Visualizzazione post con etichetta René Guénon. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta René Guénon. Mostra tutti i post

mercoledì 8 marzo 2017

IL MISTERO DEI MISTERI – IL RE DEL MONDO

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/16-2/

Capitolo XLVI
Il Regno sotterraneo

«Fermo!» mormorò la mia vecchia guida mongola un giorno che attraversavamo la pianura presso Tzagan Luk. «Fermo!».

Si lasciò scivolare giù dal cammello, che s’inginocchiò spontaneamente. Il Mongolo levò le sue mani innanzi al volto in atto di preghiera e cominciò a ripetere la frase sacra: «Om! Mani padme Hung!» [1]. Gli altri Mongoli fermarono immediatamente i loro cammelli e cominciarono a pregare.

«Cos’è successo?» pensai, mentre guardavo la tenera erba verde attorno a me, il cielo senza nubi e i raggi del sole della sera dolci come in un sogno.

I Mongoli pregarono per un po’ di tempo, si scambiarono qualche parola sottovoce, strinsero le cinghie dei bagagli ai cammelli e si ripartì.

«Hai visto», chiese il Mongolo, «come i nostri cammelli muovevano le orecchie per la paura? Come la mandria di cavalli nella pianura si è fermata improvvisamente attenta e come le greggi di pecore e di armenti si sono acquattate al suolo? Hai notato come gli uccelli non volassero, le marmotte non corressero e i cani non latrassero? L’aria vibrava sommessamente e portava da lontano il suono di un canto che penetrava i cuori degli uomini, come quelli degli animali e degli uccelli. La terra e il cielo avevano cessato di respirare. Il vento non soffiava e il sole si era fermato. In un momento come quello, il lupo che si avvicina furtivo alla pecora si arresta dove si trova; il branco delle antilopi spaventate improvvisamente ferma la sua selvaggia corsa; al pastore che sta sgozzando un montone cade il coltello di mano; il feroce ermellino smette di far la posta all’ignara salga [2]. Tutte le creature viventi in preda alla paura sono spinte involontariamente a pregare e attendono il proprio fato. Ecco cos’è appena accaduto. Così accade ogni qual volta il Re del Mondo nel suo palazzo sotterraneo prega e scruta i destini di tutti i popoli della terra» [3].

Così mi parlò il vecchio Mongolo, un semplice e rozzo pastore e cacciatore.

La Mongolia, con le sue nude e terribili montagne, le sue sconfinate pianure disseminate di ossa disperse degli antenati, ha dato i natali al Mistero. La sua gente, spaventata dalle passioni tempestose della Natura o cullata dalle sue paci che somigliano alla morte, avverte il suo mistero. I suoi Lama “Rossi” e “Gialli” preservano e rendono poetico il suo mistero. I Pontefici di Lhasa e di Urga [4] lo conoscono e lo posseggono.

Conobbi il “Mistero dei Misteri” per la prima volta viaggiando per l’Asia centrale, e non saprei dargli altro nome. In un primo momento non gli concessi molta attenzione e non gli diedi l’importanza che successivamente realizzai meritasse, me ne resi conto soltanto dopo che ebbi analizzati e confrontati fra loro molti indizi sporadici, vaghi e non di rado contradditori.

Gli anziani sulla riva del fiume Amyl mi raccontarono un’antica leggenda secondo la quale una certa tribù mongola nella propria fuga dalle pretese di Gengis Khan si era nascosta in un paese sotterraneo. In seguito un Soyot [5] che veniva dai pressi del lago di Nogan Kul mi mostrò la porta fumante che funge da ingresso al “Regno di Agharti”. Attraverso questa porta un cacciatore in passato era entrato nel Regno e, dopo il suo ritorno, cominciò a raccontare quello che vi aveva visto. I Lama gli tagliarono la lingua per impedirgli di raccontare il Mistero dei Misteri. Raggiunta la vecchiaia, tornò all’ingresso di questa grotta e scomparve nel regno sotterraneo, il cui ricordo aveva ornato e illuminato il suo cuore nomade.

Ricevetti informazioni più realistiche riguardo a ciò dal Hutuktu [6] Jelyb Djamsrap a Narabanchi Kure. Egli mi raccontò la storia dell’arrivo semi-realistico del potente Re del Mondo dal regno sotterraneo, del suo aspetto, dei suoi miracoli e delle sue profezie; e solo allora cominciai a comprendere che in quella leggenda, ipnosi o visione di massa, qualunque cosa essa fosse, si cela non solo del mistero ma una realistica e potente forza capace d’influenzare il corso della vita politica dell’Asia. Da quel momento ho cominciato a svolgere alcune indagini.

Il Gelong Lama [7] favorito del principe Chultun Beyli e il principe stesso mi diedero un resoconto del regno sotterraneo.

«Ogni cosa nel mondo», disse il Gelong, «si trova costantemente in uno stato di cambiamento e di transizione: popoli, scienza, religioni, leggi e costumi. Quanti grandi imperi e splendide culture sono periti! Ciò che rimane invariato è soltanto il Male, lo strumento degli Spiriti Maligni. Più di 60 mila anni fa, un Santo scomparve con tutta una tribù di persone nel sottosuolo e non è mai riapparso nuovamente sulla superficie della terra. Molte persone, tuttavia, da allora hanno visitato questo regno, Sakkia Mouni, Undur Gheghen, Paspa, Khan Baber e altri. Nessuno sa dove si trovi questo luogo. Qualcuno dice in Afghanistan, altri in India. Tutte le persone laggiù sono protette contro il Male e i crimini non allignano entro i suoi confini. La scienza in quel luogo è stata sviluppata con tranquillità e nulla è minacciato dalla distruzione. Il popolo sotterraneo ha raggiunto le vette della conoscenza. Oggi è un grande regno, con milioni di persone con il re del Mondo come loro sovrano. Egli conosce tutte le forze del mondo e legge tutte le anime del genere umano e il grande libro del loro destino. Invisibilmente egli governa ottocento milioni di uomini sulla superficie della terra ed essi compiranno ogni suo ordine».

Il Principe Chultun Beyli aggiunse: «Questo regno è Agharti. Si sviluppa attraverso una rete planetaria di gallerie sotterranee. Ho udito un Lama della Cina istruito in materia riferire a Bogdo Khan che tutte le caverne sotterranee dell’America sono abitate da antiche persone scomparse nel sottosuolo. Tracce di loro si trovano ancora sulla superficie della terra. Queste genti e regioni sotterranee sono governate da sovrani obbedienti al Re del Mondo. In tutto ciò non vi è nulla di stupefacente. Voi sapete che nei due più grandi oceani dell’Est e dell’Ovest vi erano in precedenza due continenti [8]. Scomparvero sotto le acque ma le loro genti si trasferirono nel regno sotterraneo. Nelle grotte del sottosuolo esiste una luce particolare che permette la crescita di cereali e verdure e una lunga vita senza malattia per le persone. Vi sono molti popoli diversi e molte differenti tribù. Un vecchio Brahman buddhista in Nepal stava eseguendo la volontà degli Dei nel far visita all’antico reame di Gengis Khan – il Siam [9]– dove incontrò un pescatore che gli ordinò di prendere posto nella sua barca e di far vela con lui sul mare. Il terzo giorno raggiunsero un’isola dove incontrarono un popolo con due lingue che poteva parlare separatamente in differenti idiomi. Essi gli mostrarono animali sconosciuti e peculiari, tartarughe con sedici zampe e un occhio, enormi serpenti con una carne molto gustosa e uccelli muniti di denti che catturavano pesce per i loro padroni nel mare. Questa gente gli disse che proveniva dal regno sotterraneo e gli descrisse certe parti del mondo nel sottosuolo».

Lama Turgut viaggiando con me da Urga a Pechino mi fornì ulteriori dettagli.

«La capitale di Agharti è circondata da città di sommi sacerdoti e scienziati. Ricorda Lhasa, dove il palazzo del Dalai Lama, il Potala, è la cima di una montagna ricoperta di monasteri e templi. Il trono del Re del Mondo è circondato da milioni di Dei incarnati: sono i sacri Pandita [10]. Il palazzo stesso è attorniato dai palazzi del Goro [11], che possiede tutte le forze visibili e invisibili della terra, dell’inferno e del cielo e che può compiere ogni cosa per la vita e la morte dell’uomo. Se la nostra folle umanità dovesse intraprendere una guerra contro di loro, essi sarebbero in grado di far esplodere tutta la superficie del nostro pianeta e di trasformarla in deserto. Essi possono prosciugare i mari, trasformare le terre in oceani e ridurre le montagne nella sabbia dei deserti. Per ordine loro alberi, erbe e cespugli possono essere fatti crescere; uomini vecchi e deboli possono divenire giovani e coraggiosi; e il morto può essere resuscitato. In strane macchine a noi sconosciute essi corrono attraverso le strette fenditure all’interno del nostro pianeta. Alcuni Brahmani indiani e Dalai Lama tibetani, durante le loro faticose scalate alle cime di montagne che nessun altro piede umano aveva mai calcato, trovarono lì iscrizioni incise sulle rocce, impronte nella neve e tracce di ruote. Il beato Sakkia Mouni rinvenne sulla cima di una montagna delle tavole di pietra con iscritte parole che comprese solo nella propria vecchiaia e in seguito penetrò nel Regno di Agharti, da cui riportò briciole del sacro insegnamento conservato nella sua memoria. Là in palazzi di cristallo meraviglioso vivono gli invisibili governanti di tutte le persone pie, il Re del Mondo o Brahytma, che può parlare con Dio come io parlo con voi, e i suoi due assistenti, Mahytma, che conosce le finalità degli eventi futuri, e Mahynga, che governa le cause di questi eventi».

«I santi Pandita studiano il mondo e tutte le sue forze. A volte i più sapienti fra loro si riuniscono e mandano inviati in quel luogo dove gli occhi umani non sono mai penetrati. Questo è descritto dal Tashi Lama vissuto 850 anni fa. I più elevati Pandita pongono le loro mani sugli occhi e alla base del cervello dei più giovani e li costringono in un sonno profondo, lavano i loro corpi con un infuso di erbe e li rendono immuni al dolore e più duri delle pietre, li avvolgono in panni magici, li legano e poi pregano il Grande Dio. I giovani pietrificati giacciono con gli occhi e le orecchie aperte e vigili, vedono, sentono e ricordano ogni cosa. In seguito un Goro si avvicina e mantiene a lungo lo sguardo fisso su di loro. Molto lentamente i corpi stessi si sollevano da terra e scompaiono. Il Goro si siede e scruta con gli occhi immobili verso il luogo dove li ha inviati. Fili invisibili li uniscono alla sua volontà. Alcuni di essi girano tra le stelle, osservano le loro manifestazioni, i loro popoli sconosciuti, la loro vita e le loro leggi; ascoltano i loro discorsi, leggono i loro libri, capiscono le loro fortune e sventure, la loro santità e i peccati, la loro pietà e il male. Alcuni si mescolano con la fiamma e vedono la creatura di fuoco, rapida e feroce, eternamente in lotta, fondendo e martellando i metalli nelle profondità dei pianeti, bollendo l’acqua per i geyser e le sorgenti, fondendo le rocce ed eruttando lava fusa sulla superficie della terra attraverso le aperture nelle montagne. Altri corrono insieme alle sempre sfuggenti, infinitamente piccole, trasparenti creature dell’aria e penetrano nei misteri della loro esistenza e nelle finalità della loro vita. Altri scivolano nelle profondità dei mari e osservano il regno delle sagge creature dell’acqua, che trasportano e diffondono il giusto calore su tutta la terra, governando i venti, le onde e le tempeste … In Erdeni Dzu viveva un tempo un Pandita Hutuktu, che era venuto da Agharti. In punto di morte, raccontò del momento in cui viveva secondo la volontà del Goro su una stella rossa a Oriente, fluttuava nell’oceano ricoperto di ghiaccio e volava tra i fuochi tempestosi nelle profondità della terra».

Questi sono i racconti che udii nelle yurte [12] dei principi mongoli e nei monasteri lamaiti. Queste storie erano tutte raccontate in un tono solenne che vietava ogni discussione e dubbio.

Mistero …

Capitolo XLVII
Il Re del Mondo al cospetto di Dio

Durante il mio soggiorno a Urga cercai di trovare una spiegazione a questa leggenda sul Re del Mondo. Naturalmente, il Buddha Vivente avrebbe potuto dirmi più di chiunque altro e così mi sforzai di conoscere la storia da lui. In una conversazione con lui menzionai il nome del Re del Mondo. Il vecchio Pontefice bruscamente voltò la testa verso di me fissandomi con i suoi immobili occhi ciechi. A malincuore dovetti tacermi. Il nostro silenzio fu lungo e dopo il Pontefice continuò la conversazione facendomi capire che non gradiva accogliere il suggerimento del mio riferimento. Sui volti dei presenti notai espressioni di stupore e paura provocate dalle mie parole, e questo valeva specialmente per il custode della biblioteca del Bogdo Khan. Si può facilmente capire come tutto questo mi avesse solo reso più ansioso di approfondire la ricerca.

Mentre stavo lasciando lo studio del Bogdo Hutuktu, incontrai il bibliotecario che si era avviato avanti a me e gli chiesi se mi poteva mostrare la biblioteca del Buddha Vivente, utilizzando con lui un semplicissimo ma scaltro stratagemma.

