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domenica 23 agosto 2015

Ercole e il gigante Anteo

Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Lex Aurea n. 46 (http://www.fuocosacro.com/pagine/lexaurea/lexaurea46.pdf)

di Vito Foschi

Affresco su palazzo del centro di Trento
Ercole è una figura che troviamo in un’ampia serie di miti il cui aspetto iniziatico è piuttosto chiaro. L’avventura, che anche ad una vista superficiale evidenzia simile aspetto, è quella delle 12 fatiche. Nella decima fatica, l’eroe, si deve recare in Occidente per rubare i rossi buoi di Gerione affrontando un pericoloso viaggio; giunto in Libia, affronta il gigante Anteo che secondo alcune tradizioni è re della regione.
La sfida degli eroi con i giganti simboleggia la lotta contro l’orgoglio e il dominio degli istinti, simbolismo che si ritrova anche nella letteratura cavalleresca. Anteo è figlio di Gea e Poseidone; Gea è la madre terra, Poseidone il dio dell’abisso, ambedue a rappresentare il dominio degli istinti e gli stati inferiori dell’essere. Il gigante è piuttosto brutale, avendo l’abitudine di tagliare la testa degli avversari di cui colleziona le teste.

Il gigante oltre a rappresentare gli istinti, simboleggia anche la forza e la brutalità legata alla materia. In Anteo questo legame con la materia è reso più evidente da una sua particolare caratteristica, che è quella di perdere la forza quando non ha più contatti con la terra. Ha i piedi ben piantati a terra e in qualche modo questo legame lo fa assomigliare ad una pianta, che sradicata, muore. Anteo in questa accezione partecipa della natura vegetale. La sua stessa uccisione ricorda lo sradicamento di un albero, perché Ercole lo uccide soffocandolo tenendolo sollevato in alto senza la possibilità di toccare terra: le radici non alimentano più la pianta.
Normalmente l’albero può rappresentare l’asse del mondo, ma in questo caso non è questa la valenza, ma semplicemente la rescissione dei legami materiali. Il gigante muore perché legato al cordone ombelicale della madre: è un mai nato. L’uccisione di Anteo è un staccarsi dalla madre è quindi un rinascere. La Madre terra, rappresenta la natura e il regno delle forme, che come specchio possono rimandare al principio superiore, ma allo stesso tempo possono ingannare o accecare e far permanere l’anima dell’iniziato nel mondo delle illusioni e non evolvere verso uno stato superiore. L’essere legati a terra come una pianta è un tirare giù e per questo l’eradicazione ovvero il tenere sollevato in alto il gigante, vuol dire partecipare dell’elemento aereo, sollevarsi per toccare il cielo. Sradicare, eliminare il legame con gli aspetti terreni per poter ascendere rompendo i legami con la materia.


Altro aspetto simbolico è l’uso di Anteo di decapitare i nemici. La testa è il centro dell’essere e lo staccarsi dal corpo sta a simboleggiare la separazione dagli aspetti materiali. In questo caso il simbolismo ha una valenza negativa, perché le teste sono collezionate dal gigante che le tiene nella sua dimora a significare il legame di quei sfidanti con la terra. La sconfitta non ha permesso loro di superare la prova e il loro essere è prigioniero della terra, del regno delle forme.

lunedì 11 maggio 2015

Una riflessione sui testimoni di casi inspiegabili

di Vito Foschi

Sabato scorso guardavo Unexplained Files su Deejay Tv e fra i vari argomenti è capitato anche quello di un Ufo avvistato da un pilota militare; ciò mi ha fatto nascere una riflessione sui testimoni di casi cosiddetti inspiegabili. I testimoni singoli a volte vengono accusati di essere solo persone in cerca di notorietà o attenzione, mentre nel caso di una pluralità di testimoni si parla di isteria collettiva.
Indubbiamente esistono episodi di vere e proprie truffe o di persone disturbate o in cerca del famoso quarto d’ora di notorietà, però in altri non si capisce perché una persona dovrebbe inventarsi una storia incredibile e poi andarla a raccontare in giro. Facendo un lavoro da impiegato con annesso capoufficio, sono in qualche modo vincolato ad una certa disciplina e a vincoli “sociali”. Ciò accade in un normale luogo di lavoro e si immagina che in ambienti come quelli militari, medici o professionali in cui conta gerarchia e reputazione la situazione sia ancora più rigida. Andreste da un medico che va in giro a raccontare che vede gli Ufo? O un militare potrebbe continuare a fare carriera se va in tv a dire che vede i fantasmi? In breve, è un po’ difficile credere che tutti i testimoni di casi inspiegabili non siano credibili e lo facciano solo per notorietà. Tranne chi può ricavarci una professione, non pare che ci siano tutti questi vantaggi ad andare in tv a dire di essere testimoni di casi inspiegabili, specialmente per alcune persone. Si immagini un piccolo paese di provincia dove si conoscono tutti, quanto una persona possa venire etichettata negativamente, se denuncia di essere stato testimone di un qualche fenomeno inspiegabile. Certo, un individuo può fraintendere ciò che ha visto, ma non si può sempre dubitare della buona fede.

L’altra questione è l’isteria collettiva. Sicuramente un singolo immerso in una folla è soggetto alle influenze del gruppo, ma sembra difficile credere che queste influenze possano arrivare al punto che una persona possa vedere cose che non esistono. Questo dubbio viene ampliato dalla presenza di individui eterogenei e persino scettici come capitato a Fatima con il fenomeno del sole ballerino. Una folla omogenea è diversa da una eterogenea. Provo a spiegare. Una folla di tifosi è legata dall’interesse per quel particolare sport e per la propria squadra, e sicuramente un singolo in tale circostanze può subire una forte influenza. Diverso pare il caso di un gruppo di persone che per accidente assiste ad un fenomeno inspiegabile, o come nei fatti di Fatima quando si radunano sia chi vuole credere e sia chi sta lì proprio per smentire il fenomeno. Indubbiamente un gruppo di credenti che vuole vedere un miracolo può essere soggetto ad una influenza, ma risulta difficile credere che un semplice curioso venga così influenzato da vedere ciò che vedono gli altri.

domenica 15 marzo 2015

La simbologia del cuore e la leggenda del Graal

di Vito Foschi

Il geroglifico egizio che indica il cuore è costituito da un piccolo vaso e per gli antichi egizi il cuore era la sede dell’anima(1); alla morte il cuore veniva pesato dal dio Anubi(2) e da questa pesa veniva decisa la sorte dell’anima del defunto.

