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mercoledì 10 aprile 2019

Il racconto del Graal, aliâs il mistero delle origini

prelevato dal sito http://www.centrostudilaruna.it

Non è molto logico commentare la Presentazione di un libro, tanto più se il volume altrove presentato da altri è il proprio. Ma vale la pena di fare un'eccezione per la premessa scritta dal dott. E. Albrile, redattore di codesta Rivista e nostro gentile patrocinatore presso questa ed altre pubblicazioni semestrali e non, ad un opuscolo del sottoscritto, attualmente in bozze presso un editore pugliese. Facciamo ciò, naturalmente, non allo scopo di farci pubblicità; benché ne avremmo sinceramente bisogno, trattandosi del nostro primo scritto di un certo formato, a parte il volume in corso di pubblicazione presso questo stesso editore.

L'Albrile è dell'opinione, sulla scorta del Rigbom e del Corbin, che la descrizione del Castello del Graal apparsa attorno al 1275 nel Der jüngerer Titurel di Albrecht von Scharffenberg sia stata occultamente influenzata da una conoscenza dell'architettura emblematica di un antico tempio iranico, il cd. 'Trono degli Archi' (Taxt-i Taqdis). Da ciò, oltreché da altre corrispondenze rilevabili nel Parzival di Wolfram von Eschenbach (scritto compilato fra il 1200 ed il 1210), è deducibile senz'ombra di dubbio un'influenza persiana nella misteriosofia graaliana. Tale influenza non può essere messa in dubbio e si può ritenere motivatamente che essa sia stata trasmessa da parte degli Assassini, i famosi Guardiani ismailiti della Terra Santa. Probabilmente attraverso i Templari, che raggiunsero Gerusalemme un ventennio dopo (1119) la conquista della Città Santa da parte della Prima Crociata (1099). Anche i Templari fungevano da Custodi del luogo sacro, con le medesime prerogative ed una gerarchia iniziatica approssimativamente parallela, nel versante cristiano. Orbene siamo del parere, non meno di un noto scrittore attuale, che anche le idee proprie dei Templari sul Tempio di Salomone e l'Arca dell'Alleanza abbiano influenzato notevolmente il simbolismo graaliano. Vediamo dunque in che maniera le due linee di azione s'intersechino nel raggiungere l'Occidente tardomedievale. Naturalmente qui si parla d'influenze, poiché è chiaro che la letteratura graalica rientra nell'esoterismo cristiano e come tale va intesa. Qualcuno in passato ha espresso però l'opinione che la tradizione celtica non sia finita con la cristianizzazione della Gallia, ma che abbia continuato a sopravvivere attraverso la copertura exoterica della Chiesa culdea (altri lo definisce 'monachesimo kuldeo'). Ragion per cui ad un certo punto, allorché i tempi erano evidentemente maturi, si sarebbero prodotti un incontro ed una fusione a livello esoterico fra la tradizione cristiana e quella celtica. Ci si può chiedere quale fosse la confraternita cristiana coinvolta. A giudicare dalle citazioni di Wolfram, sembrerebbe che la parte intervenuta sia quella dei Templari.

Ripercorrendo la storia di codesto Ordine, dalla fondazione nel 1119 sotto l'egida di S. Bernardo (nipote di uno dei Nove Cavalieri fondatori e redattore quasi un decennio dopo della Regola loro imposta, dietro il riconoscimento ufficiale della Chiesa) sino alla distruzione del medesimo nel 1306 ad opera del Re di Francia (Filippo IV, altrimenti noto quale Filippo il Bello) e di Clemente V (un papa del periodo avignonese), si arriva a capire quale importante ruolo esso debba aver svolto in ambito esoterico nel corso dei due secoli circa nei quali ha potuto agire liberamente. A giudicare dalle accuse intentate all'Ordine del Tempio durante il processo che ha condannato al rogo i Templari, vale a dire il fatto di praticare culti osceni e venerare il Serpente sethiano , pare lecito affermare che si trattava di una confraternita di tipo gnostico. Ma in che modo è giunta la Gnosi in Europa nel Tardo Medioevo? Gli Gnostici, com'è risaputo, costituivano a loro dire i trasmettitori delle conoscenze segrete degli Apostoli; in altre parole, erano i veri conoscitori dei Misteri cristici.

Dopo la persecuzione perpetrata a loro danno in epoca tardoantica da parte della Chiesa dei primi secoli (II-IV sec.), le loro dottrine ed i loro riti potrebbero essere stati ripresi occultamente dai Catari, nonostante s'intraveda in costoro una certa influenza manichea. In un'interessante trasmissione televisiva di qualche tempo fa sono state mostrate visivamente in una cartina le tappe percorse dal movimento gnostico durante l'espansione dal Vicino Oriente in Europa. Le tappe considerate sarebbero state le seguenti: dalla Palestina alla Siria e da qui all'Armenia; indi, passando attraverso l'impero bizantino, esso si è trasferito nei Balcani ed in seguito in Bosnia, assumendo attorno al X sec. la denominazione di Bogomilismo. Alla metà del XII sec., sotto il nome di Catarismo, ha conquistato l'Italia Centro-settentrionale e la Francia Meridionale (Provenza, Linguadoca), diffondendosi anche nel resto della Francia ed in Renania. Sul piano pratico il radicalismo cataro propugnava un rigoroso ascetismo, condannando la pratica cattolica dei sacramenti e minando in tal maniera le basi religiose della società feudale. Pur tuttavia nella Francia Meridionale esso è riuscito a diffondersi presso l'aristocrazia. Il suddetto documentario supponeva inoltre che il movimento cataro abbia in tal modo stimolato la nascita della saga del Santo Graal. In particolare sarebbe stato il vate tedesco Wolfram a subire codesta influenza. Altri ha invece supposto che l'epica in questione sia servita a mobilitare la cavalleria del nord contro i Catari. Ma questa seconda tesi francamente non regge. Sta di fatto che è indiscutibile l'influenza dei Templari su von Eschenbach, e da dove hanno tratto i Templari il loro culto e la loro dottrina se non attraverso quelle propaggini della Gnosi che hanno raggiunto l'Europa all'inizio del X sec.? Una volta raggiunta l'Europa l'esoterismo cristiano deve essersi congiunto con certi depositi della tradizione latina serbati dalle associazioni dei mestieri (Collegia Fabrôrum), poiché si deve supporre che anch'essa non si sia estinta nel 391 dopo il proclama di Teodosio, il quale giungeva a vietare le pratiche pagane di culto. Guénon, basandosi su uno scritto di H. Martin (storico francese), ha a suo tempo dichiarato indirettamente che in seguito alla distruzione dell'Ordine del Tempio la Cavalleria del Graal è divenuta la Massenia del San Graal, da cui sembra in parte discendere la stessa Massoneria moderna. I membri di tale confraternita chiamavansi i Templisti. Nel Titurel (1215-1220) di Wolfram, composto dal templare svevo precedentemente al Titurel recenziore del poeta bavarese Albrecht, è il personaggio stesso di Titurel a fondare il Tempio del Graal - nella Gallia Meridionale, ai confini con la Spagna - e la costruzione viene diretta secondo i dettami di Merlino; che è stato iniziato da Giuseppe d'Arimatea al piano del Tempio per antonomasia, vale a dire il Tempio di Salomone. L'opera di Albrecht pone invece il sacro edificio con la preziosa reliquia a Salvaterre in Spagna. Ed infine il Santo Vasello, al fine di essere sottratto alla profanazione da parte degli uomini ingiusti e corrotti del tempo, viene trasportato dagli Angeli agli estremi confini del mondo, in una località attigua al Paradiso Terrestre.

Ragion per cui, potremmo arguire da tutto ciò, i due fratelli della storia del Parzival di Von Eschenbach (il primogenito Feirefiz ed il secondo nato, appunto Parsifal medesimo) rappresentano in realtà due correnti esoteriche parallele ed ugualmente valide dell'ambiente tardomedievale. Il loro affratellamento spirituale si basava sull'origine comune delle dottrine alle quali i seguaci dell'una e dell'altra parte si ispiravano. È chiaro che alludiamo qui agli Assassini ed ai Templari, i quali fungevano entrambi da Guardiani della Terra Santa. La Terra Santa era un'immagine visibile del Centro del Mondo ossia del Paradiso Terrestre, che le antiche e recondite leggende situavano cosmograficamente al Polo Boreale. Ma la Terra Santa stessa aveva a sua volta un proprio centro ed era esattamente il colle ove era un tempo collocato il Tempio di Salomone. Non è certo un caso che i Templari abbiano stabilito la loro residenza nella Città Sacra, durante la loro permanenza ivi prima della riconquista di Gerusalemme da parte di Saladino nel 1187, nei pressi delle fondamenta di tale distrutto edificio. Il cuore del Tempio era stato in passato l'Arca dell'Alleanza (ebr. Tebah, palaaram. Tebuta / Tebota, et. Tabot), una specie di quadrilatero simbolico che rifacendosi emblematicamente all'Arca di Noè costituiva un simulacro terreno della Gerusalemme Celeste dalle Dodici Porte. Dodici come gli Apostoli di Gesù o le Tribù d'Israele. Tutte immagini terrene dello Zodiaco Celeste, come del resto i Dodici principali Cavalieri della Tavola Rotonda. Ciò spiega perché nel Parzival è scritto che il 'pagano' Flegetanis abbia contemplato il Graal in cielo.

Orbene, siccome il Graal era custodito secondo l'opera di Albrecht nella Terra del Prete Gianni, il Sacerdos-rex in cui il Tardo Medioevo ha incarnato il Sovrano Universale ossia il Cakravarti, per dirla con gli Indú, ecco che si spiega in tal modo il rapporto d'identità tra il Graal e l'Arca dell'Alleanza giustamente ipotizzato da Graham Hancock, che ha il solo torto di non aver mai letto Guénon. Infatti l'Arca dell'Alleanza, come c'insegna il brillante autore di best-seller mondiali, era stata trafugata dal Tempio di Salomone secondo il Kebra Nagast etiope ad opera di Menelik I, il figlio che il saggio israelita aveva avuto dalla Regina di Saba. È d'altronde innegabile che esista un certo rapporto fra il meticcio Feirefiz di Wolfram e cotal Menelik, così come fra la nera Regina Madre Belacane e la Regina di Saba. Dato che Gianni era il nome del figlio generato a Feirefiz da Repanse de Schoye, tutti i sovrani discesi da quella nobile famiglia avrebbero da allora in poi assunto il nome simbolico, in quanto custodi del Graal (cioè, mutatis mutandis, dell'Arca dell'Alleanza gelosamente custodita dai sovrani etiopi discesi dinasticamente da Menelik), di Prete Gianni. La cosa è apertamente suggerita da Von Scharffenberg, il quale non era che un mero discepolo di Von Eschenbach, come abbiamo già visto.