«Sapete, mio caro Lama», dissi «una volta ho cavalcato nella pianura nell’ora in cui il Re del Mondo parlava con Dio ed ho avvertito la solenne maestosità di quel momento».

Con mio grande stupore, il vecchio Lama mi rispose senza turbarsi: «Non è giusto che i Buddhisti e la nostra Fede Gialla lo tengano nascosto. Il riconoscimento dell’esistenza dell’uomo più santo e più potente, del regno benedetto, del grande tempio della scienza sacra è una tale consolazione per i nostri cuori peccaminosi e le nostre esistenze corrotte che nasconderlo al genere umano è un vero peccato … Beh, ascoltate», proseguì, «per l’intero corso dell’anno il Re del Mondo guida il lavoro dei Pandita e dei Goro di Agharti. Solo a volte egli si reca alla cripta del tempio dove il corpo del suo predecessore giace imbalsamato in un sarcofago di pietra nera. Questa grotta è sempre buia, ma quando il Re del Mondo vi entra le pareti si rigano col fuoco e dal coperchio della bara appaiono lingue di fiamma. Il Goro più anziano gli sta di fronte col capo e il viso coperti e con le mani incrociate sul petto. Questo Goro non si leva mai il cappuccio, ché la sua testa è un cranio nudo con gli occhi vividi e una lingua che parla. Egli è in comunione con le anime di tutti coloro che ci hanno preceduto».

«Il Re del Mondo prega per un lungo periodo di tempo e successivamente si avvicina al sarcofago e stende la mano. Le fiamme guizzano più ardenti; le strisce di fuoco sulle pareti svaniscono e riappaiono, e intrecciandosi formano misteriosi segni dell’alfabeto vatannan [13]. Dalla bara fasci diafani di luce appena percettibile cominciano a emanare: sono i pensieri del suo predecessore. Repentinamente il Re del Mondo si ritrova avvolto in un’aura di questa luce e lettere di fuoco scrivono e scrivono sui muri i desideri e gli ordini di Dio. In questo momento il Re del Mondo è in comunione con i pensieri di tutti gli uomini che influenzano la sorte e la vita di tutta l’umanità: con Re, Zar, Khan, capi guerrieri, Sommi Sacerdoti, scienziati e altri uomini forti. Si rende conto di tutti i loro pensieri e progetti. Se questi sono graditi a Dio, il Re del Mondo li asseconderà in modo invisibile, se sono sgraditi al cospetto di Dio, il Re li porterà verso il fallimento. Questo potere è conferito ad Agharti dalla misteriosa scienza dell’“Om”, con cui iniziamo tutte le nostre preghiere. “Om” è il nome di un antico Sant’uomo, il primo Goro, che visse 330 mila anni fa. Egli fu il primo uomo a conoscere Dio e che insegnò agli uomini a credere, sperare e lottare contro il Male. Allora Dio gli diede potere su tutte le forze che governano il mondo visibile».

«Dopo la sua conversazione con il proprio predecessore, il Re del Mondo riunisce il “Gran Consiglio di Dio”, giudica le azioni e i pensieri dei grandi uomini, li asseconda o li distrugge. Mahytma e Mahynga trovano il posto per queste azioni e pensieri nella catena causale che governa il mondo. Successivamente il Re del Mondo accede al grande tempio e prega in solitudine. Il fuoco appare sull’altare, e gradualmente si diffonde a tutti gli altari vicini, e attraverso la fiamma che brucia appare gradualmente il volto di Dio. Il Re del Mondo con reverenza annuncia a Dio le decisioni e le determinazioni del “Consiglio di Dio” e riceve a sua volta agli ordini Divini dell’Onnipotente. Quando esce dal tempio, il Re del Mondo irradia la Luce Divina».

Capitolo XLVIII
Realtà o fantasia religiosa?

«Ma qualcuno ha visto il Re del Mondo?» chiesi.

«Oh, sì!» rispose il Lama. «Durante le feste solenni dell’antico Buddhismo in Siam e in India il Re del Mondo apparve cinque volte. Montava uno splendido carro trainato da elefanti bianchi e ornati di’oro, pietre preziose e tessuti pregiati; era vestito di un manto bianco e una tiara rossa con pendagli di diamanti che gli celavano il volto. Egli benedisse il popolo con una mela d’oro sormontata dalla figura di un Agnello. Il cieco riacquistava la vista, il muto parlava, il sordo udiva, lo storpio si muoveva liberamente e il morto risorgeva, laddove gli occhi del Re del Mondo si posavano. È apparso anche 540 anni fa, nel Erdeni Dzu, è stato in un antico monastero di Sakkai e a Narabanchi Kure.

Uno dei nostri Buddha Viventi e uno dei Tashi Lama ricevette un suo messaggio, scritto con segni sconosciuti su tavolette d’oro. Nessuno poteva leggere questi caratteri. Il Tashi Lama entrò nel tempio, pose la tavoletta d’oro sulla sua testa e cominciò a pregare. Grazie a ciò i pensieri del Re del Mondo penetrarono la sua mente e, senza aver letto gli enigmatici segni, egli comprese e realizzò il messaggio del Re».

«Quante persone sono state ad Agharti?» lo interrogai.

«Moltissime», rispose il Lama, «ma tutte queste persone hanno mantenuto segreto ciò che videro laggiù. Quando gli Oleti [14] distrussero Lhasa, uno dei loro distaccamenti nelle montagne del Sud-Ovest penetrò fino alle propaggini di Agharti. Qui appresero alcune fra le scienze misteriose minori e le portarono sulla superficie della nostra terra. Ecco perché gli Oleti e i Calmucchi sono stregoni abili e profeti. Anche dai paesi orientali alcune tribù di gente nera penetrarono ad Agharti e lì vissero molti secoli. Successivamente essi furono scacciati dal regno e restituiti alla terra, portando con sé il mistero delle predizioni attraverso le carte, le erbe e le linee del palmo della mano. Sono i Gitani [15] … Da qualche parte nel Nord dell’Asia esiste una tribù che ora si sta estinguendo e che è venuta dalle grotte di Agharti, abile nel richiamare gli spiriti dei morti che fluttuano nell’aria».

Il Lama rimase in silenzio e poi, come se stesse rispondendo ai miei pensieri, continuò:

«Ad Agharti i dotti Pandita scrivono su tavole di pietra tutta la scienza del nostro pianeta e degli altri mondi. I sapienti Buddhisti cinesi lo sanno bene. La loro scienza è la più alta e pura. Ogni secolo un centinaio di saggi della Cina si riuniscono in un luogo segreto sulle rive del mare, dalle cui profondità emergono un centinaio di tartarughe immortali. Sui loro gusci i cinesi scrivono tutti gli sviluppi della scienza divina prodottisi durante il secolo».

Mentre scrivo sto involontariamente rimembrando il racconto di un vecchio bonzo cinese nel Tempio del Cielo a Pechino. Mi disse che le tartarughe vivono più di 3000 anni senza cibo né aria e che questo è il motivo per cui tutte le colonne del Tempio del Cielo azzurro furono poste su tartarughe vive per preservare il legno dal degrado.

«Più volte i Pontefici di Lhasa e Urga hanno inviato emissari al Re del Mondo», disse il Lama bibliotecario, «ma non lo trovarono. Solo un certo leader tibetano dopo una battaglia con gli Oleti trovò la grotta con l’iscrizione: “Questo è l’ingresso per Agharti”. Dalla grotta uscì un uomo di bell’aspetto, gli donò una tavoletta d’oro con i segni misteriosi e disse:

“Il Re del Mondo apparirà di fronte a tutti i popoli quando il tempo sarà giunto per lui di condurre tutte le buone persone del mondo contro tutte le malvagie; ma non è ancora venuto questo tempo. Il più malvagio tra gli uomini non è ancora nato”.

Il Chiang Chün barone Ungern inviò il giovane principe Pounzig in cerca del Re del Mondo, ma questi tornò con una lettera del Dalai Lama da Lhasa. Quando il barone lo mandò una seconda volta, egli non ritornò più indietro».

Capitolo XLIX
La profezia del Re del Mondo nel 1890

L’Hutuktu di Narabanchi mi riferì quanto segue, quando lo visitai nel suo monastero agli inizi del 1921:

«Quando il Re del Mondo apparve davanti ai Lama, favoriti di Dio, in questo monastero trent’anni fa fece una profezia per il seguente mezzo secolo. Essa era la seguente:

“Sempre più la gente si dimenticherà la propria anima e si curerà del proprio corpo. Il più grande peccato e la corruzione regneranno sulla terra. Gli uomini diventeranno come belve feroci, assetati del sangue e della morte dei loro fratelli. La ‘Mezzaluna’ si offuscherà e i suoi seguaci sprofonderanno nella miseria e nella guerra incessante. I suoi conquistatori saranno colpiti dal Sole, ma non si eleveranno e due volte saranno visitati dalla sventura più grave, che culminerà nell’insulto dinnanzi agli occhi degli altri popoli. Le corone dei re, grandi e piccoli, cadranno … uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto … Ci sarà una battaglia terribile fra tutti i popoli. I mari diverranno rossi … la terra e il fondo dei mari saranno disseminati di ossa … regni saranno dispersi … interi popoli moriranno … fame, malattie, crimini sconosciuti alla stessa legge, mai visti prima nel mondo. I nemici di Dio e dello Spirito Divino nell’uomo verranno. Anche coloro i quali tenderanno la mano al prossimo periranno. I dimenticati e i perseguitati insorgeranno e cattureranno l’attenzione del mondo intero. Ci saranno nebbie e tempeste. Montagne spoglie saranno improvvisamente ricoperte da foreste. Si scateneranno terremoti … Milioni di uomini cambieranno le catene della schiavitù e dell’umiliazione con la fame, la malattia e la morte. Le antiche strade saranno coperte con folle erranti da un luogo all’altro. Le città più grandi e più belle periranno nel fuoco … una, due, tre … Il padre insorgerà contro il figlio, il fratello contro il fratello e la madre contro la figlia … Il vizio, il crimine e la distruzione del corpo e dell’anima seguiranno … Le famiglie saranno disperse … Scompariranno la verità e l’amore … Di diecimila uomini uno solo sopravvivrà; egli sarà nudo e folle, senza la forza e la conoscenza per costruirsi una casa e trovare il proprio cibo … Egli ululerà come il lupo rabbioso, divorerà i cadaveri, morderà la sua propria carne e sfiderà Dio a combattere … Tutta la terra sarà svuotata. Dio stesso le volterà le spalle e su di essa non vi sarà che la notte e la morte. Allora io manderò un popolo, ancora sconosciuto, che estirperà la gramigna della pazzia e del vizio con mano forte e condurrà coloro che ancora rimangono fedeli allo spirito dell’uomo nella lotta contro il Male. Essi ritroveranno una nuova vita sulla terra purificata dalla morte delle nazioni. Nel cinquantesimo anno appariranno solo tre grandi regni, che esisteranno felicemente per 71 anni. In seguito ci saranno diciotto anni di guerra e distruzione. Allora i popoli di Agharti saliranno dalle loro caverne sotterranee alla superficie della terra”».

In seguito, mentre viaggiavo oltre attraverso la Mongolia orientale e verso Pechino, ho pensato spesso:

«E se … ? Che cosa succederebbe se interi popoli di diversi colori, fedi e tribù dovessero iniziare la loro migrazione verso l’Occidente?».

E adesso, mentre vergo queste ultime righe, i miei occhi involontariamente si rivolgono a questo sconfinato Cuore dell’Asia su cui i sentieri del mio peregrinare s’intrecciano. Fra tormente di neve e vortici di sabbia del Gobi la memoria mi riporta al cospetto del Hutuktu di Narabanchi che, con voce pacata mentre indicava l’orizzonte con la sua esile mano, mi dischiuse le porte dei suoi più intimi pensieri:

«Presso Karakorum e sulle rive del Ubsa Nor vedo gli immensi accampamenti multicolori, le mandrie di cavalli e bovini e le yurte azzurre dei capi. Sopra di loro vedo le antiche bandiere di Gengis Khan, dei re del Tibet, del Siam, dell’Afghanistan e dei Principi indiani; i sacri emblemi di tutti i Pontefici lamaiti; gli stemmi dei Khan degli Oleti e i semplici stendardi delle tribù mongole del Nord. Non odo il rumore della folla animata. I cantori non intonano le lamentevoli canzoni della montagna, della pianura e del deserto. I giovani cavalieri non si dilettano con le corse sui loro rapidi destrieri … Vi sono innumerevoli schiere di vecchi, donne e bambini e più oltre, a Nord e a Ovest, fin dove l’occhio si può spingere, il cielo è rosso come una fiamma, c’è il rombo e il crepitio del fuoco e il suono feroce della battaglia. Chi sta conducendo questi guerrieri che là sotto il cielo arrossato spargono il loro proprio sangue e quello degli altri? Chi sta guidando queste turbe di vecchi inermi e di donne? Vedo ordine severo, comprensione religiosa profonda di scopi, pazienza e tenacia … una nuova grande migrazione di popoli, l’ultima marcia dei Mongoli …».

Il Karma [16] potrebbe aver aperto una nuova pagina di Storia!

E se il Re del Mondo fosse con loro?

Ma questo grande Mistero dei Misteri serba il suo profondo silenzio.