Geroglifico egizio rappresentante il cuore

Il testo da cui inizia la leggenda del Graal, è il Perceval di Chrétien de Troyes. In tale racconto, il Graal non ha ancora una forma definita. Viene descritto come preziosissimo, fatto in oro e tempestato di pietre preziose. Non si accenna alla sua forma, si intuisce che è un contenitore perché "il giovane non domanda a chi lo si serva" e poco dopo "Ma non sa a chi lo si serva". Il Graal viene portato in processione e viene preceduto da altri oggetti simbolici, tra cui la lancia sanguinante. Già in questo primo racconto si fa accenno al sangue. In un passo successivo Perceval incontra lo zio Eremita che gli spiega il significato del Graal. Il Graal serve l’ostia, unico nutrimento da dodici anni, al padre del Re Pescatore. Da questo riferimento eucaristico è quasi immediato pensare al Graal come ad un calice.
Dopo pochi anni dalla diffusione dell’opera di Chrétien, Robert de Boron con il suo Giuseppe d’Arimatea spiega l’origine del Graal identificandolo con il calice dell’Ultima Cena che poi serve a Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue sgorgato dalle ferite di Cristo in croce.
Questa versione del calice contenente sangue fa tornare in mente il geroglifico egizio del cuore, ed è facile identificare il Graal al cuore.
Il calice di Cristo contiene il sangue di Cristo in due modi diversi: nel corso dell’Ultima Cena, quando il vino è il Suo sangue e successivamente quando è raccolto dal Suo corpo sulla croce.
Ricordiamo anche il simbolo del Cristo come un pellicano che si strappa il cuore per nutrire o ridare vita ai figli.(3) Il collegamento col simbolo cristiano del Sacro Cuore di Gesù è evidente.
Citiamo un passo di un articolo in cui si discute sul significato simbolico del cuore:"Il simbolo del cuore indica il centro dell’essere, il luogo in cui si svelano i significati profondi, al di là delle connessioni stabilite dalla razionalità."(4)
Riportiamo un passo di un librino dedicato al Sacro Cuore di Gesù, che mette in evidenza come anche nella tradizione cattolica il cuore è associato al centro dell’essere:"È il nostro centro nascosto, irraggiungibile dalla nostra ragione e dagli altri; solo lo Spirito di Dio può scrutarlo o conoscerlo. È il luogo della decisione, che sta nel più profondo delle nostre facoltà psichiche. È il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte. È il luogo dell’incontro, poiché, ad immagine di Dio, viviamo in relazione: è il luogo dell’Alleanza". E ribadisce al n. 368: "La tradizione spirituale della Chiesa insiste anche sul cuore, nel senso biblico di ‘profondità dell’essere’, dove la persona si decide o no per Dio".
Dio parla al cuore dell’uomo, il centro dell’essere, non al suo orecchio, non alla sua mente. Si legga il seguente passo della Bibbia:"Anzi, questa (sua) parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore"(Dt 30,14).
Si noti lo stesso significato nella seguente citazione:"Il termine arabo per indicare il cuore è, Qalb, che indica l’atto di ricevere ‘da bocca ad orecchio’ (da cui Qabbalah), e significa un’intuizione intellettuale, che è prima di tutto un ascoltare."(5)
Un’altra assonanza tra cuore e coppa si ritrova nella tradizione islamica quando paragona il cuore dell’arif(il saggio, l’iniziato) ad una coppa contenente potenza e sapienza.
Il simbolo del cuore ha quindi un profondo significato spirituale. Rappresenta il centro dell’essere, la sua anima ed il luogo dell’"incontro" e dell’"Alleanza".
In questa accezione la cerca del Graal è una ricerca eminentemente spirituale e i luoghi che attraversa il cavaliere non sono luoghi fisici, ma luoghi dell’anima. Alcuni episodi delle avventure dei cavalieri partiti alla ricerca del Graal, sono palesemente delle prove dello spirito perché si trovano ad affrontare demoni o sortilegi approntati dal Demonio. Il pericolo di perdersi prima del raggiungimento della meta, è il pericolo di perdere la via che porta a Dio. Non a caso gli eroi si muovono senza un’apparente via da seguire come se fossero in un labirinto, quei labirinti che ricoprono il pavimento di alcune cattedrali medievali che stanno lì a simboleggiare il percorso dell’anima deve affrontare per raggiungere la grazia di Dio.
Inoltre il simbolo del cuore è equivalente a quello del sole. Il primo centro dell’essere, il secondo centro del cielo. Tutte e due simboli positivi della vita. Il sole ha un ulteriore aspetto: è il simbolo della regalità. Il re come centro del regno da cui tutto dipende tutto. I suoi raggi arrivano ovunque a portare la sua presenza. È naturale pensare a Luigi XIV, detto Re Sole, ed al suo motto: "Io sono lo stato".
Nel Perlesvaus, romanzo anonimo ma di area cistercense, Parsifal recupera il Graal diventando Re del Graal e divenendone custode. I due significati si sommano: il cuore puro permette la conquista del centro.



Note
  1. "…Thoth aveva la testa di un ibis perché l’uccello, quando piegava l’ala, assumeva la forma di un cuore, la sede della vita e della vera intelligenza." Peter Tompkins – "La magia degli obelischi" – Marco Tropea Editore 2001;
  2. La stessa funzione nella tradizione ebraica è attribuita all’angelo Mikael, divenuto il nostro S. Michele arcangelo. Un suo attributo è proprio la bilancia; anche nell’iconografia cristiana del Giudizio Universale è raffigurato con spada e bilancia, attributi della giustizia;
  3. J. L. Borges e M. Guerriero – "Manuale di zoologia fantastica" – Einaudi 1998;
  4. G.C. – "Il simbolo del cuore", da Massoneria Oggi – n. 2 – luglio 1994 – Soc. Erasmo Roma; reperibile nel sito di Esoteria al seguente indirizzo: http://www.esoteria.org/;
  5. Ibidem.

giovedì 1 gennaio 2015

Il Viaggio Iniziatico di Alice nel Paese delle Meraviglie

tratto da Lex Aurea n. 38 (http://www.fuocosacro.com/pagine/lexaurea/lexaurea38.pdf)

di Vito Foschi



Una premessa. In questo articolo andrò a interpretare il racconto di Alice nel Paese delle Meraviglie, precisando che l'autore non aveva interessi esoterici e il suo libro non ha intenti simili, ma è semplicemente una storia pensata per i bambini. Ciò chiaramente non esclude un'interpretazione simbolica del testo. Dopotutto se è accettabile dalla critica letteraria un'interpretazione sessuale simil freudiana non si riesce a capire perché non sia possibile farne una simbolica: nell’in-terpretazione di una favola la tana del coniglio può essere tranquillamente un simbolo sessuale, ma  non per esempio un simbolo della Dea Madre che si adorava nelle grotte. Se va bene che il coniglio sia un simbolo sessuale e sinceramente di primo acchito non è la prima cosa che viene in mente del coniglio, ma semmai la sua velocità, allora dovrebbe andar bene affermare che la tana sotterranea possa rappresentare gli stati inferi dell’essere, da attraversare prima di passare agli stati superiori.


Alice è una bambina ben educata, ma sopratutto è immersa nel razionalismo ottocentesco. La sua è una mente razionale e va finire in un mondo che sovverte le regole: gli animali parlano, le persone cambiano dimensioni, ecc. Cose che una mente razionale non può accettare, ma nel racconto deve imparare a fare. Certo può essere un semplice scontro fra razionalità della società vittoriana ottocentesca e un modo di pensare più spontaneo, più infantile, ma a volte l'irrazionale può aprire altre porte.

Alice si trova in un prato quando si addormenta sognando tutta l’avventura, che solo alla fine del racconto si svela essere solo un viaggio onirico. Nel suo sogno-viaggio, Alice, incontra molteplici animali e ciò in qualche modo ricorda i viaggi degli sciamani con i loro animali totemici.
Fra i tanti animali sicuramente quello che occupa il posto di rilievo è il coniglio che è l’iniziatore, colui che fa intraprendere il viaggio ad Alice e che la guida durante il percorso.

Dopo la caduta nella tana del coniglio Alice si trova in una strana stanza sostanzialmente vuota, ma cosparsa di porte. Su un tavolino di vetro trova una piccola chiave che apre una porticina occultata da una tenda. Alice compie vari tentativi per aprire la porticina e penetrarci, ma senza successo. Prende la chiave e apre la porta, ma l’apertura è troppo piccola per passarci e riesce solo a vedere che dà su un bellissimo giardino. Sarà il Paradiso riservato agli iniziati? Torna indietro e trova una bottiglietta da cui beve e si rimpicciolisce alle giuste dimensioni per attraversare la porticina, ma trova la porta chiusa e la chiave sul tavolino, ormai irraggiungibile. Alice riconquista la sua altezza, recupera la chiave, apre la porta, riesce a rimpicciolirsi ma ritrova la porta chiusa. Dopo un altro tentativo la scena cambia completamente. Alice non è pronta a superare la prova. Per tutto il racconto cambia le sue dimensioni alla ricerca di quelle giuste.

Per superare la prova deve possedere due qualità, la chiave, ovvero il mezzo per penetrare la Verità e la giusta altezza ovvero la giusta predisposizione d’animo. Non bisogna essere alti, ovvero avere orgoglio, perché ciò non può che far perdere la verità.
Dopo la scena della stanza dalle molteplici porte Alice si ritrova rimpicciolita in un mare formato dalle lacrime cadute quand’era un gigante. Vi ritrova vari animali con qui intavola una discussione e con cui fa una corsa “confusa” ovvero una corsa in cui ogni partecipante corre dove vuole senza curarsi di seguire un percorso. In questo episodio prevale l’assurdità è sembra solo un intermezzo per far uscire Alice dalla stanza dalle molteplici porte e proseguire il racconto con altre prove. In effetti il racconto si conclude con l’avvistamento del Bianconiglio che corre come al suo solito ed Alice che prontamente lo rincorre. Il coniglio la continua ad indirizzare nella giusta direzione. Seguendo il Bianconiglio, Alice finisce nel Paese delle Meraviglie e seguendolo ancora si allontana dall’assurda situazione della corsa confusa per proseguire nel suo viaggio.

Altro animale simbolico è il bruco che Alice incontra a metà racconto. Il bruco rimanda alla crisalide, alla trasformazione, alla morte simbolica e alla rinascita come farfalla ovvero come essere nuovo non più legato alla terra, ma al cielo. Il bruco è perciò perfetto simbolo dell’iniziazione.

