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sabato 3 agosto 2019

UN’INTRODUZIONE A JULIUS EVOLA

tratto da L'Opinione del 18 ottobre 2017

di Paolo Ricci

Quella di Julius Evola è stata una figura scomoda nel panorama filosofico e intellettuale italiano, di questo si è già scritto (e ogni tanto se ne scrive) abbastanza. Ma al contempo la sua personalità, eclettica e di grande spessore, stimola la riflessione su numerosi aspetti: dal mondo contemporaneo alla spiritualità, dall’industria culturale all’esoterismo.

Il cammino del cinabro (edizioni Mediterranee) è una specie di vademecum per affrontare Evola e la sua complessa speculazione. Il filosofo ha prodotto numerosi titoli, molti dei quali spesso messi all’indice per le idee forti. Nel cammino del cinabro Evola si racconta proponendo una biografia attraverso le sue opere e il confronto con altre personalità della sua epoca. Tra le tante iniziative a cui Evola prese parte si può ricordare il Gruppo di Ur. Fondato dal matematico Arturo Reghini e dal filosofo Colazza, entrambi esoteristi, vollero che proprio Evola fosse il primo direttore della rivista Ur. Il Gruppo intendeva trattare le discipline esoteriche e iniziatiche con serietà e rigore, riferendosi a fonti certe e con spirito critico. Ambiti i suddetti molto cari a Evola. Questi si dedicò poi all’esplorazione delle origini della Tradizione studiando e trattando autori come Bachofen, Guénon, Wirth, Zolla e altri.

Nel volume sono riportate molte lettere scritte da Evola e diversi documenti che lo riguardano, testimonianze di una vita operosa e sempre intellettualmente stimolata da numerosi interessi da cui scaturirono riflessioni complesse ed eterogenee, come quella sul mondo moderno: “È più o meno noto che mentre l’uomo moderno ha creduto e, in parte, tuttora crede al mito dell’evoluzione, le civiltà antiche quasi senza eccezione e perfino le popolazioni selvagge riconobbero invece l’involuzione, il graduale decadere dell’uomo da uno stato primordiale concepito non come un passato semi-scimmiesco ma come quello di un’alta spiritualità (...)”, così Evola si rifà a Esiodo proponendo una riflessione sulle quattro età del mondo. E ancora sulla civiltà del tempo e sulla civiltà dello spazio, passando per le vite dei santi, i Misteri, il “Bene” e il “Male”, metodi e spunti.

Il cammino del cinabro (i cui riferimenti al mondo ermetico sono evidenti) permette di comprendere la nascita e il percorso delle tesi evoliane così come la “visione del mondo” di questo filosofo sui generis che ha sempre mantenuto (nonostante tutto) una coerenza di fondo lungo tutto il suo personale cammino.


lunedì 1 febbraio 2016

La profezia di Guénon sulla rovina occidentale

tratto da Il Giornale del 28/01/2016

Torna un testo-culto del tradizionalismo. Riletto oggi riserva sorprese...


Luca Gallesi


Pensare a un intellettuale francese convertito all'Islam fa subito immaginare che possa trattarsi di un potenziale terrorista, così come sapere che lo stesso personaggio sia pure un alto maestro massone evoca immediatamente la sua partecipazione a oscuri complotti o a disinvolte speculazioni bancarie.

Curiosamente René Guénon (1886-1951), pur avendo abbracciato la fede musulmana e scalato i vertici dell'esoterismo massonico, non diventò né un terrorista né un banchiere, ma fu invece un lucido e apprezzato pensatore, caposcuola del cosiddetto pensiero tradizionale, che annovera tra le sue fila Julius Evola, Frithjof Schuon, Titus Burckhardt, S.H. Nasr e altri maestri del '900...Capita quindi a proposito, per poter meglio comprendere tanto l'Islam quanto le scuole di pensiero esoterico, una nuova edizione di uno dei testi più importanti del Guénon, quella Crisi del mondo moderno tradotta da Julius Evola, (Edizioni Mediterranee, pagg. 254, euro 14,50) che fu pubblicata per la prima volta da Hoepli nel 1937 e poi riedita ancora nel '53 e nel '72. Il pensiero di Guénon è quanto di più anti-moderno si possa immaginare: per lui, come per gli altri pensatori «tradizionali», la decadenza è cominciata una decina di migliaia di anni fa, e tutto il periodo storico non ne è che l'ultima fase. La caduta, ossia l'allontanamento dal mondo metafisico, è diventata ancora più veloce a partire dal Rinascimento, poi con l'Illuminismo, e il Ventesimo secolo non ha fatto che accelerare ulteriormente il disfacimento. Questa edizione, riveduta e aggiornata da Gianfranco de Turris (in collaborazione con A. Scarabelli e G. Sessa), esce in un momento storico delicato, che, a distanza di novant'anni dalla pubblicazione originale, ne fa risaltare il carattere quasi profetico di alcuni parti, sia per quanto riguarda il degrado del mondo moderno che per apprezzare la civiltà del mondo antico. Leggere, oggi, i capitoli dedicati alla contrapposizione tra Oriente e Occidente, oppure alla critica dell'individualismo e alla inevitabile esplosione demografica del Terzo mondo, che il dilagare del consumismo avrebbe trasformato in invasione dei Paesi più ricchi, fa un certo effetto, così come fanno riflettere alcune affermazioni sulla presunta oscurità del Medio Evo, quando, ricorda Guénon, la Somma Teologica di Tommaso d'Aquino rappresentava un libro di testo che tutti gli studenti dovevano affrontare nella sua interezza, e tanto basti per stabilire la siderale distanza con gli studenti odierni, alle prese con ridicoli «crediti».