* Estratto della Parte V del libro di Ferdinand Ossendowski, Beasts, Men and Gods, E.P. Dutton & Company, New York, 1922

1. «Salve! Grande Lama nel Fiore di Loto!». René Guénon ricordava che a Ossendowski era stato rimproverato dai suoi critici di scrivere Om invece di Aum, «ma, se Aum è la rappresentazione del monosillabo sacro scomposto nei suoi elementi costitutivi, è pur sempre Om la trascrizione corretta che corrisponde alla pronuncia reale in uso sia in India sia in Tibet e in Mongolia» (R. Guénon, Le Roi du Monde, Paris, Librairie Charles Bosse, 1927; trad. it. Il Re del Mondo, Milano, Adelphi Edizioni, 1977, p. 14, nota 5) [N.d.T.].

2. Pernice grigia della prateria [N.d.T.].

3. René Guénon faceva notare in proposito come l’accostamento di un simile evento con il timor panicus degli antichi, suggeritogli da Arturo Reghini, fosse da considerarsi un’ipotesi “estremamente verosimile” (R. Guénon, Il Re del Mondo, cit., p. 13, nota 4) [N.d.T.].

4. Capitale della Mongolia [N.d.T.].

5. Gruppo etnico originario della Siberia occidentale [N.d.T.].

6. Il grado più elevato nella gerarchia monastica lamaista [N.d.T.].

7. Sacerdote autorizzato a compiere i sacrifici [N.d.T.].

8. Atlantide e Mu [N.d.T.].

9. Nome che aveva, fino al 24 Giugno 1939, l’attuale Thailandia [N.d.T.].

10. Monaci buddhisti di alto rango. Titolo conferito a coloro i quali sono stati istruiti nelle cinque scienze tradizionali: la scienza del linguaggio (śabdavidyā), la scienza della logica (hetuvidyā), la scienza della medicina (cikitsāvidyā), la scienza delle belle arti e mestieri (śilakarmasthānavidyā) e la scienza della spiritualità (adhyātmavidyā) [N.d.T.].

11. Sommo sacerdote del Re del Mondo [N.d.T.].

12. Tende mongole fatte di feltro [N.d.T.].

13. La lingua sacra parlata nel Regno sotterraneo, da cui deriverebbe la primitiva lingua indo-europea [N.d.T.].

14. Oleti o Oirati era il nome con cui era conosciuta originariamente la tribù mongola dei Calmucchi, prima che migrasse all’epoca di Gengis Khan per stabilirsi sui monti Urali e sulle rive del Volga in Russia. Il loro etnonimo, ojrad, sarebbe derivato dal mongolo Dôrvôn Ojrd, “I quattro alleati”, in quanto storicamente gli Oirati erano composti da quattro tribù maggiori. I Calmucchi sono gli unici abitanti dell’Europa la cui religione nazionale è il Buddhismo. Essi abbracciarono il Buddhismo Vajrayana nella prima parte del XVII secolo, e seguono tuttora gli insegnamenti del lignaggio Gelugpa (Via Virtuosa). Il Buddhismo Vajrayana divenne noto in ambienti anglosassoni nel XIX secolo con il termine dispregiativo di Lamaismo, dal termine tibetano lama, traduzione del sanscrito guru [N.d.T.].

15. Zingari, Zingani, Zigani o Gitani sono termini generici per indicare un insieme di diverse etnie, originariamente ritenute nomadi, provenienti dalle regioni situate nel Nord-Ovest dell’India. René Guénon precisava che «quando si parla di Zingari, è indispensabile fare una distinzione, che troppo spesso si dimentica: in realtà, vi sono due tipi di Zingari, i quali sembrano del tutto estranei fra di loro e che si trattano perfino da nemici; essi non hanno gli stessi caratteri etnici, né parlano la stessa lingua, né esercitano gli stessi mestieri. Vi sono gli Zingari orientali, o Zingari, che sono soprattutto domatori di orsi e calderai; e vi sono gli Zingari meridionali, o Gitani, chiamati anche, in Linguadoca e in Provenza, “Carachi”, che sono quasi esclusivamente mercanti di cavalli» (R. Guénon, Le Compagnonnage et les Bohémiens, in Le Voile d’Isis, Ottobre 1928, in Études sur la Franc-Maçonnerie et le Compagnonnage, Paris, Éditions Traditionelles, 1964, 2 voll.. Guénon continuava ponendo in evidenza i numerosi tratti di comunanza fra i Gitani e i Pellerossa d’America e considerava come degna di nota l’ipotesi di una comune origine atlantidea [N.d.T.].

16. Secondo l’accezione comunemente diffusa in Occidente, che qui sembra essere accolta dall’Autore, con tale termine si suole intendere una sorta di personificazione dell’idea di destino, assimilabile alla nozione greco-romana di Nemesi (Giustizia). È bene rammentare, d’altra parte, come in realtà «la parola karma ha un duplice significato: in generale è l’azione in tutte le sue forme, spesso opposta a jnâna, o la conoscenza, ciò che corrisponde nuovamente alla distinzione dei due ultimi darshana; in senso specifico e tecnico è l’azione rituale quale è prescritta nel Vêda» (R. Guénon, Introduction générale à l’étude des Doctrines Hindoues, Paris, Marcel Rivière, 1921, chap. XIII “Le Mîmânsâ”, trad. it. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Milano, Adelphi Edizioni, 1989, cap. 13 “La Mîmânsâ”, p. 192) [N.d.T.].


Ferdinand Ossendowski

mercoledì 1 marzo 2017

MISSIONE DELL’INDIA

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: https://letteraespirito.wordpress.com/alveydre-missione-dellindia/

Nota della redazione

René Guénon nel primo capitolo della sua opera Il Re del Mondo (Adelphi Edizioni, Milano, 1977) fa riferimento a due libri rispettivamente di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (Mission de l’Inde en Europe. Mission de l’Europe en Asie, Librairie Dorbon Ainé, Paris, 1910) e di Ferdinand Ossendowski (Beasts, Men and Gods, E.P. Dutton & Company, New York, 1922) nei quali si parla del misterioso regno sotterraneo di Agarttha. Per motivi fondamentalmente di carattere storico e documentale riteniamo possa essere interessante la pubblicazione di due estratti di queste opere. I testi, che trattano il tema con la mentalità propria dell’epoca (a cavallo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX), insieme a elementi obiettivi di indubbio interesse non mancano di ingenuità in alcune descrizioni, riflesso delle correnti di pensiero occultiste molto presenti nelle pubblicazioni dell’epoca.


Alexandre Saint-Yves d’Alveydre

Capitolo I

Dov’è l’Agarttha?

Dov’è l’Agarttha? In quale luogo preciso si trova? Per quale strada, attraverso quali popoli occorre procedere per penetrarvi?

A questa domanda, che non mancheranno di porsi i diplomatici e i militari, non conviene che io risponda più di quanto sto per fare, fintantoché non sia realizzata, o perlomeno tracciata, l’intesa sinarchica [1].

Ma, giacché so che nelle loro reciproche competizioni per l’Asia tutta, certe potenze rasentano, senza accorgersene, questo territorio sacro, come del resto so che, nel momento di un possibile conflitto, le loro truppe dovrebbero necessariamente o passarvi, o costeggiarlo, è per un senso di umanità nei confronti di questi popoli europei come per la stessa Agarttha, che non mi faccio scrupolo di proseguire nella divulgazione che ho cominciato.

Sulla superficie e nelle viscere della terra la reale estensione dell’Agarttha sfida la morsa e la costrizione della profanazione e della violenza.

Senza parlare dell’America, i cui sconosciuti sottosuoli le appartennero in una lontanissima antichità, soltanto in Asia, pressappoco mezzo miliardo di uomini sono più o meno al corrente della sua esistenza e della sua grandezza.

Ma non si troverà tra questi un traditore che indichi la posizione esatta in cui si trovano il suo Consiglio di Dio e il suo Consiglio degli Dei, la sua testa pontificale e il suo cuore giuridico.

Se ciò nondimeno avvenisse, e se essa fosse invasa malgrado i suoi numerosi e terribili difensori, ogni esercito di conquista, foss’anche di un milione di uomini, vedrebbe rinnovarsi la risposta tonitruante del tempio di Delfi alle innumerevoli orde dei satrapi [2] persiani.

Chiamando in loro soccorso le Potenze cosmiche della Terra e del Cielo, anche sconfitti, i Templari e i Confederati dell’Agarttha potrebbero alla bisogna far esplodere una parte del Pianeta, e frantumare con un cataclisma sia i profanatori armati sia le loro patrie d’origine.

È per queste cause scientifiche che la parte centrale di questa santa terra non è mai stata profanata malgrado il flusso e il riflusso, lo scontro e il reciproco annientamento degli imperi militari, da Babilonia al regno turanico dell’Alta Tartaria, da Susa a Pella, da Alessandria a Roma.

Prima della spedizione di Ram e del predominio della Razza bianca in Asia, la Metropoli manavica aveva per centro Ayodhya [3], la Città solare.

Le biblioteche dei Cicli anteriori alla nostra era

Gettando uno sguardo sul vero confine tra l’Europa e l’Asia, il nostro Antenato celtico vi fissò, nei siti più splendidi della Terra, il Sacro Collegio alla testa del quale l’iniziazione l’aveva fatto pervenire.

Le biblioteche precedenti rimasero inalterate, grazie alla sua stessa scienza, malgrado tutte le forme intellettuali e sociali che realizzò la sua luminosa iniziativa.

L’Agarttha dopo Ram, i suoi successivi spostamenti; i ventidue templi

Più di tremila anni dopo Ram, e a partire dallo scisma di Irshu, il centro universitario della Sinarchia, dell’Agnello e dell’Ariete subì un primo spostamento, che è meglio non precisare oltre.

Infine, circa quattordici secoli dopo Irshu, poco dopo Sakya Muni [4], un altro cambiamento di sede fu deciso.

Basti ai miei lettori sapere che, in certe regioni dell’Himalaya, tra i ventidue templi rappresentanti i ventidue Arcani di Ermete e le ventidue lettere di certi alfabeti sacri, l’Agarttha forma lo Zero mistico, l’introvabile.

Lo Zero, vale a dire Tutto o Niente, tutto mediante l’Unità armonica, niente senza di essa, tutto mediante la Sinarchia, niente mediante l’Anarchia.

Il territorio sacro dell’Agarttha forma ancora una sinarchia completa

Il territorio sacro dell’Agarttha è indipendente, sinarchicamente organizzato e composto da una popolazione che ammonta a circa venti milioni di anime.

La costituzione della Famiglia, con eguaglianza dei sessi nel focolare domestico, l’organizzazione del comune, del cantone e delle circoscrizioni che vanno dalla Provincia al Governo centrale, conservano ancora in tutta la loro purezza l’impronta del genio celtico di Ram innestato sulla divina saggezza delle istituzioni di Manu [5].

Non entrerò qui nei dettagli che si trovano in sovrabbondanza esposti altrove.

In tutte le Società umane è la statistica dei crimini, la miseria e la prostituzione che danno la prova dei loro vizi organici.

Non si conosce ad Agarttha alcuno dei nostri orrendi sistemi giudiziari o penitenziari: nessuna prigione.

La pena di morte non vi è applicata.

La polizia è costituita dai padri di famiglia.

I delitti sono deferiti agli iniziati, ai pandit di servizio.

Il loro arbitrato di pace, sempre spontaneamente invocato dalle parti stesse, evita nella quasi totalità dei casi un appello alle diverse corti di giustizia, giacche la riparazione volontaria segue immediatamente al danno.

Ho bisogno di dire che tutte le vergogne e tutte le piaghe sociali delle civiltà non sinarchiche, miseria delle masse, prostituzione, alcolismo, individualismo feroce in alto, spirito sovversivo in basso, incurie di ogni genere, sono sconosciute in questa antica Sinarchia?

I rajah indipendenti, preposti alle differenti circoscrizioni del suolo sacro, sono iniziati di alto grado.

Questi re presiedono la Corte suprema di Giustizia, e il loro arbitrato istituito al di sopra delle repubbliche cantonali conserva ancora il carattere di magistero che ho così lungamente analizzato nella Missione degli Ebrei [6].

Confederazione degli anfizioni [7] aghartthiani; pericolo di attaccarli

Intorno al territorio sacro e alla sua popolazione già tanto considerevole, si estende una confederazione sinarchica di popoli, il cui totale ammonta a più di quaranta milioni di anime.

Con questo scudo avrebbero a che fare come prima cosa i conquistatori europei, che invano chiederebbero alla forza ciò che solo un’alleanza leale potrebbe dare loro.

E se pure riuscissero a infrangere questo bastione vivente, si troverebbero faccia a faccia, come ho già detto, con alcune tragiche sorprese ben più colossali di quelle del tempio di Delfi, e con soldati che risorgono senza posa, legati tra loro come quelli delle Termopili, certi come quelli di ritrovarsi dopo la morte per combattere nuovamente i profanatori, nel seno stesso dell’Invisibile.

Le caste sono ignote ad Agarttha. Modalità d’ammissione: l’antico Nazareato

Le caste, quali gli Europei giustamente criticano, sono ignote ad Agarttha.

Il figlio dell’ultimo dei paria indù può essere ammesso alla sacra Università e, secondo i suoi meriti, uscirne o rimanervi in tutti i gradi della gerarchia.

La presentazione si esegue nella seguente maniera:

Al momento della nascita, la madre consacra il suo bambino: è il Nazareato di tutti i Templi del Ciclo dell’Agnello.

