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domenica 12 novembre 2023

HALLOWEEN E L’IDIOZIA CONTEMPORANEA

tratto da "L'Opinione" del 25 ottobre 2019

di Dalmazio Frau

Puntualmente, ad ottobre, cominciano a comparire ovunque le solite zucche arancioni e tutto l’apparato pseudodarkettone fintogotico di questa festa anglosassone che ci siamo autoimposti da alcuni anni. Un trappolone commerciale fatto di fantasmini e ragni di plastica che noi, colonia Wasp, abbiamo adottato in pieno.

Non detesto Halloween, detesto con tutte le mie forze Allouin, cioè questa puttanata ridicola di cappelli da Strega dell’Est e altre imbecillità varie che non appartengono alla nostra Cultura – a proposito, ne abbiamo ancora una? – che ha sostituito, complice l’attuale ignoranza e disinformazione del clero della Chiesa cattolica, le nostre antiche e sanissime giornate dedicate ai defunti e ai santi. Festività ben più antiche del Cristianesimo, che non hanno nulla da invidiare alla “notte delle streghe” made in Usa, essendo dotate di profonde radici che affondano nel substrato mitico, religioso e anche, sì, magico, delle nostre tradizioni. Anche da noi infatti, in quelle notti, i defunti ritornano tra i mortali, e si ricordano tutti i santi del calendario e con dolci e cibi antichi che insegnano a chi è vivo a credere in un Altrove e in un Mistero che da sempre accompagna e trascende l’uomo. Anche in molte parti d’Italia, sino a non tantissimo tempo fa, alla fine d’ottobre, quando le ombre notturne sono più lunghe, si credeva che le barriere tra il mondo dell’Uomo e l’Aldilà diventassero più esili e facilmente superabili dalle creature sovrannaturali. “Dolcetto o scherzetto” lo abbiamo anche noi, in molte culture popolari e contadine, arcaiche, con cibi che richiamano il mondo dei morti nella forma e nel significato. Non abbiamo bisogno d’importare zucche britanniche, abbiamo anche noi lo stesso simbolismo.

E allora? Allora è che questa nostra società desacralizzata, priva dell’immaginario fantastico, magico, e ormai anche di quello meramente religioso grazie alle ultime virate vaticane, ha gettato via ogni ricordo delle proprie tradizioni per accogliere quelle altrui. Il popolo italiano – negletto da preti accondiscendenti e troppo spesso ignoranti oltre che increduli – si è voluto disfare delle proprie antichità cultuali accettando l’assenza del Mistero e del Sacro nella nostra pseudocultura “postmoderna”. E quello che gli italiani non trovano più nella tradizione, che è fatta anche di aspetti “terrifici”, ecco che tra le nuove generazioni alcuni imbecilli affetti da ignoranza crassa, senza sapere di essere soltanto gli “utili idioti” del gigantesco meccanismo economico della New Age, si comprano il Libro Infernale, si danno un nome cretino come Lady Lucifera o Lord Obscurity e cominciano a invocare Satana alle tre del mattino, svegliando il cane dei vicini.

Allora si vada al Camposanto di Pisa a vedere il Trionfo della Morte o la Danza macabra a Pinzolo o ancora a Palermo. Chi vuole deliziarsi con le ossa, ha a sua disposizione la Cripta dei cappuccini della chiesa di Roma a via Veneto, oppure quella dedicata alla Confraternita dell’Orazione e Morte sita in via Giulia, sempre nella Capitale e si potrà comprendere quale inestimabile patrimonio stiamo perdendo… perché sono soltanto zucche vuote!

sabato 23 settembre 2023

A VITORCHIANO NASCE IL MUSEO DEL MISTERO DELLE TERRE SCOMPARSE

tratto da L'Opinione del 02 agosto 2023

di Laura Bianconi


Chi visita il ben curato centro storico di Vitorchiano, il delizioso borgo viterbese circondato da mura duecentesche posto nella Valle del torrente Vezza, s’imbatte in un imponente Moai alto oltre sei metri, che da un affaccio panoramico sembra guardare lontano, quasi a voler rintracciare le sculture gemelle dell’isola di Rapa Nui, in Cile, più nota sotto il nome di Isola di Pasqua. Non è un esemplare originale, ma perché è proprio lì questo singolare e suggestivo monumento realizzato nel 1990 da undici scalpellini Maori provenienti dall’Isola di Pasqua? Perché proprio a Vitorchiano si trova questa riproduzione fedele di un Moai?

L’incipit si deve rintracciare in un’idea del giornalista Mino Damato per la trasmissione della Rai, Alla ricerca dell’Arca, che, all’epoca, propose una interessantissima operazione culturale per salvare e restaurare i Moai che, a causa del tempo e degli effetti atmosferici, si stanno deteriorando. Si trattava di rintracciare una pietra di origine vulcanica non dissimile da quella esistente nell’Isola di Pasqua e, proprio a Vitorchiano, patria del peperino, gli scalpellini di Rapa Nui trovarono la pietra più adatta. Fu così che per mettere alla prova il materiale, gli undici artigiani scolpirono manualmente, con il solo uso di asce e pietre taglienti, un enorme blocco di peperino di circa trenta tonnellate, lasciando a Vitorchiano un monolite che rappresenta un esperimento unico al mondo. Per questo motivo, su iniziativa della Casa Editrice Serena con il patrocinio del Comune, a trentatré anni dalla realizzazione del Moai, è nato l’ambizioso progetto di allestire, a pochi metri dal luogo dove sorge il monolite, un museo dedicato alle civiltà dei continenti scomparsi, a partire, intanto, da Rapa Nui, che secondo alcune ipotesi sarebbe un frammento di terra residuo del leggendario continente sprofondato di Mu, similmente ad Atlantide e a Lemuria. Il progetto, che necessiterà di diverse tappe prima di essere portato al suo pieno completamento, prevede, tra l’altro, la realizzazione di plastici dell’isola di Rapa Nui e fantasiose ricostruzioni di Atlantide sulla base della narrazione lasciataci da Platone nel Crizia e nel Timeo. Inoltre, non si limiterà ad essere solamente una mostra, ma dovrà anche divenire un luogo di incontri per studiosi di archeologia del mistero e di astroarcheologia, ricercatori ed appassionati di arcani.

Il via della mostra, previsto a gennaio del 2024, avverrà con l’esposizione dei reperti originali dell’isola di Rapa Nui appartenenti all’eminente studioso ed esploratore Ennio La Malfa, che costituiranno la prima sezione del mistero dei continenti scomparsi in seguito allo sconvolgimento geologico ricordato nel mito del “diluvio universale”.

 

domenica 18 giugno 2023

LA SCIENZA SPIEGATA DALLA SUA STORIA

tratto da "L'Opinione" del  27 gennaio 2023

di Gustavo Micheletti


La rivoluzione dimenticata di Lucio Russo fu pubblicata per la prima volta nel 1996. L’ultima edizione, la dodicesima, è del 2021. Da allora, il quadro delle conoscenze sul pensiero scientifico ellenistico, che costituisce l’argomento principale del saggio, è notevolmente cambiato. La nuova edizione del libro di Russo, tenendo conto di queste nuove acquisizioni e di alcuni nuovi lavori specialistici, costituisce una revisione di cui alcune congetture dell’autore che si sono poi trasformate in tesi ampiamente documentate.

L’utilità del termine “scienza” consiste per Russo nel consentire di distinguere la stessa conoscenza scientifica da altri tipi di conoscenza. Ma quali sono le caratteristiche essenziali della conoscenza scientifica? Intanto, le sue affermazioni “non riguardano oggetti concreti, ma enti teorici specifici. Alcuni esempi di enti teorici sono gli angoli e i segmenti della geometria o la temperatura e l’entropia della termodinamica”.

In secondo luogo, “una teoria scientifica ha una struttura rigorosamente deduttiva; è costituita cioè da pochi enunciati fondamentali (detti assiomi, postulati o principi) sui propri enti caratteristici e da tutte le affermazioni che si possono considerare come loro conseguenze”.

In terzo luogo, “le applicazioni al mondo reale sono basate su regole di corrispondenza tra gli enti della teoria e gli oggetti concreti. Le regole di corrispondenza, a differenza delle affermazioni interne alla teoria, non hanno alcuna garanzia assoluta. Il metodo fondamentale per controllare la validità delle regole di corrispondenza, cioè l’applicabilità della teoria, è il metodo sperimentale”.

Russo considera quindi “scientifica” ogni teoria con le tre caratteristiche appena enumerate, definendo invece “scienza esatta” l’insieme delle teorie scientifiche, le quali, pur essendo nate per descrivere e spiegare fenomeni naturali, sono divenute col tempo anche modelli di settori di attività tecnologica.

Proprio il legame tra scienza e tecnologia costituisce un tema centrale del libro di Russo, che si occupa prevalentemente di scienza ellenistica, facendo solo qualche riferimento ai suoi precedenti nel periodo classico. Una tesi molto “forte” - tra le molte che vi si possono reperire e senz’altro meritevole di una discussione più ampia di quella che è consentita da una recensione - è che Aristotele “non può usare né il metodo dimostrativo né l’esperimento, giacché non ha, né vuole costruire, una teoria scientifica. Le forze, i tempi e le lunghezze di cui parla non sono infatti enti interni a una teoria, ma sono concepiti come oggetti concreti, dai quali è possibile comprendere le necessarie relazioni reciproche attraverso la speculazione filosofica”. Questo confronto tra il pensiero filosofico dell’età classica, e di Aristotele in particolare, con la scienza ellenistica e con quella moderna non costituisce comunque uno dei temi che il libro di Russo si prefigge di affrontare in modo circostanziato.

Uno dei pregiudizi storici che vengono affrontati è costituito dall’idea secondo cui nella matematica greca non si usava il concetto d’infinito. Morris Kline sostiene per esempio che “nella scienza greca il concetto di infinità è poco capito e apertamente evitato”. Ma Russo ricorda che il termine “infinito” non è comunque una novità introdotta dai matematici moderni”, non essendo che la traduzione del termine greco apeiron, già fondamentale nel pensiero di Anassimandro. Anche la teoria eliocentrica, poi affermatasi in età moderna con Copernico e Galileo, fu anticipata da Aristarco di Samo, che fu secondo Johan Dreyer “l’ultimo dei grandi filosofi o astronomi del mondo greco a proporsi seriamente di indagare il vero sistema fisico del mondo”.

Il rapporto col tempo, l’importanza di poterlo misurare con precisione, che tanto rilievo ebbe nello sviluppo della scienza moderna, costituisce un altro contributo importante che l’età ellenistica fornì ai successivi sviluppi della scienza e la tecnica. Per esempio, “i primi veri orologi sorgono ad Alessandra nella prima metà del III secolo a. C., grazie a Ctesibio, che trasformò l’antica clessidra in un vero strumento di misura” e “diversi scienziati progettarono orologi ad acqua. Un modello particolarmente interessante attribuito ad Archimede è descritto in un lavoro anonimo conservato in arabo”.

In campo militare le invenzioni non furono meno rilevanti: Plutarco racconta che Archimede “iniziò il tiro come le sue macchine, scagliando sulle forze terrestri ogni specie di dardi e di macigni […]. Alcune delle navi vennero agganciate con artigli di ferro e mediante un contrappeso sollevate e quindi fatte colare a picco […]. Spesso si vedeva lo spettacolo pauroso di una nave sollevata in aria, fatta oscillare finché tutto l’equipaggio fosse stato scagliato via e scaraventata poi vuota contro le fortificazioni, o fatta ricadere in mare in seguito allo scancio degli artigli”. Ma in età ellenistica s’inventò anche la catapulta a torsione, un’arma da getto basata appunto sull’elasticità della torsione.

Notevoli furono anche le scoperte nell’ambito dell’arte della navigazione. L’incapacità di navigare in mare aperto, attribuita da Eratostene ai Greci più antichi, che si sarebbero così limitati a costeggiare, pare essere contraddetta dall’esistenza di viaggi oceanici. Eudosso di Cizico, per esempio, “aveva navigato più volte tra Egitto e India, seguendo una rotta diretta dal golfo di Aden, e il greco di Marsiglia Pitea, alla fine del IV secolo a. C., aveva compiuto la famosa esplorazione dell’Atlantico del Nord, descrivendo poi le sue scoperte nel libro Sull’oceano”.