Nel contempo possiamo dichiarare che Parsifal, divenuto alla fine della saga graaliana il novello Re Sacro capace di avvicendarsi a Re Anfortas (il Re Pescatore, in altre parole l'Uomo in senso adamitico) dopo che per il proprio valore di puro cavaliere dedito alla ricerca della Verità ultima lo ha guarito dall'insanabile male (provocato dal Tempo corruttore), rappresenta una figura strettamente equivalente a quella di Feirefiz. Nel senso che il cavaliere cristiano incarna l'ideale gnostico dei Templari, mentre il cavaliere 'pagano' impersona l'ideale ismailita degli Assassini. Per cui non sarebbe errato stabilire parallelamente una connessione da un lato fra Re Anfortas ed il Gran Maestro dell'Ordine Templare, dall'altro fra il Prete Gianni ed il Veglio della Montagna. Se è vero allora che il Tempio del Graal risale tramite il Tempio di Salomone e l'Arca dell'Alleanza, venerata dai Patriarchi ebraici, al simbolismo noaico e quindi si rifà per ciò stesso alla tradizione atlantidea, è pur vero che esso per via delle sue implicazioni con l'esoterismo celtico ci rimanda viceversa alla tradizione iperborea. Egualmente l'antico tempio persiano di cui parlavasi al principio della nostra argomentazione (su segnalazione dell'Albrile) deve essere ricollegato per via ario-indoiranica alla Tradizione primigenia, proveniente direttamente dal Paradiso Terrestre; e per via islamica alla Città Santa, al Tempio di Salomone, all'Arca e all'Atlantide. Tra le due tradizioni menzionate non ci può essere dunque contraddizione, ma solo accordo armonico.

Appendice

Trattando dei rapporti del Graal coi Rosacroce, Evola cita un enigmatico personaggio come capo dell'Ordine, l'Imperâtor; il cui nome e la cui sede dovevano rimanere sconosciuti, in quanto il personaggio non esercitava la propria funzione in sede temporale, bensì sul piano spirituale. Basta dire che nell'elenco di Imperatôres succedutisi nel corso del tempo figurava persino la figura gnostica di Seth. Dal punto di vista rosicruciano il Papa non era che un usurpatore, siccome si presentava come il capo spirituale per eccellenza di tutta la comunità cristiana, cosa che normalmente non poteva spettare ad un'autorità che esercitava il suo dominio sul piano exoterico. È chiaro che l'Imperatore di cui parlavano i Rosacroce altri non è che il Jagadguru degli Smrti (Tradizione) hindu, venerato dagli Smârta, l'Ordine fondato da Çankaracârya. Si diceva infatti che egli avrebbe esercitato uno speciale ruolo alla 'Fine dei Tempi'. Questo tuttavia non è altro che il compito del Re del Mondo, la cui funzione necessariamente si richiama al mistero delle origini, poiché essa non è molto diversa da quella del Re del Graal. La differenza tra l'una e l'altra consiste nel fatto che la figura del Re del Graal ha un carattere esclusivamente primordiale e costituisce per così dire un punto di riferimento ideale, a livello iniziatico; giacché il Re Sacro è in realtà solo un simulacro e rappresenta l'Uomo Universale (o alternativamente l'Uomo Vero) nella sua dimensione sovrannaturale; mentre la figura del Re del Mondo ha un significato perenne, che va al di là delle Età cicliche ed è strettamente legata ad una particolare vocazione umana. Insomma, rifacendoci a scopo comparativo al simbolismo hindu, potremmo spiegare tale differenza di ruolo paragonando il Re del Graal al I Avatâra; vale a dire a Manu aliâs il Re Pescatore, il quale è più o meno identificabile al Pesce Divino, a seconda che ci si riferisca al Paradiso Terrestre oppure a quello Celeste. Invece il Re del Mondo corrisponde all'Avatâra eterno, che la tradizione islamica conosce sotto il nome di Seyidnâ El-Khidr e tratteggia come un essere di color verde, detentore perpetuo di una sapienza superiore a quella stessa dei Profeti. Tornando alla questione della 'Fine dei Tempi', è chiaro che il magistero esercitato dal Re Mondo, ossia dall'Imperâtor di rosicruciana memoria, ha lo scopo di favorire il recupero dello stato primordiale; ma tale azione si svolge in segreto, non alla luce del sole, come invece è il caso del X Avatâra (denominato Kalkyâvatâra). Quest'ultimo, viceversa, si richiama direttamente a Manu; cioè al Re Pescatore, di cui è un'incarnazione (il termine evoca precisamente l'idea di una 'Discesa terrena') nei tempi ultimi. Kalki è presentato dalle Scritture hindu come una sorta di cavaliere che discende dal Cielo per sconfiggere i Fuori-casta, ma ciò non deve essere preso troppo letteralmente. Piuttosto dovremmo dire che egli giunge tra noi per rammentarci la nostra vera natura. Per questo l'azione di siffatto personaggio non può essere circoscritta all'ambiente indiano, ma deve evidentemente esercitarsi a livello universale. Il che sottintende la riunificazione di tutte le tradizioni e la loro subordinazione alla Rivelazione primeva. Cosmologicamente Kalki, figurativamente descritto con la Testa Equina o addirittura come un Cavallo Bianco , è identificabile all'asterismo di Canopo, che ha retto il Polo Sud nel X Ciclo Avatarico (4.480 a.C.-2000 d.C.); per contro il Jagadguru (lett. 'Maestro del Mondo'), in termini ebraici il 'Re del Mondo', identificasi alla costellazione del Dragone, reggente nello stesso periodo indicato il Polo Nord. Ora, a ben vedere, nel 2000 c'è stato un passaggio di consegne ai due Poli; nel senso che a Nord l'Asse è passato dal dominio ciclico del Dragone a quello della Stella Polare ed a Sud, parimenti, al presidio di Canopo è subentrato quello della Croce del Sud. Dalla qual cosa dobbiamo dedurre che la svolta spirituale di cui si parlava più addietro c'è già stata in effetti, dal momento che secondo la cronologia tradizionale ci troviamo a vivere nell'Alba di una novella Età dell'Oro. Ed è stata una svolta tutta interiore, della quale purtroppo la maggior parte dei contemporanei non ha avuto ancora coscienza, tanto che non ha aggiornato il calendario. Ma, sebbene il freddo della notte appena trascorsa prevalga tuttora, il sorgere di un nuovo Sole - da Virgilio preconizzato in una famosa Ecloga come la nascita di un innocente Puer dai tratti apollinei - è ormai prossimo e non mancherà ben presto di produrre i suoi frutti.

Giuseppe Acerbi

Tratto da Algiza 15, pp. 6-11. La presente versione è stata pubblicata priva delle note a pié di pagina.

sabato 11 giugno 2016

“L’INFINITA RICERCA: IL SANTO GRAAL — TRA STORIA E LEGGENDA”

Sabato 11 Giugno 2016 e.v. alle ore 21,15 presso i locali del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 - Via Don Minzoni 39, Bellinzago Novarese (NO) - nell’ambito delle serate dedicate ai “IDialoghi di Esoterismo”, la nostra Associazione ha il piacere di invitarvi ad un’interessantissima serata in compagnia di CORINNA ZAFFARANA (Soror A.X.E.L.) la quale ci introdurrà ad un tema di estremo fascino:

“L’INFINITA RICERCA: IL SANTO GRAAL — TRA STORIA E LEGGENDA”

Il Santo Graal simboleggia l’infinita ricerca di una parte perduta di noi stessi ed è l’allegoria della tensione mistica propria dell’animo più elevato: ma si tratta di mito o realtà?
Qual è l’origine del suo nome?
Come, perché e quando il mito della sua impossibile ricerca si unisce alle vicende dei nobili Cavalieri della Rotonda? Cosa sappiamo veramente circa Giuseppe di Arimatea? E’ possibile che questo mito affondi le sue radici in era pre-cristiana?
Corinna Zaffarana, storica e studiosa di esoterismo europeo, ci conduce alla ricerca delle vere origini della leggenda del Graal, esplorando quanto veramente in nostro possesso all’interno dei documenti che ci offrono la storia, la letteratura, le leggende popolari, i miti dell’Europa pre-cristiana e la psicoanalisi.

Anche in questa occasione il nostro Centro si pregia di invitarvi ad un evento di grande interesse a cui, naturalmente, non dovete assolutamente mancare!

La partecipazione a questa serata è soggetta a Tesseramento A.S.I. ed è obbligatoria la prenotazione da effettuarsi chiamando il numero 3803149775 o scrivendo a: cta102@cta102.it
Si precisa inoltre che la sola adesione all’evento effettuata su Facebook non è considerata una prenotazione valida.

2016-06-11-Soror-Axel-Locandina

mercoledì 11 novembre 2015

Nel castello del Re Pescatore

Nota: articolo trovato in rete senza altre indicazioni

ALLE ORIGINI DEL MITO, L'INIZIAZIONE DI PARSIFAL E L'INCONTRO CON PERSONAGGI ENTRATI A FAR PARTE DEL NOSTRO IMMAGINARIO

Giunto al castello del Re Pescatore, dopo una serie di avventure, Perceval, il "giovane ospite", assiste a questa strana processione: «Mentre parlano di questo e d'altro, un valletto viene da una camera, e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell'asta. Passa tra il fuoco e coloro che sono assisi sul letto. E tutti i presenti vedono la lancia chiara e il ferro bianco. Una goccia di sangue stillava dalla punta di ferro della lancia. Fin sulla mano del valletto colava la goccia di sangue vermiglio. Il giovane ospite vede tale meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. È perché rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che non si deve mai parlare troppo? Porre domande sarebbe villania. Non dice parola. Poi arrivano due valletti, tenendo in mano candelabri d'oro fino lavorato a niello. [...] Una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal. Quando fu entrata nella sala col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero il chiarore, come stelle quando si leva il sole o la luna. Dietro di lei un'altra damigella recava un piatto d'argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell'oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare o in terra...».