A fine racconto Alice incontra un grifone, animale mitologico unione di cielo e terra, leone ed aquila, simbolo dell’iniziazione proprio per la sua doppia natura. L’iniziazione non è un passaggio? Un passaggio da una condizione umana, terrena ad una superiore? E il leone a cui spuntano le ali non ne è che un simbolo. E tale animale compare alla fine del racconto quasi a voler simboleggiare l’ormai acquisita iniziazione di Alice che da lì a poco si sveglierà dallo stato di sonno: si risveglia alla sua nuova condizione, come una qualsiasi iniziazione con la morte iniziatica e il successivo risveglio. Altro elemento caratterizzante il grifone è la coda formata da un serpente, animale sicuramente legato alla terra, ma in grado di infilarsi nei buchi, quindi in qualche modo partecipe della natura sotterranea e in tal modo ideale completamento con il leone e l’aquila dei tre mondi, dando così al grifone una completezza. Ma non solo questo, il serpente oltre alle note valenze negative, che nel grifone non compaiono, è un altro simbolo iniziatico per la sua caratteristica di cambiare pelle, quindi di lasciare la sua vecchia natura e di acquisirne un’altra.
A livello allegorico l’aquila rappresenta l’intelligenza per la sua capacità di guardare lontano, il leone la forza e il coraggio e il serpente la furbizia. Quindi anche a livello allegorico il grifo è un simbolo di completezza, la forza guidata dalla intelligenza ed aiutata dalla furbizia per svelare gli inganni.
Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”. (16 Vangelo secondo Matteo)

Sulla Regina di Cuore collerica si sprecherebbero le congetture psicologiche dal classico complesso di Edipo alla madre della vera Alice che proibisce al giovane Carrol di vedere la bambina. D’altro canto la regina è di cuori e non può essere che preda di forti emozioni essendo il cuore l’organo deputato a ciò. Il rosso è anche il colore delle forti emozioni e della rabbia, ma non dimentichiamo che il rosso è anche il colore della nobiltà, e quindi naturale corollario della sovranità. Per tutto l’episo-dio la Regina minaccia tutti di far tagliare loro la testa ed è emblematico che ciò accade alla fine del racconto. La decollazione ha un forte significato simbolico, di morte e poi di rinascita. Staccare il capo dal corpo ovvero lo spirito dal corpo, dalla componente materiale, liberarlo dalla materia, non a caso decollare, è anche etimologicamente far volare.
L’ultimo episodio del racconto vede Alice imputata in un processo. La bambina ha già conosciuto il Grifo che come abbiamo visto ha un preciso significato iniziatico e durante il processo mantiene un atteggiamento di sufficienza e quasi di irritazione per tutti quei buffi personaggi: oramai il suo viaggio volge al termine. Il passaggio è terminato, l’iniziazione è avvenuta, la testa simbolicamente si è staccata dal corpo e può volare libera e tutti quei buffi personaggi, rappresentanti gli stati dell’essere precedenti all’iniziazione, sono solo d’intralcio

domenica 14 dicembre 2014

Il Papà Racconta: favole per piccini e non più piccini

Questa volta vi segnaliamo un libro non propriamente misterioso, ma che in ogni caso attinge al mondo fantastico ed in particolare a quello fiabesco con draghi, elfi, nani minatori, fate e le altre classiche creature immaginarie. Fra i racconti non mancano quelli con protagonisti gli animali che nella migliore tradizione, cercano di inseganre qualcosa ia piccoli lettori. Il libro è in formato ebook ed è scritto dal nostro collaboratore Vito Foschi e lo potete scricare dal seguente link:


Non possiamo che consigliare di acquistare questa piccola chicca, che può essere anche un simpatico regalo di Natale.
 
http://www.lionmedia.it/shop/?prodotto=il-papa-racconta

lunedì 14 luglio 2014

Un italiano sconosciuto precursore di Einstein

pubblicato su Mystero n. 56, gennaio 2005 (rivista edita da Luigi Cozzi)



di Vito Foschi

«La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [...] La formula mv² ci dà la forza viva e la formula mv²/8338 ci dà, espressa in calorie, tale energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di milioni».

Introduzione

Albert Einstein in una fotografia del 1947. Nobel per la fisica 1921
Albert Einstein - Foto da Wikipedia
Ovvero E=mc2, come dirà dopo Albert Einstein. Dopo? Ebbene sì, non è una frase di Albert Einstein, ma di un suo oscuro precursore. Come si legge dal passo sopra riportato, l’equivalenza fra massa ed energia è chiaramente formulata nei termini matematici esatti che saranno poi di Einstein. Questo frase fa parte di un articolo apparso nel febbraio del 1904 negli atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti ed intitolato “Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo”. L’articolo porta in allegato una lettera di complimenti del famoso astronomo Schiaparelli.
L’articolo, in cui Einstein presenta la sua famosa formula è presentato alla rivista Annalen der Physik nel settembre 1905, quindi più di un anno e mezzo dopo la pubblicazione dell’“Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo”.
Vi chiederete chi è l’autore di questa opera che sembra anticipare e forse ispirare il famoso scienziato tedesco? L’autore è uno sconosciuto agronomo vicentino: Olinto De Pretto.
Esaminiamo i particolari della vicenda.

L’articolo di Einstein

L’articolo in cui Einstein presenta la formula dell’equivalenza fra massa ed energia segue di qualche mese quello sulla teoria della relatività. Potrebbe sembrarne una diretta conseguenza, ma in realtà non è così. L’idea è in un certo qual modo indipendente, anche se si inserisce perfettamente nell’ipotesi della relatività. Idee similari erano state proposte da alcuni scienziati, tra cui Poincaré che aveva ipotizzato che l’energia elettromagnetica potesse essere considerata come «"un fluide fictif", la cui massa è uguale al rapporto tra l'energia e il quadrato della velocità della luce». L’ipotesi di Einstein si poteva tranquillamente inserire in questa corrente di pensiero più che essere una conseguenza della teoria della relatività ristretta. Oltre a ciò, l’articolo di Einstein presenta un’ipotesi ristretta, rispetto alla formulazione generale di Olinto De Pretto, riferendosi al caso specifico di un corpo radiante. Infine, il titolo dell’articolo presenta un punto interrogativo come se si volesse rispondere ad un quesito già posto da altri. Questo, insieme alla possibilità che il giovane fisico tedesco potesse essere a conoscenza del lavoro di De Pretto, porta ad ipotizzare che si sia potuto ispirare a quest’ultimo. I legami con l’Italia del giovane Einstein sono stato importanti dato che la sua famiglia vi si trasferì definitivamente nel 1894 e che conosceva l’italiano tanto bene da tenere delle conferenze nella nostra lingua. Purtroppo non è facilmente dimostrabile che lo scienziato fosse a conoscenza del lavoro di De Pretto.

Olinto De Pretto, chi era costui?

Olinto De Pretto nacque in provincia di Vicenza il 26 aprile del 1857, sesto di sette fratelli e si laureò in Agraria presso l’Università di Milano per poi lavorare, subito dopo, alla scuola Superiore di agricoltura come assistente. Lasciato il lavoro all’università nel 1886, Olinto De Pretto assunse la carica di direttore amministrativo della Fonderia De Pretto, costituita da suoi famigliari, che lasciò nel 1920, quando l’azienda si fuse con la svizzera Escher Wyss. Accanto a questa attività si occupò di fondare scuole tecniche professionali e di varie società industriali. La sua vita si concluse tragicamente il 16 marzo 1921 quando fu ucciso da una donna che lo accusava di essere stato la causa del mancato successo del marito, proprietario di una cava di lignite. In quello stesso anno usciva alle stampe il libro di De Pretto “Lo spirito dell’universo” dove riprendeva i temi della suo lavoro del 1904.
In questo suo libro potrebbe trovarsi una rivendicazione della primogenitura dell’idea dell’equivalenza fra massa ed energia, ma non se ne trova traccia. In realtà, le idee di De Pretto e di Einstein avevano in comune solo l’enunciato dell’equivalenza fra massa ed energia mentre per il resto differivano totalmente. Le idee di De Pretto si basavano sul concetto di etere e negavano il valore limite della velocità della limite, anzi presupponevano un valore di propagazione dell’attrazione gravitazionale infinito, idee totalmente opposte a quelle einsteiniane. Probabilmente per questo, l’agronomo vicentino nel suo libro non incluse idee che inficiavano le sue teorie.

Il collegamento


Come accennato la famiglia di Einstein si stabilì in Italia dal 1894. Il padre dello scienziato si occupava dell’installazione della luce pubblica in alcuni comuni del Veneto e proprio la Fonderia De Pretto era una delle poche aziende capaci di costruire turbine necessarie per la produzione di elettricità. Inoltre i De Pretto compivano frequenti viaggi in Svizzera per motivi legati a brevetti internazionali. Questa potrebbe essere la via con cui Einstein venne a conoscenza della teoria di De Pretto, ma potrebbe esisterne un’altra, indiretta, ma più interessante.

“A conclusione osservo che durante il lavoro ai problemi qui trattati il mio e collega M. Besso mi stette fedelmente a fianco e che io devo allo stesso parecchi preziosi incitamenti”.