In differenti epoche successive, la Provvidenza è direttamente interrogata nei Templi, e allorché l’età d’ammissione è giunta, il ragazzo o la ragazza, avendo per padrino il rajah iniziato della provincia, fanno il loro ingresso nella sacra Università, assolutamente spesati di tutto.

Il resto non dipende che dal loro merito.

Organizzazione centrale dell’Agarttha; gerarchia agartthiana

Ecco ora l’organizzazione centrale dell’Agarttha, procedendo dal basso all’alto o dalla circonferenza al centro.

Milioni di Dwija [8] Dwija [9] due volte nati, di Yogi [10] Yogi, uniti in Dio, formano il grande cerchio o piuttosto l’emiciclo nel quale ci accingiamo a penetrare.

Essi abitano intere città: sono i sobborghi interni dell’Agarttha, simmetricamente suddivisi e ripartiti in costruzioni il più delle volte sotterranee.

Al di sopra di questi e dirigendoci verso il centro, troviamo cinquemila pandit, pandavan [11] Pandavan, sapienti, tra i quali alcuni svolgono il servizio dell’insegnamento propriamente detto, gli altri quello locale come soldati della polizia interna o della polizia delle cento porte.

Il loro numero di cinquemila corrisponde a quello delle radici ermetiche della lingua vedica.

Ogni radice è essa stessa uno ierogramma magico, legato a una Potenza celeste, con la sanzione di una Potenza infernale.

L’Agarttha intera è un’immagine fedele del Verbo eterno attraverso tutta la Creazione.

Dopo i pandit vengono, ripartite in emicicli sempre meno numerosi, le circoscrizioni solari dei trecentosessantacinque Bagwanda, Bagwanda, cardinali.

Il cerchio più elevato e più ravvicinato al centro misterioso si compone di dodici membri.

Questi ultimi rappresentano l’Iniziazione suprema, e corrispondono, tra altre cose, alla Zona zodiacale.

Nella celebrazione dei loro Misteri magici, essi portano i geroglifici dei segni dello Zodiaco, come pure certe lettere ieratiche, che si ritrovano in tutti gli ornamenti dei templi e degli oggetti sacri.

Ognuno di questi bagwanda o guru supremi, gûrû, maestri, porta sette nomi, ierogrammi o mantram, di sette Poteri celesti, terrestri e infernali.

Non rivelerò qui che uno degli oggetti di tale efficacia.

Le biblioteche, che racchiudono il vero corpus di tutte le arti e di tutte le scienze antiche da cinquecentocinquantasei secoli, sono inaccessibili a ogni sguardo profano e a ogni attentato.

Non le si può trovare che nelle viscere della terra.

Per ciò che riguarda il Ciclo di Ram, esse occupano certi sottosuoli dell’antico Impero dell’Ariete e delle sue colonie.

Le biblioteche della Paradesa; esse occupano migliaia di chilometri; loro descrizione

Le biblioteche dei Cicli anteriori si ritrovano fin sotto i mari che hanno inghiottito l’antico continente australe, fin nelle costruzioni sotterranee dell’antica America pre-diluviana.

Ciò che mi appresto a dire qui e più avanti assomiglierà a un racconto delle Mille e una Notte, e tuttavia nulla é più reale.

I veri archivi universitari della Paradesa occupano migliaia di chilometri. Da innumerevoli secoli, ogni anno, soli, alcuni alti iniziati in posssso soltanto del segreto di certe regioni, conoscono lo scopo materiale di certi lavori, e sono obbligati a passare tre anni a incidere sulle tavole di pietra, in caratteri sconosciuti, tutti i fatti riguardanti le quattro gerarchie delle scienze che formano il corpus totale della Conoscenza.

Ognuno di questi sapienti compie la sua opera nella solitudine, lontano da ogni luce visibile, sotto le città, sotto i deserti, sotto le pianure o sotto le montagne.

Che il lettore si figuri una scacchiera colossale che si estende sottoterra attraverso quasi tutte le regioni del Globo.

In ciascuna casella si trovano i fasti degli anni terrestri dell’Umanità, in certe caselle, le enciclopedie secolari e quelle millenarie, in altre infine, quelle degli Yuga minori e maggiori.

Il giorno in cui l’Europa avrà sostituito con la Sinarchia trinitaria l’anarchia del suo Governo generale, tutte queste meraviglie e molte altre ancora saranno spontaneamente accessibili ai rappresentanti della sua prima Camera anfizionica: quella dell’Insegnamento.

Pericolo di ogni curiosità e di ogni violenza

Ma, nel frattempo, guai ai curiosi, agli imprudenti che si mettessero a frugare la terra!

Essi non vi troverebbero nient’altro che una cocente delusione e una morte inevitabile.

Il solo Sovrano Pontefice dell’Agarttha con i suoi principali assessori, di cui parlerò, riunisce per intero nella sua conoscenza totale, nella sua suprema iniziazione, il sacro catalogo di questa biblioteca planetaria.

Egli solamente possiede nella sua interezza la chiave ciclica indispensabile, non solo per aprire ciascuna delle scaffalature, ma anche per sapere esattamente che cosa vi si trovi, per passare dall’una all’altra, e soprattutto per uscirne.

A che servirebbe al profanatore essere riuscito a forzare una delle caselle sotterranee di questo cervello, di questa memoria integrale dell’Umanità.

Con il suo peso spaventoso, la porta di pietra senza serrature, che chiude ciascuna delle caselle, ripiomberebbe su di lui per non aprirsi mai più.

Invano, prima di conoscere il suo terribile destino, si troverebbe davanti agli occhi le pagine minerali, che compongono questo libro cosmico, non ne potrebbe compitare una sola parola, né decifrare il minimo arcano, prima di accorgersi di essere disceso per sempre in una tomba dalla quale le sue grida non possono essere udite da alcun essere visibile.

Ogni cardinale o bagwanda, tra le Potenze che gli danno i suoi sette nomi ieratici, possiede il segreto delle sette regioni celesti, terrestri e infernali, e ha il potere di entrare e uscire attraverso sette circoscrizioni di questo spaventoso memoriale delle Spirito umano.

Necessità per i nostri sacerdoti e i nostri sapienti di un’Alleanza sinarchica con l’Agharttha

Ah! Se l’Anarchia non sovrintendesse ai rapporti dei popoli sulla terra, quale colossale rinascita si compirebbe in tutti i nostri Culti e in tutte le nostre Università!

È cosa certa che i nostri sacerdoti e i nostri ammirevoli sapienti, rientrati nell’Alleanza Universale dei tempi antichi, compirebbero il loro pellegrinaggio in Africa, in Asia, in ogni luogo ove giace il sepolcro di una civiltà scomparsa.

Non solo la terra consegnerebbe loro tutti i suoi segreti, ma essi ne avrebbero la piena comprensione, la chiave dorica, e ritornerebbero nelle differenti Facoltà dei nostri insegnamenti per versare non cenere morta, ma fiotti di luce vivente.

Ma allora, non si profanerebbe più il passato, non si rapirebbero più dai loro sepolcri i frammenti mutili e, perciò, inspiegabili, per ingombrarne i nostri musei.

L’Antichità verrebbe devotamente riedificata sul posto, in Egitto, in Etiopia, in Caldea, in Siria, in Armenia, in Persia, in Tracia, nel Caucaso e fin sugli altopiani dell’Alta Tartaria dove Swedenborg vide proprio attraverso il suolo i libri perduti delle guerre di Jehovah e delle generazioni di Adamo.

Quel che sarà l’archeologia sacra dopo quest’alleanza

Proprio a tutte queste tappe sacre della razza umana sarebbero ricondotti a frotte, Pontefici e inni in testa, i laureati dei nostri studi superiori!

Ah! Se invece di essere tra noi la serva dell’Anarchia governativa, la schiava della Forza, lo strumento dell’ignoranza, dell’iniquità e della rovina pubbliche di tutte le nostre patrie europee, la Scienza risalisse di nuovo, la tiara in testa, il pastorale in mano, sulle sue antiche vette luminose!

Se, sovrintendendo di nuovo alla vita sociale dei popoli, essa realizzasse alfine tutto quel che i profeti di tutti i Culti le hanno predetto, quale divino accordo riunirebbe tra loro tutte le membra sanguinanti dell’Umanità!

Questa non sarebbe più un Cristo in croce su tutto il Pianeta, ma un Cristo glorioso riflettente tutti i sacri raggi della Divinità, tutte le arti, tutte le scienze, tutti gli splendori e tutti i benefici di questo Spirito divino che rischiarerà il passato e, attraverso le nostre gestazioni dolorose, tende di nuovo a illuminare l’avvenire.

L’economia pubblica, liberata dal peso spaventoso degli armamenti e delle imposte, toccherebbe con la sua bacchetta d’oro tutto quel che fu.

Rinascita futura di tutte le civiltà morte

E si vedrebbe rinascere l’antico Egitto con i suoi Misteri purificati, la Grecia nello splendore trasfigurato dei suoi tempi orfici, la nuova Giudea, più bella ancora di quella di Davide e di Salomone, la Caldea prima di Nemrod.

Allora, tutto sarebbe rinnovato dal vertice alla base dell’organizzazione umana, tutto sarebbe illuminato e conosciuto, dall’alto dei Cieli fino alla fornace centrale della Terra.

Non esistono mali intellettuali, morali o fisici, ai quali il ravvicinamento delle facoltà insegnanti e la riunione positiva dell’Uomo con la Divinità non porterebbero rimedio sicuro.

La Morte stessa verrà vinta

Le sante vie della Generazione sarebbero ritrovate, quelle della Via santificate, quelle del Trapasso illuminate da ineffabili consolazioni, da adorabili certezze; e l’Umanità intera realizzerebbe la parola del Profeta abbagliato dai Misteri dell’altra Vita: Oh Morte, dov’è il tuo aculeo?

Noi marciamo verso questi tempi sinarchici attraverso le ultime agonie sanguinanti dell’Anarchia del Governo generale inaugurato a Babilonia.

Ecco il motivo per cui scrivo questo libro, e trascino il lettore più oltre ancora fin nel sacro centro dell’antica Paradesa.

Continuazione della descrizione della gerarchia agartthiana

Dopo i cerchi aperti o chiusi alternativamente dei trecentosessantacinque Bagwanda, vengono quelli dei ventidue o piuttosto dei ventun Arsci neri e bianchi.

La loro differenza con i più alti iniziati dei cerchi precedenti è puramente ufficiale e cerimoniale.

I Bagwanda possono risiedere o meno nell’Agarttha a loro gradimento; gli Arsci vi dimorano per sempre, come parte integrante dei suoi vertici gerarchici.

Le loro funzioni sono estremamente ampie, sotto i nomi cabalistici di Chrinarshi, Chinarshi, di Swadharshi, Swadharshi, di Dwijarshi, Dwijarshi, di Yogarshi, Yogarshi, di Maharshi, Maharshi, di Rajarshi, Rajarshi, di Dharmarshi, Dharmarshi, e infine di Praharshi, Praharshi.

Questi nomi indicano a sufficienza tutti i loro attributi, tanto spirituali quanto amministrativi, nell’Università sacra e ovunque si eserciti la sua influenza.

Per quel che concerne le scienze e le arti, essi formano con i dodici Bagwanda zodiacali il vertice della Maestria universitaria e della Grande Alleanza in Dio con tutte le Potenze cosmiche.

Al di sopra di essi non vi è che il triangolo formato dal Sovrano Pontefice, il Brâhatmah, Brahatmah sostegno delle anime nello Spirito di Dio, e dai suoi due assessori, il Mahatma, Mahatma rappresentante l’Anima universale, e il Mâhânga, Mahanga simbolo di tutta l’organizzazione materiale del Cosmo.

Nella cripta sotterranea in cui giace il corpo dell’ultimo Pontefice che attende per tutta la vita del suo successore l’incenerimento sacro, si trova l’Arsci che forma lo zero degli Arcani rappresentati dai suoi ventuno colleghi. Il suo nome Mârshi significa il Principe della Morte, e sta a indicare che egli non appartiene al mondo dei viventi.

Tutti questi differenti cerchi di gradi corrispondono ad altrettante parti alla circonferenza o al centro della Città santa, invisibili a coloro che camminano sulla terra.

Migliaia e milioni di studiosi non sono mai penetrati oltre i primi cerchi suburbani; pochi riescono a superare i gradini della formidabile scala di Giacobbe [12] che, attraverso le prove e gli esami iniziatici, conducono fino alla cupola centrale.

La cupola centrale; la sua architettura magica. La sua ottica e la sua acustica magiche

Quest’ultima, opera d’architettura magica come tutta l’Agarttha, è rischiarata dall’alto da registri catottrici che lasciano filtrare la luce solo attraverso tutta la gamma enarmonica dei colori, di cui lo spettro solare dei nostri trattati di fisica non costituisce che la diatonica.

Là la gerarchia centrale dei Cardinali e degli Arsci, disposti in emiciclo davanti al Sovrano Pontefice, appare iridata come una visione d’oltre-Terra, confondendo le forme e le apparenze corporee dei due Mondi, e sommergendo sotto degli irraggiamenti celesti qualsiasi distinzione visibile di razza in una stessa cromatica di luce e di suono, ove le nozioni conosciute della prospettiva e dell’acustica vengono superate in modo singolare.

Strano fenomeno acustico

E alle grandi ore di preghiera, durante la celebrazione dei Misteri cosmici, benché i gerogrammi sacri non siano mormorati che a bassa voce nell’immensa cupola sotterranea, si verifica sulla superficie della Terra e nei Cieli uno strano fenomeno acustico.