Anche la medicina sviluppò in età ellenistica i suoi rapporti con la scienza esatta e grazie alla scuola fondata da Erofilo fece un salto di qualità che preludeva alla medicina moderna. Erofilo pare infatti abbia ammesso “una capacità motoria nei nervi, arterie e muscoli, e ritenne che il polmone avesse una tendenza a dilatarsi e contrarsi, aspirando così lo pneuma. Le descrizioni degli apparati circolatorio e respiratorio appaiono quindi connesse ai contemporanei progressi della nuova scienza pneumatica, un termine che “deriva da pneuma e che ebbe in greco un’estensione semantica molto vasta”, i cui significati iniziali erano quelli di aria, soffio, alito, respiro, spirito.

“Nel linguaggio della scuola stoica – scrive Russo – per pneuma s’intende un mezzo continuo che assicura gli scambi tra le varie parti degli organismi e dell’universo”. Erone, all’inizio della sua Pneumatica, afferma che lo pneuma non è altro che aria in moto, e spiega che “la distribuzione naturale di particelle e vuoto nell’aria può essere alterata in ambedue i sensi con l’applicazione di forze esterne, nonostante l’aria si opponga a tali deformazioni con una reazione elastica”.

Ma il libro di Russo è davvero una miniera d’informazioni sorprendenti per i non addetti ai lavori e di spiegazioni chiare ed esaurienti, di cui sarebbe davvero impossibile tracciare qui anche solo un breve sommario. Basti dire che esso si spinge a trattare anche temi che solitamente non rientrano in trattati di storia della scienza, come ad esempio la teoria dei sogni, soffermandosi per alcune pagine sul libro di Artemidoro di Daldi Dell’interpretazione dei sogni, della seconda metà del II d.C. In quest’opera Artemidoro suddivide i sogni in “contemplatici” e “allegorici”, tra i quali annovera quelli “cosmici”, che secondo Cesare Musatti “si presentano abbastanza spesso anche nella odierna pratica analitica”. Se i “sogni contemplativi” hanno qualche riscontro con ciò che Freud definiva “resti diurni”, i “sogni allegorici” sono quelli in cui le cose vengono rappresentate con altre immagini: “quegli che ama una donna, non vedrà la donna amata, ma un cavallo, o specchio, o nave, o il mare, o altra cosa che donna significa”. Si tratta proprio di ciò che s’intende per simbolismo onirico, che sta a fondamento dalla teoria freudiana.

Non è assolutamente trascurabile inoltre quanto l’autore sostiene nei capitoli conclusivi del suo saggio, là dove nota che dalla diffusione in via approssimativa di teorie connesse alle geometrie non euclidee e alla meccanica quantistica e nell’assenza di rapporti riconosciuti tra la matematica e il mondo concreto si è sviluppata una crisi dei fondamenti che sta avendo conseguenze negative sulla didattica delle scienze. Oggi, come in epoca imperiale, “i concetti teorici, avulsi dalle teorie in cui hanno il proprio significato e considerati oggetti reali la cui esistenza appare solo all’iniziato, vengono usati per stupire e divertire”. Il pubblico viene così assuefatto dai media “a una complessa e misteriosa mitologia, con orbitali che si ibridano tra loro, sfuggenti quark, voraci e inquietanti buchi neri e un Big Bang creatore”. In questo modo si finisce secondo Russo col trasmettere un’idea del metodo scientifico che accetta passivamente le contraddizioni e rinuncia a cercare di fornire spiegazioni razionali della realtà. I propugnatori di questo nuovo irrazionalismo “ostentano particolare disprezzo verso teorie quali la logica classica e la geometria euclidea”, che hanno nella loro struttura razionale quanto viene da tale irrazionalismo individuato come nemico cruciale. Quest’atteggiamento è sempre più diffuso anche tra gli scienziati, tanto che se un tempo “gli scrittori di fantascienza s’ispiravano ai risultati scientifici, oggi lo stesso canale è attivo in senso inverso: molte idee nate nella fantascienza, dal teletrasporto al viaggio nel tempo, sono diventati tema di articoli scientifici, che a loro volta generano libri e film ‘divulgativi’ che hanno sostituito, nel favore del pubblico, la fantascienza classica”.

Oggi – spiega ancora Russo - “la diffusa ignoranza della storia del pensiero e il mito di un progresso continuo consentono di presentare come superiori in quanto nuovi gli argomenti contro il vecchio razionalismo. In realtà non si tratta di argomenti recenti, ma, in buona sostanza, della riproduzione delle stesse polemiche antirazionaliste che avevano accompagnato la fine della scienza antica. Le versioni divulgate al grande pubblico della meccanica quantistica si sono sempre basate sulla scelta di accettare una descrizione contraddittoria della realtà”.

Gli utilizzi commerciali di una cultura scientifica così distorta, insieme ai danni provocati dal ricorso a criteri di valutazione automatica delle pubblicazioni che possano fare punteggio in un curriculum accademico, così come il rapido diffondersi di mode effimere e l’imporsi di un relativismo che tende ad associarsi in modo spesso superficiale e pretestuoso alla teoria della relatività di Einstein stanno contrassegnando il degrado del ruolo sociale della scienza, e ciò nonostante gli efficaci strumenti che la tecnologia informatica sta mettendo a disposizione per una corretta divulgazione. In un simile scenario, sarebbe forse il caso di ricondurre il metodo scientifico nel contesto culturale che lo ha generato, così da rendere tutti consapevoli, anche chi si approccia per la prima volta a problemi complessi, che i concetti che sono emersi e si sono poi imposti per la loro soluzione non sono spuntati miracolosamente da soli in qualche manuale scolastico assertivo e astorico, ma hanno avuto una lunga e faticosa genesi in diversi contesti culturali, scientifici e filosofici.


lunedì 6 febbraio 2023

CARAVAGGIO ALCHIMISTA DELLA PITTURA & I ROSACROCE

Tratto da Pangea.news

di Claudia Gualdana

“Le tenebre sono semplicemente la contrazione della luce”, scriveva Robert Fludd nella Medicina cattolica. Solo chi ancora non ha letto il Caravaggio di Dalmazio Frau (Caravaggio, luci ed ombre tra alchimia e altri misteri, Bastogilibri), può trovare ardito questo accostamento. Robert Fludd di Michelangelo Merisi è contemporaneo, ma il primo è uno dei massimi mistici inglesi, l’altro uno dei più grandi artisti della storia. Non si sono mai incontrati. Fludd scrive di elementi, eppure sembra suggerire l’atmosfera di lotta tra la luce e la tenebra che va in scena in alcuni capolavori del Caravaggio.

Prendiamo, per esempio, il celebre Amor Vincit Omnia, un olio su tela oggi conservato a Berlino, che per Frau è l’opera in cui “più sono evidenti i messaggi rosacruciani di filosofi quali Fludd e Maier”. Nella tela un Eros sorridente emerge da uno sfondo di assoluta tenebra, tanto che le sue carni bianche sembrano rilucere. È questo, a mio vedere, il miracolo della pittura del Merisi: strappare le forme della vita dall’indistinto cupo, profondo, del buio senza forma. Come se prima del suo tratto magico nulla esistesse. Dipingere come dare la vita. Prendere la materia e insufflarle il respiro nelle vene, in un religioso fiat lux di biblica memoria. A misura d’uomo, s’intende.

Non sono elucubrazioni, sono le suggestioni che Frau dissemina sapientemente attirandoci in un dedalo di riletture dei capolavori caravaggeschi in una sorta di giallo per iniziati alla pittura e all’alchimia. E infatti nell’Amor Vincit Omnia – l’amore vince ogni cosa – legge il compasso e la squadra ai piedi della divinità greca in ottica ermetica, unendo a tali strumenti il significato della musica, ben rappresentata dal liuto e dal violino.

I Rosacroce, di cui faceva parte Fludd, erano una loggia iniziatica tedesca di ispirazione cristiana che esisteva da ormai due secoli. Gli adepti erano avvolti nel mistero. E di nuovo ci si può domandare cosa c’entri quel geniaccio incline alla violenza e a Venere con le sottigliezze intellettuali di uomini in cerca di un perfezionamento interiore che con le armi e i postriboli non potevano aver niente da spartire. Frau suggerisce la soluzione del rebus accompagnandoci nei sacri palazzi di Roma, città in cui Merisi visse il massimo splendore del suo astro, disgraziatamente destinato a spegnersi in fretta. Ed ecco che il mistero dell’arte del ribelle dal pennello magico si dirada: egli era il braccio teso a descrivere significati che provenivano da pozzi di scienza sacra, del quale forse neanche era del tutto consapevole.

Il braccio di un alto prelato romano, il cardinale Francesco Maria del Monte. Per lui dipinse, tra l’altro, Giove, Nettuno e Plutone, il suo unico affresco, al Casino Ludovisi. Un vero e proprio gabinetto alchemico la cui esistenza fu scoperta solo nel 1969. Merisi porta la luce in uno spazio angusto, staglia le figure in scorcio esaltandone, come suo uso, la virile nudità, tracciando tra le righe lo zodiaco e gli stadi del processo alchemico in una sorta di athanor dipinto. In fondo non c’è niente di strano in questo. Tutta l’arte rinascimentale è un movimento tellurico di simboli, allegorie, rimandi mistici e paganeggianti, in un inno alla natura che sottende un nuovo modo di fare filosofia. Un dipingere per ricreare l’esistente, replicarlo all’infinito in quel gesto prometeico che è l’arte maiuscola: un tentativo di strappare il fuoco agli dei. Che in Caravaggio è perfettamente riuscito.


domenica 8 gennaio 2023

PINOCCHIO, UNA FIABA SENZA TEMPO, INTERVISTA A LUIGI PRUNETI

tratto da L'Opinione del 26 ottobre 2021

di Pierpaola Meledandri

 Il 26 ottobre è l’anniversario della morte di Carlo Collodi, autore di Pinocchio: opera ricca di simboli, archetipi e arcani significati, proposti nella piacevole forma della fiaba. So che è un argomento che ha affrontato a più riprese, vorrei, quindi, che ci parlasse del burattino più famoso del mondo. La prima domanda che le porgo è questa: A cosa è dovuta l’immensa fortuna di Pinocchio?

In effetti, Pinocchio ha avuto una fortuna incredibile, è stato tradotto in 240 lingue e sembra che sia il libro più letto al mondo dopo la Bibbia. Il segreto di questo successo è dovuto a molti fattori. È una fiaba, ma una fiaba particolare, animata non da stereotipi ma da personaggi vivi, da animali e uomini che ricordano a ciascuno figure spesso incontrate nella vita; inoltre il protagonista è un soggetto dinamico che da antimodello, diventa un eroe da imitare. Le sue avventure si configurano, pertanto, come un romanzo di formazione, Il burattino al pari di Renzo Tramaglino, si adegua e comprende ma, a differenza del romanzo di formazione, Pinocchio rimane nella sfera del fantastico.

Le disavventure di Pinocchio sono molteplici, la più clamorosa è la trasformazione in asino che ricorda molto da vicino Le Metamorfosi (L’Asino d’oro), di Apuleio.

Collodi è stato probabilmente ispirato dal capitolo XXXII de L’Asino d’oro di Apuleio, dove Lucius, viene tramutato in asino perché sbaglia ad utilizzare un unguento. Egli, spinto dalla curiositas, si era fatto introdurre dall’amante Fotide, nella casa della sua padrona-strega Panfile.  Pinocchio, si fa convincere, a sua volta, dall’amico Lucignolo a raggiungere il Paese dei Balocchi.

Quali furono le altre fonti o gli autori che ispirarono Collodi?

Sono molte, perché ogni autore trae ispirazione da ciò che ha letto e Collodi leggeva moltissimo. Probabilmente fu ispirato dall’Odissea, dalla Bibbia, dalla Divina Commedia, dalla mitologia dal romanzo picaresco, di cui sono esempi Lazarillo de Tormes e Don Chisciotte della Mancia. Potrei citare poi i Promessi sposi. Ad esempio il passo in cui Pinocchio è convinto dai cattivi compagni a marinare la scuola per andare a vedere il pescecane ricorda il traviamento della Monaca di Monza, mentre il carro che porta i bambini nel Paese dei balocchi rammenta quello dei monatti.

