano la Caccia morta , la Caccia del diavolo (Lombardia), il Corteo della Berta , Casa dei canett (Piemonte) , la Cazza selvadega (Trentino), Kasa selvàdega (Valsassina). […] Dalla Caccia Selvaggia hanno trovato origine e attinto apporti anche altre tradizioni, come la processione delle anime, la discesa dell’Uomo Selvatico (e la sua conseguente cacciata) il volo notturno delle streghe (qui esiste anche una connessione con il Corteo di Diana). Il Cristianesimo trasformò il mito della Caccia Selvaggia, interpretando l’orda di cavalieri pagani lanciati nella sfrenata corsa come anime dannate senza pace. [13]
Una traccia significativa di questo mito, rivisto naturalmente in chiave cristiana, si può ritrovare anche nel Decameron di Boccaccio nella novella 8 della giornata V, in cui Nastagio degli Onesti è diretto testimone di una Caccia Infernale (a scopo espiatorio) da parte di un oscuro cavaliere che insegue lo spirito della donna che aveva amato in vita.
Nell’ambito del mito, nell’area culturale germanico-tirolese, si verifica la fusione della figura del Wodan, signore della guerra, e il Wilder-Mann, una creatura molto vicina all’Uomo Selvatico delle leggende alpine.
L’essere assume caratteristiche eterogenee: da eroe culturale positivo a malvagio nemico dell’uomo; in genere si dice che si muova solo di notte[…]. Nel periodo delle dodici notti sante, le notti tra il Natale e l’Epifania, il Wilder-Mann cavalcherebbe con una muta di cani ferocissimi, rubando i bambini e causando sempre vittime fra quanti hanno la sfortuna di incrociarlo con la sua orda.[14]
Centini prosegue la sua indagine elencando altri Selvatici dalle caratteristiche affini nelle tradizioni popolari della Valsassina e della Val Ferina, con il suo Bilmon a capo della Caccia.
In genere, però,
L’uomo Selvatico in quasi tutte le vicende raccolte non è mai il protagonista della Caccia Selvaggia, e quasi sempre si limita a parteciparvi occupando una posizione periferica e comprimaria. Va ancora detto che in casi del genere la maschera del selvatico è molto complessa da decodificare, e pertanto è difficile isolare questa figura da tutte le molteplici influenze mitiche individuabili nella genesi del suo sviluppo simbolico.[15]
Il mito della Caccia Selvaggia, però, tradisce anche nelle sue versioni italiane una sorta di parentela con la religione pagana nordica: infatti, frequentemente, secondo le credenze popolari la battuta degli esseri sovrannaturali è posta in relazione alle violente manifestazioni atmosferiche (vento, temporale, tempesta, ecc.), ricordando molto da vicino il mito germanico in cui Odino, durante le tormente o i temporali, cavalcava il suo destriero nel cielo insieme alle anime dei guerrieri morti.
Sebbene lefantasie e superstizioni popolari o la religione cristiana abbiano contribuito alla sostituzione degli spiriti dei guerrieri inquieti con le anime dei morti senza pace, il sostrato pagano delle aree nordiche è ben delineato, di conseguenza esso è andato ad amalgamarsi con le remote leggende sul Wild Man o ha contribuito alla loro evoluzione mediante l’aggiunta di particolari.
Il motivo della Caccia Selvaggia […] conobbe nel periodo feudale uno sviluppo senza precedenti, il che contribuì a diffonderne l’eco ben oltre i confini della mitologia germanica in cui era riposta la sua genesi.[16]
Oltre al sostrato pagano presente nelle leggende sul Wild Man come quella della Caccia Selvatica, bisogna aggiungere che esso è presente anche in importantissime manifestazioni popolari che hanno un’origine precristiana: le feste di piazza ed il Carnevale.
Si parlerà più diffusamente in seguito dell’importanza delle feste di piazza nel Medioevo e nel Rinascimento, in questa sezione verrà mostrata solo la centralità del Wild Man in tali occasioni ed il suo significato.