I viaggiatori e i carovanieri che vagano lontano nei raggi del giorno o nei chiarori notturni si arrestano, uomini e bestie, ansiosi, in ascolto.

Sembra loro come se la Terra stessa aprisse delle labbra per cantare.

Un’immensa armonia senza causa visibile fluttua difatti nello Spazio.

Essa svolge le sue spirali crescenti, scuote dolcemente l’Atmosfera con le sue onde, e sale fino a inabissarsi nei Cieli, come per cercarvi l’Ineffabile.

Da lontano nella notte non si vede altro che il tremolio della Luna e delle Stelle che vegliano sul sonno delle montagne e delle valli, oppure nel giorno altro che il fulgore del Sole sui siti più incantevoli della Terra.

Arabi o Parsi, Buddhisti o Brahmanici, Ebrei Karaiti o Subba, Afghani, Tartari o Cinesi, tutti i viaggiatori si raccolgono con rispetto, ascoltano in silenzio, e mormorano le proprie orazioni nella grande Anima universale.

Conferma della Legge sinarchica

Tale è dalle sue basi fino alla sua sommità la forma gerarchica della Paradesa, vera piramide di luce che racchiude il legame di un segreto impenetrabile.

Nel suo punto culminante, il lettore avrà già letto i simboli della Sinarchia nel triangolo sacro che formano il Brâhatmah e i suoi due assessori, il Mahatma e il Mâhânga.

L’Autorità che dimora nello spirito divino, il Potere nella Ragione giuridica dell’Anima universale, l’Economia nell’Organizzazione fisica del Cosmo: tale è la conferma che la Legge trinitaria della Storia [si] trova alla testa stessa dell’organismo ramide e manavico.

L’adeptato

L’istruzione che riceve l’adepto, appena ammesso dalla Volontà divina che illumina la Saggezza umana, è ancora oggi la stessa dei tempi di Ram e Menes.

Giacché, una volta conosciuta la Verità sintetica, il progresso degli individui consiste nell’innalzarsi fino a essa, per conservarla e procrearla incessantemente negli spiriti e nelle anime.

Foss’anche stato Mosè od Orfeo, Solone o Pitagora, Fo-Hi o Zoroastro, Chrishna o Daniele, incessantemente impetrando e studiando assiduamente, egli dovette cominciare dall’ultimo gradino, per salire fino al primo.

Newton o Lavoisier, Humboldt o Arago, avrebbero dovuto allontanarsi, oppure ricominciare dall’ABC, sì, dall’ABC.

Il Verbo sacro

Difatti è nel Verbo sacro che risiede ogni Scienza, dalla più infima dell’Ordine fisico sino alla più sublime dell’Ordine divino.

Ogni cosa parla e rende manifesto, ogni cosa porta il proprio nome scritto chiaramente nella sua forma, simbolo della sua natura, dall’insetto fino al Sole, dal fuoco sotterraneo che divora ogni materia, sino al Fuoco celeste che riassorbe in sé ogni essenza.

Quanto qui affermo dev’essere preso tanto alla lettera quanto in spirito.

Conferma del Vangelo di San Giovanni

Vi è una Lingua universale sulla quale il lettore troverà delle considerazioni abbastanza precise nella Missione degli Ebrei, e questa lingua altro non è se non il Verbo dei cicli primitivi di cui parla san Giovanni:

Texto hebreo[13]

Nel Principio era il Verbo (la Potenza della Manifestazione creatrice) e il Verbo era in Lui gli Dèi, e Lui gli Dèi era il Verbo.

Oh! Come siamo lontani da questa lingua sapiente, tanto semplice nei suoi principi, così certa in tutte le sue infinite applicazioni!

Aprite uno qualunque dei nostri trattati di fisica o di chimica, guardate i nomi orrendamente barbari, i segni privi di senso intrinseco che compongono la loro nomenclatura ed esprimono le loro equivalenze e le loro leggi.

Nelle lingue antiche, gli stessi oggetti erano descritti secondo la loro natura mediante i simboli verbali assoluti che evocavano il carattere reale degli esseri, delle cose, della loro formazione e della loro scomposizione.

Così, ricondotta alle sue radici nel Verbo vivente, la matesi [14] e la morfologia della Parola dorica erano un atto divino che sottometteva, come dice Mosè, ogni cosa nella Natura all’Intelligenza e alla Scienza umane.

Lingua universale, il Vattano

Nelle loro celle sotterranee, l’innumerevole Popolo dei Dwijas è intento allo studio di tutte le lingue sacre, e corona i lavori della filologia più sbalorditiva con le meravigliose scoperte della Lingua universale di cui ho appena parlato.

Questa lingua è il Vattano.

* Estratto del cap. I del libro di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, Mission de l’Inde en Europe. Mission de l’Europe en Asie, Librairie Dorbon Ainé, Paris, 1910. Pubblicato originariamente nel 1886 per i tipi di Calmann-Lévy e immediatamente distrutto dal suo autore non appena stampato, fu solo un anno dopo la sua morte, nel 1910, che un suo amico, Gérard Encausse (più conosciuto come “Papus”), trovò casualmente un esemplare del libro fra le carte di Saint-Yves e decise di ripubblicarlo.

1. Ricordiamo che la sinarchia è un ipotetico sistema di governo gerarchico, nel quale si è ammessi, si permane o si viene esclusi esclusivamente in base ai propri “meriti”. La parola sinarchia (dal greco συν, assieme, e ἀρχή, comando) significa “governare assieme” [N.d.T.].

2. Satrapo era il nome dato ai governatori delle province degli antichi imperi medi e persiani, inclusi alcuni regni ellenistici. Il termine deriva dall’antico persiano xšaθrapāvā (da xšaθra, reame o provincia, e pāvā, protettore; in greco la parola fu resa da σατράπης) [N.d.T.].

3. India, distretto di Faizabad, nell’Uttar Pradesh [N.d.T.].

4. Uno dei titoli del Buddha, letteralmente “Eremita della tribù di Sākya” [N.d.T.].

5. “Manu … designa propriamente un principio che si potrebbe definire, secondo il significato della radice verbale man, come “intelligenza cosmica” o “pensiero riflesso dell’ordine universale”. Questo principio è d’altra parte visto come il prototipo dell’uomo, il quale è chiamato mânava in quanto è considerato essenzialmente un “essere pensante”, caratterizzato dal possesso del manas, elemento mentale o razionale; … Insomma, la legge di Manu, per un ciclo o una collettività qualsivoglia, non è altro che l’osservanza dei rapporti gerarchici naturali che esistono tra gli esseri sottoposti alle condizioni specifiche di quel ciclo o collettività, con l’insieme delle prescrizioni che normalmente ne risultano” (R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi Edizioni, Milano, 1989, parte terza, cap. V, La Legge di Manu) [N.d.T.].

6. Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, Mission des Juifs, Calmann-Lévy, Parigi, 1884 [N.d.T.].

7. Nell’antica Grecia il termine stava a indicare una confederazione di popolazioni limitrofe aventi in comune il culto di una divinità, oltre a interessi politici [N.d.T.].

8. Termine che indica un membro maschio iniziato appartenente alle prime tre caste (Brahmani, Kshatriya e Vaishya) [N.d.T.].

9. Riprendiamo i vocaboli scritti in sanscrito direttamente dal testo originale [N.d.T.].

10. “la parola «Yoga» è quella che noi abbiamo tradotto il più letteralmente possibile con “Unione”; quello che essa indica in modo proprio è perciò lo scopo supremo della realizzazione metafisica” (R. Guénon, La metafisica orientale, Luni Editrice, Milano, 1998) [N.d.T.].

11. Il termine indica i cinque figli di Pandu e di una mortale (Yudhishthira, Bhima, Arjuna, Nakula, Sahadeva), eroi protagonisti del Mahabharata, testo che racconta il loro combattimento contro i cugini Kaurava. La traduzione proposta da Saint-Yves, sapienti, lascia piuttosto a desiderare [N.d.T.].

12. È detto nel Genesi che quando Giacobbe lasciò la terra di Canaan per cercarsi una sposa, giunse in un luogo dove trascorse la notte. Là si addormentò dopo aver posato il capo su una pietra. Durante il sonno vide una scala tra la terra al cielo e gli angeli che salivano e scendevano. Fu così che ebbe la rivelazione di quella gerarchia cosmica che i kabbalisti chiamano Albero della Vita [N.d.T.].

13. Riportiamo la citazione ebraica, scritta al contrario, copiata dal testo originale di Saint-Yves [N.d.T.].

14. Termine derivato dal greco che si riferisce all’apprendimento in genere e a quello della matematica in particolare [N.d.T.].

Alexandre Saint-Yves d’Alveydre

domenica 11 dicembre 2016

Silenzio e solitudine

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/silenzio-e-solitudine/

di René Guénon

Presso gli Indiani dell’America del Nord, e in tutte le tribù senza eccezione, esiste, oltre ai riti di diverso genere che hanno un carattere collettivo, la pratica di un’adorazione solitaria e silenziosa, che è considerata come la più profonda e dell’ordine più elevato[1]. I riti collettivi, infatti, a un grado o a un altro, hanno sempre qualcosa di relativamente esteriore; diciamo a un grado o a un altro, poiché, al riguardo, occorre naturalmente fare, lì come in ogni altra tradi­zione, una differenza tra i riti che potrebbero essere qualificati come exoterici, vale a dire quelli ai quali tutti partecipano indistintamente, e i riti iniziatici. È d’altronde beninteso che, lungi dall’escludere tali riti o d’opporvisi in qualunque modo, l’adorazione di cui si tratta vi si sovrappone solamente come un qualcosa in certo qual modo di un altro ordine; ed è anche il caso di pensare che per essere veramente efficace e produrre dei risultati effettivi, essa deve presupporre l’iniziazione come una condizione necessaria[2].

In merito a quest’adorazione, si è talvolta parlato di “preghiera”, ma ciò è evidentemente inesatto, giacché non v’è in essa alcuna domanda, di qualsivoglia natura; le preghiere, formulate generalmente in canti rituali, non possono d’altronde rivolgersi che alle diverse manifestazioni divine[3], e vedremo che qui in realtà si tratta di tutt’altra cosa. Sarebbe certamente molto più giu­sto parlare d’“incantazione”, prendendo questa parola nel senso che abbiamo definito altrove[4]; si potrebbe pure dire che è un’“invocazione”, intendendola in un senso esattamente paragonabi­le a quello del dhikr nella tradizione islamica, ma precisando che è essenzialmente un’invoca­zione silenziosa e tutta interiore[5]. Ecco quanto scrive sull’argomento Ch. Eastman[6]: «L’adora­zione del Grande Mistero era silenziosa, solitaria, senza complicazione interiore; era silenziosa perché ogni discorso è necessariamente debole e imperfetto, perciò le anime dei nostri antenati raggiungevano Dio in un’adorazione senza parole; era solitaria perché essi pensavano che Dio è più vicino a noi nella solitudine, e non c’erano affatto preti a fungere da intermediari tra l’uomo e il Creatore»[7]. Difatti, non possono esservi intermediari in un caso simile, poiché quest’adora­zione tende a stabilire una comunicazione diretta con il Principio supremo, che è designato qui come il “Grande Mistero”.

Non solamente è unicamente nel e con il silenzio che tale comunicazione può essere otte­nuta, poiché il “Grande Mistero” è al di là d’ogni forma e d’ogni espressione, ma il silenzio stesso «è il Grande Mistero»; come bisogna intendere esattamente tale affermazione? In primo luogo, si può ricordare a tale proposito che il vero “mistero” è essenzialmente ed esclusivamente l’inesprimibile, che può evidentemente essere rappresentato solo dal silenzio[8]; ma, per di più, essendo il “Grande Mistero” il non-manifestato, il silenzio stesso, che è propriamente uno stato di non-manifestazione, è con ciò come una partecipazione o una conformità alla natura del Principio supremo. D’altra parte, il silenzio, riferito al Principio, è, si potrebbe dire, il Verbo non proferito; per questo «il silenzio sacro è la voce del Grande Spirito», in quanto questo è identificato al Principio stesso[9]; e questa voce, che corrisponde alla modalità principiale del suono che la tradizione indù designa come parâ o non-manifestata[10], è la risposta all’appello dell’essere in adorazione: appello e risposta egualmente silenziose, essendo entrambe un’aspira­zione e un’illuminazione puramente interiori.

Perché sia così, occorre d’altronde che il silenzio sia in realtà qualcosa di più della semplice assenza di parole o discorsi, fossero pure formulati solamente in modo mentale; e, difatti, questo silenzio è essenzialmente, per gli Indiani, «l’equilibrio perfetto delle tre parti dell’essere», cioè di quanto, nella terminologia occidentale, si può designare come lo spirito, l’anima e il corpo, giacché l’essere intero, in tutti gli elementi che lo costituiscono, deve partecipare all’adorazione affinché un risultato pienamente valevole possa esserne ottenuto. La necessità di tale condizione d’equilibrio è facile da comprendere, giacché l’equilibrio è, nella stessa manifestazione, come l’immagine o il riflesso dell’indistinzione principiale del non-manifestato, indistinzione che è ben rappresentata anche dal silenzio, cosicché non ci si deve stupire in nessun modo dell’assi­milazione che così si stabilisce tra quest’ultimo e l’equilibrio[11].