Vi è poi il teatro di cui Carlo Lorenzini era un estimatore, vi sono, infatti, in Pinocchio espressioni che ricordano l’Alfieri e la Francesca da Rimini di Silvio Pellico, Goldoni e Moliere, mentre l’omino di burro canta: “Tutti la notte dormono / E io non dormo mai”, riferimento esplicito alla canzone Te voglio bene assje. Il brano comparve per la prima volta nella festa di Piedigrotta del 1835. Le parole sono di Raffaele Sacco, non si sa chi l’abbia musicata, anche se s’ipotizza che sia stato Donizetti. Voglio infine ricordare che il nome del cane Melampo è ripreso dalla poetessa lucchese Teresa Bandettini (Amarilli Etrusca) che scrisse: “Chi veglia il gregge? Ah che già fu Melampo / terror di lupi e contro i ladri scampo”.

Un’interpretazione che è stata all’opera di Collodi, è addirittura di tipo religioso: Geppetto falegname come Giuseppe e Gesù. La Fatina, Madre salvifica e provvidenziale, la storia del bambino ribelle che lascia la casa paterna un remake della parabola del Figliol prodigo. Troppo azzardata questa lettura?

Secondo me sì, è più che azzardata. Il cardinale Giacomo Biffi, scrisse un bel libro sull’argomento, citando, oltre alla parabola del Figlio prodigo, “l’eterno motivo agostiniano: la scoperta della verità, che non è fuori di noi, ma in noi stessi: in interiore nomine habitat veritas”. Inoltre, quando Pinocchio è impiccato alla Quercia grande, prima di morire, mormora “Oh babbo mio! Se tu fossi qui”. Il punto ricorda Matteo (27, 46): “Padre mio perché mi hai abbandonato”. Infine, la casina nel bosco indica la chiesa e i colori della fatina, il bianco e il turchino, sono quelli della Madonna. Ciò tuttavia non è sufficiente a dare una valenza religiosa a un’opera dove non è presente una chiesa o un sacerdote. Gli unici riferimenti a una religiosità popolare si hanno quando i pescatori, pensando che Geppetto sia affogato, se ne tornano a casa “brontolando sottovoce una preghiera” o quando Pinocchio tirato fuori dall’acqua dopo che era stato gettato in mare, afferma: “Che vergogna fu quella per me! Che Sant’Antonio benedetto non la faccia provare nemmeno a voi!”.

Nella storia di Pinocchio, vi sono molti aspetti di carattere iniziatico: il viaggio, le prove continue, la morte e la rinascita, le trasformazioni e il raggiungimento di uno stato esistenziale superiore. Il capolavoro di Collodi è forse una parabola iniziatica?

Lo è certamente, ma anche la vita di ciascuno di noi è caratterizzata da continue iniziazioni. Le fiabe sono spesso delle raffigurazioni del percorso esistenziale dell’uomo che da una situazione di difficoltà, attraverso il superamento di prove, raggiunge un livello superiore di autocoscienza e il successo. Basti pensare a Biancaneve, a Pollicino, a Hansel e Gretel. Il protagonista parte sempre da uno stato infelice (indigenza estrema, infelicità familiare), nel labirinto della foresta incontra i vari minotauri, conosce la morte iniziatica, riesce ad avere la meglio e risorge a nuova vita.

Molti autori, insistono, però, sulle valenze esoteriche, se non massoniche di Pinocchio.

Pinocchio è una fiaba complessa, pertanto, è stato interpretata in tante chiavi diverse: civile, valoriale, politica, antroposofica, psicoanalitica, magica, alchemica, astrologica, cabalistica, massonica e, come abbiamo, detto cristiana, in realtà Carlo Lorenzini voleva scrivere solo una fiaba “morale” e pedagogica. Basti pensare che nella stesura originale il romanzo terminava con l’impiccagione di Pinocchio. La morale era chiara: chi non ubbidisce ai genitori, chi non rispetta le regole, chi non ascolta i buoni consigli, fa una brutta fine. In seguito, spinto dai lettori e dall'editore proseguì il racconto con un Pinocchio prima pentito e infine redento.Questo non toglie che una storia quando è pubblicata, come scrisse Umberto Eco, appartiene a chi la legge che è libero d’interpretarla come meglio crede.

L’autore di Pinocchio, Collodi, era un Libero Muratore?

Molti lo affermano; Elèmire Zolla, scriveva: “Il Pinocchio di Collodi è un miracolo letterario dalla profondità esoterica quasi intollerabile” e aggiungeva che i valori iniziatici di Pinocchio “provengono dalla cultura di base della cerchia massonica cui Collodi apparteneva”, ove ferveva “una rinascita del pitagorismo antico, culminata poi con Arturo Reghini”. Su posizioni simili sono Coco e Zambrano, Pietro Citati e altri autori. Io la penso come Fulvio Conti: la massoneria del periodo collodiano non ha niente da spartire con Reghini, il martinismo, il neopaganesimo, il neo-pitagorismo. Nell’età di Carlo Lorenzini la massoneria italiana era penetrata da razionalismo e positivismo ed era tutta protesa ad esaltare il mito della scienza e del progresso. I temi più dibattuti erano quelli sociali, dei diritti civili, dell’educazione, della laicità. D’altra parte, dopo la morte dell’autore, il Grande Oriente Italiano non rivendicò l’appartenenza di Collodi. Scrive Conti: “Del resto il suo nome non figura nell’elenco degli affiliati del Grande Oriente d’Italia fra Ottocento e Novecento, che sono emersi dagli scavi archivistici degli ultimi anni. Elenchi certo incompleti, ma che pur tuttavia comprendono alcune decine di migliaia di nomi. Né vi sono riferimenti a Collodi nei numerosi e approfonditi studi sulla massoneria in Toscana che sono apparsi in tempi recenti”. Lo stesso autore, infine, ricorda che “le questioni esoteriche e rituali ebbero per alcuni decenni un peso marginale nella vita del Grande Oriente e delle singole logge”. L’unico indizio a favore dell’appartenenza massonica di Collodi è una lettera indirizzata da Collodi a Pietro Barbera, datata 4 marzo del 1884 che termina così: “In ogni caso mi creda sempre. Il Fratello Collodi”. Per Ferdinando Tempesti, non ci sono dubbi: è la prova dell’appartenenza di Collodi ai “figli della vedova”. Io non ho mai visto l’originale, citato Maria Jole Minicucci negli atti convegno, ma ci andrei piano. Una rondine se rondine è, non fa primavera.

I personaggi e le storie di Pinocchio come il Gatto e la Volpe, il Grillo Parlante, la bambina dai capelli Turchini e ancora scimmioni, pavoni spennati, faine, cani, il paese degli acchiappacitrulli a cosa fanno riferimento?

Pinocchio, pur essendo collocato nella dimensione “metastorica e atemporale propria delle fiabe” è ispirato dalla Toscana post risorgimentale nella quale visse Collodi, che era un uomo deluso dalla politica, dalla meschinità e dalla scarsa attenzione sociale del nuovo stato unitario. Molte situazioni e personaggi presenti in Pinocchio sono perciò desunti dalla società dell’autore.

La città di acchiappacitrulli, per esempio, è Firenze, gabbata dal trasferimento della capitale a Roma e lasciata con 100 milioni di debiti. Le gazze ladre e gli uccellaci da rapina sono gli speculatori del business della Firenze capitale. Gli ideali risorgimentali erano stati traditi, l’Italia nata nel 1859-0 era diventata una terra infelice in mano a corrotti, approfittatori e ladri, posti al di sopra del potere. Il gatto e la volpe sono due imbonitori, il primo ripete ossessivamente quello che l’altro afferma, essi non si avvalgono del ragionamento ma nella “insistenza ossessiva degli enunciati”. Il Grillo Parlante, invece, potrebbe essere stato ispirato da un prete di nome Zipoli col quale Lorenzini convisse per un po’ di tempo, era un uomo tanto colto quanto pedante. L’omino di burro, ricorda i trafficanti di bambini, vera e propria piaga dell’Italia post-unitaria, mentre lo scimmione giudice potrebbe accennare il mal funzionamento della giustizia, asservita al potere e alla corruzione.

Secondo lei quale è la caratteristica di fondo del mondo dove vive e opera Pinocchio?

Sicuramente la miseria e la fame che Collodi aveva provato da bambino. Geppetto, dice all’inizio del racconto: “Lo voglio chiamar Pinocchio. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina”. Nel capitolo XII Pinocchio dice a Mangiafoco che il suo babbo fa per mestiere il povero e che guadagna “quanto ci vuole per non avere mai un centesimo in tasca”. Il termine fame compare in Pinocchio ben 44 volte. Scrive Giovanni Spadolini: “Collodi avrà viva come pochi la coscienza della povertà, anzi della miseria delle classi popolari del suo tempo. Strenuo difensore della proprietà privata, invocherà una più equa ripartizione delle risorse senza mai cedere al socialismo né tanto meno al comunismo”, definito “Tanto per uno nulla a nessuno”.

giovedì 15 dicembre 2022

ALLA SCOPERTA DEI MISTERI DI ROMA: IL LABORATORIO ALCHEMICO

tratto da "L'Opinione" del 16 settembre 2021

di Pierpaola Meledandri

Il Museo storico nazionale dell’arte sanitaria, noto comunemente come il Laboratorio alchemico, venne inaugurato nel 1933 e si trova all’interno del complesso ospedaliero di Santo Spirito in Sassia. Siffatta raccolta museale non è molto conosciuta perché ha un’ubicazione particolare ed è visitabile solo per appuntamento in alcuni giorni della settimana. Questa scarsa fruibilità rappresenta un limite notevole perché il museo costituisce un’importante testimonianza sulla storia della medicina. L’ospedale di Santo Spirito ha origini lontane; venne fondato, infatti, dal Papa Innocenzo III nel 1198 non solo con lo scopo di ricoverare e curare i malati ma anche come centro d’insegnamento dell’ars medica. Il museo si articola in diverse sale, la prima è la Sala Alessandrina che conserva una vasta biblioteca, alle pareti sono esposte 19 tavole anatomiche a stampa, colorate a mano, risalenti ai primi dell’Ottocento, raffiguranti le “viscere”, il sistema muscolare, l’arterioso, il venoso, il linfatico, l’apparato osseo, il cervello e il fegato. In fondo alla Sala campeggia una statua in gesso su un piedistallo in marmo, raffigura Esculapio l’antico dio greco della medicina.

Nella Sala Flajani vi è una raccolta di preparazioni anatomo-patologiche e di modelli in cera di organi, risalenti alla fine del XVIII secolo; rappresentano, soprattutto, alterazioni dei tessuti dovute a patologie come la sifilide e deformazioni prenatali. Nella Sala Capparoni, invece, vi è una collezione di Ex voto che vanno dal periodo etrusco-romano ad anni abbastanza recenti, oltre a suppellettili di farmacia del XVI-XVII secolo. Tra le curiosità presenti nella sala, una piccola Venere anatomica in avorio, con torace e ventre apribili per mostrare la posizione del feto. Particolarmente interessante è poi la Sala Carbonelli con un’esposizione di strumenti chirurgici (trapani per il cranio, seghe ortopediche, lancette da salasso) e di altri per l’oculistica e l’ostetricia, oltre a rari e preziosi microscopi del passato. Fra gli strumenti più singolari ricordiamo la “Siringa di Mauriceau”: un tubicino di gomma che si applicava a una siringa per introdurre acqua benedetta nella cavità uterina, per battezzare i feti che correvano il pericolo di soccombere durante il travaglio. In un’alta vetrina sono conservati due sistemi di conservazione veramente spettacolari: i preparati a secco del sistema nervoso centrale e periferico eseguiti da Luigi Raimondi nel 1844.