Il Selvatico nell’ambito del Carnevale è un personaggio piuttosto frequente, in Italia soprattutto nelle alpi orientali ed è una maschera ombrosa ed a tratti indecifrabile nel suo ruolo allo stesso tempo comico e drammatico: una creatura temuta ma vinta, essere da schiacciare dal nucleo civile, o addirittura da sopprimere.
[Ad esempio, in Val di Fiemme,] il rito-spettacolo della battuta si pone sul modello dell’Uccisione del Carnevale, che in pratica costituisce la formula ricorrente in numerose tradizioni analoghe. […]
Le connessioni sono comunque moltissime e possono essere scorte in un ampio complesso di tradizioni che dal Chiarivari giungono alla danza delle corna di Abbats Brohley (Staffordshire) , fino alle tante tradizioni note come Feste dei pazzi. Nelle valli tirolesi, le maschere del Wilder-Mann e più raramente della Wilder-Frau sono inserite nelle tradizioni carnevalesche. […] L’essere non umano, dotato di una propria indipendenza ed eletto a sovrano, quasi divinizzato, viene, all’interno delle feste celebrato e poi immolato secondo una tradizione diffusa e ricorrente. Tra le feste della Germania vi era quella chiamata Espulsione dell’Uomo Selvaggio: in tale occasione un giovane veniva vestito con foglie e muschio e, alla fine di un preciso iter processionale, fuggiva nel bosco dove si nascondeva. Il giorno successivo si costruivano alcuni fantocci che ricordavano la maschera del Selvaggio e quindi si annegavano nel fiume. Secondo la psicoanalisi junghiana in questa tradizione sarebbe possibile scorgere l’affioramento della parte primitiva, inferiore: l’inconscio del suo aspetto pericoloso definito Ombra.
Esiste comunque un’archeologia della maschera del Selvaggio, di cui si possono individuare le radici più profonde già nell’arte del Paleolitico: ne abbiamo un esempio problematico nella pittura che raffigura un uomo-cervo[17] nella grotta dei Trois Frères, in Francia [18].
Centini nota che la figura del Selvatico legata a entità diaboliche o negative ricorre molto nei carnevali alpini, ma è singolare constatare come questo collegamento all’interno del rituale della festa non trovi riscontro nelle fonti orali, dove il Wild Man nell’espressione della sua negatività non va oltre il modello del Trickster;, dato che nella maggior parte dei casi è visto come eroe culturale e dispensatore di nuove conoscenze.
L’importanza del Selvatico nell’ambito della festa sin dall’antichità è testimoniata in importanti eventi riportati nelle cronache; a Parigi, nel 1431 presso il ponticello di Saint-Denius venne realizzato un vero e proprio bosco dove Uomini e Donne Selvagge giocavano, mentre nel 1486, in occasione dell’entrata di Carlo VIII a Troyes, furono utilizzate cento libbre di canapa per gli abiti di ventiquattro Uomini Selvatici che si esibivano gettando erba di fronte al re. Enrico II, invece, nel settembre del 1548, al momento di entrare a Saint-jeanne-de-Maurienne, ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte ad un gruppo di uomini travestiti da orso in maniera così realistica da destare meraviglia; il gruppo scortò il re fino dentro città in una sorta di “trionfo silvestre” e i finti orsi si esibirono in danze e balzi intrattenendo il sovrano.[19]
Come già notato a proposito delle Soties francesi, nonostante determinate feste all’inizio si svolgessero con il benestare dell’autorità e della Chiesa (che inizialmente ne tollerava gli eccessi), in sostanza esse rimanevano pur sempre reminescenze legate al mondo pagano e per questo considerate dalle alte sfere ecclesiastiche molto pericolose.