Quanto alla solitudine, conviene notare innanzitutto che la sua associazione con il silenzio è in certo qual modo normale e anzi necessaria, e che, anche in presenza di altri esseri, colui che fa in sé il perfetto silenzio s’isola forzatamente da loro con ciò stesso; del resto, silenzio e solitudine sono anche implicati entrambi in ugual misura nel significato del termine sanscrito mauna, che, nella tradizione indù, è con ogni probabilità quello che s’applica il più esattamente a uno stato come quello di cui parliamo presentemente[12]. La molteplicità, essendo inerente alla manifestazione, e accentuandosi, se si può dire, quanto più si discende ai gradi più inferiori di questa, allontana dunque necessariamente dal non-manifestato; perciò l’essere che vuole met­tersi in comunicazione con il Principio deve anzitutto fare l’unità in se stesso, nella misura del possibile, mediante l’armonizzazione e l’equilibrio di tutti i suoi elementi, e deve anche, nello stesso tempo, isolarsi da ogni molteplicità a lui esteriore. L’unificazione così realizzata, anche se ancora solo relativa nella maggioranza dei casi, costituisce nondimeno, secondo la misura delle attuali possibilità dell’essere, una certa conformità alla “non-dualità” del Principio; e, al limite superiore, l’isolamento assume il senso del termine sanscrito kaivalya, che, esprimendo nello stesso tempo le idee di perfezione e di totalità, arriva, quando ha tutta la pienezza del suo significato, a designare lo stato assoluto e incondizionato, quello dell’essere che è pervenuto alla Liberazione finale.

A un grado molto meno elevato di quello, e che appartiene anzi ancora solo alle fasi prelimi­nari della realizzazione, si può far osservare questo: là ove v’è necessariamente dispersione, la solitudine, in quanto s’oppone alla molteplicità e coincide con una certa unità, è essenzialmente concentrazione; e si sa quale importanza è data effettivamente alla concentrazione, da tutte le dottrine tradizionali senza eccezione, in quanto mezzo e condizione indispensabile d’ogni rea­lizzazione. Ci sembra poco utile insistere oltre su quest’ultimo punto, ma v’è un’altra conse­guenza sulla quale teniamo ancora a richiamare più particolarmente l’attenzione terminando: è che il metodo di cui si tratta, con ciò stesso che s’oppone a ogni dispersione delle potenze del­l’essere, esclude lo sviluppo separato e più o meno disordinato di taluni o talaltri suoi elementi, e segnatamente quello degli elementi psichici coltivati in certo qual modo per se stessi, sviluppo che è sempre contrario all’armonia e all’equilibro dell’insieme. Secondo Paul Coze, per gli Indiani «sembra che, per sviluppare l’orenda[13], intermediario tra il materiale e lo spirituale, oc­corra anzitutto dominare la materia e tendere al divino»; questo insomma equivale a dire che essi considerano come legittimo accostare il dominio psichico solo “dall’alto”, essendo i risultati di quest’ordine ottenuti soltanto in modo del tutto accessorio e come “in sovrappiù”, il che è infatti il solo mezzo per evitarne i pericoli; e, aggiungeremo, ciò è certamente quanto di più lontano dalla volgare “magia” che troppo sovente è stata loro attribuita, e che è persino tutto quel che hanno creduto vedere presso di loro degli osservatori profani e superficiali, con ogni probabilità perché essi stessi non avevano la minima nozione di quel che può essere la vera spiritualità.

René Guénon

[1] Le informazioni che utilizziamo qui sono tratte principalmente dall’opera del sig. Paul Coze, L’Oiseau Tonnerre, da cui traiamo pure le nostre citazioni. Quest’autore dimostra una notevole simpatia nei riguardi degli Indiani e della loro tradizione; la sola riserva che andrebbe fatta, è che egli pare alquanto influenzato dalle concezioni “metapsichiche”, il che ha palesemente impatto su alcune sue interpretazioni e segna­tamente comporta talvolta una certa confusione tra lo psichico e lo spirituale; ma tale considerazione non deve d’altronde intervenire nella questione di cui ci occupiamo qui.

[2] Va da sé che, qui come sempre, intendiamo l’iniziazione esclusivamente nel suo vero senso, e non in quello in cui gli etnologi impiegano abusivamente questa parola per designare i riti d’aggregazione alla tribù; bisognerebbe avere molta cura di distinguere nettamente queste due cose, che in realtà esistono entrambe presso gli Indiani.

[3] Nella tradizione degli Indiani, queste manifestazioni divine sembrano essere il più abitualmente ri­partite secondo una divisione quaternaria, conformemente a un simbolismo cosmologico che s’applica contemporaneamente ai due punti di vista macrocosmico e microcosmico.

[4] Vedere Aperçus sur l’initiation, cap. XXIV.

[5] A questo proposito è interessante notare che certe turuq islamiche, segnatamente quella dei Naqsha­bendiyah, praticano anche un dhikr silenzioso.

[6] Ch. Eastman, citato dal sig. Paul Coze, è un Sioux d’origine, che pare, malgrado un’educazione “bianca”, aver ben conservato la coscienza della propria tradizione; abbiamo d’altronde delle ragioni per pensare che il suo caso sia in realtà lungi dall’essere così eccezionale come si sarebbe tentati di credere quando ci si arresti a certe apparenze tutte esteriori.

[7] L’ultima parola, il cui impiego qui è con ogni probabilità dovuto unicamente alle abitudini del lin­guaggio europeo, non è certamente esatto se si vuole andare al fondo delle cose, giacché, in realtà, il “Dio creatore” non può propriamente trovare posto che tra gli aspetti manifestati del Divino.

[8] Vedere Aperçus sur l’initiation, cap. XVII.

[9] Facciamo questa restrizione poiché, in certi casi, l’espressione “Grande Spirito”, o quel che così si traduce, appare anche solamente come la particolare designazione di una delle manifestazioni divine.

[10] Cf. Aperçus sur l’initiation, cap XLVII.

[11] È appena il caso di ricordare che l’indistinzione principiale di cui qui si tratta non ha niente in comune con ciò che si può anche designare con la stessa parola presa in un senso inferiore, vogliamo dire la pura potenzialità indifferenziata della materia prima.

[12] Cf. L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, 3a edizione, cap. XXIII.

[13] Questa parola orenda appartiene propriamente alla lingua degli Irochesi, ma, nelle opere europee, s’è presa l’abitudine, per maggiore semplicità, d’impiegarla uniformemente al posto di tutti gli altri termini con lo stesso significato che s’incontrano presso i diversi popoli indiani: ciò che essa designa è l’insieme di tutte le differenti modalità della forza psichica e vitale; è dunque pressappoco l’esatto equi­valente del prâna della tradizione indù e del k’i della tradizione estremo-orientale.

sabato 17 settembre 2016

Del segreto iniziatico

In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/del-segreto-iniziatico/

di René Guénon(*)