domenica 1 giugno 2014

La città in pace con gli dèi

tratto da "Il Sole 24 Ore" del 03/11/2002



Dalla leggenda di Romolo e Remo in poi, la scelta della localizzazione e la disposizione delle strade sottendevano una ricerca di armonia tra uomini e divinità

di Carlo Carena

Racconta Plutarco nella Vita di Romolo che il primo re di Roma, dopo aver sepolto il fratello, "fondò la città, avendo fatto venire dall' Etruria uomini che gli spiegassero ogni cosa con alcune norme e testi sacri e che glieli insegnassero, come durante i misteri. Scavò una fossa di forma circolare per deporvi le primizie di tutto quanto era utile secondo consuetudine o necessario secondo natura. E infine ciascuno, portando un po' di terra dal paese da cui proveniva, la gettò dentro e la mescolò insieme. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, mundus".

Cosa vuol dire tutto questo, di cui noi non riusciamo a capire il significato e nemmeno il perché immersi in un ambiente urbano senza capo né coda, senza significato e identità, dove si dorme, si viaggia, si traffica, in cui si entra o da cui ci si allontana indifferentemente: per povertà concettuale, ci dice Joseph Rykwert in L' idea di città, per la perdita di ogni forma simbolica e di qualsiasi ancoraggio nello spazio e nel tempo. Il rito di Romolo è, con altri antichi, il punto di partenza del libro di questo architetto dell' università della Pennsylvania; libro non nuovo, anzi già famoso (apparve la prima volta in inglese nel ' 63, e Adelphi lo riprende ora assai bene - peccato manchi un indice dei nomi - dall' edizione Einaudi dell' 81); ma libro tuttora suggestivo e ancor più ammonitore.

La città romana ne resta al centro, sia per la documentazione scritta e archeologica che ne possediamo sia per la ricchezza delle sue implicazioni. Essa è anche nell' esperienza e nella fantasia di semplici turisti o curiosi di archeologia per quella sua forma a pianta squadrata e regolare, frutto di esperienze successive e spiegata razionalmente. Le cose, per Rykwert, stanno in realtà ben diversamente, sono molto più complesse, implicano ben altro, e quella non è una semplice soluzione tecnica di problemi utilitari, bensì il prodotto di una particolare visione del mondo e di un rapporto armonico fra le leggi divine e il vivere umano. La complessa struttura geometrica della città romana, la sua localizzazione e il suo orientamento non derivano, come spesso si sostiene ma Rykwert confuta, dalla forma dell' accampamento; né sono invenzione di Ippodamo di Mileto (e in ogni caso Ippodamo fu un urbanista curioso di cose celesti); bensì da tutto un sistema di usanze e di credenze, per cui quella struttura fu anche il veicolo della diffusione di un' intera cultura e di un certo modo di vivere. Né fu, sia per la sua forma sia per le procedure con cui fu costituita, la sola nel mondo antico. Forma e procedure fanno anch' esse parte di quella civiltà del sacro che è poi andata perduta, più totalmente che mai nel mondo odierno, dove non sopravvive non solo il luminoso ma nemmeno il religioso (la religione, si pensi un po' , è come dice Cicerone "ciò che porta il pensiero e il culto di una natura superiore, che chiamiamo divina").

Di qui l' importanza che avevano i riti di fondazione e la loro memoria. Non per nulla i Romani ne festeggiavano il natale in coincidenza con la primavera, contavano gli anni ab urbe condita. Non per nulla vi convocavano sacerdoti e indovini, adottavano cerimoniali che Rykwert dice con ogni probabilità etruschi, di quel popolo che portava i segni delle sue origini orientali e presso cui la divinazione, dagli uccelli o dai visceri delle vittime dei sacrifici, era espertissimamente coltivata. Per gli storici romani, che li descrissero minutamente anche se non in modo strettamente concorde, quei riti rappresentavano la chiave d' interpretazione della storia di questa come delle altre città, quali quelle che i coloni greci avevano fondato in tutto l' arco del Mediterraneo portandosi dietro zolle di terra dalla città natale e custodendone sacralmente, e anche politicamente la memoria.