Sappiamo che queste manifestazioni pagane, come le feste delle calende, quelle dei pazzi, fino al laicissimo Chiavariri, furono considerate esperienze demoniache , movimento rituale blasfemo che poneva in relazione le istanze umane con le adulazioni di Satana. Nella maschera c’è quindi la metafora diabolica, che con la falsificazione della naturalità, cerca di abbattere i principi del bene, fondati sulla verità e sulle sue prerogative. Per risalire alle cause che condussero all’abbinamento maschera/fantasma/diavolo, non è sufficiente appellarsi alla questione etimologica [ che riconduce il termine di origine germanica “masca” a sinonimo di “stria” o “striga”]. Esistono infatti motivazioni più profonde, dovute sostanzialmente alla paura insita nell’uomo per quanto si nasconde dietro una raffigurazione che occulta l’aspetto primitivo dell’essere. La demonizzazione del travestimento andò accentuandosi in seno al cristianesimo delle origini, quando la maschera fu collegata al diavolo e ala sua capacità di mutarsi continuamente nei tentativi di traviare gli uomini.[…] La maschera animale, penetrando nel folklore, diventava segno del rinvigorirsi del paganesimo in seno alle tradizioni popolari che, nell’ottica della chiesa medievale, erano un autentico ricettacolo del demonio.[20]
Le tracce di paganesimo che erano evidenti nelle feste di piazza ed in qualsiasi credenza sul Selvatico finirono quindi essere l’oggetto di disapprovazione della Chiesa, che, […] cercò in tutti i modi di gettare sul Wild Man un’immagine negativa, in modo che, nell’ambito della festa, dall’avere un ruolo simile a quello di un fool del mondo naturale, esso finì sempre più per essere identificato come il Diavolo che presiede il Sabba.
Era già accaduto in passato che figure silvestri come Pan finissero a “prestare accessori” iconografici ai mille volti del Maligno, e neanche il Selvatico di sottrasse a questo destino:
Ad esempio nel 1233 papa Gregorio IX promulgò una bolla in cui si diceva che nelle riunioni sabbatiche Satana normalmente si presentava come un uomo coperto di peli con caratteristiche riconducibili al Wild Man tedesco. […] La connessione dell’Uomo Selvaggio con il diavolo trova ancora origine nelle figure silvestri, primarie protagoniste all’inferno di un mondo senza leggi, di godimento e di sfrenata selvatichezza. L’aspetto fisico della divinità boschiva [come il dio Pan,] è certamente legato all’iconografia infernale cristiana e […] presenta tutta una serie di legami con l’immagine ricorrente dell’essere silvestre descritto nella tradizione popolare. Il male eterno trova nella creatura selvatica un rifugio adatto, perché mediante il corpo non più umano ottiene un’estensione delle proprie capacità di azione che a quel punto diventano concretamente temibili per l’uomo. L’associazione silvestre-demonio è d’altronde comprovata nell’ambito cristiano dalla descrizione dell’indemoniato di cerasa da parte di Luca [( 8,27)]:
un uomo posseduto dai demoni. Da molto tempo non portava vestiti e non abitava in una casa ma tra i sepolcri. [21]
Anche l’arte medievale, nel rappresentare i diavoli dell’inferno, ha attinto molto all’immaginario popolare e folcloristico facendo in modo che i demoni fossero modellati sull’aspetto del Wild Man, calcando la mano ulteriormente sugli spiriti pagani dei boschi. Una strategia simile non poteva non ripercuotersi anche nelle opere letterarie.