CODICE CORTESE

Il Perceval di Chrétien de Troyes, che per la prima volta ne racconta le vicende, è una sorta di "romanzo iniziatico". Vi si narra infatti di come il giovane Perceval il Gallese, «figlio della dama Vedova» e abitante nella «Guasta Foresta» - dov'è cresciuto all'oscuro dei costumi cavallereschi giacché la madre (che a causa della cavalleria ha perduto gli altri suoi cari) ha voluto tenerlo al riparo da tale conoscenza - intraprenda la professione delle armi cortesi giungendo, attraverso differenti insegnamenti, a un alto grado di perfezione spirituale. Un giorno, nella foresta, egli si imbatte in alcuni cavalieri: spaventato e affascinato dalla loro bellezza e potenza, pone alcune petulanti domande e, sulla base delle loro risposte, decide di recarsi alla corte di Artù a Carduel, nel Galles, per ricevere dalle sue mani le armi e la dignità cavalleresca. La madre, pur acconsentendo con molto dolore al suo desiderio, gli impartisce alcuni elementari insegnamenti d'etica cavalleresca.
Seguendo in modo maldestro queste indicazioni, il giovane ingenuo, rozzo e selvatico (un "puro folle") giunge alla corte di Artù, uccide il Cavaliere Vermiglio che ha recato offesa al re e riceve i veri insegnamenti sul modo di combattere e sull'etica cavalleresca dal gentiluomo Gornemant de Goort. Questi, in particolare, gli impone di risparmiare sempre il nemico inerme, di astenersi dal parlar troppo, di assistere i bisognosi, di serbare la fede e pregare.
Forte di tali precetti Perceval arriva nel castello del cosiddetto "Re Pescatore", dove ha luogo la misteriosa processione del graal, che si ripete più volte durante il banchetto.
Un graal «tutto scoperto» passa a ogni portata, e il giovane desidererebbe chiedere che cosa significhi la scena e cosa sia quel graal: ma, ben ricordando gli insegnamenti di discrezione impartitigli da Gornemant, non osa porre alcuna domanda.

LA COLPA DI PARSIFAL

Il mattino seguente, il castello è vuoto. Perceval si ritrova da solo; sconcertato, riparte e dal casuale incontro con una fanciulla nella foresta apprende che il Re Pescatore è gravemente ferito: se egli avesse posto la domanda relativa alla natura e alla funzione del graal quegli sarebbe stato risanato.
L'errore di Perceval deriva da una colpa, quella di aver fatto morire di dolore sua madre quando l'aveva abbandonata per dirigersi alla corte del Re Artù.
Dopo altre avventurose vicende - che si intrecciano con quelle di Galvano, un cavaliere della Tavola Rotonda - il giovane gallese perviene a un eremo nel quale incontra un santo anacoreta. Questi gli rivelerà di essere fratello di sua madre e del re al quale è servito il graal, il cui contenuto è un'ostia: «quest'ostia sostiene e conforta la sua vita, tanto essa è santa, ed egli stesso è sì santo che nulla lo fa vivere se non l'ostia del graal».
Dopo questa rivelazione, Perceval resta presso lo zio eremita e si sottopone a una dura penitenza per espiare i suoi peccati. L'educazione cavalleresca del giovane folle si perfeziona così, grazie all'affinamento dello spirito. Per molte pagine il romanzo prosegue parlando delle avventure di Galvano, per poi restare incompiuto.
I pochi versi relativi all'apparizione del graal nel castello del Re Pescatore e quelli successivi, sull'ostia contenuta nel recipiente e della quale il Re Ferito si ciba, hanno segnato profondamente l'immaginario europeo: da allora quel graal è divenuto il Santo Graal, oggetto d'innumerevoli altri racconti, nonché di studi, di polemiche, di riflessioni artistiche, di improbabili leggende.

INCANTESIMO CELTICO

Tra la fine del XII secolo e la prima metà del successivo si andò formando, in Francia e in tutta Europa, un corpus di testi letterari, tanto in versi quanto in prosa, che continuarono e ampliarono - con innumerevoli varianti - il racconto del Graal. Il fatto che la parola "graal" fosse scarsamente comprensibile fuori dal contesto franco-celtico favorì il passaggio del termine da nome comune a nome proprio.
>Si immaginarono le vicende che avrebbero potuto concludere il Perceval di Chrétien e se ne proposero varie "continuazioni" nelle quali si seguivano sia le avventure del protagonista, sia quelle di Galvano. Ma si volle anche chiarire e risolvere il "mistero" del Graal in chiave pienamente cristiana. Per questo se ne narrarono antefatti e vicende più o meno come si era fatto e si andava facendo per la più celebre e gloriosa reliquia della cristianità: la Santa Croce. Così come esiste, redatta nel corso del XIII secolo, una Legenda Crucis che segue la sorte del legno della croce dal Paradiso terrestre sino al Calvario, abbiamo anche una "Leggenda del Graal", che percorre le vicende del santo recipiente dal momento della sua realizzazione in poi.
Intorno al 1200, il piccardo Robert de Boron - non sappiamo se a conoscenza del testo di Chrétien - scrisse in versi il Roman de I'Estoire du Graal, noto anche sotto il titolo di Joseph d'Arimathie. Con Robert, l'atmosfera di incantesimo celtico - la visita al magico castello del Graal, la misteriosa infermità del Re Pescatore che rende il regno esposto ai pericoli e ai malefici, i recipienti e le armi prodigiose, l'eroe destinato a rompere l'incantesimo - scompariva per dar luogo a un racconto ispirato a scritti evangelici apocrifi come il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull'Eucarestia. Nel racconto di Robert de Boron si narra, infatti, il trasferimento del Sacro Vaso - in cui Gesù aveva celebrato l'Eucarestia nel corso dell'Ultima Cena - da Gerusalemme in Inghilterra, grazie a Giuseppe d'Arimatea.

LA TESTA SUL PIATTO

All'inizio del XIII secolo appartiene anche il Peredur, un racconto gallese in prosa, che richiama ampiamente il Perceval di Chrétien de Troyes, ma che presenta alcuni elementi distintivi: vi si narra infatti che il Re Pescatore è stato ferito dalle incantatrici di Caer Loyw, che hanno assassinato anche un cugino di Peredur. Il fine delle avventure sembra dunque essere la vendetta di Perceval, con cui infatti si chiude il romanzo.
Il Graal, pur non essendo mai indicato con questo nome, appare al protagonista in modo simile a quanto si è visto per il romanzo di Chrétien; tuttavia, particolare certo non insignificante, esso è presentato come un vassoio nel quale è posta la testa tagliata del cugino di Peredur: «Peredur conversava con lo zio quando vide due uomini attraversare la sala ed entrare in una camera: portavano una lunga lancia dalla cui punta colavano a terra tre rivoli di sangue. [...] Dopo qualche istante di silenzio, entrarono due fanciulle che portavano un grande vassoio sul quale poggiava la testa di un uomo immersa nel sangue...».
Sull'origine del romanzo gallese, il più vicino al Perceval, sono state avanzate diverse ipotesi: derivano entrambi da un'unica fonte scritta comune, poi perduta? Sono varianti di una tradizione orale? Oppure il Peredur non è che una fra le tante rivisitazioni del Perceval?
Tra il 1200 e il 1230 apparvero quattro "continuazioni" in versi del Perceval di Chrétien, tutte d'autore anonimo o d'incerta attribuzione. Della prima abbiamo tre redazioni, diverse l'una dall'altra. Nel testo, ovviamente molto complesso, il protagonista principale non è Perceval, bensì Gauvein. Nella vicenda è presente tanto l'impronta cristiana quanto quella celtico-meravigliosa: probabilmente a causa delle sovrapposizioni verificatesi nel corso di almeno tre decenni.
Nella seconda continuazione - generalmente attribuita a Wauchier de Denain, un autore degli inizi del Duecento che lavorava per i sovrani di Fiandra - il protagonista torna a essere Perceval, ma il Graal è del tutto cristianizzato e viene presentato come il calice che raccoglie il sangue di Cristo. Anche il probabile autore della terza continuazione, Manessier, lavorava presso la Casa di Fiandra; la datazione dell'opera è incerta e va dal 1214 al 1230. Da notare che, proprio nel XIII secolo, il culto della reliquia del Sangue del Cristo era molto forte in Fiandra, specie nelle città di Liegi e di Bruges. È da lì, e da allora, che prese le mosse la festa eucaristica del Corpus Domini. Il testo di Manessier parte dalla seconda continuazione e unisce elementi provenienti da svariati racconti, ma fa emergere anche distintamente il tema della vendetta che domina il Peredur gallese. La quarta continuazione, composta tra il 1226 e 1230, si deve a un certo Gerbert, da alcuni identificato con Gerbert de Montreuil. Come Manassier, anche Gerbert prende lo spunto iniziale dalla seconda continuazione, ma con una impronta più marcatamente cristiana.

GIOIELLO DEL CIELO

Intanto, tra il primo e il secondo decennio del XIII secolo, sul tema interveniva il poeta tedesco-meridionale Wolfram von Eschenbach, il cui Parzival immette nel tessuto simbolico e narrativo impiantato da Chrétien una serie di elementi alternativi che sembrano d'origine orientale, al posto di quelli celtici che la tradizione tedesca riteneva evidentemente estranei. La differenza più evidente risiede nella descrizione stessa del Graal, che viene rappresentato come una pietra preziosa: «Il più bel gioiello del cielo, fonte e meta d'ogni gioia. Questa cosa è detta il Graal, segno d'ogni bene in terra». Per il castello del Graal descritto da Wolfram si sono recentemente proposte identificazioni con una fortezza persiana del Kurdistan o dell'Azerbaigian; ma è ignoto attraverso quale fonte il poeta avrebbe avuto accesso alla descrizione di tali edifici.
Altri romanzi duecenteschi in prosa hanno trattato del Graal. Il franco-settentrionale Perlesvaus è stato datato da alcuni al 1200-1210, da altri al 1230-1240; il testo differisce sostanzialmente rispetto alle altre continuazioni del Perceval e rivela in alcuni tratti un substrato celtico piuttosto marcato.