Sebbene abbiamo già indicato qual è la natura essenziale del segreto iniziatico[1], dobbiamo portare ulteriori precisazioni in proposito, allo scopo di distinguerlo, senza possibilità di equi­voci, da tutti gli altri generi di segreti più o meno esteriori che s’incontrano nelle molteplici organizzazioni che, per questa ragione, sono dette “segrete” nel senso più generale. Abbiamo detto, infatti, che questa designazione, per noi, significa unicamente che tali organizzazioni pos­siedono un segreto, qualunque ne sia la natura, e anche che, secondo il fine che esse si propon­gono, questo segreto può naturalmente vertere sulle cose più diverse e assumere le forme più svariate; ma, in tutti i casi, qualunque segreto che non sia il segreto propriamente iniziatico ha sempre un carattere convenzionale; con ciò intendiamo dire che non è tale se non in virtù di una convenzione più o meno esplicita, e non per la natura stessa delle cose. Al contrario, il segreto iniziatico è tale perché non può non esserlo, poiché consiste esclusivamente nell’“inesprimibile”, il quale, di conseguenza, è necessariamente anche l’“incomunicabile”; e così, se le organizza­zioni iniziatiche sono segrete, in esse tale carattere non ha più nulla d’artificiale e non risulta da alcuna decisione più o meno arbitraria da parte di chicchessia. Questo punto è dunque parti­colarmente importante per ben distinguere, da un lato, le organizzazioni iniziatiche da tutte le altre organizzazioni segrete qualunque, e dall’altro, nelle stesse organizzazioni iniziatiche, quel che costituisce l’essenziale da tutto ciò che può venire ad aggiungervisi accidentalmente; quindi dobbiamo ora dedicarci a svilupparne un po’ le conseguenze.
La prima di queste conseguenze, che peraltro abbiamo già indicato precedentemente, è che, mentre ogni segreto d’ordine esteriore può sempre essere tradito, solo il segreto iniziatico non può mai esserlo in alcuna maniera, poiché, in se stesso e in qualche modo per definizione, è inaccessibile e inafferrabile ai profani e non può da essi venir penetrato, la sua conoscenza non potendo essere che la conseguenza dell’iniziazione stessa. In effetti, questo segreto è di tal na­tura che le parole non possono esprimerlo; è per questo, come spiegheremo più completamente in seguito, che l’insegnamento iniziatico non può far uso che di riti e di simboli, i quali sugge­riscono piuttosto che non esprimano nel senso ordinario della parola. Per l’esattezza, quel che è trasmesso con l’iniziazione non è il segreto in sé, poiché esso è incomunicabile, ma l’influenza spirituale che ha i riti come veicolo, e che rende possibile il lavoro interiore per mezzo del quale, prendendo i simboli come base e come supporto, ciascuno coglierà tale segreto e lo penetrerà più o meno completamente, più o meno profondamente, secondo la misura delle proprie possibilità di comprensione e di realizzazione.
Checché si possa pensare delle altre organizzazioni segrete, non si può perciò, in ogni caso, rimproverare alle organizzazioni iniziatiche d’avere questo carattere, poiché il loro segreto non è qualcosa che esse nascondano volontariamente per ragioni qualsiasi, legittime o no, e sempre più o meno soggette a discussione e ad apprezzamento come tutto quel che procede dal punto di vista profano, bensì qualcosa che non è in potere di nessuno, quand’anche lo volesse, svelare e comunicare ad altri. Quanto al fatto che queste organizzazioni siano “chiuse”, vale a dire che non ammettono tutti indistintamente, esso si spiega semplicemente con la prima delle condi­zioni dell’iniziazione quali abbiamo esposte in precedenza, ossia per la necessità di possedere certe “qualificazioni” particolari, in assenza delle quali alcun beneficio reale potrebbe essere tratto dal ricollegamento a una tale organizzazione. Per di più, quando questa diviene troppo “aperta” e insufficientemente rigorosa a tale riguardo, corre il rischio di degenerare a causa dell’incomprensione di coloro che così ammette sconsideratamente, e che, soprattutto quando divengono la maggioranza, non mancano d’introdurvi ogni sorta di vedute profane e di deviare la sua attività verso scopi che non hanno niente in comune con il dominio iniziatico, come si vede anche troppo bene in ciò che, ai nostri giorni, ancora sussiste in quanto a organizzazioni di questo genere nel mondo occidentale.
Così, ed è una seconda conseguenza di quel che abbiamo enunciato all’inizio, il segreto iniziatico in se stesso e il carattere “chiuso” delle organizzazioni che lo detengono (o, per parlare più esattamente, che detengono i mezzi con i quali è possibile a coloro che sono “qualificati” d’avervi accesso) sono due cose del tutto distinte e che non devono in nessun modo essere confuse. Per quanto riguarda il primo, significa disconoscerne totalmente l’essenza e la portata l’invocare delle ragioni di “prudenza” come talvolta si fa; per il secondo, invece, che peraltro riguarda la natura degli uomini in generale e non quella dell’organizzazione iniziatica, si può fino a un certo punto parlare di “prudenza”, nel senso che, con ciò, quest’organizzazione si difende, non contro delle “indiscrezioni” impossibili quanto alla sua natura essenziale, ma contro quel pericolo di degenerazione di cui abbiamo appena parlato; né si tratta della ragione primaria, quest’ultima non essendo altro che la perfetta inutilità d’ammettere delle individualità per le quali l’iniziazione non sarebbe mai altro che “lettera morta”, vale a dire una formalità vuota e senz’alcun effetto reale, poiché esse sono in qualche modo impermeabili all’influenza spirituale. Quanto alla “prudenza” nei confronti del mondo esterno, come la s’intende il più delle volte, non può essere che una considerazione affatto accessoria, ancorché sia sicuramente legittima in presenza di un ambiente più o meno coscientemente ostile, l’incomprensione pro­fana fermandosi raramente a una sorta d’indifferenza e tramutandosi fin troppo facilmente in un odio le cui manifestazioni costituiscono un pericolo che non ha certo niente d’illusorio; ma questo non può tuttavia colpire l’organizzazione iniziatica in sé, la quale, in quanto tale, è, come abbiamo detto, veramente “inafferrabile”. Così le precauzioni a questo riguardo s’imporranno quanto più tale organizzazione sarà già più “esteriorizzata”, dunque meno puramente iniziatica; è peraltro evidente che è soltanto in questo caso che essa può arrivare a trovarsi in diretto contatto con il mondo profano, che, altrimenti, non potrebbe che ignorarla in modo puro e semplice. Non parleremo qui di un pericolo d’ordine diverso, che può risultare dall’esistenza di ciò che abbiamo chiamato la “contro-iniziazione”, e al quale semplici misure esteriori di “prudenza” non possono peraltro ovviare; queste non valgono che contro il mondo profano, le cui reazioni, lo ripetiamo, sono da temere soltanto perché l’organizzazione ha assunto una forma esteriore analoga a quella di una “società” o è stata trascinata più o meno completamente in un’azione esercitantesi al di fuori del dominio iniziatico, tutte cose il cui carattere non può essere considerato che semplicemente accidentale e contingente[2].
Arriviamo così a far emergere un’ulteriore conseguenza della natura del segreto iniziatico: può accadere infatti che, oltre a questo segreto che solo le è essenziale, un’organizzazione iniziatica possieda anche secondariamente, e senza per questo perdere in nessun modo il suo carattere proprio, altri segreti che non sono dello stesso ordine, ma di un ordine più o meno esteriore e contingente; e sono questi segreti puramente accessori che, essendo necessariamente i soli ad apparire agli occhi dell’osservatore esterno, saranno suscettibili di provocare diverse confusioni. Questi segreti possono provenire dalla “contaminazione” di cui abbiamo parlato, intendendo con ciò l’aggiunta di fini che non hanno nulla di iniziatico, e ai quali può peraltro esser data un’importanza più o meno grande, poiché, in questo genere di degenerazione, tutti i gradi sono evidentemente possibili; ma non sempre le cose stanno così, e può anche essere che simili segreti si riferiscano ad applicazioni contingenti, ma legittime, della stessa dottrina iniziatica, applicazioni che si giudica opportuno “riservare” per ragioni che possono essere assai diverse, e andrebbero determinate in ciascun caso particolare. I segreti a cui stiamo alludendo sono, in special modo, quelli che concernono le scienze e le arti tradizionali; quel che nel modo più generale si può dire al proposito, è che, non potendo tali scienze e tali arti essere veramente comprese al di fuori dell’iniziazione in cui hanno il loro principio, la loro “volgarizzazione” potrebbe avere solo degli inconvenienti, giacché essa comporterebbe inevitabilmente una defor­mazione o addirittura uno snaturamento, del genere di quello che ha precisamente dato origine alle scienze e alle arti profane, come abbiamo esposto in altre occasioni.
In questa stessa categoria di segreti accessori e non essenziali, si deve annoverare anche un altro genere di segreto che esiste in maniera molto generale nelle organizzazioni iniziatiche, e che è quello che occasiona più comunemente, nei profani, quell’equivoco su cui abbiamo pre­cedentemente attirato l’attenzione: tale segreto è quello che verte, sia sull’insieme dei riti e dei simboli in uso in tale organizzazione, sia, più particolarmente ancora, e anche in maniera più ri­gorosa di solito, su certe parole e certi segni da essa impiegati come “mezzi di riconoscimento”, per permettere ai suoi membri di distinguersi dai profani. Va da sé che ogni segreto di tale natura non ha che un valore convenzionale e tutto relativo, e che, per il fatto stesso di concer­nere delle forme esteriori, può sempre essere scoperto o tradito, il che peraltro, rischierà, del tutto naturalmente, di verificarsi tanto più facilmente quanto più si tratterà di un’organizzazione meno rigorosamente “chiusa”; si deve anche insistere su questo, che non solamente tale segreto non può in alcun modo essere confuso con il vero segreto iniziatico, salvo che da coloro che non hanno la minima idea della natura di quest’ultimo, ma che non ha neppure nulla d’essenziale, cosicché la sua presenza o assenza non possono essere invocate per definire un’organizzazione in quanto in possesso di un carattere iniziatico o come priva di esso. In realtà, la stessa cosa, o qualcosa d’equivalente, esiste anche nella maggior parte delle altre organizzazioni segrete qua­lunque, senza nulla d’iniziatico, benché le ragioni ne siano allora differenti: può trattarsi, sia d’imitare le organizzazioni iniziatiche nelle loro apparenze più esteriori, com’è il caso per le organizzazioni da noi qualificate pseudo-iniziatiche, o addirittura per certi raggruppamenti fan­tasiosi che non meritano neppure tale nome, sia molto semplicemente di garantirsi quanto possi­bile contro le indiscrezioni, nel senso più comune della parola, come accade soprattutto per le associazioni di scopo politico, ciò che si capisce senza la minima difficoltà. D’altra parte, l’esistenza di un segreto di questo genere non ha, per le organizzazioni iniziatiche, niente di necessario; anzi ha in esse un’importanza tanto meno grande quanto più puro e più elevato è il loro carattere, poiché esse sono allora tanto più svincolate da tutte le forme esteriori e da tutto quanto non è veramente essenziale. Accade perciò questo, che può sembrare paradossale a prima vista, ma che è invece in fondo molto logico: l’impiego di “mezzi di riconoscimento” da parte di un’organizzazione è una conseguenza del suo carattere “chiuso”; ma, in quelle che sono precisamente le più “chiuse” di tutte, tali mezzi si riducono fino a scomparire talvolta intera­mente, poiché allora non ve n’è più bisogno, la loro utilità essendo direttamente legata a un certo grado d’“esteriorità” dell’organizzazione che vi ha ricorso, e raggiungendo in qualche modo il suo massimo quando quest’ultima rivesta un aspetto “semi-profano”, del quale la forma “societaria” è l’esempio più tipico, poiché è allora che le sue occasioni di contatto con il mondo esteriore sono le più estese e molteplici, e, di conseguenza, più le importa di distinguersi da questo con dei mezzi che siano anch’essi d’ordine esteriore.
L’esistenza di un tale segreto esteriore e secondario nelle organizzazioni iniziatiche più diffuse si giustifica peraltro ancora con altre ragioni: certuni gli attribuiscono soprattutto un ruolo “pedagogico”, se così è permesso esprimersi; in altri termini, la “disciplina del segreto” costituirebbe una sorta d’“allenamento” o d’esercizio che rientra nei metodi propri a queste organizzazioni; e, a questo proposito, in essa si potrebbe vedere in qualche modo come una forma attenuata e ridotta della “disciplina del silenzio” che era in uso in certe scuole esoteriche antiche, segnatamente presso i Pitagorici[3]. Questo punto di vista è sicuramente giusto, a condi­zione di non essere esclusivo; e va notato che, sotto questo rapporto, il valore del segreto è completamente indipendente da quello delle cose sulle quali verte; il segreto mantenuto sulle cose più insignificanti avrà, in quanto “disciplina”, esattamente la stessa efficacia di un segreto realmente importante di per se stesso. Questa dovrebbe essere una risposta sufficiente ai profani che, a tal proposito, accusano le organizzazioni iniziatiche di “puerilità”, non comprendendo peraltro che le parole o i segni sui quali il segreto è imposto hanno un proprio valore simbolico; se essi sono incapaci d’arrivare fino a considerazioni di quest’ultimo ordine, quella che abbiamo appena indicata è almeno alla loro portata e non richiede certo un grandissimo sforzo di comprensione.
Ma, vi è, in realtà, una ragione più profonda, basata precisamente su quel carattere simbolico che abbiamo appena menzionato, e che fa sì che quelli che si chiamano “mezzi di riconosci­mento” non siano solamente questo ma anche, allo stesso tempo, qualcosa di più: si tratta veramente di simboli come tutti gli altri, il cui significato dev’essere meditato e approfondito allo stesso titolo, e che fanno così parte integrante dell’insegnamento iniziatico. È così d’altron­de per tutte le forme impiegate dalle organizzazioni iniziatiche, e, più generalmente ancora, da tutte quelle che hanno un carattere tradizionale (ivi comprese le forme religiose): esse sono sempre, in fondo, altra cosa che quel che paiono dal di fuori, anzi è questo che le distingue essenzialmente dalle forme profane, in cui l’apparenza esteriore è tutto e non ricopre alcuna realtà d’altro ordine. Da questo punto di vista, il segreto di cui si tratta è esso stesso un simbolo, quello del vero segreto iniziatico, il che è evidentemente ben più di un semplice mezzo “pedagogico”[4]; ma, beninteso, qui come altrove, il simbolo non dev’essere in alcun modo confuso con ciò che è simboleggiato, ed è questa la confusione che commette l’ignoranza profana, poiché essa non sa vedere quel che v’è dietro l’apparenza, e non concepisce neppure che possa esservi qualcosa d’altro da quel che cade sotto i sensi, il che equivale praticamente alla negazione pura e semplice di ogni simbolismo.
Infine, indicheremo un’ultima considerazione che potrebbe dar luogo ad altri sviluppi anco­ra: il segreto d’ordine esteriore, nelle organizzazioni iniziatiche in cui esiste, fa propriamente parte del rituale, poiché quel che ne è l’oggetto è comunicato, sotto l’obbligo corrispondente del silenzio, nel corso stesso dell’iniziazione a ciascun grado o come conclusione di quest’ultima. Tale segreto costituisce perciò, non solamente un simbolo come abbiamo appena detto, ma anche un vero e proprio rito, con tutta la virtù propria che è inerente a questo come tale; e del resto, in verità, il rito e il simbolo sono, in tutti i casi, strettamente legati dalla loro stessa natura, come dovremo spiegare più diffusamente nel seguito.


* R. Guénon, Aperçus sur l’Initiation, Édition Traditionnelles, Paris, 1946, cap. XIII: Du secret initiatique.

[1] Vedere anche Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, cap. XII.
[2] Ciò che diciamo qui si applica al mondo profano ridotto a se stesso, se così ci si può esprimere; ma è opportuno aggiungere che in certi casi esso può anche servire come strumento incosciente per un’azione esercitata dai rappresentanti della “contro-iniziazione”.
[3] Disciplina secreti o disciplina arcani, si diceva anche nella Chiesa cristiana dei primi secoli, ciò che sembrano dimenticare certi nemici del “segreto”; ma occorre notare che, in latino, la parola disciplina ha il più delle volte il senso d’“insegnamento”, che è peraltro il senso etimologico, e anche, per derivazione, quello di “scienza” o di “dottrina”, mentre quel che in francese è chiamato “disciplina” non ha che un valore di mezzo preparatorio in vista di un fine che può essere di conoscenza come è qui il caso, ma che può anche essere di tutt’altro ordine, ad esempio semplicemente “morale”; è proprio in quest’ultimo modo che, di fatto, lo si intende più comunemente nel mondo profano.
[4] Si potrebbe, se si volesse entrare un poco nel dettaglio a tale proposito, notare ad esempio che le “parole sacre” che non devono mai essere pronunciate sono un simbolo particolarmente netto dell’“inef­fabile” o dell’“inesprimibile”; si sa d’altronde che qualcosa di simile si trova talvolta perfino nell’exote­rismo, ad esempio per il Tetragramma nella tradizione ebraica. Si potrebbe anche mostrare, nello stesso ordine d’idee, che certi segni sono in rapporto con la “localizzazione”, nell’essere umano, dei “centri” sottili il cui “risveglio” costituisce, secondo certi metodi (segnatamente i metodi “tantrici” nella tradizione indù), uno dei mezzi d’acquisizione della conoscenza iniziatica effettiva.

sabato 2 luglio 2016

Studi sulla Massoneria e il Compagnonaggio

La casa editrice Pardes ha pubblicato il Tomo II dell’opera di René Guénon
 
Studi sulla Massoneria e il Compagnonaggio 
dedicato alle recensioni di libri e riviste, che fa seguito al Tomo I dedicato agli articoli che vi avevamo presentato a suo tempo.

Il Tomo II, sempre in edizione bilingue francese-italiano con testo a fronte, pagine 304+304, data l'estrema attualità e vitalità delle recensioni di René Guénon presenta un interesse forse ancora maggiore rispetto al precedente e include numerosi contributi inediti ritrovati direttamente nelle riviste originali Le Voile d'Isis e Études Traditionnelles e non più ripubblicati.


Portavoce di una Conoscenza sempre più inaccessibile, sin dalla sua apparizione nella prima metà del XX secolo, l’opera di René Guénon ha segnato un prima e un dopo nel panorama delle pubblicazioni relative al dominio spirituale e, più in particolare, al dominio iniziatico.
Certi che comprenderete l’importanza di questa novità editoriale Vi saremmo grati se voleste gentilmente informarne i Vostri lettori.