Nella Storia Ecclesiatica [(Lib. XIII)], Oderico Vitale descrive la tradizione del corteo dei dannati e dei demoni, che nelle notti oscure come un turbine attraversavano boschi e campagne […]. A capo dell’orda , l’Uomo Selvaggio, qui chiamato Herlechinus , da cui prenderà forma la ben nota maschera di Arlecchino, figura ora comica ora inquieta, reinterpretata nella dialettica allegorica della Commedia dell’Arte.[22]
Per concludere, la Chiesa colse nel Wild Man delle implicazioni pagane e anche dei tratti che ne evidenziavano lo spirito libero e un’esaltazione delle pulsioni umane; entrambi i fattori erano pericolosi e contribuivano a distogliere forse i fedeli dalla religione:
L’immagine del male collegata alla creatura silvestre era prodotto cristiano, un’espressione sorta da intenzioni esorcizzanti, certamente non solo connesse all’Uomo Selvaggio in sé, ma piuttosto da un articolato processo di eliminazione del retaggio di antichi culti pagani. Un’ulteriore motivazione della demonizzazione dell’Uomo Selvaggio può poi essere individuata in una rilettura cristiana di quelle genti (selvatiche, appunto) che ancora non avevano abbandonato antiche forme di culto per avvicinarsi alla nuova religione. [23]
[1] Questo articolo è un breve estratto dalla mia tesi di laurea: “Tre prefigurazioni della follia di Orlando: il berserk, l’Uomo Selvatico, in trickster”.
[2] H. White, The forms of wildness. in Dudley E. e Novak M., The wild man within: an image in western thought from Reinassence to romanticism edited by E.Dudley and M.Novak London University of Pittsburg Press, c1972. p. 14 (trad. mia)
[3] Ivi, p.20-21 (trad. mia)
[4] Questo tema, ulteriormente sviluppato in epoche successive, andrà a costituire il “mito del buon selvaggio”.
[5] Ciò si ricollega alla figura del “Briccone”, che verrà analizzata in seguito.
[6] Ibid. (trad. mia)
[7] M.. Centini, L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna, Priuli e Verlucca editori 2000. p. 8 (citazione da S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, voce “ Selvaggio”)
[8] Il folle, nella sua innocente grullaggine, possiede questo sapere così inaccessibile e così temibile. Mentre l’uomo di ragione e di saggezza non ne percepice che degli aspetti frammentari, e perciò tanto più inquietanti, il folle lo porta tutto intero in una sfera intatta: questa palla di cristallo che per tutti è vuota, è piena ai suoi occhi di un sapere invisibile. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Bur saggi 1998, p.27
[9] Ivi. p.14
[10] In questo l’Uomo Selvatico non può non essere paragonato alla figura del trickster e per il suo sconvolgere l’ordine civilizzato in nome della forza generatrice della natura è comprensibile anche il suo ruolo nella festa di piazza medievale.
[11] Ivi. p.11-12.
[12] Ivi. p.12, nota 6
[13] M. Centini, L’uomo selvatico dalla “creatura silvestre” dei miti alpini allo Yeti nepalese, Oscar Mondadori 1992. pp. 209-210
[14] Ivi. pp. 210-211
[15] Ivi. p. 211
[16] Ivi, p. 213
[17] Uomini-cervo figurano anche nel Romanzo di Alessandro.
[18] M.Centini, L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna, Priuli e Verlucca editori 2000 pp. 68-69
[19] Centini riconduce questa particolare mascherata al filone del travestimento guerresco dei berserk: […] gli “uomini-orso” facevano parte di un gruppo […] di cui abbiamo numerose notizie nella tradizione folklorica, il loro ruolo era in genere quello di scandire ritualmente certe feste stagionali, o fare da cornice ad alcuni avvenimenti collettivi (in questo caso il passaggio del sovrano francese).Nell’episodio […] [riguardante Enrico II], troviamo un chiaro esempio della tradizione dei Berseker [sic] (letteralmente “veste d’orso” ber=orso; serker= veste), in cui gran parte dei rituali di origine germanica tipici dell’ideologia di molti popoli indoeuropei, erano accentrati attraverso il simbolismo del travestimento con pelli di animale (orso e lupo). da Ivi, p. 71.
[20] Ivi, pp.71-72
[21] M. Centini, L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna, Priuli e Verlucca editori 2000. pp. 12-13
[22] Ivi, p. 14
[23] Ibid.