LA VISIONE DI GALVANO

I personaggi principali del Perlesvaus sono quattro: Perceval (chiamato "Perlesvaus" da Perd-les-vaux, "perde le valli", con riferimento alla perdita dell'eredità e dell'assassinio del padre che innesca la sua volontà di vendetta: tema che dunque lo approssima al Perceval), Lancillotto, Artù e Galvano, al quale spetta la visione del Graal, tema che rivela anche una netta influenza cristiana, nonché una maggior chiarezza rispetto a Chrétien: «D'un tratto, da una cappella uscirono due damigelle: una teneva tra le mani il Santo Graal e l'altra la Lancia dalla cui punta il sangue stillava cadendo nel Santo Vaso. Camminando fianco a fianco entrarono nella sala in cui i cavalieri desinavano con messer Galvano. E l'aroma che si sprigionava dal Sacro Vaso era così soave e santo che essi dimenticarono il mangiare. Galvano osservò il Graal, e gli parve che dentro vi fosse un calice di una foggia rara per quei tempi, e guardando la punta della lancia da cui stillava il sangue vermiglio gli sembrò di vedere due angeli che portavano due candelabri d'oro con i ceri accesi. Le damigelle gli passarono davanti ed entrarono nella cappella. [...] Gli sembra anche che nel Graal vi sia la figura di un bambino. Il capo dei cavalieri gli disse qualcosa, ma Galvano tenne gli occhi fissi davanti a sé e vide che sulla tavola cadevano tre gocce di sangue. [...] Ed ecco che le fanciulle ripassano ancora una volta davanti alla tavola. Ora a messer Galvano sembra che siano tre, e quando solleva lo sguardo gli pare che il Graal sia sospeso in aria e che sopra ci sia un uomo inchiodato a una croce con una lancia conficcata nel costato. Preso da profonda compassione, Galvano non riesce a pensare ad altro che alle tremende sofferenze del Re. Il capo dei cavalieri lo esorta di nuovo a parlare, e gli dice che se non lo farà subito non ne avrà mai più l'occasione, ma Galvano continua a tacere, non lo ascolta e tiene lo sguardo fisso verso l'alto. Allora le damigelle rientrano nella cappella e scompaiono insieme al Santo Graal e alla lancia».

UN ROMANZO FIUME

Il Didot Perceval del cosiddetto Pseudo Robert de Boron è, con il coevo Perlesvaus, il primo romanzo francese in prosa a trattare del Graal. Il testo si presenta come una combinazione tra la queste del Graal e il tema del declino del ciclo arturiano, che l'autore presenta come una trasposizione in prosa del Perceval di Robert de Boron, opera che non ci è mai giunta.
Tra il 1215 e il 1235 furono redatte le anonime Estoire del Saìnt Graal e Queste del Saìnt Graal, entrambe in versi, che finirono con il costituire insieme una specie di "romanzo-fiume" noto come Lancelot-Graal o più semplicemente come «ciclo vulgato» (composto anche dal Merlin, dal Lancelot e dalla Morte Darthur, da cui sarebbero scaturiti fino al Quattrocento continui rifacimenti, fra cui quello toscano della Tavola Rotonda. Nel «ciclo vulgato» il Graal è del tutto cristianizzato alla luce della vicenda di Giuseppe d'Arimatea narrata da Robert de Boron. Nel l'Estoire del Saint Graal è la coppa utilizzata da Gesù nel corso dell'ultima cena; nella Queste la vastità della materia fa sì che l'oggetto appaia in diverse occasioni e sia al centro delle avventure di numerosi personaggi. Ormai, esso sarebbe rimasto definitivamente il calice usato da Gesù nell'Ultima Cena per fondare il rito dell'Eucarestia, poi utilizzato anche dagli angeli per raccogliere il sangue sparso dal Signore durante il suo martirio.

Chi vuol bere a quella coppa?

ALLEGORIA EUCARISTICA, SIMBOLO DI SALVEZZA O DEL POTERE: LA FORZA MAGICA DEL SACRO GRAAL APPARE DENSA DI SIGNIFICATI

Nello sviluppo del ciclo di romanzi del Graal si era dunque evidenziata una graduale prevalenza degli elementi di origine cristiana rispetto a quelli presumibilmente derivati dalla tradizione celtica. L'incompiuto romanzo in versi di Chrétien de Troyes aveva lasciato aperti problemi e interrogativi di ogni genere. Il Peredur, il Perlesvaus e la prima continuazione del Perceval insistevano sul versante celtico; la seconda e la terza continuazione, ma soprattutto il testo di Robert de Boron e la Queste, ci pongono invece dinanzi a un quadro completamente cristianizzato ed eucaristico (sia pure complicato da qualche elemento gnostico); piuttosto defilato il romanzo di Wolfram von Eschenbach, che ambienta il Graal in un contesto orientale. Il significato dei testi del Graal "cristianizzato" del pieno Duecento è sostanzialmente chiaro, mentre più dibattuto è il problema di quale senso dare tanto al corteo del Graal quanto, più in generale, all'intera vicenda che si narra nel Perceval di Chrétien e nelle prime continuazioni.
Alcuni avevano voluto vedere già in questi primi testi un'ispirazione pienamente cristiana: le immagini che compongono il corteo del Graal (in particolare, il Graal stesso e la lancia insanguinata) sarebbero mutuate dall'iconografia cristiana. Il Graal richiamerebbe l'allegoria eucaristica, mentre la lancia sarebbe quella di Longino (il santo leggendario che trafigge il costato del Salvatore, il cui nome deriva forse dal greco longkhè, "lancia"). L'iniziazione di Perceval andrebbe letta come una metafora dell'evoluzione del ceto cavalleresco del tempo: dalla cavalleria mondana della Tavola Rotonda a quella mistica, ascetica e cristiana. L'interpretazione integralmente "cristiana" - che cioè esclude "prestiti" da altri contesti culturali - dei primi testi che parlano del Graal non è tuttavia quella prevalente nella storiografia contemporanea, in quanto appare evidente la presenza di sicuri e abbondanti riferimenti al mondo celtico. Quel che appare, invece, certo è la piena appartenenza degli autori al mondo e allo spirito cristiani: non è credibile l'ipotesi di una sopravvivenza, nella Francia dei secoli XII e XIII, di un culto pagano-celtico, di una persistenza cosciente o di un revival pagano, di un'"Antichiesa" del Graal erede di un qualche sistema mito-cultuale precristiano travestito da leggenda eucaristica.
Gli elementi essenziali che appaiono nella cerimonia del Graal, oltre alla coppa-piatto, sono la lancia e, in un caso, la testa. Vediamo dunque quale può essere il senso complessivo dell'episodio, da una parte, quello dei singoli elementi che lo compongono, dall'altra.

VIAGGIO NELL'ALTRO MONDO

È probabile che la queste del Graal si rifaccia alle avventure nell'aldilà e alla ricerca di oggetti magici di cui la letteratura di derivazione celtica offre frequenti esempi. Secondo l'opinione comune, i Celti che durante il VI-V secolo a.C. occuparono i territori dell'attuale Francia centro-settentrionale, del Belgio, del bacino renano (conosciuti con il nome di "Galli") o delle Isole Britanniche e della Penisola iberica (i Celtiberi), avrebbero lasciato le tracce più evidenti della loro civilizzazione in Irlanda, nel Galles, nella Cornovaglia e nell'Armorica: le aree che meno avevano subito la conquista e l'acculturazione romane. Da queste regioni scaturì un tipo di letteratura in cui emergono diversi tratti culturali di origine celtica; si tratta tuttavia di prodotti tardi, di epoca medievale, che dunque non presentano una tradizione originaria, ma intrecci di tradizioni differenti, in cui gli elementi riconoscibili come "celtici" non sono che uno fra i molti influssi presenti.
La Tavola Rotonda ricalcherebbe una tavola dei festini celtica; a questa "corte" di guerrieri la tradizione celtica ne farebbe corrispondere una parallela nell'aldilà, governata da un re prodigo che dimora in un castello meraviglioso, in cui un calderone magico garantisce universalmente l'abbondanza. Come già detto, l'aventure alla ricerca di oggetti magici (pietre, talismani, coppe meravigliose, armi dotate di straordinari poteri ecc.) nell'Altro Mondo è alla base di molti racconti irlandesi e gallesi, come per esempio quelli detti Mabinogion, composti agli esordi del XIII secolo; l'eroe designato a tale queste deve superare molte difficili prove, in una sorta di iniziazione che gli consentirà l'accesso al misterioso aldilà.