Infine, il Museo storico nazionale dell’arte sanitaria, espone un’antica Farmacia con pezzi provenienti dalle spezierie degli ospedali di Santo Spirito, di San Giacomo e di Santa Maria della Consolazione e il Laboratorio alchemico. Quest’ultimo è, sicuramente, la parte più intrigante del museo, anche per l’alone di mistero che vi grava. Dal soffitto pende, come se fosse un lampadario, un coccodrillo impagliato, mentre tra storte, alambicchi, mortai il visitatore avverte quasi l’ombra degli antichi alchimisti. A completare il quadro magico dell’ambiente, si staglia il calco della famosa porta ermetica voluta dal Marchese di Palombara, il cui l’originale si trova nei giardini di piazza Vittorio a Roma. I simboli alchemici, cabalistici e magici incisi sulla porta, dovrebbero rappresentare, secondo consolidate narrazioni, la formula per giungere alla realizzazione della pietra filosofale, atta a trasformare i vili metalli in oro. Quanto succintamente descritto, non è un caso isolato; in Italia, anche a San Leo, celebre per la rocca ove morì Cagliostro, vi è un interessante Museo con vari padiglioni, tra cui uno dedicato all’alchimia.

A Firenze, nel Museo della Specola e in altre celebri collezioni di stato sono esposti animali impagliati e cere anatomiche, oltre a una drammatica rappresentazione, sempre in cera, di un’epidemia di peste. È, nel suo genere, un capolavoro, dovuto allo Zumbo, che contende la palma dell’horror ai pezzi anatomici, “pietrificati”, con una tecnica rimasta segreta, da Girolamo Segato (1792-1836). Questi fu un cartografo, naturalista e egittologo, che partecipò a delle spedizioni nella terra delle Piramidi, dove avrebbe appreso le tecniche d’imbalsamazione. Avendo il Gran Duca di Toscana rifiutato di finanziare le sue ricerche, bruciò i propri appunti, portandosi nella tomba ogni segreto dei suoi studi. Le sue spoglie giacciono ora nella basilica di Santa Croce e una lapide commenta così la sua figura: “Qui giace disfatto Girolamo Segato, che vedrebbesi intero pietrificato, se l’arte sua non periva con lui. Fu gloria insolita dell’umana sapienza, esempio d’infelicità non insolito”.

Il Museo storico nazionale dell’arte sanitaria, tuttavia, rappresenta una realtà singolare e interessante che permette per valutare l’evoluzione storica all’ars medica, che per secoli e secoli, abbinò alla ricerca scientifica, precetti religiosi e considerazioni tratte da scenari che niente avevano da spartire con la medicina moderna.


 

domenica 4 dicembre 2022

PANDORA, LA PRIMA DONNA

 tratto da L'Opinione del 10 marzo 2022

di Manlio Lo Presti


Jean-Pierre Vernant, uno dei massimi studiosi del mondo greco antico, ha scritto un volumetto denso ma di agevole lettura, sulla prima donna apparsa sulla terra. Il libro ci spiega con narrazione comprensibile le circostanze che inducono gli dèi alla creazione di un fantoccio dotato di malizia, di bellezza e di capacità manipolative da inviare agli uomini che abitano la terra. Il motivo è la vendetta di Zeus. Egli crea un pericolo incarnato dalla creazione della donna, come sospettosamente riferisce Ippolito, che va ad alterare l’equilibrio fondato dalla esistenza di un pianeta abitato da soli uomini che si dedicano ad offrire doni agli dèi. Un universo privo della dualità maschile-femminile che tanto affascina i Pitagorici. All’origine, tutti gli umani (anthropoi) sono solo maschi (andrei) che partecipano ai banchetti degli dèi con i quali convivono in perfetta sintonia benché mortali fra gli immortali.


L’equilibrio è assoluto. Non ci sono conflitti. Il cibo cresce da solo. Non esiste la sensazione spiacevole della privazione e del bisogno. L’idillio quieto viene incrinato da una battaglia feroce di divinità contro divinità. Zeus ha il sopravvento e vince. Ritiene che tale promiscuità debba finire. Deve esserci una separazione. Zeus convoca Prometeo della razza dei Titani che ha la capacità di prevedere gli effetti delle azioni (pro-meth). Prometeo ha un fratello Epimeteo che capisce le conseguenze dopo aver agito (epi-meth). Prometeo sfida il capo di tutto il Pantheon con la sua furbizia e astuzia. Zeus si incollerisce e medita una vendetta tremenda. Prometeo è un philanthropus, ama gli umani essendo un semidio. Per questo Prometeo si fa beffe degli dèi rubando loro il fuoco che dona agli uomini.

La vendetta degli dèi capeggiati da Zeus è la creazione di una creatura, una figura femminile che ordina ad Efesto di realizzare per partenogenesi. Il modello riproduce le dee del pantheon greco: Atena, Artemide, Estia. Tutte sono intelligentissime e bellissime. Il manichino viene arricchito di qualità di seduzione e di bellezza con l’aiuto sapiente di alcune divinità femminili. Il racconto rende più comprensibile Esiodo nella parte seconda della sua opera maggiore: Le opere e i giorni, dedicata a Pandora.

Pandora sarà portata sulla terra da Epimeteo. Prometeo capisce subito la trappola. Cerca – invano – di dissuadere Epimeteo per indurlo a non accettare nessuna cosa dagli dèi, compreso il manichino seducente che deve portare sulla terra, assieme ad un vaso chiuso che non dovrà mai essere aperto! Il resto della storia, più o meno nota, si legge in una luce diversa e raccontata con un pizzico di divertimento con una narrazione scorrevole dall’autore che sembra parlarci davanti ad un caffè. Il testo è intercalato da dieci illustrazioni molto eleganti e distribuito in sette parti. Un volumetto da regalarsi e da regalare alle sole persone meritevoli di tanta bellezza.

Pandora, la prima donna, Jean Pierre Vernant, Einaudi 2008, 51 pagine, 9 euro

giovedì 15 settembre 2022

LA RELIGIONE DELL’ANTICA ROMA

tratto da "L'Opinione" del 3-02-2022

di Antonio Saccà

Dalla monarchia all’imperatore divinizzato

Ecco la nostra civiltà, la nostra antichità eterna, dalla Monarchia all’Impero, quasi un millennio, e per sempre. Roma, la Gerusalemme pagana, Roma, con Atene, la sommità a cui noi europei siamo pervenuti. Roma che ci guarda e la guardiamo, Imperatori, templi, strade, rovine monumentali, terme, colonne, ovunque Roma, quella dei millenni che furono e che sono. Abitare a Roma è vivere con i romani, dove fu ucciso Cesare, dove fu sepolti Augusto, e Traiano, e Antonino, e Caracalla. E Marco Aurelio, il Campidoglio, il Pantheon, la casa di Mecenate. Le origini di Roma sono mitiche al pari di quasi tutte le origini delle Città e delle Civiltà. Anche se non direttamente, Roma proverrebbe dai fuggitivi di Troia che, devastata dai Greci, tuttavia non fu annientata, riuscì a scampare uno degli eroi troiani, Enea, figlio di Priamo e della dea Venere. Enea, con pochi altri, salva il padre ed il figlio, Ascanio (Iulio), e si allontana dalla Patria, ramingo nel Mediterraneo, con vicende in qualche modo simili ad Ulisse. Vi è un destino per Enea, un compito sacro, ineluttabile, fondare una nuova Città, una nuova Civiltà. A tale scopo, Enea sacrifica Didone, Regina dei Cartaginesi, che gli offriva, insieme, amore e Regno. Enea non può accettare, il suo obbligo, disposto da forze supreme, è fondare la nuova Città, la nuova Civiltà. Enea parte, Didone si uccide. L’ amore infelice tra Didone ed Enea costituisce uno tra gli amori leggendari dell’antichità. Enea si volge all’ Italia, approda alle coste, si spinge nel Lazio, sposa la figlia del re Latino, Lavinia, vince i potenti locali, principalmente Turno, erge la città di Lavinio, che lascia al figlio, dal quale proverrà la Gens Iulia che conterrebbe anche Giulio Cesare, Ottaviano, Tiberio.

Enea reca, sempre nella Leggenda, gli Dei patrii. Ed è un particolare da considerare. Bisogna smentire radicalmente l’idea che “i pagani” fossero atei o miscredenti. Credevano in altri Dei, intensamente e con perenni forme ritualistiche, sacre, e vincolate alla interpretazione di “segnali” che venivano dagli Dei o da potenze occulte. Per gli antichi, ma la situazione non è cambia, ancora oggi, se, ad esempio, cadeva un fulmine, scoppiava un temporale, ciò non avveniva a caso, era un “segnale”, indicava qualcosa da fare o da non fare. Tutto, ripeto,doveva essere interpretato, tutto aveva un significato, era un’ indicazione. Gli antichi, mi riferisco soprattutto ai greci ed ai romani vivevano sotto l’ incubo di ottenere il favore degli Dei o di non esserne approvati. Quindi, riti, sacrifici, e soprattutto la ricerca delle cause che avevano (avrebbero) cagionato l’ ira di qualche Dio e il modo per riappacificarsi. La vita dei greci e dei romani, in genere degli antichi, era un continuo interpretare perché accadeva un evento, se celava segni favorevoli o sfavorevoli, nel timore di offendere un Dio, nella paura della vendetta degli Dei, nella volontà di riappacificazione. Tutto questo metteva l’ esistenza dei “pagani” sotto il segno della religione in modo pressante.

Antica Roma, la monarchia

Roma nasce con una leggenda. Esistevano popolazioni italiche dal I millennio, ma, nella leggenda, fu nel 753 a. C. che viene fondata dai gemelli Romolo e Remo, figli di Marte e di Silvia. Avversati, Romolo e Remo, dallo zio Amulio, vengono salvati in una cesta posta sul Tevere, raccolti e cresciuti dal pastore Faustolo, nutriti da una lupa; adulti riconquistano Albalonga per l’ avo Numitore, e si combattono tra loro perché Remo passa i confini della nuova Città, il che è atto sacrilego. Romolo uccide Remo, e regna per primo, il primo Re di Roma. La leggenda è tutta immersa nella religione superstiziosa e sacrale, nelle caratterizzazioni del mito: un parente avverso, il salvataggio prodigioso, la nascita da fonte divina, la disgrazia, la vittoria. Nel caso di Giove, di Edipo, di Mosè, di Gesù abbiamo circostanze simili. Nella leggenda di Romolo e Remo vi è il particolare nutrimento da una lupa. Di sicuro perché la vicinanza tra uomini e animali era assoluta, ma inoltre come segno che i gemelli sono nutriti con latte di lupa, saranno dei “lupi”. Importantissimo nella leggenda, il valore del confine. Secondo talune fonti, la lupa non è l’animale, è il soprannome di chi allevò i gemelli, e l’ uccisione di Remo fu dovuta alla disputa su chi avesse il diritto di fondare la Città.

martedì 6 settembre 2022

INTERVISTA AL PROFESSOR LUIGI PRUNETI SUL CONTE DI CAGLIOSTRO

tratto da "L'Opinione" del 26 agosto 2021

di Pierpaola Meledandri

“Giuseppe Balsamo fu un figlio del suo tempo, un’età straordinaria, durante la quale nacquero e si svilupparono tendenze e personaggi opposti: De Sade e Beccaria, razionalismo e irrazionalismo, privilegio nobiliare e istanze rivoluzionarie. Nelle logge di quel secolo si mischiarono scienziati e sedicenti maghi, empiristi e occultisti, chimici e alchimisti. Cagliostro recitò la sua commedia umana su quel palcoscenico”. Luigi Pruneti, scrittore, giornalista pubblicista e ricercatore, parla dell’affascinante ed enigmatica figura del Conte di Cagliostro.

Oggi ricorre l’anniversario della morte del Conte di Cagliostro, deceduto il 26 agosto 1795. Fu veramente un personaggio così straordinario da divenire “leggenda”?


Senza dubbio, fu sicuramente un personaggio eccezionale per le vicende della sua vita, per la fama che lo circondò, per il mistero che aleggiò intorno a lui, per la sua tragica fine. Non a caso Cagliostro è stato l’oggetto di infiniti saggi, di numerosi romanzi, di tanti racconti e film.

Chi era in realtà il Conte di Cagliostro: uno studioso, un alchimista, un mago un taumaturgo, il palermitano Giuseppe Balsamo, uno scaltro truffatore?