Questa frase si trova nell’articolo del 1905 in cui Einstein pone le basi della relatività ed è tanto importante perché nell’articolo manca totalmente la bibliografia.
L’amicizia fra Michele Besso ed Albert Einstein nacque al Politecnico di Zurigo e durò tutta la vita. Besso nacque nel 1873 a Trieste da una famiglia piuttosto agiata, divenuto ingegnere, lavorò presso la “Società per lo sviluppo delle Industrie elettriche in Italia” per poi lasciarla per andare a lavorare nell’ormai storico Ufficio Brevetti di Berna, dietro insistenza dell’amico tedesco. Di questo periodo non esiste documentazione scritta dato il contatto diretto dei due amici. Besso era dotato di profonda curiosità scientifica in vari campi ed aveva mantenuto legami con la famiglia in Italia, ma circostanza notevole, un suo zio con cui aveva un rapporto piuttosto stretto, Beniamino Besso, era Direttore delle Ferrovie Sarde e risiedeva a Roma, ed un fratello di Olinto De Pretto, Augusto, faceva parte del Reale Ispettorato delle Strade Ferrate, e per motivi di lavoro soggiornava spesso a Roma. Si può ipotizzare che Augusto De Pretto, abbia potuto parlare delle idee del fratello Olinto ai suoi colleghi, tra cui Beniamino Besso e questi ne abbia potuto accennare al nipote Michele con cui aveva un fitto rapporto epistolare. Certo, prove documentabili non ne esistono, ma esiste una concreta possibilità di un contatto, seppur indiretto, fra l’agronomo vicentino e lo scienziato tedesco.
Del fatto ne avrebbe potuto parlare lo stesso Einstein citandolo insieme ai tanti aneddoti della sua vita, raccontando di come aveva trasformato un’idea folle di uno sconosciuto nella più grande scoperta del secolo. Ma il fatto che non ne parla non significa nulla perché spesso ciò che ricordiamo del nostro passato è una ricostruzione a posteriori. A questo proposito riporto un passo dell’articolo “I sentieri dell’innovazione” di Armando Massarenti pubblicato su “Il Sole 24 Ore” del 19 settembre 2004:
«…gli storici della scienza sanno che i racconti individuali degli scienziati vanno sempre presi con molta cautela. In perfetta buona fede essi tendono a dare ricostruzioni mitiche delle loro scoperte e dei processi che vi hanno condotto. Esemplare è il caso di Einstein che era assolutamente convinto di aver elaborato la teoria della relatività ristretta in risposta all’esperimento di Michelson e Morley sul trascinamento dell’etere. In realtà esso era sì stato svolto alcuni anni prima, ma Einstein ebbe modo di conoscerlo solo dopo l’elaborazione della propria teoria. A convincerlo di ciò è stata la puntuale ricostruzione degli eventi fatta da Gerard Holton.
Ma non si può biasimare Einstein per aver creduto in una versione mitica ed edificante degli eventi, peraltro tuttora riprodotta in buona parte dei manuali di fisica».

Conclusioni


Dell’intricata ed affascinante faccenda ne parla diffusamente il prof. Bartocci dell’Università di Perugia, alle cui ricerche facciamo riferimento, nel suo libro “Albert Einstein e Olinto De Pretto: La vera storia della formula più famosa del mondo” (Bologna, Andromeda, 1999), opera quasi introvabile anche perché nessun grande editore rischierebbe su un libro del genere: Albert Einstein è per il momento intoccabile.

mercoledì 9 luglio 2014

La corta memoria della scienza (4 di 4)

di Vito Foschi

Comunicazione e metodologia della trasmissione del sapere


Un altro fattore da non trascurare è la metodologia della trasmissione del sapere. Anche oggi in un mondo in cui l’informazione sembra a portata di mano esistono zone oscure in cui è impedito l’accesso. Basti pensare a quanta tecnologia militare è chiusa in sicuri bunker inaccessibili ai più. O un esempio, più banale, ma forse più emblematico, la formula della Coca Cola, uno dei segreti meglio custoditi del mondo. Anche in passato la trasmissione del sapere è stata soggetta a questi vincoli. E così l’artigiano trasmetteva le sue scoperte ai suoi allievi, che avrebbero fatto lo stesso, mantenendo un vincolo di segretezza. Le corporazione medievali ne sono una chiara testimonianza. Un altro esempio è l’arte della metallurgia ammantata da oscuri simbolismi dai sacerdoti egizi per mantenere il loro segreto e il loro potere.
Naturalmente questa segretezza ha permesso ad alcune conoscenze di attraversare i secoli sottraendosi all’occhio di severi censori che accendevano falò su cui bruciare i libri, ma aumentando anche il rischio di vedere dimenticate certe conoscenze.

Effetto collaterale: esoterizzazione della cultura moderna


Come accennato prima per la scienza, che subisce un processo di esoterizzazione, sta avvenendo per la cultura in genere. Ormai si è creata una sovrastruttura informativa formata dai media quali stampa, radio, TV ed Internet che invece di facilitare l’accesso alla conoscenza finisce per occultarla in un bombardamento continuo di notizie e informazioni che finiscono per occupare tutto lo spazio mentale rendendo impossibile un pensiero ed una rielaborazione critica.
Un’altra sovrastruttura che apparentemente dovrebbe facilitare ma che in realtà nasconde è il commento dei testi classici. Con la scusa di renderli leggibili per i lettori moderni, si finisce di infarcirli tanto con introduzioni, note, commenti, glosse da nascondere l’opera. Inoltre, il numero di pagine di questi “aiuti alla lettura”, a volte, supera abbondantemente quelle dell’opera stessa, con il risultato finale di libri di centinaia di pagine che scoraggiano alla lettura, quando in realtà, l’opera originale è di poche pagine. E poi, perché è necessario il commento? Perché la cultura ha subito una destrutturazione ed una specializzazione. Prima esistevano le materie del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica) e la loro conoscenza era sufficiente ad accedere a tutto il sapere. Ora questa struttura non esiste più, esistono le specializzazioni, che rendono sì possibile dei risultati, ma al costo di vivere nella propria gabbia specialistica e di non riuscire più ad accedere alle diverse branche del sapere.
Un altro fattore che rende difficile la lettura di testi antichi è la cancellazione della religione dalle materie d’insegnamento. Sarà stata una conquista dello stato laico, ma, di fatto, impedisce l’accesso alla cultura antica tutta impregnata di religione e misticismo.
Come ho detto prima, viviamo in una continua rincorsa per stare a passo coi tempi imparando cose inutili e dimenticando spesso conoscenze utili. Gli esempi li viviamo noi stessi. Vi chiedo: sapreste riconoscere un santo che vedete raffigurato in una chiesa? Credo che la maggior parte di noi eccetto per i santi più noti avrebbe delle difficoltà. Sembra una sciocchezza, ma questo è un esempio concreto a noi vicino della distruzione della conoscenza del passato. E non crediate che sia un problema di poco conto. Quanti studiosi stanno lì a lambiccarsi il cervello per interpretare una raffigurazione religiosa cercando di capire che santi sono rappresentati? La cosa demoralizzante è, che un qualsiasi nonno, anche un po’ svanito, sarebbe in grado di riconoscerli, perché venendo da una società in cui la scrittura non era ancora dominante, al catechismo gli hanno insegnato a riconoscere i santi dai particolari della loro rappresentazione. San Rocco dalla piaga alla gamba e dal cane, per farvi un esempio concreto a me noto.

 


Conclusioni


Possiamo ben dire come afferma Hancock nel suo libro “Le impronte degli dei”, di essere una specie affetta da amnesia e, aggiungiamo, che i moderni sistemi di comunicazione e memorizzazione delle informazioni non rendono più facile il compito di ricordare; anzi, sono loro la causa principale della crescita esponenziale della produzione di documenti, spesso privi di qualsiasi utilità, che essendo più veloce della capacità di immagazzinamento, lo rendono più difficile. Senza contare, che anche se si riuscisse ad immagazzinare tutto, rimarrebbe il problema di come accedere a tale sconfinata massa di informazioni e se qualcosa rimane inaccessibile è come non averla affatto.
Questo in termini generali, ma è ancor più necessario un ripensamento di tutto il processo scientifico, affinché la scienza non diventi un’inutile fatica di Sisifo, impegnata a scoprire per poi dimenticare più e più volte. Sarebbe necessario, forse, che gli stessi scienziati dedicassero parte del loro tempo a ricerche d’archivio, esercizio che permetterebbe loro di aver un’apertura mentale ed una flessibilità di pensiero più ampia ed, a volte, di evitare l’inutile sforzo di riscoprire cose già note. Questo permetterebbe di risparmiare risorse da impegnare in “vere” nuove scoperte.


           
Note:


1)      Salvatore Settis, Le officine di Archimede, Il Sole 24 Ore del 18 gennaio 2004;
2)      Rick Sanders, “ll”, Graal n.8, marzo-aprile 2004, Hera Edizioni;
3)      Articolo riportato parzialmente sul libro di Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La scienza alla prova”, CUEN 1998;
4)      Giorgio Nebbia, “Innovazione in Italia? Si provveda di ufficio”, “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 12/3/2000.
5)      Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La scienza alla prova”, CUEN 1998, pag. 94;
6)      Per chi volesse avere qualche informazione in più può leggere l’articolo “Albert Einstein e Olinto De Pretto: un dimenticato precursore italiano dell’equivalenza tra massa ed energia” di U. Bartocci, M. Mamone Capria, reperibile in Internet all’indirizzo: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/depre.html.


