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sabato 21 gennaio 2017

La caccia e il mito nel libro di Calasso

tratto da "L'Opinione" del 27 novembre 2016

di Giuseppe Talarico

Per cogliere il momento aurorale della civiltà umana, quando migliaia di anni fa l’uomo si separò dal mondo animale, è utile e fondamentale leggere l’ultimo libro di Roberto Calasso intitolato “Il cacciatore celeste” (Adelphi).


In questo libro, in cui l’autore con la sua cultura sconfinata spazia dall’antropologia alla storia, dalla letteratura alla filosofia, Calasso mostra come all’inizio non vi fosse nessuna distinzione tra gli uomini, gli animali, gli dèi, la natura. In virtù di due eventi capitali, che avvennero nel Paleolitico, la pratica della caccia e il passaggio alla dieta carnea da parte dell’homo sapiens, si ebbe la separazione tra mondo umano e mondo animale. Vi è, secondo Calasso, un’evidente e innegabile relazione tra la pratica della caccia e l’elaborazione di una sequenza di pratiche rituali. Infatti, per separarsi dal branco animale, l’homo sapiens dovette ricorrere al travestimento e all’uso della maschera. Imitando gli animali predatori, l’homo sapiens divenne a sua volta cacciatore.

Tra la figura dello sciamano, che con il tamburo rivestito dalla pelle di animali evocava il mondo invisibile, attirando a sé gli animali, e l’uomo cacciatore, che mirava ad ucciderli, vi è una somiglianza sorprendente. L’invisibile, a cui i riti sacrificali fanno costante riferimento, è il luogo in cui si trovano gli dèi, i morti, gli antenati, il passato intero della civiltà umana.

Analizzando le opere di Esiodo e Apollonio Rodio, Roberto Calasso descrive l’età degli Eroi, quando il divino scorreva tra gli esseri umani, perché Zeus o Poseidone o Afrodite si erano mescolati nell’Eros con i mortali. I peccati capitali di fronte agli dèi commessi dagli uomini furono l’imitazione dei predatori e la loro separazione dal mondo animale. Fu necessaria l’incubazione di cinquantamila anni affinché l’homo sapiens scoprisse la tecnica legata all’agricoltura e sperimentasse la vita domestica.

Secondo Teofrasto il sacrificio cruento, di cui vi è testimonianza in diverse civiltà del passato, da quella dei Veda a quella egizia e greca, si basava su tre elementi fondamentali: reverenza, utilità, riconoscenza. Il sangue, ricavato dal rito sacrificale, doveva purificare l’uomo della sua colpa originaria, dovuta alla sua attività di predatore e cacciatore. Proprio un paleoantropologo nel 1995 ha rinvenuto a Göbekli Tepe (Turchia) un sito archeologico nel quale sono state riportate alla luce enormi pietre in cui sono rappresentati gli animali che si mostrano ostili verso l’uomo. Ovidio nella suo poema i “Fasti” ha descritto i riti sacrificali che avvenivano nella Roma antica, alcuni dei quali sono avvolti dal più fitto mistero come i Lupercalia. I romani celebravano i riti sacrificali senza essere consapevoli del loro significato spirituale, perché la città si fondava sui riti. Nel libro XV delle “Metamorfosi” di Ovidio, che racchiude il racconto della mitologia classica, Pitagora con tono ispirato dal divino definisce la dieta carnea come la colpa irredimibile dell’uomo. Numa, suo allievo, osserva che la pratica rituale costituisce il primo stadio della civilizzazione avvenuta a Roma, fin dalla sua fondazione.

Nel libro vi è un capitolo dedicato alla interpretazione del dialogo di Platone “Le Leggi”. In questo dialogo l’ateniese, che personifica Platone, conversando con due suoi amici, si pone l’interrogativo filosofico decisivo e ineludibile per capire se le vicende umane siano governate dal caso oppure da Dio, chiedendosi quale importanza debba essere attribuita alla fortuna. Per gli uomini il riferimento al mondo degli dèi e al divino è stato sempre imprescindibile e fondamentale per vagheggiare la città giusta e la costituzione della Polis, giusta ed esente da imperfezioni. Il capitolo dedicato alle “Enneidi” di Plotino, che a distanza di sette secoli commentò nella sua opera i testi di Platone, è nel libro di Calasso bello e indimenticabile. Per Plotino la creazione coincide con la contemplazione, in virtù della quale dall’Uno, che è eterno e immobile, ha avuto origine la Mente, da cui ha preso forma l’anima universale e quella individuale di ogni persona. L’Uno è all’origine del mondo, del bene e del bello. Per mostrare quanto fosse importante la relazione tra l’umano e il divino, Calasso nel libro racconta l’episodio della notte delle Ermocopidi, quando le Erme vennero ad Atene devastate e sfigurate. Le Erme, che simboleggiavano il Divino, erano visibili di fronte ai templi e ai santuari, ma sovente si trovavano collocate dinanzi alle case di privati. Per questo crimine vennero condannate a morte venti persone. I misteri di Eleusi, una città che si trovava a venti chilometri di Atene, distrutta in seguito ad una guerra dagli ateniesi, contemplavano il compimento di una serie di miti, osservati per undici secoli. Per svelare il mistero che circonda questi riti, Calasso offre al lettore una descrizione assai coinvolgente delle diverse interpretazioni avanzate dagli studiosi lungo i secoli. In un punto di questo libro, Calasso cita un frammento tratto dal Tieste: “Non vi è nulla per gli umani senza gli dèi”.

Un libro imperdibile.