L’uno e l’altro. Alcuni dicono che fosse un portoghese di nobili origini, addirittura il figlio del re Giovanni V, in realtà nacque a Palermo, il 2 giugno del 1743, da Felicia Bracconieri e da Pietro Balsamo, commerciante di stoffe. Fu uno dei numerosi avventurieri del XVIII secolo, come Giacomo Casanova o Barry Lyndon, il protagonista del celebre film di Kubrick, tratto dall’opera William Makepeace Thackeray. Giuseppe Balsamo fu, pertanto, un figlio del suo tempo, un’età straordinaria, durante la quale nacquero e si svilupparono tendenze e personaggi opposti: De Sade e Beccaria, razionalismo e irrazionalismo, privilegio nobiliare e istanze rivoluzionarie. Nelle logge di quel secolo si mischiarono scienziati e sedicenti maghi, empiristi e occultisti, chimici e alchimisti. Cagliostro recitò la sua commedia umana su quel palcoscenico. Generoso e affascinante, curioso e approssimativo, lestofante e iniziato, millantatore e innovativo. Sicuramente imbrogliò qualche potente, distribuì improbabili panacee e scroccò soldi a nobili desiderosi di pietre filosofali o d’improbabili ringiovanimenti. Fu, comunque, un anticonformista, un libertario dai tratti picareschi e un martire, condannato a una terribile agonia, nel “pozzo” di san Leo.

Quanto devono le discipline latomistiche e la massoneria alle esperienze e alle pratiche del Conte?


Le discipline latomistiche furono debitrici di Cagliostro almeno per due aspetti. Il primo è costituito dalla funzione del “Gran Cofto” di corriere di esperienze massoniche diverse, il secondo è rappresentato dal primato che egli ebbe di aver diffuso l’idea di una massoneria egiziana. Badi bene, fu il diffusore, non il creatore, perché l’idea di una siffatta corrente massonica nacque con il “Sethos” dell’abate Terrasson e l’Ordine degli Architetti Africani.

Il processo a Cagliostro rientra nella storia della Santa Inquisizione? Ci può narrare come si svolse e l’epilogo della vicenda?


Nella primavera del 1789 Cagliostro si recò a Roma, nella bocca del leone, convinto che la protezione del vescovo-conte di Trento fosse sufficiente a salvaguardarlo. Nell’Urbe fu imprudente e in più venne tradito da parenti acquisiti e dalla stessa consorte, la celebre Serafina. Pertanto, il 27 dicembre di quell’anno fu arrestato e imprigionato nelle segrete di Castel Sant’Angelo. A quel punto la Santa Inquisizione decise di usare il processo di Cagliostro come atto mediatico, per colpire la massoneria e dimostrare come i “fatti di Francia” fossero un complotto dovuto alla setta della squadra e del compasso. I suoi libri e oggetti rituali furono arsi, con somma teatralità, in Pazza Sopra Minerva; egli fu condannato a morte, pena che fu poi derubricata in carcere perpetuo nella Fortezza di San Leo, dove era difficile sopravvivere più di qualche anno. Infine, la Reverendissima Camera Apostolica Romana pubblicò il “Compendio della vita e delle gesta di Giuseppe Balsamo, denominato Conte di Cagliostro …”, in cinque capitoli, di cui uno dedicato alla sua vita e quattro ai “misfatti” della massoneria.

San Leo si erge su uno strapiombo nei pressi di San Marino. Nella suggestiva fortezza fu imprigionato e terminò i proprio giorni, in un’angusta cella, uno dei più enigmatici protagonisti dell’età dei Lumi. La sua storia continua ad attirare la curiosità e l’attenzione di molti. A San Leo si tengono sempre eventi che ricordano il Conte di Cagliostro?


Non glielo so dire. Un tempo si teneva, in corrispondenza del 26 agosto, una manifestazione, patrocinata dal comune di San Leo, denominata “Alchimia Alchimie”. Era una bella iniziativa che prevedeva una sorta di fiera, conferenze, spettacoli; io facevo parte del Comitato tecnico-scientifico. Poi le cose cambiarono, anche perché quella formula non era apprezzata da tutti. Da allora me ne sono disinteressato, non so se si tenga ancora qualcosa. Forse sì, ma non ne conosco gli eventuali termini.

All’interno del complesso fortificato di San Leo, vi è un piccolo museo dedicato a Cagliostro, con qualche targa e cimelio. La cella del Conte è visitabile; ho visto il suo piccolo letto, omaggiato da alloro e mazzi di fiori. Quali sono stati i suoi meriti e quali, a oggi, i frutti della sua avventurosa esistenza?


In parte le ho già risposto. Il principale merito è stato quello di diventare un mito e un’icona di un aspetto particolare della sua epoca. La leggenda di Cagliostro ha, a sua volta, ispirato storie più o meno fantastiche e opere letterarie come un romanzo di Alexandre Dumas. Non è poco.

Tra le varie leggende, una, in particolare, narra che alla sua presunta morte, il corpo non venne mai ritrovato, quasi a testimoniare le capacità magiche di quest’uomo. Quali sono, in realtà, le risultanze storiche documentate sul punto?


Cagliostro morì il 26 agosto del 1795 verso le 22,30. I suoi carcerieri lo seppellirono come eretico impenitente, in terra sconsacrata, in un punto imprecisato a ovest della rupe di San Leo. Il suo corpo non è mai stato rinvenuto. Ciò ha fatto sorgere altre leggende e storie fantastiche. Collin De Plancy, nel suo “Dizionario infernale” afferma che si sarebbe strangolato da solo. Altri spergiurano che non sarebbe morto lì, altri ancora ipotizzano che a San Leo se ne andò all’altro mondo un suo sosia... insomma, anche con la morte Cagliostro alimentò il mito.

L’attrazione per il mondo egizio, compresi gli insegnamenti occultisti e teurgici, hanno ispirato studi e rituali massonici. So che Lei ha analizzato l’argomento e scritto su questo tema un testo in collaborazione con altri autori. Cosa può raccontare a riguardo?


Mi sono occupato di Cagliostro già tanto tempo fa, nel 1996, quando scritti un saggio: “Cagliostro la Massoneria e il Rito egiziano” che fu pubblicato nella collettanea “Processo a Cagliostro a duecento anni dalla sua scomparsa”. Sono ritornato sull’argomento quasi venticinque anni dopo, pubblicando insieme ad Antonio Donato, traduttore dei rituali del Palermitano, il libro “Rituale Egizio di Cagliostro, con saggi storici e biografici” (l’Arco e la Corte, Bari 2020). L’argomento mi piacque, tanto che, questa primavera, sempre insieme ad Antonio Donato, ho dato alle stampe i “Rituali della Massoneria Egizia di Cagliostro” (L’Arco e la Corte, Bari 2021). Quest’ultimo volume è un’opera completa, che riporta i testi latomistici del Nostro. Pertanto, anch’io sono rimasto affascinato e avvinto, dal “Gran Cofto”, una sorta di Ulisse del Settecento che odora un po’ di zolfo...

venerdì 21 gennaio 2022

ISIDE LA MAGA: IL LIBRO DI MARIA CONCETTA NICOLAI

tratto da L'Opinione del 02 settembre 2021

di Pierpaola Meledandri


Nell’immaginario collettivo la figura di Iside apre le porte di mondi esotici, fantastici, misteriosi, occulti. Cercare di scoprire e di ripercorrere le tracce di quanto, nel corso dei secoli, ha tratto ispirazione dall’antico nume egizio, è un sentiero complesso e affascinante che si articola nel labirinto della mitologia, della storia dell’antropologia.

Maria Concetta Nicolai, l’autrice del presente volume, è una studiosa di livello internazionale; collaboratrice di importanti periodici, scrittrice affermata e ricercatrice attenta e puntuale. Ha dato alle stampe un numero impressionante di opere, alcune delle quali rivestono un’importanza fondamentale. In “Iside la Maga” conduce una ricerca a tutto campo, esaminando le fonti più disparate che vanno dal “Libro dei Morti” e i “Testi delle Piramidi” fino ai volumi pubblicati da Bricault, Cumont, Del Corno, Mila, Neuman e, in questo lungo itinerario, si sofferma spesso su altri autori come Erodoto, Platone, Tito Livio, Ovidio, Clemente Alessandrino, Goethe, Verga, Yourcenar.

“Iside Mater”, “Iside Dea”, “Iside Maga” sono solo alcuni dei tanti volti attribuiti alla divinità nilotica che, di volta in volta, ha catturato l’attenzione di autori come Plutarco e Apuleio, tanto che quest’ultimo scrive “L’Asino d’oro”, una sorta di manifesto, sotto forma di metafora della teologia isiaca. Il protagonista del romanzo, perché di un romanzo si tratta, è Lucius, un giovane e un po’ scapestrato studente, in cerca di avventure e animato da una pericolosa “curiositas”. La sua specialità è quella di mettersi nei guai e alla fine, operando da apprendista stregone, ottiene il massimo: è trasformato in ciuco. Solo alla fine riuscirà a riacquistare la sua forma umana, vivendo in forma asinina, un percorso iniziatico, complesso e doloroso che ricorda la storia di Osiride e il mito di Ra, che ogni notte deve affrontare Apopis, il demone serpente che vuole inghiottirlo.

Apuleio era un seguace dei Misteri di Iside, uno dei tanti potremo dire, perché il culto della dea si diffuse in tutto l’Impero Romano, specie in Italia dove gli Isei, i luoghi di devozione a lei dedicati sorsero un po’ ovunque, a Roma, a Ostia, a Tivoli, a Pompei, nei Campi Flegrei, a Verona, a Fiesole, a Firenze, Luni e Benevento.

Maria Concetta Nicolai procede comunque oltre il mondo classico, individuando tracce di Iside nella Regina della Notte, figura centrale del “Flauto Magico”, il capolavoro di Mozart o cogliendole nelle ricorrenze religiose cristiane. Ed ecco che Iside emerge nella festa catanese di Sant’Agata, nel mito delle Janare di Benevento, nel culto mariano della Theotokos che ha ispirato preghiere, litanie e altre forme di devozione.

Vi è infine un’altra Iside, quella cooptata da tanto esoterismo e dalla massoneria. Nel XVIII secolo, infatti, i liberi muratori, subendo le fascinazioni del Cavaliere di Ramsay si erano profusi nell’inventare e sperimentare nuovi riti: templari, rosacroce, cabalisti, alchimisti entrarono nel loro immaginario mitologico e ben presto, non resistendo al fascino della  terra dei faraoni, inserirono nel loro capiente calderone, anche un fantasioso Egitto, tanto che inventarono il complicato “Ordine di Architetti africani” suddivisi in sette gradi culminanti con la figura sublime di “Profeta”.

Anche gli Arcani Maggiori dei Tarocchi vennero considerati retaggio del misterioso e inesistente “Libro di Thoth”, legato alla cosmologia del pantheon egizio. Così Oswald Wirth, autore di un notissimo testo sui Tarocchi e sulla relativa simbologia, associò la figura di Iside al secondo Arcano Maggiore, la Papessa, Sacerdotessa del mistero e della notte.

Leggendo “Iside la Maga”, opera interessantissima e innovativa per la propria interdisciplinarità, si può affermare che Iside non è mai scomparsa, giacché fra tutte le divinità antiche è quella che meglio rappresenta sotto ogni aspetto l’eterno femminino, pertanto si può affermare con il prefatore dell’opera, Luigi Pruneti, che “Iside vive sempre laddove vi siano donne orgogliose di esserlo”.  


(*) Maria Concetta Nicolai, “Iside la Maga”, prefazione di Luigi Pruneti, Ianieri Edizioni, 2020, pagine 214, 18 euro



lunedì 27 dicembre 2021

JULIUS EVOLA COLPISCE ANCORA

tratto da "L'Opinione" del 26/02/2021

di Dalmazio Frau

Potremmo dire “chi non muore si rivede” con questa nuova antologia di racconti su Julius Evola appena edita da i tipi de L’Idrovolante, curata come indubitabilmente avviene da sempre, da Gianfranco de Turris con il cinematografico titolo de Il ritorno del barone immaginario. Quella precedente era uscita per Mursia Editore nel 2018 ed era appunto Il barone immaginario.

Questa nuova raccolta attesta innanzitutto un fatto che piaccia o meno, deve essere accettato senza se e senza ma, ovvero che la figura controversa, amata, odiata, criticata od osannata nella propria multiforme totalità, di Giulio Cesare Andrea Evola non lascia – e non potrebbe fare diversamente – indifferenti gli animi. Ecco allora l’Evola pittore dadaista, mago, orientalista, soldato e innumerevoli altre sue “manifestazioni” in una vita che per quanto qua “inventata”, nella realtà non ha nulla da invidiare all’immaginazione. Evola fu – è – tutto questo e ancora di più quindi ben si presta a diventare un “eroe da romanzo”, come avrebbe detto Cyrano de Bergerac.