L'acquisto potrà essere effettuato tramite il pagamento di euro 40 (per ogni copia desiderata), spese postali incluse, via paypal all'indirizzo:
info@acpardes.com
oppure tramite bonifico bancario sul conto intestato a:
Associazione Culturale Pardes
IBAN: CH79 0900 0000 9168 8472 5
BIC/SWIFT: POFICHBEXXX (PostFinance SA CH-3030 Bern)
Causale: Tomo II René Guénon Massoneria.

sabato 21 maggio 2016

La malattia dell’angoscia

In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito: https://drive.google.com/file/d/0BwS7BAey84TnLU1hbGpEcmQ4b2s/view?pref=2&pli=1

di René Guénon *

Oggigiorno è di moda, in certi ambienti, parlare di “inquietudine metafisica”, e perfino di “angoscia metafisica”; queste espressioni, evidentemente assurde, sono ancora di quelle che tradiscono il disordine mentale della nostra epoca; ma, come sempre in casi simili, può essere interessante cercar di precisare che cosa vi sia sotto questi errori e che cosa implichino esattamente tali abusi di linguaggio. È ben chiaro che coloro che parlano in questo modo non hanno la benché minima nozione di che sia veramente la metafisica; ma ancora ci si può chiedere perché essi vogliano trasferire, nel concetto che si fanno di questo dominio loro sconosciuto, questi termini, d’inquietudine e d’angoscia, piuttosto che altri qualsiasi che vi sarebbero altrettanto fuori posto.
Forse occorre vederne la prima ragione, o la più immediata, nel fatto che tali parole rappresentano dei sentimenti che sono particolarmente caratteristici dell’epoca attuale; la predominanza che vi hanno acquisito è d’altronde abbastanza comprensibile, e potrebbe perfino esser considerata come legittima in un certo senso se si limitasse all’ordine delle contingenze, giacché essa è manifestamente fin troppo giustificata dallo stato di squilibrio e d’instabilità di tutte le cose, che va continuamente aggravandosi, e che non è sicuramente atto a dare un’impressione di sicurezza a coloro che vivono in un mondo così agitato. Se vi è in questi sentimenti qualcosa di morboso, gli è che lo stato da cui essi sono causati e mantenuti è anormale e disordinato di per sé; ma tutto ciò, che non è insomma che una semplice giustificazione di fatto, non rende sufficientemente conto dell’intrusione di questi stessi sentimenti nella sfera intellettuale, o almeno in quella che i nostri contemporanei ritengono tale; quest’intrusione dimostra che in realtà il male è più profondo, e che deve trattarsi di qualcosa che si riallaccia a tutto il complesso della deviazione mentale del mondo moderno.
A questo proposito, si può innanzitutto notare che la perpetua inquietudine dei moderni non è altro che una delle forme di quel bisogno d’agitazione da noi spesso denunciato, bisogno che, nella sfera mentale, si traduce nel gusto per la ricerca in se stessa, ossia per una ricerca che, invece di trovare il suo sbocco nella conoscenza come normalmente dovrebbe essere, prosegue indefinitamente senza condurre davvero a niente, e che è peraltro intrapresa senza alcuna intenzione di giungere a una verità cui tanti nostri contemporanei non credono nemmeno. Riconosciamo che una certa inquietudine può avere un posto legittimo al punto di partenza di ogni ricerca, come movente incitante a questa stessa ricerca, giacché è evidente che, se l’uomo fosse soddisfatto della sua condizione d’ignoranza, vi resterebbe indefinitamente e non cercherebbe in nessun modo di uscirne; addirittura sarebbe meglio dare un altro nome a questo genere d’inquietudine mentale: in realtà, essa non è altro che quella “curiosità” che, secondo Aristotele, è l’inizio della scienza e che, beninteso, non ha niente in comune con i bisogni puramente pratici cui gli “empiristi” e i “pragmatisti” vorrebbero attribuire l’origine di ogni conoscenza umana; ma in ogni caso, la si chiami inquietudine o curiosità, è qualcosa che non può più avere alcuna ragion d’essere né di sussistere in alcun modo una volta giunta al termine la ricerca, vale a dire una volta raggiunta la conoscenza, di qualsiasi ordine di conoscenza d’altronde si tratti; a maggior ragione essa deve necessariamente sparire, in modo completo e definitivo, quando si tratti della
conoscenza per eccellenza, che è quella del dominio metafisico. Nell’idea di un’inquietudine senza fine, e di conseguenza inservibile a trarre l’uomo dalla sua ignoranza, si potrebbe dunque vedere il marchio di una sorta di “agnosticismo”, che può essere più o meno incosciente in molti casi, ma che non per questo è meno reale: parlare di “inquietudine metafisica” equivale in fondo, lo si voglia o no, sia a negare la stessa conoscenza metafisica, sia perlomeno a dichiarare la propria impotenza a ottenerla, il che praticamente non fa grande differenza; e, quando questo “agnosticismo” è veramente incosciente, s’accompagna abitualmente a un’illusione che consiste nel prendere per metafisica ciò che non lo è affatto, e che non è neppure una conoscenza valevole ad alcun livello, foss’anche in un ordine relativo, vogliamo dire la “pseudo-metafisica” dei filosofi moderni, che è effettivamente incapace di dissipare la benché minima inquietudine, per la ragione che non è una vera conoscenza, e che, proprio al contrario, non può che accrescere il disordine intellettuale e la confusione delle idee di coloro che la prendono sul serio, e rendere la loro ignoranza tanto più incurabile; in questo come da qualsiasi altro punto di vista, la falsa conoscenza è certamente assai peggiore della pura e semplice ignoranza naturale. Certuni, come abbiamo detto, non si limitano a parlare di “inquietudine”, ma arrivano perfino a parlare di “angoscia”, il che è ancor più grave, ed esprime un’attitudine forse ancor più
nettamente antimetafisica se fosse possibile; i due sentimenti sono d’altronde più o meno connessi, in quanto entrambi hanno la loro comune radice nell’ignoranza. L’angoscia, in effetti, non è che una forma estrema e per così dire “cronica” della paura; ora l’uomo è naturalmente portato a provar paura di fronte a ciò che non conosce o non comprende, e questa stessa paura diviene un ostacolo che gli impedisce di vincere la sua ignoranza, giacché lo induce ad allontanarsi dall’oggetto alla cui presenza la prova e al quale ne attribuisce la causa, mentre in realtà questa causa non è tuttavia che in lui stesso; addirittura questa reazione negativa è spessissimo seguita da un vero e proprio odio nei confronti dell’ignoto, soprattutto se l’uomo ha più o meno confusamente l’impressione che si tratti di qualcosa che supera le sue attuali possibilità di comprensione.
Se però l’ignoranza può essere dissipata, perciostesso la paura ben presto si dissolverà, come nel ben conosciuto esempio della corda scambiata per un serpente; la paura, e di conseguenza l’angoscia che ne è un caso particolare, è perciò incompatibile con la conoscenza e, se arriva al punto d’essere davvero invincibile, la conoscenza diverrà impossibile, anche in assenza di qualsiasi altro impedimento inerente alla natura dell’individuo; in questo senso si potrebbe dunque parlare, non di una “angoscia metafisica”, ma al contrario di una “angoscia antimetafisica”, giuocante in certo qual modo il ruolo di un vero e proprio “guardiano della soglia”, secondo l’espressione degli ermetici, vietando all’uomo l’accesso al dominio della conoscenza metafisica.
Occorre ancora spiegare più completamente come la paura derivi dall’ignoranza, tanto più che a questo proposito abbiamo recentemente avuto modo di constatare un errore abbastanza sorprendente: abbiamo visto attribuire l’origine della paura a una sensazione d’isolamento, e questo in un’esposizione basata sulla dottrina vêdântica, mentre questa al contrario insegna espressamente che la paura è dovuta alla sensazione di una dualità; e infatti, se un essere fosse veramente solo, di che potrebbe aver paura? Si dirà forse che può aver paura di qualcosa che si trova in lui stesso; ma anche questo implica che, nella sua attuale condizione, vi siano in lui degli elementi che sfuggono alla sua comprensione, e di conseguenza una molteplicità non unificata; il fatto che sia isolato o meno non cambia d’altronde niente e non interviene in nessun modo in un caso simile. D’altra parte, non si può invocare validamente, a favore dell’isolamento come spiegazione, la paura istintiva avvertita nell’oscurità da molte persone, segnatamente dai bambini; questa paura è dovuta in realtà all’idea che nell’oscurità possano esservi delle cose che non si vedono, quindi che non si conoscono, e che per questa stessa ragione sono temibili; se al contrario l’oscurità fosse considerata come priva di qualsiasi presenza sconosciuta, la paura sarebbe senza oggetto e non si produrrebbe. È vero che l’essere che prova paura cerca d’isolarsi, ma appunto per sottrarvisi: egli assume un atteggiamento negativo e si “ritrae” come per evitare ogni possibile contatto con ciò che teme, e da ciò provengono senza dubbio la sensazione di freddo e gli altri sintomi fisiologici che accompagnano abitualmente la paura; ma questa specie di difesa irriflessiva è d’altronde inefficace, giacché è ben evidente che, qualunque cosa un essere faccia, non può isolarsi realmente dall’ambiente nel quale è posto dalle sue stesse condizioni d’esistenza contingente, e che, finché si considera come circondato da un “mondo esteriore”, gli è impossibile mettersi interamente al riparo dagli attacchi di quest’ultimo. La paura non può essere causata che dall’esistenza di altri esseri, che, in quanto sono altri, costituiscono tale “mondo esteriore”, oppure di elementi che, sebbene incorporati allo stesso essere, non sono meno estranei ed “esteriori” alla sua coscienza attuale; ma l’“altro”, come tale non esiste che per effetto dell’ignoranza, poiché ogni conoscenza implica essenzialmente un’identificazione; si può dunque dire che più un essere conosce, meno vi è per lui d’“altro” o d’“esteriore”, e che, nella stessa misura, la possibilità della paura, possibilità d’altronde tutta negativa, è per lui abolita; e, finalmente, lo stato di “solitudine” assoluta (kaivalyia), che è al di là di ogni contingenza, è uno stato di pura impassibilità. Notiamo incidentalmente, a questo proposito, che l’“atarassia” stoica non rappresenta che una concezione deformata di uno stato del genere, giacché pretende d’applicarsi a un essere che in realtà è ancora sottomesso alle contingenze, il che è contraddittorio; sforzarsi di considerare le cose esteriori come indifferenti, per quanto sia possibile nella condizione individuale, può costituire una sorta d’esercizio preparatorio in vista della “liberazione”, ma niente di più, giacché, per l’essere che è veramente “liberato”, non vi sono cose esteriori; un esercizio del genere potrebbe insomma essere considerato come un equivalente di quel che, nelle “prove” iniziatiche, esprime in una forma o nell’altra la necessità di superare innanzitutto la paura per giungere alla conoscenza, che in seguito renderà tale paura impossibile, poiché non vi sarà allora più nulla che possa aver presa sull’essere; ed è evidente come occorra assolutamente evitare di confondere i preliminari dell’iniziazione con il suo risultato finale.
Un’altra osservazione che, benché secondaria, non è priva d’interesse, è che la sensazione di freddo e i sintomi esteriori cui abbiamo fatto cenno poco fa si producono anche, senza che l’essere che li prova abbia coscientemente paura in senso proprio, nel caso in cui si manifestino influenze psichiche dell’ordine più basso, come per esempio nelle sedute spiritiche e nei fenomeni di “ossessione”; addirittura in questi casi, si tratta della stessa difesa sub-cosciente e quasi “organica”, al cospetto di qualcosa d’ostile e nello stesso tempo d’ignoto, almeno per l’uomo ordinario che non conosce effettivamente se non ciò che è suscettibile di cadere sotto i sensi, vale a dire le sole cose del dominio corporeo. I “timori panici”, che si producono senza alcuna causa apparente, sono anch’essi dovuti alla presenza di certe influenze non appartenenti all’ordine sensibile; essi sono peraltro spesso collettivi, il che va ancora contro la spiegazione della paura con l’isolamento; e non si tratta necessariamente, in questo caso, di influenze ostili o d’ordine inferiore, giacché può anche succedere che un’influenza spirituale, e non solamente un’influenza psichica, provochi un terrore di questo tipo presso dei “profani” che l’avvertono vagamente senza nulla conoscerne della sua natura; l’esame di questi fatti, che insomma non hanno niente d’anormale checché ne possa pensare l’opinione corrente, non fa che confermare ancora che la paura è realmente proprio causata dall’ignoranza, e per questa ragione abbiamo ritenuto opportuno segnalarli di sfuggita.
Per ritornare al punto essenziale, possiamo dire ora che coloro che parlano di “angoscia metafisica” dimostrano con ciò, innanzitutto, la loro totale ignoranza della metafisica; inoltre, la loro stessa attitudine rende invincibile quest’ignoranza, tanto più che l’angoscia non è una semplice passeggera sensazione di paura, ma una paura divenuta in qualche modo permanente, insediata nello “psichismo” stesso dell’essere, e per questo può esser considerata come una vera e propria “malattia”; finché non la si supera, costituisce propriamente, alla stessa stregua di altri gravi difetti d’ordine psichico, una “squalificazione” nei confronti della conoscenza metafisica.
D’altra parte, la conoscenza è il solo rimedio definitivo contro l’angoscia, come pure contro la paura sotto tutti le sue forme e contro la semplice inquietudine, poiché queste sensazioni non sono che delle conseguenze o dei prodotti dell’ignoranza, e pertanto la conoscenza, una volta raggiunta, le distrugge interamente nella loro stessa radice e le rende d’ora innanzi impossibili, mentre, senza di essa, anche se sono allontanate momentaneamente, possono sempre riapparire a seconda delle circostanze. Se si tratta della conoscenza per eccellenza, quest’effetto si ripercuoterà necessariamente in tutti i domini inferiori, e così queste stesse sensazioni svaniranno anche nei confronti delle cose più contingenti; infatti, come potrebbero colpire colui che, vedendo tutte le cose nel principio, sa che, quali che siano le apparenze, esse non sono in definitiva che degli elementi dell’ordine totale? Così accade per tutti i mali di cui soffre il mondo moderno: il vero rimedio non può venire che dall’alto, ossia da una restaurazione della pura intellettualità; fintantoché si cercherà di porvi rimedio dal basso, ossia accontentandosi d’opporre delle contingenze ad altre contingenze, tutto quel che si pretenderà di fare sarà vano e inefficace; ma chi potrà capirlo mentre è ancora in tempo?

* R. Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Éditions Traditionnelles, Paris, 1952, cap. III: La maladie
de l’angoisse.