La localizzazione e l' orientamento erano fissati con studi e cerimonie che coinvolgevano gli àuguri con i bastoni ricurvi non meno degli agrimensori con i loro strumenti essi pure di origine divina, che solo Aristofane osò deridere (negli Uccelli, versi 992-1020). Äuguri e agrimensori guardavano al cielo non meno che al terreno: perché la città doveva riprodurre sul terreno il cielo; conteneva anch' essa nel suo mundus, uno scavo negli abissi infernali nel punto in cui s' incrociavano le due vie ortogonali fra nord e sud e fra ovest ed est. Gli àuguri dividevano la loro zona di osservazione celeste, il "tempio" come veniva chiamato, in quadranti per mezzo delle linee del cardo e del decumanos; e così i fondatori di città li tracciavano, li ricuperavano per sempre sul terreno. Il "cardine" vi designava l' asse intorno a cui ruota il sole, e quindi l' asse dell' universo; mentre il "decumano" divideva l' universo, e la città, da oriente a ponente.

Fra questi simboli trascendenti e perenni viveva l' uomo romano e in genere l' uomo antico (Rykwert dà paralleli non solo nell' ovvia Mesopotamia ma in India, Africa e America in tempi anche più recenti; né erano concepite in modo e con contenuti ideali sostanzialmente diverse le città immaginate dai grandi rinascimentali, la Sforzinde di Filarete o le Vedute prospettiche di Francesco di Giorgio). Quegli uomini avevano sotto gli occhi e si muovevano dentro una pianta dell' universo, partecipavano a cerimonie che la ricordavano e ribadivano annualmente. Mai si sarebbero attentati di intaccarla, perché era una misura sacra, che comunicava sicurezza e valore anche a loro stessi. Quando invece Freud, come osserva il nostro autore in suadenti pagine, descrive alcune metropoli moderne, Londra o Parigi, mostra come la struttura del modello urbano si sia disintegrata. Anche le memorie che vi sono sparse tacciono ormai per gli abitanti, quando non sono addirittura un ingombro per i suoi traffici. Haussmann, lo sventratore di Parigi antica e il costruttore della moderna, pensava che l' agglomerato urbano dovesse servire solo alla produzione e al consumo, e che i vincoli municipali per i suoi abitanti siano solo l' essere, essa, un grande mercato, un immenso opificio e un' arena per le loro ambizioni. Tracciò anch' egli i suoi assi ed ebbe qualche idea di percorsi, d' incroci e di prospettive, ma nessuna percezione o preoccupazione simbolica. E questa è una condizione "patologica" per la città moderna e per i suoi abitanti, laddove un romano sapeva che camminando lungo il cardo procedeva parallelamente all' asse incrollabile del sole, e camminando lungo il decumanos ne seguiva il corso immutabile; ed era in pace con gli dèi, che non è poco.

Joseph Rykwert ci dà questi avvisi non meno che queste notizie e interpretazioni: le seconde usando Plutarco e Livio, Vitruvio, Plinio e Frontino, i primi affiancandosi a Fustel de Coulanges, a Guénon, a Dumézil, persino a Simone Weil. Spiegando la città antica, dove si cercava di proteggere le personalità umane con la tutela della divinità e di armonizzare il proprio agire col volere degli dèi, addita la scissione che invece l' urbanesimo moderno ha introdotto e le "esistenze parapsicotiche" che ne derivano. Richiami, e libro, oggi ancor più necessari, o vani.

Joseph Rykwert, "L' idea di città. L' antropologia della forma urbana nel mondo antico", a cura di Giuseppe Scattone, Adelphi, Milano 2002, pagg. XXVIII-306, 30,00.