I racconti che compongono la raccolta sono variegati e variati, certo non tutti – ma quasi – hanno incontrato il mio favore, per le ragioni critiche che dopo chiarirò. Detto questo, del tutto ininfluente comunque, restano invece degni di merito, nota e plauso alcune novelle sul Barone, a cominciare dall’ottima prova che ne dà Alberto Lombardo, certo fortificato da una sua lunga attenzione di studioso all’intera opera evoliana. Va detto che la caratteristica, forse a volte rasentante l’eccessiva didascalicità, dell’aderenza agli scritti e ai pensieri del “filosofo in guerra”, dell’ermetista e del ghibellino che fu Julius, è comune a tutti i narratori cimentatisi in quest’impresa e potrebbe fungere da ulteriore sprone a coloro che magari si avvicinano per la prima volta al corpus letterario e sapienziale dello scrittore, ma al tempo stesso rischia di diventare troppo referenziale ad un esclusivo circuito di estimatori, come avviene nel racconto erotizzante di Guido Andrea Pautasso. Il dèmone della vanità del voler fare a gara, con citazioni e rimandi, a chi è più colto, si nasconde sempre – in maniera non eccelsa – tra molte delle righe di alcuni racconti, ma è un peccato “veniale” suvvia, non facciamone questioni di stato. Nessuno nasce imparato, men che meno chi si sopravvaluta anche come scrittore.

Tema analogo, quello della magia erotica, trattato anche da Vitaldo Conte – del resto l’argomento dell’Eros e della Magia Rossa sono da decenni la cifra della sua produzione – nel suo racconto che tratta di un Evola anziano, immerso nei propri ricordi ma non per questo meno attivo nell’arte della conoscenza d’amore. Julius Evola – e non lo dico in maniera negativa anzi – diventa così un “GI Joe”, un modello posizionabile e multiruolo, iper-adattabile alle sfumature immaginarie di ciascun scrittore, uscendo in tal maniera dalla propria autonomia e identità per diventare un archetipo fantastico, avventuroso, erotico come soltanto una persona realmente vissuta avrebbe potuto fare.

L’altro racconto che voglio segnalare favorevolmente è quello di Alex Voglino, che mostra e dimostra tutta la sua antica e migliore capacità di narratore fantastico avventuroso, ed è forse al proprio meglio quando lascia le confortevoli brughiere arturiane o tolkieniane a lui tanto care. Così come piacevolmente dotta e quasi affettuosamente reverenziale, così come si farebbe verso un Maestro, nei confronti del Barone, è la storia ermetico-egizia raccontata da Luca Valentini.

Oltre questi comunque sono validi anche gli altri racconti, tra reminiscenze lovecraftiane e spruzzate d’umorismo che male non fa, in un variopinto affresco come se fosse più un mosaico bizantino frammentatosi nel corso dei secoli e rimesso in sesto, in un restauro per tutti, della vita sognata di una delle figure ancora adesso più originali e interessanti non soltanto del mondo della Tradizione, ma di quello che è stato l’intero milieu novecentesco. E se con il nome di Julius Evola – ancorché ricordato limitatamente solo come filosofo – sta ancora in solitario e aristocratico ritiro a campeggiare su una targa commemorativa a Sutri, proprio a pochi passi dal mitreo locale, quasi un cippo dimenticato ed evocante un “mago e milite ignoto”, questa seconda prova su di lui aggiunge un ulteriore tassello al suo ricordo che non muore. Tuttavia, ci chiediamo maliziosamente, se ci sarà – come si usa nelle migliori saghe – un terzo capitolo, e che magari potrebbe essere intitolato “Il barone immaginario colpisce ancora”. Hai visto mai…

(*) Autori vari, “Il ritorno del barone immaginario”, a cura di Gianfranco de Turris, Idrovolante Edizioni, pagine 290



domenica 5 dicembre 2021

LE SEPHIROTH E LA CABALA/2

tratto da "L'Opinione" del 27 luglio 2021

di Pierpaola Meledandri

Il nostro breve viaggio nel mondo della Cabala prosegue, con qualche altro concetto. Il primo capitolo della Genesi viene chiamato col nome di “Berechit”, che in italiano si traduce in “Inizio, principio”. Ma in ebraico, la denominazione Berechit, ha le sue radici in “be”, che significa “per” l’azione di, ed in “rechit”, che può tradursi per “verbo o vibrazione”. Pertanto, il primo momento della creazione sembra essere indicato come una prima vibrazione. Quando appare per la prima volta la formula AT, è nel primo versetto del primo capitolo della Genesi, che in italiano si potrebbe dire: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra”, ma, che nell’ebraico originale, pur usando i nostri caratteri, suonerebbe così: “Berechit bara Elohim AT Hashmaim vet herez”. Per i traduttori della Bibbia non è passato inosservato il numero di volte che appare detta particella e il suo valore simbolico, ma non è stata data la giusta importanza alla formula AT.

Coloro che studiano lo Zohar, scopriranno innumerevoli riferimenti a detta particella, dalla quale potranno estrapolare ricchi significati. Le lettere ebraiche formano una sorta di sfera dalla quale non sfugge nulla. Non bisogna immaginare una sfera nella quale sono state inserite delle lettere, ma dette lettere la formano e costituiscono. Una lettera combinata con un’altra forma una voce nuova, in modo che aleph può associarsi al resto delle ventuno lettere. Bet, la lettera seguente, può anche accordarsi con tutte le altre, e così via. Quindi potranno combinarsi due col resto, tre col resto. Ogni combinazione produce una nuova idea. Pertanto, l’interno di quella sfera è interconnesso con queste combinazioni Si dice che ci siano circa 705.432 combinazioni creative, tutte rinchiuse tra aleph e tau, questa cifra rappresenta solamente il risultato di una delle infinite possibilità.

Le Sephiroth per i cabalisti rappresentano dieci forze operative; l’energia di ciascuna si rivolge verso l’alto attraverso la pietas cabalistica positiva e verso il basso per la forza negativa del peccato. Questa è la linea di fondo della dottrina segreta. Per denominare e descrivere le stesse vengono utilizzati i termini allegorici, simbolici, della tradizione rabbinica. L’intera Bibbia ebraica non è più letta come narrazione storica, bensì viene interpretata – decifrata, se così si può dire – come velata esposizione del processo dinamico delle Sephiroth. Nel mondo, che è immagine e somiglianza di a Dio, le Sephiroth costituiscono una costellazione che ripercorre la forma umana. Al di sotto vi è il mondo degli esseri singoli, il mondo degli angeli e degli spiriti, poi il piano degli esseri materiali. Il processo della emanazione conduce, dunque, dall’unità al molteplice.

Il senso e lo scopo della meditazione e della prassi cabalistica è appunto la risalita fino all’unità ripercorrendo i vari gradi dell’emanazione. Il pensiero mistico arricchisce di senso la via della Cabala come visione della luce che si diffonde nel cosmo che anzi costituisce il cosmo, piuttosto, la stessa può dare l’intuizione meravigliosa dell’armonia del cosmo. In questa lettura, ci si rende conto dell’esistenza degli angeli, dell’esistenza delle gerarchie divine, se vogliamo, delle Sephiroth, si ritrova la controparte celeste dell’uomo. La Cabala fondamentalmente è uno strumento per giungere al perfezionamento, un strumento per sentire e vivere nel Creato e con il Creatore, durante vita (Fine).

domenica 28 novembre 2021

LA CABALA, UNA MATERIA IMMENSA E AFFASCINANTE/1

tratto da "L'Opinione" del 26 luglio 2021

di Pierpaola Meledandri

La materia trattata è immensa, complessa e quanto mai affascinante. La Cabala è un insegnamento rivelato che ci aiuta a comprendere verità universali, partendo dalla tradizione esoterica della mistica ebraica. Anche la Bibbia dedica una buona parte al racconto della Creazione e come la Cabala entra in relazione con il Creatore, con l’uomo e la natura, nel linguaggio simbolico, linguaggio molto distante dalla quello della cultura occidentale.

Si stabilisce anche la relazione tra Dio, l’uomo e l’universo, che consta di una serie di simboli che si sviluppano in trentadue “sentieri”, i quali partono dalle dieci emanazioni o Sfere, che si trovano anche nella rappresentazione dell’Albero della Vita. Ognuno di questi sentieri viene nominato con una delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. Quando parliamo del Creatore, dell’uomo e della natura stiamo utilizzando tre nomi che portano alla nostra mente tre entità distinte. Attraverso la gematrìa, uno dei mezzi della Cabala, sommando e riducendo le lettere-numeri ebraiche, vediamo che il numero risultante da Dio, uomo e natura porta allo stesso valore: quindi le tre entità, apparentemente distinte, sono la stessa cosa.

A differenza del nostro alfabeto, quello ebraico si legge da destra a sinistra e consta di 22 lettere. Come abbiamo accennato, le 10 Sfere, dette sephiroth, producono i 32 sentieri, la forma articolata richiama una struttura triangolare. In una punta del triangolo collochiamo aspetti riferiti alla Bibbia, che sono necessari per comprendere aneddoti da un punto di vista storico ed occulto.

La tradizione cabalistica è stata sviluppata dal popolo ebraico; arrivando ad Occidente è giunta avvolta da molti misteri, benché la maggior parte di essi abbiano prodotto una grande divisione fra quella che è una lingua simbolica e le lingue occidentali. La differente forma mentis aggiunge il resto.

La costruzione della Cabala, come metodo mistico per raggiungere l’idea di Unità per una nuova reintegrazione nell’Assoluto, è ricca di enigmi, affinché si sviluppi l’intelletto attraverso lo studio e la speculazione. Nella Cabala l’alfabeto ebraico, con le sue ventidue lettere-numeri consonanti, è quello che serve da base simbolica per esprimere un buon numero di idee: infatti, un simbolo racchiude una forma di eloquenza superiore al linguaggio. Ogni lettera ebraica è un simbolo, la combinazione di lettere formano una parola, la somma di queste, frasi. Ogni lettera e parola ha un senso fonetico, un valore numerico, un mistero nascosto dietro la sua stessa forma. Pertanto, l’alfabeto ebraico, l’albero della vita, il suo design triadico, i pilastri ed altre disposizioni, sono rappresentazioni sintetiche di verità universali. La fonte o schema triangolare è una forma per allargare la creazione delle cose ignorate fino alle cose più vicine a noi.

Un triangolo è uguale a due aspetti frontali, un terzo che li equilibra. Questa triade è molto evidente nella sua mistica la cui base poggia oltre che nella Bibbia, nel Sefer Yetzirah (Libro della Formazione) e nel Sepher ha-Zohar (Libro dello Splendore). Esistono varie disposizioni simboliche della trinità, una di esse si presenta come i piatti di una bilancia e l’ago che media tra essi. Su ogni piatto si pone una lettera madre ebraica: la shin alla destra, la mem alla sinistra e l’alef mediando tra esse. L’ago della bilancia si riferisce alla lingua, perché questa è quella che registra e formula la parola, asse della creazione tanto nella Genesi, come nel Sepher Yetzirah.

La rappresentazione più frequente dell’idea trinitaria è il disegno dell’albero della vita o sephirotico rappresentato da tre colonne, una a sinistra, una a destra, una terza che funge da forza equilibratrice. Si aggiungono di seguito le tre lettere madri sull’Albero rappresentato in colonne. Tra l’aleph e la tau, prima e ultima lettera in tutto il capitolo della Genesi ebraica, c’è una particella che non si può tradurre, perdendo così il suo significato, il quale è stato compreso come uno dei primi enigmi della Creazione.

Ci stiamo riferendo alla formula, chiave o particella accusativa, che normalmente si scrive At o Et e che fa riferimento alla prima ed ultima lettera dell’alfabeto ebraico: aleph-tau. Ogni atto creativo, generatore, compreso di senso contrario, è sostenuto da detta particella. Niente esiste dentro il racconto della creazione nella quale non appaia questa formula. Nei primi cinque capitoli della Genesi appare cinquantasei volte e dal sesto al decimo quarantadue, in totali novantotto volte in soli dieci capitoli.