LE FONTI DEL POTERE

Nel Perceval di Chrétien de Troyes uno degli oggetti magici, la lancia - che sanguina per il colpo inferto - ferisce il Re Pescatore, il cui nome potrebbe derivare dall'associazione fra questi e alcune divinità legate all'acqua, come Nuadi e Bran. La ferita rende il re, e specularmente le sue terre, sterili. La "cerca" del Graal, cioè del calderone dell'abbondanza, da parte di un eroe giovane e puro consente il ripristino dell'integrità del sovrano e del regno. La lancia e la coppa sono i segni della regalità: se Perceval avesse chiesto il significato di questi oggetti, avrebbe svelato le fonti del potere regale, ripristinandolo. Inoltre, il Peredur e il Perlesvaus presentano forse alcuni elementi arcaici, vivi nella tradizione orale, ma non ripresi da Chrétien: la testa tagliata sul piatto e la vendetta di sangue che guida l'aventure del protagonista ne sarebbero le prove più evidenti.
L'incertezza nella decifrazione del mito del Graal deriva essenzialmente dalla presenza in culture anche geograficamente lontane tra loro di simboli formalmente molto simili. A metà del IX secolo, al tramonto dell'impero carolingio, il vescovo Audrado di Sens, autore di scritti profetici frutto di visioni, compose un poemetto, il De fonte vitae, dedicatario del quale era lncmaro di Reims, il grande studioso ed ecclesiastico del quale Audrado si sentiva evidentemente debitore. In questo poemetto si narra di un viaggio verso «il luogo più bello del mondo», nel quale scaturisce il Fonte della Vita alla quale si puà attingere solo se si è in possesso di uno speciale vaso.
Nel contesto del poema di Audrado, i simboli sono chiari: la sorgente è il Cristo "Fonte di Vita"; l'Acqua è il Divino Sangue, sprizzato nella Passione, che rivive attraverso il mistero eucaristico; il Vaso è Io Spirito che consente di attingere al Fonte e di bere, entrando in piena comunione, materiale e spirituale, con il Cristo.
Le fonti cui Audrado si ispira sono anzitutto bibliche ed evangeliche - dal Cantico di Salomone all'Apocalisse - ma anche classiche. Attraverso la cultura classica - mediata da autori come Boezio, Venanzio Fortunato e Alcuino - giungevano ad Audrado echi della tradizione greca e di quelle orientali, che erano peraltro presenti anche negli stessi testi vetero e neotestamentari.
Il calice e la coppa, insomma, sono dei veri e propri grandi archetipi, densi di significato presso tutte le culture del mondo eurasiatico-mediterraneo.
Nei Salmi biblici il cantore offre a Dio la coppa della salvezza e riceve da lui quella delle benedizioni o del castigo; il Vangelo parla del calice del dolore; al contrario, la coppa che trabocca è simbolo di gioia e di abbondanza (proprio come nella tradizione celtica). Nell'Apocalisse, infine, sono menzionate le coppe ricolme dell'ira divina.

FINESTRA SULL'UNIVERSO

Ma la coppa è centrale anche nei riti vedici e nelle liturgie brahmanico-induiste; mentre nella tradizione islamo-persiana. Il mitico re Gemshid possiede una coppa nella quale si può vedere l'intero universo: coppe e bacili sono infatti strumenti abituali per i riti divinatori come per l'elaborazione di potenti filtri. Quest'idea della coppa come sede di potenza e di sapienza si ritrova nella tradizione islamca della mistica sufi, allorché a una coppa è paragonato il cuore dell'arif (cioè il saggio, l'iniziato) Spieghiamoci meglio: nell'Avesta, il libro sacro deillo zoroastrismo, il segno visibile della regalità solare, lo xvarenah, da cui hanno origine le tre funzioni sociali - studiate da Georges Dumèz per gli indoeuropei e da Georges Duby nel Medioevo occidentale -, cioè i sacerdoti, i guerrieri e i produttori, è detenuto dal sovrano primordiale Yimi Xshaàta. Questo sovrano è identificato nella tradizione islamica, nella quale, con la conquista della Persia, molti miti iranici sono confluiti con l'eroe civilizzatore Gemshid, che altri non sarebbe se non il Salomone biblico, il fondatore del Tempio sulla roccia del monte Moriah. E a Gemshid-Salomone apparterrebbe appunto l'oggetto magico e regale della prodigiosa coppa "che mostra il mondo".
Ritroviamo coppe e bacili come simbolo di potere o come oggetti magici anche nella tradizione greca. Ma è nel mondo germanico che la coppa ha certamente un significato di trasmissione della sovranità. Per esempio, si conserva nel tesoro del duomo di Monza il calice che la regina Teodolinda avrebbe offerto ad Agilulfo, da lei prescelto nel 590 alla successione del defunto marito Autari, come simbolo del passaggio del potere regale.

LANCIA DI FUOCO

Allo stesso modo, nel sistema mitico-simbolico celtico la coppa emblema di regalità e il bacile-calderone dell'abbondanza e della conoscenza, appartenente al dio Dagda, si sovrappongono; le leggende testimoniano come la coppa colma di idromele o di vino offerta da una ragazza - ricordiamo che nel Perceval di Chrétien è una donna a portare il Graal - a un candidato al trono sia il segno della sua elezione e la coppa più bella e preziosa sia l'offerta atta a celebrare l'eroe, il più valoroso fra i guerrieri. Si può dunque ipotizzare che la coppa come simbolo al contempo di regalità e di abbondanza sia un archetipo delle culture indoeuropee.
Al pari della coppa, anche la lancia è un intenso e diffuso simbolo. Una coppa e una lancia (quella di Longino) sono entrambi simboli della Passione, ed è la loro presenza associata a suggerire che la "processione del Graal", descritta da Chrétien de Troyes nel Perceval, abbia un significato anzitutto eucaristico.
Ma la lancia è a sua volta simbolo di sovranità. Da essa deriva lo scettro, e in greco il termine sképtron (verga, lancia, scettro) si associa al concetto di "fulmine" e ha valore magico quale strumento al tempo stesso di salvezza e di perdizione: come la lancia di Achille che - non diversamente dalla clava del dio celtico Dagda - poteva al contempo ferire e guarire. Conosciamo, per i Longobardi, un chiaro uso della lancia come simbolo supremo di regalità: il gesto di afferrare la lancia, nel corso della saga longobarda, è il simbolo del passaggio del potere quando i legami di sangue nella successione regale vengono a mancare, secondo il modello esemplato dalla vicenda del mitico re Lamissione, distintosi già nell'infanzia per aver afferrato la lancia protesa verso di lui dal sovrano Agilmundo.
Nella mitologia celtica la lancia è attributo del dio Lug, che la prende dalle mitiche "Isole del mondo": è una lancia di fuoco che infligge colpi mortali, dunque è prossima al fulmine. La stessa arma compare nelle mani di molti fra i guerrieri mitici della tradizione celtica, come Cuchulainn e suo fratello Conall.

IL SACRIFICIO DI BRAN

Un motivo di origine celtica è quasi sicuramente la testa tagliata e recata nel piatto-Graal che appare nel Peredur, anche se tale immagine in ambito cristiano non poteva non ricordare la decollazione di San Giovanni Battista. Troncare la testa ai nemici era abitudine comune per i guerrieri celti; l'atto aveva un significato rituale e cultuale, oltre che semplicemente guerriero. Lo si deduce, per esempio, dall'episodio del Mabinogion noto come Branwen, figlio di Llyr: il protagonista, Bran il Benedetto, ferito, ordina ai suoi uomini in difficoltà di mozzargli la testa che li accompagnerà e li guiderà nel corso di un lungo viaggio; quando infine viene sepolta essa è talmente potente da allontanare ogni calamità dalla terra in cui giace. Il costume sopravvisse fino ai primi secoli della cristianizzazione: nella Vita del vescovo - e poi santo - Germano di Auxerre si racconta, ad esempio, che prima di abbracciare il cristianesimo egli fosse solito sospendere, secondo l'antico costume pagano, le teste degli animali cacciati ai rami di un albero sacro; l'impiccagione rituale, d'altronde, era costume dei Germani e degli Scandinavi, che sacrificavano così al dio Wotan/Odino. Il tema della testa tagliata e del valore della testa (e del cranio scarnificato) sul piano magico è ben noto in molte culture, soprattutto - ma non soltanto - indoeuropee e uraloaltaiche. Il fatto che in area eurasiatica si ricavassero coppe dai crani dei nemici uccisi (come nel noto episodio di Alboino e del re dei Gepidi narrato da Paolo Diacono) collega il tema del sacrificio con quello della regalità, del potere e dell'abbondanza: i temi del Graal.
Possiamo dunque affermare che il duplice significato dell'abbondanza e del potere-regalità connota con una certa costanza gli oggetti che compongono la cerimonia del Graal. La leggenda graalica potrebbe dunque esser letta come la versione medievale, pervenuta attraverso un'eredità celtica reinterpretata in termini cristiani, del racconto archetipico dell'iniziazione di un giovane re-guerriero destinato a ristabilire la prosperità del suo regno, minacciata dalla vecchiaia, dalla malattia e dall'impotenza di un Re Ferito. Un racconto che, con molte variabili, i folcloristi hanno individuato e analizzato nel patrimonio mitico di molte civiltà.
Tuttavia, la scomposizione di un mito e l'analisi dei suoi elementi di base può condurre a una comprensione solo parziale del medesimo in quanto, come si è visto, miti e simboli finiscono per somigliarsi in tutte le civiltà del mondo: all'analisi delle forme sarà dunque opportuno affiancare alcune considerazioni sul contesto più propriamente storico-sociale in cui la leggenda del Graal nacque e si sviluppò.

Il segreto dei Templari

DAL QUATTROCENTO NON SI SENTE PIU' PARLARE DI SANTO CALICE. MA, TRE SECOLI DOPO, LA RICERCA RIPRENDE. FINO AI GIORNI NOSTRI.

Il XII secolo conobbe la grande espansione di sovrani angiomo-plantageneti. Pur regnando in Inghilterra, essi avevano vasti feudi in Bretagna, in Normandia e nell'Anjou; il che li rendeva vassalli dei re Luigi VII di Francia. Il matrimonio tra Enrico II ed Eleonora d'Aquitania, nel 1152, schiudeva nuove possibilità egemoniche. Il regno di Luigi VII di Francia - che di Eleonora era stato il primo marito - era ormai molto meno esteso di quello di Enrico. A bloccare per il momento le mire della monarchia angioino-plantageneta vi era tuttavia la poca stabilità dell'Inghilterra, dove i Normanni si erano violentemente sovrapposti agli Anglosassoni relativamente da poco.

ATTESTATO DI SACRALITÀ

È in questo contesto che la dinastia angio-francese elaborò il progetto di rintracciare o, se necessario, di inventare elementi di coesione fra le etnie in radici mitiche che fossero in grado di risultare accettabili per i Celti insulari, per gli Anglosassoni, per i Normanni. D'altro canto, le dinastie di Francia e di Germania avevano i loro antenati che infondevano sacralità alle stirpi. La monarchia francese aveva i suoi centri sacrali in Reims, dove si conservava la Sacra Ampolla dell'olio recato dagli angeli con cui si ungevano i sovrani, e nell'abbazia di Saint-Denis, che custodiva l'Orifiamma, il vessillo direttamente concesso da Dio a Carlomagno; l'impero romano-germanico traeva invece la sua sacralità dalla Cappella Palatina di Aquisgrana, dove riposavano le reliquie di Carlomagno, per il quale nel 1165 Federico Barbarossa avrebbe ottenuto la canonizzazione. Occorreva dunque qualcosa in grado di competere con tanta nobiltà: i sovrani celti cristianizzati avrebbero coperto questo ruolo.
Già nell'VIII-IX secolo, l'Historia Brittonum di Nennio aveva nominato un "Arturus Rex" - chiamato in soccorso dal re dei Bretoni Vortiger per contrastare l'invasione dei Sassoni - tra le cui azioni in battaglia si ricorda l'uccisione di 960 nemici. Oggi si tende a ritenere che il suo nome potrebbe venire dal latino Artorios, il che lo farebbe identificare con un funzionario romano - Lucius Artorius - la cui esistenza storica è documentata da un'iscrizione funeraria bretone; il nome era comunque ampiamente attestato in quell'area intorno ai il secolo d.C. Nella seconda metà del X secolo, gli Annales Cambrìae parlavano di una vittoria riportata dai Britanni contro i Sassoni nei 516 o 518, durante la quale un "rex Arturus" avrebbe portato sulle spalle per tre giorni consecutivi la croce dei Cristo.