Bibliografia:

Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La scienza alla prova”, CUEN 1998;
AA. VV. Episteme, Physis e Sophia nel III millennio, Perugia, n. 1 – 6, 2000 – 2002;
Paolo Rossi, “Origini di una favola clericale”, IlSole-24ore di domenica 6 giugno 2004.

martedì 8 luglio 2014

La corta memoria della scienza (3 di 4)

di Vito Foschi


Un altro esempio ci viene dalla zoologia. Esistono degli elenchi delle specie in pericolo di estinzione dando così per scontato che le specie non in elenco non corrono pericolo. Ma è proprio così? Purtroppo no. In realtà di molte specie non si sa più nulla perché dopo la loro scoperta e classificazione avvenuta anche più di un secolo fa, non sono state più fatte ricerche. Nel diciannovesimo secolo è stato fatto un enorme sforzo di scoperta e classificazione e numerosissime specie si conoscono solo grazie alle pubblicazioni di allora. Nel curriculum dei biologi di oggi alla zoologia è riservato ben poco spazio. Quando qualche spedizione ritorna ad esplorare i luoghi di avvistamento di alcune specie, spesso non le ritrova, perché ormai estinte.
Un altro esempio dal libro di Lévy-Leblond:«Da qualche anno, non è raro veder citare, in articoli di ricerca “di punta”, come riferimento tecnico immediato, dei lavori del matematico Henri Poincaré che risalgono a più tre quarti di secolo e che non erano più stati menzionati per diversi decenni. […] L’irruzione della fisica detta moderna, teorie quantistiche, relatività, aveva all’inizio del secolo relegato – così sembrava – quella fisica negli scaffali di un classicismo polveroso». Più avanti:«Si è dovuta operare una vera riconquista e, attraverso i campi fino a poco tempo fa riconosciuti e coltivati ma abbandonati e ridivenuti incolti, ritrovare sentieri dimenticati. Così l’ingenua fede in una modernità irreversibile e la sottovalutazione presuntuosa di un’antica disciplina hanno impedito e ritardato uno sviluppo scientifico maggiore».
Da un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno: «Alcune innovazioni sono già state fatte decenni fa e alcuni insuccessi erano già prevedibili: la pericolosità e la tossicità del piombo tetraetile – l’antidetonante delle benzine ormai quasi definitivamente eliminato dalle benzine in commercio, quelle che si chiamano “con piombo” – erano ben conosciute da chi aveva scoperto la nuova sostanza negli anni venti del Novecento. Alcuni processi per diminuire l’inquinamento atmosferico erano già stati inventati nella metà dell’Ottocento e poi accantonati. Gli attuali processi di riciclo dei rottami metallici sono stati inventati un secolo e mezzo fa.»(4)
Da un articolo de “Il Sole-24 Ore” del 22 febbraio 2004 di Cristina Marcuzzo: «La teoria economica, nella sua storia, non segue un tracciato regolare, né si presenta come un accumulo di verità acquisite una volta per tutte. I “ritorni” a idee del passato sono frequenti, come sono ripetuti gli abbandoni di alcune concezioni, quando non reggono al confronto con la teoria ritenuta al momento più “vera”». Abbiamo visto che non è una caratteristica tipica dell’economia, ma è comune a tutte le scienze. Dallo stesso articolo: «Rivisitare le idee del passato può significare rafforzare le convinzioni del presente, oppure ricercare percorsi che non si sono imboccati o che sembrava portassero, in un particolare momento storico, a un vicolo cieco. Qualunque sia il fine dell’esercizio, interrogare la storia, sia dei fatti che delle idee, è la condizione della crescita della conoscenza, intesa non come progresso lineare dall’errore alla verità, ma come consapevolezza dei suoi limiti e della sua circonstanzialità».
Ed ancora: «Ormai una componente regolare delle riviste scientifiche generiche, come “Nature” o “Science”, è la messa in rilievo di lavori dimenticati che anticipano di parecchi decenni delle (ri)scoperte recenti presentate come originali.»(5)
Altri esempi li possiamo trovare nella rubrica Reprints della rivista “Episteme” del prof. Umberto Bartocci reperibile anche in Internet. In tale rubrica sono pubblicati o vecchi lavori ormai dimenticati o teorie recenti ma controverse. Ad esempio nel numero 2 troviamo il discorso tenuto dal prof. Quirino Majorana, zio del più noto Ettore Majorana, all’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna in occasione della inaugurazione dell’Anno Accademico in data 9 Dicembre 1951, in cui lo scienziato contesta la teoria della relatività di Einstein evidenziandone le contraddizioni.
Un articolo interessante è “Low Energy Nuclear Reactions” con sottotitolo “The revival of alchemy” di Roberto A. Monti presente nel numero 4 di Episteme. Vi riporto la traduzione dell’abstract:

«Nel 1959 C.L. Kervran mostrò l’evidenza sperimentale delle Trasmutazioni a bassa Energia, ma i fisici contemporanei rifiutarono di credere nell’evidenza sperimentale di fronte a loro perché avrebbe messo in questione gli interessi, molto ben stabiliti, della Fisica delle Alta Energia. Nel 1989 Fleishmann e Pons fecero un’altra Trasmutazione a bassa Energia, erroneamente chiamata “Fusione Fredda”, il quale attirò grande attenzione. I fisici dell’Alta Energia iniziarono una fortissima campagna per invalidare la “Fusione Fredda” di fronte al pubblico. Nel 1996 “Lo Sviluppo delle Tecnologie delle Trasmutazioni” diventa il problema fondamentale della Seconda Conferenza delle Reazione delle Basse Energie (College Station, TX). Nel 1998, ICCF-7 (Vancouver) e nel 2000, ICCF-8 (Lerici, Italia) mostra l’evidenza conclusiva dei Fenomeni di Trasmutazione a Bassa Energia. Le allusioni alchemiche risultano essere sempre corrette, provando che l’alchimia è una scienza sperimentale. La fisica del XXI secolo sarà caratterizzata dalle Reazione Nucleari a bassa energia: il risveglio dell’alchimia.»

Il prof. Roberto Monti è anche un forte critico della teoria della relatività di Einstein. L’esistenza di critiche alle teorie einsteiniane è cosa pochissimo nota e comunemente si pensa che tali teorie siano verità incontestabili o per lo meno così viene fatto credere, ma come visto non è affatto così.

Un caso sbalorditivo, perfetto esempio dell’amnesia programmata della scienza, è quello che riguarda un possibile antesignano della famosa formula E=mc2 di Einstein; nel 1904 un certo Olinto De Pretto, agronomo vicentino, pubblica “Ipotesi dell’etere nella vita dell’universo” negli Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze con prefazione del famoso astronomo Schiaparelli. La frase che sembrerebbe anticipare la teoria della relatività è la seguente:

«La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [...] La formula mv² ci dà la forza viva e la formula mv²/8338 ci dà, espressa in calorie, tale energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di milioni».

Come vedete, eccetto il riferimento all’etere, la formula E=mc2 è chiaramente formulata. I legami con l’Italia del giovane Einstein erano piuttosto forti considerato che la sua famiglia vi si trasferì definitivamente nel 1894. Inoltre, conosceva l’italiano tanto bene da tenere delle conferenze nella nostra lingua e la formulazione che Einstein fa della formula è meno generale di quella di De Pretto  riferendosi al caso specifico di un corpo radiante. Purtroppo non è facilmente dimostrabile che lo scienziato fosse a conoscenza del lavoro di De Pretto.
Della questione ne parla diffusamente il su citato prof. Bartocci nel suo libro “Albert Einstein e Olinto De Pretto: La vera storia della formula più famosa del mondo” (Bologna, Andromeda, 1999), opera quasi introvabile anche perché nessun grande editore rischierebbe su un libro del genere: Albert Einstein è per il momento intoccabile.
In ogni caso è regola ricordare il primo che ha concepito una idea e non i suoi successori. La teoria di De Pretto contiene ancora il riferimento all’etere e conterrà altri errori però sarebbe giusto riconoscerli la paternità della formula più famosa del mondo.(6)

Come si evince da quanto detto la scienza ha la spiccata tendenza a dimenticare se stessa, cancellando di fatto la sua storia rendendo difficile se non impossibile recuperare idee accantonate, ma che in un secondo momento potrebbero ritornare utili.
Altra conseguenza è la sempre maggiore difficoltà della scienza di spiegare se stessa. Se scompaiono i sentieri che hanno condotto ad una scoperta, come sarà possibile spiegarla ai non specialisti? Se gli stessi addetti ai lavori non controllano il loro sapere, sempre più parcellizzato, come posso pretenderlo di divulgarlo? Si assiste ad un processo che potremmo chiamare “esoterizzazione”, nel senso di rendere difficile l’accesso a qualcosa, senza nessun riferimento al sapere iniziatico, della scienza. Una delle accuse mosse alla magia da parte della scienza, sta diventando sua componente fondante.