La Genesi è scritta in modo che possa leggersi su tre diversi livelli: letterale, simbolico e sacro-occulto. Per arrivare al senso sacro, bisognerebbe conoscerne il valore simbolico. Le lettere ebraiche e le parole che esse costruiscono, rappresentano sempre una figura visibile, un senso letterale ed una forma nascosta nel suo valore numerico. Per comprendere meglio questo concetto, dobbiamo capire che mentre la nostra cultura usa segni per il nostro alfabeto ed altri segni per la numerazione, in modo che possiamo dire “a-b-c” o “1-2-3”, nella lingua ebraica non esistono due serie differenti per lettere e numeri, ma lo stesso segno rappresenta sia la lettera che il numero.

Quando sostantivi o frasi distinte sono ridotte a numero e sommati attraverso un metodo conosciuto in alcuni circoli come “riduzione teosofica”, benché letteralmente si leggano in modo diverso, il loro senso nascosto è lo stesso. Questo metodo di somma e riduzione si conosce nella Cabala con la denominazione di gematrìa, parola che proviene da geometria e che indica il valore numerico delle lettere, delle parole dei testi ebraici. Nella creazione sarebbero state usate tutte le lettere, ad eccezione di ci quel che costituisce simbolicamente “il peccato” (Continua).

martedì 31 agosto 2021

L’ESOTERICO GIOCO DELL’OCA

tratto da L'Opinione del 23 giugno 2021

di Pierpaola Meledandri


I giochi tradizionali rappresentano un mezzo d’insegnamento e ludicamente instillano nei partecipanti importanti concetti legati all’esistenza. L’esperienza del gioco apre molte riflessioni sul significato della sua funzione e sul perché individui adulti sentano il bisogno, oggi forse più che in passato, di prolungare il tempo da dedicare alla fase ludica.

Il gioco può essere considerato un residuo evolutivo che garantisce l’affinamento delle abilità necessarie a sopravvivere nel proprio habitat, un modo per esprimere capacità personali, una trasposizione simbolica dell’esperienza e dei contenuti emotivi, un modo originale per apprendere come dominare la realtà. È interessante notare come alcuni giochi, densi di asperità da affrontare, somigliano a un rituale d’iniziazione, alla perenne lotta fra il bene e il male, tra la luce e le tenebre: percorso durante il quale solo il superamento di prove fa giungere alla meta.


Immagine tratta da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Gioco_dell%27oca#/media/File:El_juego_de_la_Oca_-_Juan_Francisco_Piferrer_-_Barcelona.jpg

Di sicuro interesse simbolico è il Gioco dell’oca, costituito da un tabellone con da 63 caselle, che si snodano a spirale, con un disegno circolare o ellittico; la casella numero 64 rappresenta uno spazio più grande: l’edenico Giardino dell’oca. La sua immagine richiama la figura del labirinto. Sono le tredici caselle dove è raffigurata un’oca a essere considerate fauste: si avanza di una casella e si ha diritto ad un altro tiro di dadi. Altre caselle sono invece considerate infauste, così la numero 6, il ponte, dove si deve pagare una posta. Poi si può raddoppiare arrivando alla casella numero 12 mentre alla numero 19, la locanda, si paga l’ospitalità, rimanendo fermi per tre giri e poi la numero 31, il pozzo: si staziona fino a quando un altro giocatore vi cade, liberando il precedente prigioniero e venendo a sua volta trattenuto.

Chi ha la sfortuna di giungere alla casella numero 52, definita la prigione, subisce la stessa sorte della casella numero 31. La numero 42, il labirinto, fa indietreggiare il giocatore sino alla casella 39, dove resta fermo un giro, mentre la numero 58, detta la morte, fa pagare un pegno amaro poiché si deve iniziare il gioco da capo. Non solo: chi supera indenne la morte gioca con un solo dado, perché deve entrare nel giardino dell’oca con un solo tiro esatto e i punti eccedenti si percorrono all’indietro.

Il Gioco dell’oca, presente sin dall’antichità riapparve nel Medioevo col nome di Gioco nobile. Si crede che a ripristinarlo siano stati i costruttori delle Cattedrali, che vollero così lasciare una mappa simbolica del cammino spirituale da seguire per giungere, dopo la Morte, al seno della Magna Mater, la Grande Oca, nel Regno dei Beati. Ebbe poi una grande diffusione nel Cinquecento.

È celebre uno splendido tavoliere che, nel 1580, Francesco de’ Medici regalò a Filippo II di Spagna. La valenza di percorso iniziatico è enfatizzata dalla figura che in molti tavolieri si trova prima della casella iniziale: uno gnomo, un mago, un pellegrino, oppure un’oca.

Oche e cigni per i Gaelici rappresentavano i portatori di una saggezza superiore; nell’antico Egitto l’oca raffigura l’anima del Faraone e il Sole nascente. I Cinesi la consideravano messaggera celeste, mentre gli sciamani dell’Altai pensavano di raggiungere l’aldilà a cavalcioni di un’oca selvaggia. A Roma le oche capitoline avevano il dono della profezia e custodivano il tempio della Dea Giunone. Altre interessanti fonti sul valore simbolico dell’oca sono apportati dai Cavalieri del Cigno di Lohengrin o dalla fata Melusina dai piedi a forma di zampa d’oca che nessun mortale poteva vedere.

I Maestri costruttori adoperavano l’oca come proprio emblema, in quanto rappresentava l’immagine del trionfo dello spirito sulla materia, utilizzando la zampa d’oca come appropriato segno distintivo. Parimenti, la zampa d’oca, una forcella a tre punte, intesa come una rappresentazione della mano di Dio, è spesso raffigurata dai costruttori nelle pietre delle Chiese medievali, sulle lapidi tombali, nei cimiteri, lungo il cammino per Santiago.

Nel Nord-Ovest della Spagna, sui Pirenei, nel paese di Puente la Reina, dove si uniscono alcune importanti strade di Francia che portano a Santiago, vi è una Chiesa romanica: lì è conservato un Crocifisso, appartenuto ai Templari. Il Salvatore è immolato su una Croce che raffigura schematicamente l’immagine della zampa del volatile. Inoltre, molti simboli del gioco dell’oca richiamano aspetti del pellegrinaggio: la locanda, il labirinto, il ponte, il pozzo, la prigione e anche i dadi che stanno ad indicare la pietra angolare, la pietra cubica, sintesi delle misure armoniche dell’Universo, del numero aureo dell’angolo sacro ai Maestri Scalpellini.

Infine, il gioco dell’oca si può esaminare anche cabalisticamente a partire dal numero 64 che, per riduzione, dà luogo a uno, all’alef, al Principio, allo spirito del Signore. Oppure, ad esempio, al numero 5, la casella dove si trova la prima oca che rappresenta la V Sefirot, indicativa di severità e rigore.

Tanti significati, storie e simboli non fanno che ricordare, tramite un apparente svago per bambini, il viaggio della vita, con le sue gioie e i suoi dolori.

 

sabato 7 novembre 2020

IL PENTAGONO, BILL GATES, L’OCCIDENTE E LE SUE METASTASI

Tratto da "L'Opinione" del 31 agosto 2020

di Ruggiero Capone

Fin dagli ultimi decenni del passato secolo, due primarie aziende informatiche hanno lavorato e fatto consulenze per le più importanti agenzie americane, nonché per lo stesso Pentagono. Al punto che la Microsoft di Bill Gates e la Apple di Steve Jobs (ormai passato a miglior vita) hanno rappresentato un importante, se non fondamentale, apporto alla ricerca e sicurezza informatica statunitense. Anche se va detto che, i sistemi informatici di Jobs e Gates non hanno mai dialogato tra loro, e solo negli ultimi quindici anni s’è instaurata una sorta di compatibilità. Ma le agenzie Usa prendevano ciò che a loro serviva, non preoccupandosi di eventuali sviluppi. Nemmeno ipotizzando che il sistema Bill Gates potesse mai assurgere ad una sorta di Spectre (metafora tratta dalla narrazione di James Bond), una sorta di superagenzia mondiale in grado di controllare altri stati e determinare la stessa politica Usa. Il Pentagono ha al suo interno una importante agenzia, il cui acronimo è Darpa: Defense Advanced Research Projects Agency. Attraverso quest’ultima il Pentagono ha sviluppato la realizzazione d’insetti geneticamente modificati. Ma a cosa servirebbero? Innanzitutto a testare armi chimico-batteriologiche su popolazioni cavia, che da sempre vengono individuate nelle aree più povere del pianeta, ovvero Africa centrale e zone remote (ma non ci sono prove sufficienti) dell’America latina. Ma il Pentagono ha da tempo un importante concorrente nelle aziende di Bill Gates che operano informaticamente per le big pharma, ovvero le multinazionali finanziario-farmaceutiche che avrebbero usato gli insetti robot (ma anche bionici) della Microsoft per testare nuovi patogeni umani ed animali nonché le tecniche d’impollinazione, anticrittogamiche ed antiparassitarie in zone dell’Africa centrale. Per farla breve, il Pentagono non controlla più il potere di Bill Gates e delle big pharma: anzi il connubio tra multinazionali chimico-informatico-finanziario determina le politiche negli stati sia democratici che autocratici. E se per il Pentagono gli insetti modificati e controllati potrebbero servire a distruggere le colture agricole di potenziali nemici, per le big pharma gli insetti sintetici e comandati possono agevolmente rivelarsi vettori massivi di nuove patologie sperimentali, quindi di eventuali cure. Circa una ventina d’anni fa, in concomitanza con l’epidemia di ebola in vaste aree dell’Africa centrale, biologi e ricercatori iniziavano a contestare la bioeticità di queste sperimentazioni, lanciando l’allarme contro l’impiego della “tecnologia Crispr per l’editing genetico”: in pratica veniva smascherato l’utilizzo d’insetti per scopi militari e chimico-farmaceutici. Molti scienziati si sono interrogati sul fatto che l’uomo si fosse sostituito a Dio, usando una nuova piaga biblica, una sorta d’esercito di cavallette sintetiche o geneticamente modificate. Ma l’agenzia Darpa ha secretato ogni documento in materia, negando evidenze ed appellandosi al fatto che si tratti di massimi segreti per la sicurezza occidentale. Ma dove inizia la sicurezza occidentale e dove finisce quella delle multinazionali chimico-farmaceutiche? Il dottor Blake Bextine è un dirigente della Darpa e si occupa del programma “InsectAllies”, il sito “ComeDonChisciotte.org” ha riportato questa dichiarazione di Blake Bextine che definisce lo “sfruttamento di un sistema naturale ed efficiente di attuazione, in due fasi, per trasferire i geni modificati alle piante: gli insetti vettore e i virus delle piante che essi trasmettono contromisure modulari, facilmente dispiegabili e generalizzabili contro potenziali minacce, naturali e progettate, all’approvvigionamento alimentare, con gli obiettivi di preservare il sistema colturale degli Stati Uniti”. Ma il Pentagono non è l’unico manipolatore chimico-genetico-batteriologico. E non c’è dato sapere se Darpa e big pharma non si siano spartiti il territorio di sperimentazione, soprattutto non sappiamo come si posizioni l’Oms (organizzazione mondiale della sanità) il questi scontri o incontri. Darpa s’affida a cicadelle, mosche e afidi per inoculare nelle colture i vari virus selezionati: si tratta di agenti di alterazione genetica, virus introdotti in una data popolazione d’insetti per mutare la composizione genetica delle colture. Ma colture tempestate da virus modificati vanno indubbiamente a mutare la genetica e il sistema immunitario degli umani. Qui ovviamente il Pentagono invade il campo delle big pharma e del loro alleato finanziario e cibernetico Bill Gates. Molti scienziati si domandano se Pentagono e big pharma possano mai allearsi in una futuribile guerra batteriologica. Di fatto il programma “InsectAllies” di Darpa mirerebbe a spargere virus infettivi modificati, progettati per modificare i cromosomi delle colture nei campi. Metodo già noto come “ereditarietà orizzontale”, mentre “l’eredità verticale” è l’alterazione tipica degli Ogm (organismi geneticamente modificati). Con l’Ogm (esempio il mais) si generano nuovi cromosomi in laboratorio, e per creare altre varietà. Ma con lo spargimento d’insetti nell’aria aperta le alterazioni genetiche delle colture avverrebbero in altro modo. Il dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha respinto categoricamente qualsiasi test che condizioni la sicurezza delle piante, impedendo l’uso d’insetti geneticamente modificati sul suolo statunitense. E qualcuno rammenta come 27 milioni dollari dei contribuenti statunitensi siano stati spesi per “InsectAllies” si Darpa. Lo stesso padre di questa tecnologia, il biologo di Harvard Kevin Esvelt, ha messo in guardia contro l’uso di questi insetti affermando “solo pochi organismi modificati potrebbero alterare irrevocabilmente un ecosistema un gene modificato risultante può diffondersi al novantanove percento di una popolazione in sole dieci generazioni e persistere per più di duecento generazioni”. Ma oggi Bill Gates è uno dei maggiori finanziatori dell’editing genetico. In Cina, gli scienziati hanno utilizzato embrioni umani (in Cina i donatori di embrioni sono ammessi) dai quali non sarebbe derivata la nascita di uomini, ma per il solo di modificare un gene specifico, di creare un organo umano senza che appartenga ad un essere umano. “Le cellule testate non sono riuscite a contenere il materiale genetico destinato – ha detto a Nature il ricercatore cinese Jungiu Huang – ecco perché ci siamo fermati”. Ma la corsa alla creazione di agenti biotecnologici è solo a metà strada, gli inizi sono stati coperti dal segreto e dai vari motivi di sicurezza. Così laboratori di agenzie di stato e di multinazionali collaborano o si combattono, e spesso non è dato sapere il confine del territorio tra sicurezza occidentale e della security d’un colosso finanziario-farmaceutico. Consulenti e dipendenti di agenzie di stato li si ritrova spesso passare alla sicurezza di colossi multinazionali, farmaceutici, cibernetici e bancari. A dircelo è William Engdahl, già “consulente di rischio strategico” e docente, soprattutto autore di bestseller su petrolio e geopolitica: alla rivista New Eastern Outlook ha rivelato tutti i segreti di questa lobby che ha piedi in stati come in multinazionali. L’ultimo obiettivo delle ricerche è certamente il controllo della vitalità umana, il suo contenimento attraverso la trasmissione mirata di malaria, dengue, agenti patogeni vari. Il tutto perché al mondo possano rimanere risorse e ottima qualità della vita per chi fa parte dell’apparato del sistema interconnesso tra alti poteri statali e strutture finanziarie, tecnologiche sovrannazionali. Non c’è più spazio per i poveri e semplici? A quanto pare si vuole scaricare sugli ultimi la colpa di crisi economiche, climatiche ed epidemiche.