NELLA VALLE DI AVALON

Le tradizioni arturiane vennero raccolte, ampliate e ordinate verso il 1135 dalla Hìstorìa regum Britannìae di Goffredo di Monmouth, alla quale s'ispirò Guglielmo di Malmesbury per la seconda edizione di un suo scritto, il De antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, redatto tra il 1135 e il 1137 e nel quale la leggenda arturiana appare nella sua sostanziale completezza.
L'opera di Goffredo fu ben presto tradotta dal latino nella lingua d'oil per guadagnare rapida circolazione tanto nei mondo angio-normanno quanto in quello francese: a essa s'ispirava nel 1155 il Roman de Brut di Robert Wace, dedicato a Eleonora d'Aquitania, nel quale si descriveva la Tavola Rotonda, intorno alla quale i cavalieri prendevano posto. Essi avevano alla Tavola un seggio, ciascuno identico agli altri e venivano serviti alla stessa maniera in segno di uguaglianza di condizione. Per Artù si inventò anche un centro sacrale, l'abbazia di Glastonbury nel Somerset, da contrapporre ad Aquisgrana e a Saint-Denis: nel 1191, nel corso della terza crociata, fu addirittura annunciato il rinvenimento delle tombe del Re Artù e della regina Ginevra e, di conseguenza, Glastonbury fu identificata con la leggendaria terra di Avalon.
Entro la metà del Duecento, quindi, la "cerca" del Graal era un tema letterario ormai noto e ricco di varianti: suo oggetto, la ricerca del misterioso e prodigioso vaso da parte dei cavalieri della Tavola Rotonda. A essa l'autore anonimo della Queste - forse influenzato dalla mistica cistercense - aveva fornito un esito mistico, eucaristico e cristologico. Il puro eroe della Queste, Galahad - figlio di Perceval e della principessa del Graal - è in effetti un typus Christi. Con l'aiuto anche dei testi evangelici apocrifi, si era andato così tessendo un "romanzo del Sacro Calice", che coinvolgeva le leggende relative a Pilato, all'imperatore Vespasiano, alla reliquia romana dell'immagine del volto di Gesù (la "Veronica"), e dove soprattutto si narrava come Giuseppe d'Arimatea, ereditato il Graal, lo avesse affidato a compagni sicuri ed esso fosse finito in «una terra verso Occidente [...] ancora tutta selvaggia», nella valle di Avalon. Dalla generazione di Bron, cognato di Giuseppe di Arimatea, sarebbero discesi i "Re Pescatori", detti così perché avrebbero pescato quel pesce - un richiamo simbolico all'ICHTYS: il Cristo-Salvatore - necessario al rito del Graal.
Attraverso il "romanzo" di Giuseppe d'Arimatea, la Terrasanta e la terra di Avalon, identificata con l'Inghilterra angionormanna, si collegavano strettamente fra loro. D'altro canto, lo stesso stava avvenendo sul piano della realtà storica proprio a partire dalla seconda metà del XII secolo, quando i sovrani d'Inghilterra e molti loro vassalli continentali - fra cui i Lusignano, pretendenti alla corona di Gerusalemme - cercavano di porsi alla guida della crociata. Le avventure crociate in Terrasanta, a loro volta, avrebbero rinforzato in Occidente proprio nei secoli XII-XIII il culto eucaristico - così importante nella formazione della leggenda dei Graal - legato a miracoli come quello del Santo Sangue di Bolsena (che dette luogo alla fondazione della cattedrale di Orvieto) e alle importazioni di reliquie illustri provenienti dalla Terrasanta e dal saccheggio crociato di Costantinopoli del 1204: tra le molte, vanno ricordate almeno le reliquie della Passione per ospitare le quali Luigi IX fece edificare a Parigi la Sainte-Chapelle.

REVIVAL ROMANTICO

Nel 1485, Thomas Malory, cavaliere e avventuriero inglese, pubblicava la Morte Darthur, un romanzo-fiume in cui si riassumeva e si elaborava ancora una volta la materia del ciclo di Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda e del Graal. Da allora, il mito che tanto aveva dato alla poesia medievale sarebbe tramontato per circa tre secoli.
Fino ai Romanticismo, infatti, il Santo Graal sarebbe scomparso. La letteratura cavalleresca, che pure conobbe revivals e rielaborazioni, seguì altri percorsi. Il mito carolingio era tenuto in vita dall'impero asburgico e dalla monarchia francese che se ne contendevano l'eredità morale e spirituale; e le gesta dei paladini di Carlo in lotta contro i musulmani sembravano rinverdite dalla lotta contro i Turchi ottomani. Al contrario, la letteratura arturiana e graalica segnava il passo: troppo "sospetta" tanto per il cattolicesimo della Controriforma, quanto per l'austerità dei mondo protestante, entrambi preoccupati dalle molte ambiguità di stampo celtico e cortese.
Bisognò aspettare il tardo Settecento perché il Medioevo tornasse in auge, insieme alle fonti celtiche e germaniche, alle atmosfere gotiche di Ossian, alle radici della cultura europea. Nell 777, Christof Martin Wieland aveva elaborato una rinnovata versione della storia del mago Merlino; nella Parigi napoleonica del 1803-1804, Friedrich Schlegel teneva un ciclo di lezioni dedicate all'antica letteratura francese, mentre a Lipsia usciva appunto l'opera del Wieland edita da lui e dalla moglie Dorothea Mendelssohn.
Nel 1792, Walter Scott studiava e annotava il romanzo di Malory, mentre nel 1808 introduceva citazioni dal «ciclo vulgato» nel primo "canto" del suo Marmion. Non casualmente, quell'Inghilterra che più aveva promosso la letteratura arturiana riscopriva interesse per questa materia. Nella prima metà dell'Ottocento vi furono molte riedizioni e riduzioni dei poemi arturiani, mentre veniva riscoperta anche la raccolta dei Mabinogion celtici. È dell'842 la prima apparizione a stampa del Sir Launcelot and Queen Guinevere, della Morte d'Arthur e del Sir Galahad di Alfred Tennyson, mentre fra 1849 e 1862 gli affreschi di William Dyce nel palazzo di Westminster illustravano anche, tra le altre cose, la visione di Galahad.

DA WAGNER ALLA NEW AGE
La cultura romantica britannica, e in particolare la produzione preraffaellita, si configurava quindi come profondamente segnata dai sogni cavallereschi, nei quali il Graal assumeva ora una connotazione mistico-religiosa, ora invece una etico-misterica, con accenti erotici purificati in termini spirituali, secondo i dettami - sia pur trasfigurati - della cultura cortese. Tra 1857 e 1858, la Oxford Union venne decorata da pitture di argomento arturiano eseguite da Dante Gabriel Rossetti, da Edward Burne-Jones, da William Morris.
Tutte queste tendenze parvero aggregarsi ed esaltarsi nell'opera di Richard Wagner, che più di ogni altra consegnò il mito del Graal al Novecento attraverso il Lohengrin e soprattutto il Parsifal, ispirato da Wolfram von Eschenbach, che fu rappresentato per la prima volta nel 1882 a Bayreuth. Non c'è dubbio che Tennyson, Scott, i preraffaelliti e Wagner abbiano accostato il pubblico moderno al Graal: non certo i romanzi medievali, che sono restati una lettura familiare solo agli specialisti.
Nel corso del Novecento si è verificato un caratteristico intrecciarsi e sovrapporsi fra le istanze della ricerca scientifica attorno al mito del Graal e l'interesse suscitato dal tema negli ambienti occultistici e mistico-esoterici. Nella Parigi fin de siècle, invasa dall'entusiasmo per l'occultismo, si agitavano numerosi gruppi che pretendevano di rifarsi ai Templari e ai Rosa-croce e che erano in contatto con ambienti massonici, senza tuttavia sovrapporsi mai del tutto con essi. Un elemento catalizzatore di queste tendenze fu un artista, Joséphin Péladan, che nel 1890 - dopo un viaggio a Gerusalemme - guidato da un impulso mistico, fondò un "Ordine Cattolico della Rosacroce, del Tempio e del Graal", dal quale nacque il "Salon de la Rose-Croix"; un gruppo che si poneva, sia pur in modo defilato, all'interno del movimento simbolista. Frattanto il folclorista inglese Alfred Nutt e, soprattutto, la sua allieva Jessie Ledley Weston interpretavano la leggenda del Graal come il disvelamento di una "Chiesa del Graal", alternativa a quella ufficiale e di essa più autentica e propriamente cristiana, sul modello dell'etica templare. Forzando un po' il testo di Wolfram von Eschenbach, si sosteneva che egli avesse affidato ai Templari il ruolo di "guardiani del Graal". Alla base della dottrina templare vi sarebbe stata, quindi, la conoscenza del "segreto del Graal", riconducibile, attraverso la tradizione gnostica, ai miti e ai riti connessi con la fertilità e la morte e rinascita della vegetazione; quindi ai culti di antiche divinità quali Attis, Adone e Mitra. È a causa di questi studi che leggenda templare e mito del Graal si sono presentati inestricabilmente uniti sino ai nostri giorni, in una visione d'insieme, ricca di variabili e non priva di aspetti tra il ridicolo e il fantastico, ma che nel corso del secolo ha influenzato l'arte, la letteratura esoterico-occultista, ambigue frange politiche e sette pseudo e parareligiose. Oggi, ambienti vicini alla New Age sembrano aver ripreso ed elaborato i cascami moderni di queste leggende, sforzandosi di legittimare una loro pretesa antichità.