lunedì 7 luglio 2014

La corta memoria della scienza (2 di 4)

di Vito Foschi

L’amnesia del presente


L’uomo ha la strana tendenza a dimenticare e non è un'esclusiva dei nostri avi come si potrebbe pensare, anzi si può dire che questo processo nella nostra epoca “scientifica” stia subendo un’accelerazione. La continua produzione di nuovi saperi costringe l’uomo ad una continua rincorsa del presente dimenticando tutto quello che ha imparato per poter essere “al passo con il tempo”. Ma fra le tante cose che si dimenticano non ci sarà qualcosa di utile? Ma poi, tutta la rincorsa ad essere aggiornati coi tempi è veramente importante? Non sarebbe necessaria una rielaborazione critica di tutta la messe di informazioni prodotta per discernere l’utilità o meno? Mi interessa veramente sapere come funziona l’ultimo modello di telefonino che non comprerò mai, perché ora non ho i soldi e fra un mese quando li avrò, sarà già uscito il modello successivo? O ancora, perché affannarsi con gli aggiornamenti del sistema operativo del computer o del programma di videoscrittura, giusto per non fare nomi, quando per il mio uso corrente quello che ho, è già ottimo? E il risultato qual è? Che perderò tempo a leggere il nuovo manuale del programma di videoscrittura, invece che a leggere il tal libro che mi serve per scrivere un articolo. Questo a livello individuale, mente a livello collettivo si avrà una distruzione sistematica del sapere che diventa veramente “passato”! Si vendono manuali sulle nuove versioni dei programmi a scapito di opere che meriterebbero di essere lette con una graduale sostituzione dei libri buoni con i libri cattivi utilizzando una metafora economica sulla moneta che recita che la moneta cattiva scaccia quella buona. Con una differenza: la moneta buona viene tesaurizzata, mentre i buoni libri finiscono al macero.

I nostri progenitori avevano una cultura orale che si trasmetteva da padre in figlio. Questo ci fa pensare che fosse una cultura che tendesse a dimenticare se stessa. Ma ne siamo proprio sicuri? Gilgamesh non esiste tuttora? E i Veda? E i miti egizi? Quelli greci o romani? E perfino quelli celtici sono sopravvissuti alla sistematica persecuzione dei druidi da parte degli antichi romani!
In passato il mito riusciva a passare indenne attraverso le generazioni, forse modificandosi ma mantenendo intatto il nucleo centrale. Oggi tutto questo non esiste. Esistono le varie soap-opera,  telenovelas, telefims che dopo successi strepitosi svaniscono come neve al solito come se non fossero mai esistiti. Chi si ricorda più di programmi degli inizi degli anni ottanta? Del nome di attori che all’epoca sembravano tenere il mondo in una mano?

Certo delle perdite ci sono state, ma purtroppo ci saranno sempre. Anche nel nostro mondo industrializzato in cui scienza e tecnica sono padrone c’è una spiccata tendenza ad obliare il passato. Quante opere del cinema mute sono andate perse? E quante si sono riuscite a salvare solo con costosi restauri? Per fare un esempio nel campo artistico, ma questo succede ed è ancora più grave perché implica i suoi stessi processi di produzione, nella scienza. Abbiamo accennato alla parentesi medievale in cui il sapere umano ha subito una distruzione sistematica e questo è sicuramente successo in passato in altre civiltà. Basti pensare che ancora non si è grado di capire come sono state costruite opere megalitiche con la semplice forza umana e animale.

L’amnesia programmata della scienza: il processo scientifico si basa sulla distruzione del saper precedente ed alcune scoperte l’uomo le ha dovuto fare più volte

La scienza è un continuo processo di affinamento della conoscenza e questo implica la necessità di cancellare gli errori del passato per far spazio agli ultimi risultati ritenuti più corretti. «L’oblio è costitutivo della scienza. Impossibile per lei conservare la memoria di tutti i suoi errori, la traccia di tutte le sue erranze. La pretesa di dire il vero costringe a dimenticare il falso». Dal libro di Lévy-Leblond.
Banalmente la teoria eliocentrica ha cancellato la teoria tolemaica ormai dimenticata. Questo processo è giusto e necessario, ma comporta dei rischi. Abbiamo visto come in passato la scienza è dovuta ritornare sui suoi passi per riscoprire ciò che si sapeva secoli prima, ma questo accade tutt’ora. È insito nell’attività scientifica la distruzione delle vecchie ricerche per far posto alle nuove. Ma in tutto questo scarto non ci sarà qualcosa che meritava di essere salvato? Sono molteplici gli esempi di ricerche non proseguite perché le necessità o le mode del momento, perché anche nella scienza esistono le mode, hanno spostato l’attenzione su altri settori e poi sono state riprese decenni dopo. Questo potrebbe sembrare un problema da poco, ma oggi la produzione scientifica è su una scala molto vasta e lo scarto è a sua volta su una scala altrettanto vasta. Non esistono più i pochi studiosi che si conoscevano tutti quanti e che si incontravano in qualche congresso mondiale, ormai a livello mondiale possiamo parlare di milioni di persone impegnate nella ricerca. Basti pensare al moltiplicarsi delle università italiane e della conseguente moltiplicazione dei professori, che volenti o nolenti per esigenze di sopravvivenza devono produrre o almeno dimostrare di fare ricerca pubblicando articoli su apposite riviste. Anzi, il loro avanzamento di carriera è anche ancorato al numero di articoli pubblicati con tutte le conseguenze del caso sull’inflazione produttiva di articoli. Alcuni vengono scritti solo per allungare un curriculum senza contenere nulla di interessante sul piano scientifico.
L’accumularsi di tutta questa produzione pone problemi di spazio alle biblioteche che tendono ad accumulare in modo disordinato le riviste scientifiche, strumento principe dell’attività scientifica, e recuperare ricerche del passato è a volte quasi impossibile. Oltre a questo problema logistico, esiste il ben più grave problema culturale, che chi ha condotto studi specialistici, trova difficoltà a prendere in mano nuovi saperi in branche completamente nuove: di fatto è impreparato! Il lavoro scientifico si basa su una specie di allenamento fatto di letture di articoli di settore, nel padroneggiare certi procedimenti matematici e determinati strumenti, se tutto questo manca è come ritrovarsi a leggere un libro in un’altra lingua. Si è grado di leggere, cioè si hanno le conoscenze scientifiche di base, ma non si conosce la lingua cioè gli strumenti specifici di quella particolare materia. Non è un lavoro da poco. Ne ho fatto esperienza personale con la mia tesi. Ho dovuto passare mesi per familiarizzare con l’argomento e padroneggiare un programma di simulazione matematica per poter incominciare a lavorarci. Immaginate la difficoltà a riprendere studi di decenni fa, che trattano di teorie completamente diverse e dimenticate. Ancora Lévy-Leblond:
«…i meccanismi di rimozione e occultamento, costitutivi del funzionamento della ricerca, conducano ormai a degli effetti perversi o, se non altro, controproducenti. […] Il fatto è che l’eliminazione delle foglie morte della scienza, il rigetto dei suoi rifiuti opera ormai sulla stessa scala industriale della sua produzione. […] Più precisamente, come esser certi che, in quelli che consideriamo oggi lavori secondari o senza sbocchi, abbozzi o doppioni, non giacciono, invisibili nel contesto attuale, un punto di vista, un metodo, un risultato ricchi di implicazioni future?».
Ecco alcuni esempi di scoperte dimenticate e poi ritrovate.
La malattia dell’olmo che ha portato alla distruzione di milioni di piante è stata affrontata coi metodi della biologia moderna senza alcun risultato, mentre nell’ottocento si sapeva come affrontarla. Ci si era dimenticati degli studi condotti dal 1843 al 1859 di un certo Eugène Robert che permisero all’epoca di fermare l’epidemia! Vi riporto una frase dell’articolo di Didier Fleury che ha riscoperto il metodo:«Avendo a disposizione mezzi di indagine di una potenza senza uguali nel passato, la biologia ha tendenza a vedere questioni nuove laddove di fatto c’è ben poco di nuovo!»(3)
Per anni si è pensato che lo stomaco non potesse ospitare batteri patogeni cronici non riuscendo a capire l’origine dell’ulcera gastrica. Invece da pochi anni si è “scoperto” che la causa è proprio un batterio, l’Helicobacter pilori. Di fatto si sono trascurate osservazioni di un secolo fa che affermavano la presenza di batteri nello stomaco.

domenica 6 luglio 2014

La corta memoria della scienza (1 di 4)



pubblicato su Mystero n. 56, gennaio 2005 (rivista edita da Luigi Cozzi)

di Vito Foschi

Introduzione


Noi viviamo in un mondo tecnologico, in cui tecnica e scienza sono dominanti ed anche in un paese poco attento a tali tematiche com'è l’Italia, siamo indotti a pensare di vivere in un mondo lineare in cui il progresso scientifico sia un processo chiaro e lineare, in cui le scoperte dell’oggi migliorano le nostre conoscenze in un continuo affinamento tendente al raggiungimento della verità. Ma è proprio cosi? Né dubitiamo…

Se volessimo descrivere il progresso scientifico con una metafora non è certamente possibile usare né una linea retta né una linea di trend, tipo l’indice di borsa con locali discese e salite ma con una tendenza di lungo periodo al rialzo. È più corretto usare l’immagine usata da Lèvy-Leblond nel suo libro “La Pietra di Paragone, la scienza alla prova…”: «Alla visione tradizionale di un sapere scientifico stabile, che cresce per estensione sistematica e concentrica, deve allora sostituirsi l’immagine frattale di un ambito parcellizzato, costituito da saperi differenziati, pseudopodi in perpetua ramificazione, che lasciano negli interstizi golfi di ignoranza e al loro interno vacuoli di dubbio».