lunedì 31 marzo 2014

La mitica Agharta nel libro di Pruneti

tratto da L'Opinone del 13 marzo 2014

di Luca Bagatin

Chi è il Re del Mondo che tutto sa e governa? Esiste davvero la mitica Agharta o Agharti – regno sotterraneo incontaminato dove albergano perfezione, bellezza, pace e amore e dove, appunto, il Re del Mondo vive al riparo da occhi indiscreti? Pressoché tutte le culture, le tradizioni folkloristiche, le correnti gnostiche ed esoteriche ne parlano, anche se con nomi e forme differenti, per quanto solo eruditi studiosi ed esoteristi quali René Guénon, Alexandre Saint-Yves d’Alveydre e Ferdynand Ossendowski, hanno tentato di penetrarne e raccontarne il segreto.
Il professor Luigi Pruneti, docente, saggista, scrittore ed ex Gran Maestro della Massoneria della Gran Loggia d’Italia, nel suo ultimo ed agile saggio edito da “La Gaia Scienza” con prefazione del principe Tiberio Dobrinya, ovvero “Il mistero del Re del mondo e della mitica Agharta”, ci presenta l’ampia letteratura a disposizione relativa a tale figura. Pruneti esordisce con il mito della cosiddetta “Terra Cava”, ovvero l’idea – sviluppatasi in particolare nel corso dell’Ottocento in cenacoli teosofici, occultistici ed esoterici – che la Terra fosse cava e popolata da esseri viventi, talvolta esseri mitologici, talaltra draghi e/o rettili.
In particolare, Pruneti fa riferimento ad opere quali “La razza ventura”, bellissimo romanzo del barone Edward Bulwer-Lytton che racconta del popolo degli Ana, una razza superiore abitante il mondo sotterraneo; oppure alle celebri opere del romanziere d’avventura Jules Verne, quali “Viaggio al centro della terra” e “Le Indie nere”. Come ricorda il professor Pruneti, già alcuni anni fa fu edito dalle Edizioni Mediterranee un ottimo volume dal titolo “Jules Verne e l’Esoterismo”, nel quale l’autore, Michel Lamy, racconta e dimostra come le opere del celebre scrittore francese racchiudano profondi significati esoterici e facciano riferimento a credenze e studi tipici di noti cenacoli esoterici quali, fra gli altri, la Società Teosofica fondata da Madame Blavatsky e la Massoneria.
René Guénon, Saint-Yves d’Alveydre e Ferdynand Ossendowski, dicevamo, sono i maggiori studiosi del mito del Re del Mondo. Nelle loro opere - frutto di fonti orientali, afghane, indiane (d’Alveydre), mongole e tibetane (Ossendowski) - tali studiosi delineano la figura del Re del Mondo quale una sorta di governatore occulto del Mondo, guidato da Dio, abitante di Agharta, una terra somigliante a Lhasa, la dimora del Dalai Lama in Tibet. Terra di saggi e veggenti (Agharta) che volendo sarebbero in grado di curare tutti gli infermi del pianeta e resuscitare i defunti.
Molti uomini, nel corso della Storia, hanno ricercato Agharta e il Re del Mondo. In particolare in Tibet. Fra questi il barone Von Urgern-Sternberg, il quale lottò – ai tempi della guerra civile in Russia – contro l’armata rossa e tentò, invano, di raggiungere Lhasa, purtuttavia non riuscendovi in quanto fu fucilato dai russi prima di poterla raggiungere. Il professor Pruneti nel suo saggio ci fa notare come, di volta in volta, nel corso della storia e delle tradizioni, il Re del Mondo sia stato identificato come il Prete Gianni – sovrano e sacerdote d’Oriente (forse indiano o etiope) – oppure come un discendente dei Re Magi, oppure ancora come un alleato di Gengis Khan.
Il mito rimane e le fonti letterarie, storiche, esoteriche e religiose sono numerosissime e tutte citate dal professor Pruneti, sia nella documentata bibliografia che nelle ampie note a margine. Il mito rimane, dicevamo, al punto da aver influenzato anche la cinematografia e la musica. Il regista Frank Capra, nel 1937, girò “Orizzonte perduto”, tratto dall’omonimo romanzo di James Hilton, ovvero la storia dell’equipaggio di un aereo dirottato in una sperduta valle del Tibet in cui era celata la città di Shangri- La, i cui abitanti, estremamente longevi, vivevano – a differenza del mondo dei mortali – in una condizione di amore e felicità.
Nel 1973 il regista e scrittore Alejandro Jodorowsky girò “La montagna sacra”, film surrealista nel quale un ladro e nove ricchi, con l’aiuto di un alchimista, si mettono alla ricerca del cenacolo dei nove saggi della montagna, bramando il segreto dell’immortalità. Il musicista Franco Battiato, appassionato di esoterismo nonché amico dello stesso Jodorowsky, nel 1979 incise il disco “L’Era del cinghiale bianco”, nel quale è contenuta la canzone “Il Re del Mondo”, dove si incrociano critiche alla società dei consumi ed alla guerra e riferimenti alla tradizione sufi, ovvero la tradizione esoterica dell’Islam.
Evidenti riferimenti, ancora una volta, al mito in questione che, si dice, allorquando l’umanità precipiterà nelle barbarie e nelle violenze più turpi, riporterà Agharta in superficie ed instaurerà una nuova Età dell’Oro in cui la pace e le prosperità trionferanno sull’ignoranza degli uomini. Tutto ciò e molto altro ne “Il mistero del Re del Mondo e della mitica Agharta”. Ancora una volta Luigi Pruneti non delude, dunque, i suoi lettori più raffinati e curiosi.