domenica 20 settembre 2015

Il Santo Graal

di Ingrid H. Shafer



Le leggende del Graal rappresentano una fusione di elementi Cristiani e pre-Cristiani. Motivi comuni delle varie versioni della storia date da Chrétien de Troyes (ca. 1150-1190), Wolfram von Eschenbach (c. 1170-1220), ed altri, comprendono un castello magico, abitato dal castrato Re Pescatore, una vergine che porta il Graal, e un eroe maschile che ricerca il Graal. Il testo irlandese precristiano ''Adventures of Art, Son of Conn'' (Avventure di Art, figlio di Conn) già contiene la maggior parte dei temi della ricerca del Graal. Il Graal stesso è variamente identificato come una coppa luminosa, una boccia, un gioiello e (da Wolfram) una pietra, in grado di donare un'infinità di cibo e bevande. E' una fonte di giovinezza e salute, sorgente di saggezza e verità. Durante una visita con il dio Manannan, il re Cormac (figlio di Art) e la sua famiglia si trovano ad un tavolo coperto da una tovaglia che - all'improvviso - inizia a produrre cibi e bevande a volontà. Nella sua forma cristianizzata, il Graal è stato identificato con la coppa usata da Cristo durante l'Ultima Cena, il contenitore in cui il suo Sangue è stato raccolto da Giuseppe d'Arimatea, e la coppa eucaristica. Il re Pescatore è generalmente associato ad una lancia sanguinante (che lo avrebbe ferito), a sua volta collegata con la lancia del dio celtico Lug e con la lama che ha trafitto il fianco di Gesù in croce.

Riflettendo su questi motivi, Roger Sherman Loomis ha concluso che la tradizione del Graal è celtica in origine, poiché "viola le più elementari regole dell'etica e dei rituali cristiani", e per questo "non sarebbe sorta in ambienti cristiani". Per sottolineare il concetto, egli chiede: ''Come è possibile che una sacra reliquia, o anche solo una comune patena o un ciborio, possa essere affidata ad una amabile fanciulla, e non ad un prete o un sacrestano?"
Rispondendo alla sua retorica domanda, egli conclude: "Non c'è da meravigliarsi se la Chiesa non ha mai riconosciuto i romanzi del Graal come autentici, anzi, ha mostrato sempre sospetto per il loro background non molto ortodosso".

Ovviamente, la storia del Graal, particolarmente nelle sue origini celtiche e secondo la versione di Wolfram, si sposa bene con una teologia che insiste sull'assoluta mascolinità di Dio, l'inferiorità della donna e su una morale che esalta l'ascetismo sessuale. La moderna tradizione cattolica, tuttavia, esalta il ruolo di Maria come "Madre di Dio" (con un termine greco theotokos o "Portatrice di Dio"), e le sue caratteristiche materne, che in passato erano viste nella antica Magna Mater. Ed oggi, trent'anni dopo il II Concilio Vaticano, le donne possono servire come ministri eucaristici.

I modi di interpretare e descrivere il Graal sono molti e controversi; ciò può essere giustificato dal fatto che il tema del Graal cominciò a diffondersi durante il Medioevo, periodo di intenso fermento in fatto religioso e agitazione intellettuale. Il Graal è un potente simbolo che rappresenta insieme la fecondità femminile, la saggezza, la divinità. Non soltanto la portatrice del Graal è quasi sempre una giovane fanciulla, ma il Graal stesso contiene la luminosa immagine di un bambino su di sé o sopra l'ostia che vi è contenuta. Ci vuole un po' di immaginazione per vedere in questa immagine l'archetica connessione tra il Graal-grambo materno, e la storia cristiana dell'Incarnazione-Annunciazione, simboleggiata dalla coppa eucaristica. In questo contesto è interessante notare che Henry e Renée Kahane sostengono che Graal derivi dalla parola greca krater, concetto chiave per gli ermetisti.

E' sicuramente più di una semplice coincidenza il fatto che le leggende del Graal siano nate proprio in un periodo in cui i dibattiti più accesi dell'epoca concernevano il mistero dell'Eucarestia, una controversia che culminò nella promulgazione del dogma della transustanziazione del IV Concilio Laterano del 1215. Nella liturgia, l'Eucarestia diventa "Comunione", il sacro pane sacramentale, cibo spirituale nella forma di pane e vino. Questo sottolineò l'importanza dell'Incarnazione, e della presenza di Dio-nel-mondo, in contrasto con la posizione dei Catari, i quali sostenevano che il mondo e qualsiasi cosa in esso, compreso il matrimonio e la procreazione, erano il "male", e il corpo di Cristo soltanto un'illusione. Per loro. come nelle leggende l'importante era vedere il Graal, così anche solo assistere all'elevazione dell'Ostia consacrata aveva lo stesso effetto di grazia della partecipazione alla Comunione. Dopo una durissima persecuzione, i Catari (anche chiamati Albigesi) furono sterminati. Ironicamente, la loro dottrina dualista non si estinse completamente, ma influenzò la frangia Neo-Platonica dei cattolici con la sua visione negativa della vita e del mondo.

Tra le numerose versioni medievali della Ricerca del Graal, Mircea Eliade considerò il Parzival di Wolfram von Eschenbach come ''la più completa storia e coerente mitologia del Graal''. Eliade fu colpita in particolare dal fatto che deliberatamente Wolfram incluse numerosi motivi orientali, e fece ciò con molto rispetto. Wolfram sostenne che la fonte originaria del suo racconto era una saga Ebraico-Musulmana; il padre di Parzival visse per un po' di tempo in Africa, dove si sposò con una musulmana ed ebbe un figlio; questi viaggiò a lungo in Asia ed Africa; il fratello di Parzival sarebbe presto diventato il celebre prete Gianni, monarca Indiano.
In breve, Eliade nota che


[...] è evidente che il simbolismo del Graal dell'opera di Wolfram e dei suoi successori e lo scenario da loro dipinto, rappresenta una sintesi spirituale che va oltre i contributi delle diverse tradizioni. Dietro il suo interesse nei confronti dell'Oriente, si può intravvedere la profonda disillusione causata dal fallimento delle Crociate, l'aspirazione ad una tolleranza religiosa che avrebbe incoraggiato un avvicinamento al mondo dell'Islam, una profonda nostalgia di una "cavalleria spirituale" [...]


Nella tradizione celtica originaria, tuttavia, e nel racconto di Wolfram, l'amore umano e l'aspirazione alla sessualità sono trattati come valori positivi. In contrasto con il Galahad di Chrétien (che raggiunge il Graal attraverso una vita di ascesi e di rinuncia ai piaceri della carne, mantenendosi un cavaliere vergine - e proprio per questo considerato perfetto), Parzival raggiunge il Graal spirituale pur con la sua amata Condwiramurs. Wolfram considera l'amore nuziale come un misterioso ed potentissimo sacramento.

Inoltre c'è un preciso passo in cui si evidenzia che proprio tramite il suo amore coniugale Parzival diventa degno del Graal. Il ricordo di sua moglie Condwiramurs non solo lo sostiene nel suo vagabondare, ma la sua elezione a Re del Graal è immediatamente seguita da una notte d'amore con la sua Condwiramurs in una tenda della foresta. Wolfram scrive: ''Così, io credo, si prese piacere fino a mezzo il mattino. Da ogni parte l'esercito si fece da presso a guardare [...] Ora non era più tempo di dormire. Il re e la regina si alzarono. Un prete cantò la messa" (Wolfram 802). Dal passo pare ovvio che Wolfram consideri un atto d'amore tra il re e la regina come una valida ragione per ritardare la celebrazione. Qui, come in altre opere epiche, Wolfram rifiuta il fatto che la Chiesa sia la sola mediatrice tra Dio e l'umanità. Proprio questo anticlericalismo può spiegare l'insinuazione che Wolfram fosse in realtà un Cataro.

Così Wolfgang Spiewok, il traduttore tedesco, scrive nel suo commento: ''Wolfram trasforma l'amore romantico cortese (Minne) nel genuino amore coniugale: fondamento del matrimonio, che in questo trova compimento'' e, per Wolfram ''Dio non si incontra (come sostenuto da alcuni chierici) attraverso l'ascetismo e il rifiuto del mondo, ma attraverso le relazioni sociali vissute al servizio di Dio." Secondo Spiewok, è proprio questa visione non dualistica del mondo materiale l'elemento che assicurò a Wolfram una immensa popolarità delle sue opere durante i successivi secoli che precedettero la Riforma. Se Spiewok ha ragione, allora la storia raccontata da Wolfram rappresenta un antidoto popolare al prevalente dualismo del tardo Medioevo.

Fonte primaria:

Wolfram von Eschenbach. Parzival.
Fonti secondarie:

Eliade, Mircea. A History of Religious Ideas Volume 3: From Muhammad to the Age of Reforms. Trans. Alf Hiltebeitel and Diane Apostolos-Cappadona. Chicago: The University of Chicago Press, 1985.
Jungmann, Joseph A. The Mass of the Roman Rite: Its Origins and Development (Missarum Sollemnia). 2. Vols. Trans. Francis R. Brunner. Westminster, ML: Christian Classics, 1986.
Kahane, Henry and Renée. The Krater and the Grail: Hermetic Sources of the Parzival. Urbana: University of Illinois Press, 1965.
Loomis, Roger Sherman. Arthurian Tradition & Chrétien de Troyes. New York: Columbia University Press, 1961.
Markale, Jean. Women of the Celts. Trans. A. Mygind, C. Hauch and Peter Henry. London: Gordon Cremonesi, 1975.
Matarasso, Pauline M., trans. The Quest of the Holy Grail. New York: Penguin Books, 1984.
Matthews, John. The Grail: Quest for the Eternal. New York: Crossroad, 1981.
Neumann, Erich. Die Große Mutter: eine Phänomenologie der weiblichen Gestaltungen des Unbewußten. 1974. Olten: Walter-Verlag, 1985.
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Copyright © 1996, Ingrid H. Shafer.