Ci capita di pensare al passato immaginando un’epoca barbara in cui dominava la superstizione e l’ignoranza. Ma ancora una volta: è proprio così? Noi abbiamo effettivamente più conoscenze dei nostri antenati? O più precisamente: ogni generazione aumenta la conoscenza della generazione precedente? O, accanto a nuove scoperte, distrugge parte della conoscenza acquisita dai propri avi? È vera l’immagine di Lévy-Leblond di un sapere parcellizzato incuneato di profonde sacche di ignoranza?

L’amnesia del passato


La parte di passato che conosciamo con una certa accuratezza coincide sostanzialmente con l’inizio della produzione di testi scritti, mentre del periodo precedente, chiamato preistoria, abbiamo solo conoscenze indiziarie e congetture basate sul lavoro degli archeologi. È da notare però, che questo schema è vero in parte, perché in realtà la nostra conoscenza del passato parte da un periodo all’incirca coincidente con la nascita di Roma; del periodo antecedente si posseggono comunque documenti scritti come le scritture egizie e le tavolette d’argilla mesopotamiche, però spesso non sono considerate attendibili ma riferentesi ad eventi mitici. L’assurdo si ha con alcuni documenti,  che sono considerati esatti quando si riferiscono ad eventi recenti ed inattendibili quando si riferiscono ad eventi più remoti. Ma si tratta dello stesso documento! Questo è un altro argomento, però già da questo si incomincia ad intuire che l’uomo ha la tendenza a dimenticare il proprio passato.

Anche di un’epoca recente come quella greca e romana ci rimane poco ed anche opere di autori come Aristotele sono andate perdute. Di altri abbiamo solo frammenti sopravissuti come citazioni di altri autori, come è accaduto per esempio, ad Eraclito. In epoca medievale si è assistito ad una ampia distruzione del sapere classico, salvatosi in parte, grazie alla civiltà araba allora fiorente e ai monaci, anche se la stessa Chiesa ha, a volte, contribuito alla scomparsa di alcune conoscenze che riteneva pagane.
La distruzione medievale è stata molto più grave di quanto si creda. Semplificando il discorso, la tecnica romana era all’incirca equivalente a quella rinascimentale. Tanto è vero, che alcuni autori hanno potuto affermare che gli uomini del rinascimento hanno semplicemente copiato da antichi trattati greco-romano. Un brano da un articolo de “Il Sole 24 Ore” del 25 gennaio 2004 che recensisce una nuova edizione di un manuale di metallurgia rinascimentale: «All’autore che è medico e filosofo, che nutre una forte passione per lo studio dei minerali, delle miniere, delle tecniche d’estrazione e lavorazione dei metalli, sia le cose sia i nomi appaiono collocati in una sorta d’indistinto caos. Molti minerali, già nel mondo antico, sono stati utilizzati come farmaci, ma l’oblio della lingua greca, la confusione derivante dalle traduzioni dal greco e dal siriano in arabo e dall’arabo al latino, hanno come oscurato le conoscenze, hanno distrutto, accanto alla nomenclatura, anche una traduzione di sapere e una continuità di pratiche. Va fatto il tentativo di introdurre ordine e chiarezza, bisogna classificare e descrivere sia ciò che era noto e mal definito, sia ciò che è nuovo».
Ma questi episodi sono meno eclatanti. Ad esempio tutti pensano che la macchina a vapore sia un’invenzione del ‘700 per opera di Thomas Newcomen e migliorata da James Watt. E si sbagliano. Una macchina che funzionava grazie al vapore esisteva già all’epoca dei romani, la famosa eolipila di Erone di Alessandria, uno dei più grandi ingegneri di tutti i tempi. Una sfera veniva riempita d’acqua che riscaldata produceva il vapore che attraverso due tubi piegati ad angolo retto e diametralmente opposti metteva in moto la sfera libera di girare su un perno.
«Egli [P.M. Schul] ha notato che Erone descrive accuratamente non solo l’eolipila (una piccola macchina a vapore che produce il moto circolare di una sfera), ma anche una versione dell’hodometron da applicarsi alle navi per misurare le distanze percorse mediante una ruota a pale parzialmente sommersa in acqua. Come osserva Schuhl, sarebbe bastato che il meccanismo dell’eolipila di Erone fosse applicato a una o più pale come quello dell’odometro descritto dallo stesso Erone, perché la navigazione a vapore fosse inventata con molti secoli di anticipo»(1). Esistono molti studiosi che si chiedono come mai non ci sia stata la rivoluzione industriale ai tempi dell’impero romano, dato che già esistevano tutte le conoscenze tecniche perché ciò avvenisse ed hanno pensato di trovare la causa di questa mancata rivoluzione nel sistema sociale ed economico dell’epoca con un’economia basata sul lavoro degli schiavi. È emblematico, il titolo “La rivoluzione dimenticata”, che lo studioso Lucio Russo ha voluto dare al suo libro che si occupa della scienza in epoca classica.
Una cosa semplice come la rotondità della terra, i più pensano che sia stata una scoperta moderna e confermata dal viaggio di Cristoforo Colombo. Niente di più sbagliato. La rotondità della terra era stata già ipotizzata ai tempi dell’antica Grecia, da Pitagora nel VI secolo a.C., da Aristotele, Euclide e così via e, se si va ai Fori Imperiali a Roma e si raggiunge il Tempio di Vesta ci si troverà un cartello affisso che recita: «sembra che Numa Pompilio re dei romani abbia costruito il tempio di Vesta rotondo avendo creduto che della stessa forma fosse la terra, da cui dipende la vita degli uomini». Questo semplice esempio dimostra che i nostri antenati non erano così ingenui come li dipingiamo.
D’altro canto, lo stesso Colombo non ha affrontato il viaggio verso le Americhe così alla cieca come a volte si lascia intendere, seguendo una sua brillante intuizione. Sicuramente era conoscenza di queste antiche teorie e si è servito sì del suo intelletto, ma per verificarne la fondatezza e non per inventarsele. Il suo viaggio è stato accuratamente preparato e sicuramente si è documentato su antichi testi dei vari astronomi e geografi dell’antichità.
Rick Sanders, un ricercatore straniero, in un suo lavoro(2) dimostra, che già gli antichi egizi erano in grado di affrontare viaggi intorno al globo, grazie ad uno strumento in grado di calcolare la longitudine, simile al torquetum usato a fine ‘400. In particolare si occupa della spedizione di Rata e Maui, promossa dallo scienziato Erastotene, direttore della Biblioteca di Alessandria nel III secolo a.C., forse allo scopo di dimostrare la sua teoria sulla rotondità della Terra. Si Ricordi, inoltre, che ci sono stati vari studiosi che hanno riprodotto antiche imbarcazioni ed hanno attraversato gli oceani dimostrando la fattività di simili imprese nel passato.
Le stesse idee di Leonardo da Vinci sono state trascurate per cinque secoli, quando un loro attento studio avrebbe potuto aiutare ad arrivare prima a certi risultati. In una puntata di Stargate-Linea di confine, si è visto costruire uno scafandro basato sui disegni di Leonardo dimostrandone la fattività già nel cinquecento, mentre i primi scafandri sono stati costruiti solo nel secolo scorso!
Possiamo affermare che l’uomo ha difficoltà a conservare memoria delle sue scoperte.

domenica 18 maggio 2014

Il simbolismo apocalittico del film 300, versione aggiornata



di Vito Foschi
  

Il film 300 è stato tacciato di essere un film violento e “testosteronico”, qualunque cosa voglia dire questo termine; una subitanea interpretazione politica-sociologica lo ha trasformato nel conflitto fra oriente ed occidente, ma al di là degli aspetti più spettacolari, 300 nasconde un simbolismo molto chiaro e se vogliamo anche semplice. Diciamolo subito il film è stato caricato di una simbologia apocalittica piuttosto evidente e sia la battaglia delle Termopili che il fumetto di Miller sono solo un pretesto per parlare dell’eterna lotta del bene e del male, sempre presente. Chi ha visto il film e letto il fumetto si sarà reso conto che esistono solo piccole differenze fra i due tipi di narrazione, ma queste differenze non sembrano casuali. Il disegnatore Miller si è ispirato alla battaglia per farne un’opera di profondo impatto visivo, ma chi ha messo mano al film ci ha aggiunto alcuni particolari per trasformarlo in un’opera simbolica.

Nella scena iniziale lo spartano Delios narra di come il giovane Leonida ammazza un feroce lupo nero dalle dimensioni mostruose e subito dopo paragona il re Serse ad una belva feroce. Il lupo ha significati positivi, come nel caso della Lupa di Roma, ma anche negativi simboleggiando la ferocia e la violenza. Il lupo nero, in particolare, è simbolo del demonio e l’accostamento e il conseguente significato sono chiari.
Lo spartano definisce l’esercito di Serse un esercito di schiavi e ciò a grandi linee è storico, perché l’impero persiano era multinazionale e le varie nazioni gli tributavano truppe che chiaramente non avevano molto interesse ad immolarsi per un re straniero che aveva conquistato i loro territori.
Al di là della storicità della battuta è lapalissiana l’idea dello scontro fra l’esercito dei greci formato da uomini liberi e l’esercito di schiavi di Serse.

La figura di Serse non ha nulla di storico, la sua figura da transessuale con piercing è totalmente inventata, ma è proprio l’ambiguità a risultare interessante. Nel film e nel fumetto Serse si proclama Dio Re e anche questo è totalmente inventato. L’ambiguità è caratteristica dell’anticristo, ed uno dei titoli con cui si presenta è quello di re di questo mondo. Beninteso, re di questo mondo e non Re del Mondo. Essere il re di questo mondo significa essere signore del mondo materiale, mentre Re del Mondo ha il preciso significato di signore della creazione in tutti i suoi aspetti anche non materiali. Gesù è Re del Mondo, perché ne comprende tutti i suoi aspetti, mentre Satana può essere signore solo della materia ed infatti tenta Cristo con regni e ricchezze, non con doni che vanno oltre il dominio della materia. Serse tenta Leonida con l’offerta del governo dell’intera Grecia. Un altro particolare interessante del film è il carro d’oro su cui viaggia Serse decorato con arieti chiaro simbolo di Satana.

Punto centrale del film è il discorso incentrato sulla ragione: “La sola speranza che ha il mondo di giustizia e ragione” grida lo spartano Delios ai suoi compagni.
La scena in cui Efialte, lo spartano deforme, va da Serse a tradire costituisce la summa di tutto il film. Serse dice di sé che lui è buono, che può dare tutto, donne e potere ed è sufficiente piegarsi; al contrario Leonida che aveva chiesto allo storpio di alzare lo scudo, ovvero aveva chiesto di essere uomo. La proposta del re è quella tipica dell’Anticristo che si presenta come buono e accondiscendente e in cambio vuole l’anima. Da notare che la scena si apre con un caprone che suona uno strumento a fiato e anche ai più distratti l’iconografia non può non ricordare il famoso quadro di Francisco Goya, “Il grande caprone”  con il sabba delle streghe con al centro un caprone antropomorfizzato a simboleggiare il diavolo.

Il grande caprone di Francisco Goya (immagine presa da Wikipedia)
Fotogramma del film 300. E' evidente la somiglianza con il quadro del Goya
 
Il fanatismo degli spartani che si immolano è paragonabile a quello dei cristiani che si facevano
sbranare dai leoni. Anche la morte di Leonida ha qualcosa di cristiano. La scena finale vede il re spartano trafitto da frecce come S. Sebastiano e a braccia aperte come se fosse in croce. Probabilmente l’autore del film si è ispirato a qualche rappresentazione classica e potrebbe darsi trattarsi di un caso, ma una semplice coincidenza? Alla fine sembra che l’autore abbia considerato gli spartani alla stregua dei martiri cristiani. Ed in un certo qual modo la fede c’entra. I cristiani si immolavano per la fede in Cristo, gli spartani per la loro fede nella libertà e nella ragione. Sono interessanti i continui rimandi alla ragione, che poi è il lascito culturale dei greci a noi occidentali che i cristiani hanno pensato bene di includere nel loro sistema di pensiero. Efialte, il traditore invita Leonida ad essere ragionevole e a sottomettersi a Serse, cosa ovviamente ragionevole visto la sproporzione di forze. Ma è alla stessa ragione che si appella Leonida, ma ad una ragione sorretta dalla fede, una fede che porta a sperare che infine la ragione trionfi nella libertà e nella giustizia.
La fede nella libertà porta gli spartani a morire da uomini liberi che vivere da schiavi. Speranza e fede non ricordano qualcosa?

“.. hanno dato la vita, non solo per Sparta, ma per tutta la Grecia e per la speranza difesa da questa nazione [..]. Quest’oggi noi riscattiamo il mondo dal misticismo e dalla tirannia e lo accompagniamo in un futuro più radioso di quanto si possa immaginare”

domenica 12 gennaio 2014

Iconografia dei Re Magi: europea, asiatica e africana per rappresentare i tre continenti


pubblicato su Archeologia & Cultura n. 3 del 7 febbraio 2010
 
di Vito Foschi

In questo breve scritto vorrei soffermarmi sulla rappresentazione classica dei Re Magi, per poterne indicare l’origine. Si è subito portati a pensare che le immagini dedicate ai magi sono tratte dal racconto evangelico, ma questo non è propriamente vero; siamo talmente abituati a certe tipi di rappresentazioni da non conoscerne più l’origine e pensare che vengano dal Vangelo, quando la loro origine è ben diversa.
L’immagine classica dei re magi li vuole di tre razze diverse, europea, asiatica, africana a rappresentare i tre continenti allora conosciuti, di tre età diverse, giovane, di mezza età, vecchio a rappresentazione delle tre età dell’uomo. Questo ad indicare come tutti gli uomini, di qualsiasi origine ed età venivano a tributare il proprio omaggio al Figlio di Dio, significando l’universalità della fede cristiana che non era solo per alcuni uomini, ma per tutti. Inoltre la parola mago indica un sacerdote pagano, a mostrare l’apertura del cristianesimo alle genti pagane, cristianesimo che altrimenti sarebbe rimasto confinato al mondo ebraico. La loro regalità viene quasi a compensare in qualche modo la nascita in povertà in mezzo ai pastori, per ribadire, che Cristo non è venuto solo per i poveri, ma per tutti.
L’unico vangelo che parla dei Magi è quello di Matteo, mentre l’altro vangelo che racconta la nascita di Gesù, quello di Luca, non li menziona, anzi inserisce il battesimo del Bambino al tempio di Gerusalemme, introducendo un problema di coerenza fra  i due vangeli. Da questo punto di vista la loro presenza nell’unico vangelo di Matteo sembrerebbe quasi un’aggiunta per giustificare l’apertura del cristianesimo al mondo pagano.
Nel vangelo di Matteo non si indica il loro numero e non li si descrive, ma si parla solo dei tre doni: solo il numero dei doni coincide con il numero dei magi nella loro classica rappresentazione. Si racconta dell’incontro con Erode e dell’omaggio al Bambino e poco più. Il passo evangelico è piuttosto avaro di notizie su questi personaggi.
In realtà tutta l’iconografia sui Re Magi compresi i nomi deriva dai racconti contenuti nei cosiddetti vangeli apocrifi, che considerate tutte le rappresentazioni tanto apocrifi non dovevano essere. Apocrifo è parola d’origine greca che sta per nascosto, ma tali racconti, a parte quelli palesemente in contrasto con l’insegnamento della Chiesa, anche se non accettati ufficialmente erano ben diffusi e tollerati dalle autorità ecclesiastiche visto che molti di loro sono stati la base per decorazioni di edifici religiosi. Come spesso si dice le pitture e le sculture rappresentavano la Bibbia degli analfabeti, che poi tanto analfabeti non dovevano essere, perché a volte i significati di tali immagini non sono immediatamente intelligibili. I Vangeli ufficiali si soffermano sulla predicazione pubblica di Gesù perché rispondono ad una esigenza teologica, ma non rispondono alle curiosità del popolo che chiedeva per esempio cosa avesse fatto Gesù nella sua infanzia o mentre era in Egitto e così via. A queste domande rispondono i vangeli apocrifi classificati come vangeli dell’infanzia, unendo fantasia e racconto evangelico. Così visto che il racconto evangelico non diceva nulla dei misteriosi magi, hanno provveduto i vangeli apocrifi a darne una descrizione, a raccontarne la loro storia e la loro origine dando idee ai vari artisti chiamati a rappresentarli.