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mercoledì 19 agosto 2015

Che cos’altro vediamo nel Graal, se non un mucchio di paradossi?

"Che cos’altro vediamo nel Graal, se non un mucchio di paradossi? È visibile e invisibile; un oggetto – coppa, vaso o pietra – e un non oggetto; una persona e una non persona, né uomo né donna; dispensa nutrimento terreno e celeste; ispira amore, ispira terrore; incarna la predestinazione ma richiede, ciò nonostante, uno sforzo individuale. Questi, naturalmente, sono i paradossi del Divino, che hanno trovato nel simbolo del Graal una perfetta rappresentazione…così perfetta che il Graal, come il Divino, sfugge a qualsiasi descrizione, restando un’immagine senza immagine."

Helen Adolf, da Visio Pacis

giovedì 9 luglio 2015

Acerbi e il Graal

Tratto da http://www.centrostudilaruna.it


La più recente opera di Giuseppe Acerbi su "Merlino e Morgana" è parte di una ricerca ventennale condotta su fonti mitologiche vicino e medio orientali, tesa a disvelare in esse i paralleli e le analogie con i romanzi del ciclo graalico. Tale avvicinamento, apparentemente assurdo anche in una prospettiva fenomenologica, ha però un valido fondamento storico-archeologico: una mediazione tra Oriente ed Occidente in ciò che di recente il giovane studioso italiano Marco Moriggi ( in Avallon, 45 [ 2000 ] , pp. 47-58 ) ha ribattezzato essere le "radici iraniche del Graal". Chiunque legga con occhio filologico il Parzival di Wolfram von Eschenbach non può non notare infatti le fortissime affinità con il mondo iranico pre-islamico, che vanno dal nome del padre di Parzival, Gahmuret (e a loro volta rinviano all’Uomo Primigenio del mito mazdeo, Gayomart, il Gehmurd dei Manichei ), sino alla liturgia con l’"acqua di vita" tramite cui viene battezzato Feirefiz, il fratello levantino (e quindi "oscuro ") di Parzival.

Circa sessant’anni dopo Wolfram, ma sempre restando nell’ambito della medesima tradizione, il poeta germanico Albrecht von Scharffenberg scrisse (nel 1270) un’opera dal titolo Der jüngerer Titurel (Il giovane Titurel), che parla dell’antica famiglia del Graal; in particolare di Titurel, nonno di Parzival. Albrecht cosí descrive il Tempio del Graal: "Nella terra della salvezza, nella foresta della salvezza, si erge un monte solitario, la Montagna della Salvezza; il Re Titurel la cinse di mura e vi costruí un ricco castello perché fosse il Tempio del Graal: il Graal allora non aveva una sede fissa, ma vagava, invisibile, nell’aria." Albrecht passa quindi a descrivere la montagna: fatta di onice, la sua vetta è priva di terra; era stata talmente levigata e pulita che "risplendeva come la Luna". Il Tempio è alto, rotondo, a cupola, con il tetto d’oro; all’interno, il soffitto è incrostato di zaffiri a rappresentare il cielo azzurro, ed è incastonato di carbonchi raffiguranti le stelle. Un Sole d’oro ed una Luna d’argento, mossi artificialmente, percorrono gli emisferi, mentre i cembali vengono colpiti regolarmente per scandire il trascorrere delle ore. L’intero Tempio è colmo d’oro e tempestato di gemme preziose.

Per lungo tempo, tutto quanto venne considerato un mero artificio letterario, nient’altro che una bella fiaba. Solo nel secolo ormai trascorso alcuni studiosi come Lars Ivar Ringbom o Henry Corbin hanno richiamato l’attenzione su una località realmente esistita, che possedeva una straordinaria rassomiglianza con la descrizione albrechtiana del Tempio del Graal.

Agli albori del VII secolo d.C. il re persiano Cosroe II edificò uno straordinario palazzo che chiamò Taxt-i Taqdis, "Trono degli Archi" - ora noto come Taxt-i Sulayman, "Trono di Salomone" - sulle alture sacre di Shiz nelle Media Atropatene, l’attuale Azerbaigian. Era il centro del culto mazdeo: in esso si ergeva un tempio del fuoco, ed era ritenuto un’immagine del centro del mondo. I re della dinastia sassanide, cui Cosroe apparteneva, ritenevano Shiz il luogo di nascita di Zoroastro e lí vi celebravano i riti ciclici che garantivano la fecondità del cosmo. Quando il santuario venne distrutto, in una serie di incursioni prima cristiane poi musulmane, l’intero paese parve morire sotto il giogo dell’oppressore, proprio al modo in cui nelle storie del Graal l’aridità della ’terra desolata‘ è considerata una diretta conseguenza della morte simbolica del Re del Graal.

Da fonti piú o meno contemporanee, sostenute da testimonianze archeologiche (in particolare l’ultimo lavoro di R. Naumann, Die Ruinen von Tacht-e Suleiman und Zendan-e Suleiman, Dietrich Reimer V., Berlin 1977) è stato possibile ricostruire una descrizione del Taxt: come il Tempio del Graal era la cupola, con il tetto d’oro rivestito completamente di pietre azzurre a rappresentare il Cielo; vi erano le Stelle, il Sole e la Luna. Le carte astrologiche e astronomiche erano contrassegnate da gemme, balaustre coperte d’oro, gradini dorati, addobbi munifici. Tutto rassomigliava al Tempio del Graal. L’intera struttura del Taxt si ergeva al di sopra di un pozzo nascosto, entro il quale pariglie di cavalli giravano in tondo provocando lo spostamento dell’edificio sul suo asse, in armonia con il variare delle stagioni, in tal modo facilitando i calcoli astrologici e le osservazioni astronomiche. Circostanza che ricorda l’isola ruotante sulla quale si trova Re Nascien, il Signore del Graal nel Giuseppe d’Arimatea di Robert de Boron, scritto oltre seicento anni dopo che il Taxt era stato raso al suolo.

Come in numerose descrizioni del Tempio del Graal, il Taxt si ergeva nei pressi di un grande lago, ritenuto senza fondo: uno specchio d’acqua scuro ed immoto che colmava uno spento cratere vulcanico. Secondo Albrecht, il Tempio del Graal aveva porte su tre dei suoi lati. Il Taxt-i Sulayman era difatti accessibile u nicamente da tre direzioni, due delle quali trovano rispondenza in un testo gallese del ciclo graalico, il Peredur : la prima conduce attraverso una prateria, l’altra segue un ruscello che percorre una vallata. Il Taxt era alimentato da due fiumi e circondato da possenti mura, inoltre vi erano istallati dei congegni che simulavano il variare delle stagioni e i mutamenti climatici; il tutto in armonia con l’idea cristiana di Paradiso, il Pairi.daêza iranico, altrimenti raffigurato come la sede del Graal.

Nel 1937 una spedizione dell’American Institute for Persian Art and Archaelogy scoprí sul sito del Taxt una luccicante incrostazione provocata dalle acque minerali del lago, la quale, soprattutto lungo i bordi rimasti esposti agli elementi, aveva assunto l’aspetto dell’onice. Come abbiamo visto, Albrecht affermava proprio che il Tempio del Graal era eretto su un basamento di onice. Esiste poi, allo Staatsmuseum di Berlino, un piatto di bronzo riportato nel libro di Ringbom (Graltempel und Paradies, Stockolm 1951) risalente al periodo sassanide, che raffigura il Taxt completo dei rulli di legno sui quali ruotava l’intero edificio; esso rivela come l’arcata centrale fosse circondata da ventidue archi, e ventidue erano anche i templi minori che circondavano la sala centrale del Castello del Graal descritto da Albrecht. Ma Albrecht come poteva, in pieno XIII secolo, descrivere con tanta esattezza un tempio mazdeo ormai distrutto da molti secoli? Forse ne aveva letto una descrizione relativa ad un evento cruciale della ierostoria cristiana: il "furto della croce". Nel 614 d.C. Cosroe II, il costruttore del Taxt, s’impadroní di Gerusalemme e ne sottrasse la reliquia piú sacra, la "vera croce"; che il re portò con sé proprio in quel tempio, successivamente descritto come la sede di un oggetto anch’esso sacro, il Santo Graal. In risposta a questo tremendo atto, nel 629 l’imperatore bizantino Eraclio organizzò una sorta di crociata ante litteram e marciò su Taxt-i Sulayman ritornando trionfalmente con la "vera croce". Questo episodio, sfumato nei toni del mito, venne descritto infinite volte e continuò ad essere ripetutamente narrato, con abbellimenti, fino al Tardo Medioevo; quando Albrecht o qualche suo ignoto precursore lo scoprí, probabilmente trasferendo la località da Oriente ad Occidente. L’immagine del centro del mondo mazdeo è quindi servita da modello nella fondazione del mito principale dell’esoterismo cristiano, il Santo Graal.

In tale dimensione ’comparativa‘ gli avvicinamenti e i paralleli dell’Acerbi assumono un significato completamente nuovo. Si pensi ad esempio ai cicli leggendari hindu e buddhisti legati alla versione medio orientale del Munsalwaesche graalico, il Monte Meru. Collocato al centro del mondo, il Meru viene talora raffigurato a gradini e circondato dall’acqua; intorno vi ruotano il Sole e la Luna. Su di esso è intronizzato il Buddha con i suoi Bodhisattva, mentre la Fenice vaga sotto gli alberi. In un altro mito c’imbattiamo nella figura del Pescatore associato al Monte, al modo che il ’Re Pescatore‘ lo è al Castello del Graal. È un motivo che l’Acerbi ha studiato esaustivamente in un lavoro di prossima pubblicazione. Basti qui ricordare l’iconografia del Monte Meru circondato dalle acque dell’Oceano, sulle quali il Pescatore naviga nella sua Barca: è l’Avatâra del dio Vishnu, noto talora come il ’Pesce d’Oro‘ o anche come il ’Pescatore di Luce‘. È il custode della Montagna Sacra, nonché il suo gnomone o dominatore.

Tutti questi esempi esprimono coerentemente un simbolismo unico: il ’ricordo‘ di una forma ideale di esistenza, poiché la ricerca del Graal è anche e soprattutto ricerca del Paradiso smarrito nel tempo primordiale.


Torino, 13 agosto 2000


Ezio Albrile