sabato 24 ottobre 2020

GROTTE PLANETARIE SULLA LUNA E MARTE, POSSIBILI LUOGHI PER BASI SPAZIALI

 tratto da "L'Opinione" del 24 luglio 2020

di Redazione

Cavità naturali scavate dalla lava e lunghe fino a 40 chilometri sulla Luna e Marte potrebbero essere luoghi ideali per ospitare future basi abitate dall’uomo. Le ha scoperte la ricerca italiana pubblicata sulla rivista Earth-Science Reviews e condotta dalle Università di Bologna e di Padova. Cavità simili, chiamate “tubi di lava”, “esistono non solo sulla Terra, ma nel sottosuolo della Luna e di Marte, i cui pozzi di accesso in superficie sono stati ripetutamente osservati nelle immagini ad alta risoluzione fornite dalle sonde interplanetarie”, ha detto Francesco Sauro, del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Bologna e direttore dei corsi Caves e Pangaea dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa).

Coordinatore della ricerca con il geologo planetario Riccardo Pozzobon, del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, Sauro ha detto inoltre che la presenza dei tubi di lava “è evidenziata da allineamenti sinuosi di cavità e collassi nei tratti in cui la volta della galleria ha ceduto” e che “questi collassi, di fatto, costituiscono potenziali ingressi o finestre sul sottosuolo”. Formazioni simili sono state esplorate, sulla Terra, nelle Hawaii, nelle Canarie, in Australia e Islanda.

Confrontando le immagini del suolo di Luna e Marte riprese dai satelliti, i ricercatori hanno scoperto che rispetto ai “tubi” terrestri, che raggiungono un diametro compreso fra i 10 e i 30 metri, le dimensioni dei condotti aumentano di 100 volte su Marte e di 1000 volte sulla Luna: un impressionante aumento di dimensioni dovuto alla minore gravità e ai suoi effetti sull’attività vulcanica.

Secondo Pozzobon, “condotti di tali dimensioni possono raggiungere lunghezze superiori ai 40 chilometri, fornendo così spazio a sufficienza per ospitare intere basi planetarie per l’esplorazione umana della Luna: cavità talmente enormi da arrivare a contenere il centro storico della città di Padova”.

I tubi di lava proteggono inoltre dalle radiazioni cosmica e solare, riparano dai micrometeoriti e offrono un ambiente a temperatura controllata, non soggetta a variazioni tra notturne e diurne.

Le agenzie spaziali stanno mostrando crescente interesse per le grotte planetarie e i tubi lavici in vista delle future missioni umane su Luna e Marte, hanno rilevato infine i ricercatori, per i quali “tutto questo rappresenta un cambio di paradigma nella futura esplorazione spaziale”.

mercoledì 3 giugno 2020

ORGOGLIO E PREGIUDIZIO DELLE MANGIA-ZOMBIE

tratto da L'Opinione del 6 aprile 2016

di Giuseppe Mele

Seth Grahame-Smith è lo scrittore americano che ha legato il suo nome alla rivisitazione in chiave horror delle grande letteratura e della Storia con la S maiuscola. Suoi l’“Abraham Lincoln: Vampire Hunter” del 2010, la serie dei tre “Orgoglio e Pregiudizio e Zombie” del 2009-11 e l’“Unholy Night” del 2012.

Sia la storia del presidente Lincoln, in realtà un vampiro che mangia i sudisti, o delle sorelle Bennet, guerriere ninja che combattono gli zombie con le arti marziali, che la vicenda di tre criminali che in una notte profana si fanno passare da re Magi davanti alla nascita di Gesù, non sembrano destinate ad assurgere alla grande letteratura, ma intanto sono le basi di fantastici bestseller. Libri di grande successo, pensati per non restare confinati in se stessi, ma utili a trasformarsi innanzitutto in film, poi in gaming, in app, in webserie e serial infiniti.

Orgoglio e Pregiudizio e Zombie”, in particolare, attesta quanto sia profondo, se non l’affetto, il rispetto ed il ricordo per i monstre della grande letteratura passata, alle cui forche caudine milioni di studenti si sono dovuti chinare. Ed al tempo stesso ribadisce che il pubblico contemporaneo occidentale, almeno quello anglosassone, non ammette quasi più nessun contenuto portante della narrazione dei secoli passati.

La scrittrice vittoriana, Jane Austen, resta amata solo a prezzo di storpiare del tutto la sua educazione femminile, i suoi maneggi, mentre le sue fanciulle si trasformano in tante arroganti tarantiniane Beatrix Kiddo, le cui arti di combattimento non sono frenate nemmeno dalle ingombranti vesti dello stile Impero. Con improbabili capriole mentali, gli uomini, in queste opere, proseguono a testa bassa nel loro maschilismo, effettiva caratteristica dell’epoca, restando scimuniti e imperturbabili di fronte alla continua sfida vittoriosa delle spose, sorelle, zie e mogli. Un loop infinito di superiorità femminile in cui ognuno resta se sesso ed ogni concordia appare un paradosso. A parte il femminismo progressista ed i combattimenti infiniti, croce e delizia del gaming, caratteristica principale di queste opere è il manicheismo del bene e male contrapposti solitamente con la parte del cattivo interpretata da subumani, quali mostri e zombie. Non sempre però: nel Lincoln il buono è il vampiro, il cui intervento impedisce la vittoria dei cattivi umani (sudisti).

Nel “Pride and Prejudice and Zombies”, stranamente sono i domestici ed i contadini i più soggetti a trasformarsi in morti viventi. E si rivelano illusione e trappola, i tentativi di dialogo tra bianchi aristocratici asserragliati nei castelli e gli zombie moderati che non mangiano uomini ma maiali. Facile qui l’accostamento con le tesi tradizionali dei moderati socialdemocratici o dei sostenitori della buona immigrazione ed immediata la soluzione proposta ai buoni lettori e cineappassionati. Sterminateli tutti, poiché sono solo mostri, sotto le spoglie di popolani immigrati, in nome della grande nobile conservazione. L’amara ed ineludibile sottomissione al primato femminile resta rimandata alla mattanza finale, che come in ogni gioco che si rispetti è per la puntata successiva.

I Grahame-Smith, colonne fondanti della tivù Usa, non rispettano le classiche regole aristoteliche e trasformano letteratura, cinema, pubblicità e gioco in un grande comics, senza il solidarismo popolare e la disapprovazione dell’egoismo della fantasy di un King. Propongono una filosofia semplice, alla Scott, ma senza re istituzionali da venerare nella realtà. Il basso livello d’entrata la fa sottovalutare da scuola e famiglie che non si avvedono quanto sia sempre più presente, nei games giocati dai ragazzi, nei film, nei libri popolari, nelle web series e nelle reinterpretazioni letterarie. Invece siamo, tra supereroi, lupi, vampiri e uomini bianchi, di fronte ad una nuova education, in linea con le attese del grande pubblico mondiale, sempre più manicheo ed infantile, che odia la banale veridicità, ma ama solo il proprio punto di vista ed agogna che qualcuno non si vergogni di darglielo.


mercoledì 27 maggio 2020

L’ARTE DELL’ALCHIMIA IN MOSTRA A CUNEO

tratta da L'Opinione del 09 agosto 2019

di Dalmazio Frau

Nessun “dialogo” ma soltanto il silenzio ermetico del Mutus Liber dell’Arte Alchemica, è presente nella splendida mostra Ars Regia, in questi giorni a Palazzo Taffini d’Acceglio dove resterà aperta al pubblico sino al prossimo gennaio, a Savigliano in provincia di Cuneo.

Ne è artefice e curatore sopraffino Enzo Biffi Gentili, noto e attento conoscitore di arti applicate, al quale si deve già il successo de Il Cuneo gotico, Artieri fantastici realizzato sempre nella Granda negli anni passati. In questa sua nuova mostra si tratta un argomento affascinante che ha impegnato lungo i secoli personaggi famosi e ignoti, nobili, ricchi e gente del popolo: l’Alchimia. Quell’arte regale e spirituale che tanto ha a che vedere con le Arti, ritenuta originaria dell’antico e misterioso Egitto e giunta sino a noi attraverso i sogni del Medio Evo e del Rinascimento, giù nell’età barocca, nel Secolo dei lumi, nell’Ottocento romantico e di là sino ai giorni nostri senza mai aver perduto il proprio affabulante mistero.

Biffi Gentili ha voluto una mostra colta e raffinata ma anche per tutti coloro che, più o meno sapienti, abbiano almeno una volta nella loro vita sentito narrare della Pietra Filosofale o dell’Elisir d’immortalità. Un’operazione artistica e culturale unica oggi nel nostro Paese, questa di Ars Regia, che conduce il visitatore, curioso o incuriosito, a scoprire le terre della dinastia di Casa Savoia, spesso ammantate di miti e di mistero, quella stessa dinastia che vide dal XIV secolo al primo Settecento, un notevole interesse nell’Arte Regale da parte dei propri alchimisti di corte.

Sono nelle belle sale di Palazzo Taffini d’Acceglio, in mostra le opere pittoriche di Pinot Gallizio, lo spagirista paracelsiano discepolo novecentesco dell’Abate Tritemio, come fu discepolo di questi nel convento di Sponheim in Germania, uno dei più grandi teurghi del Rinascimento: Enrico Cornelio Agrippa.

Gallizio è un artista contemporaneo oggi scomparso, ma proprio per questo rinnova nella propria arte pittorica il pensiero e la dottrina filosofica della Grande Opera con i suoi studi che si rifanno direttamente agli insegnamenti di Fulcanelli, l’alchimista sfuggente che rivelò al pubblico i misteri delle cattedrali gotiche e delle Dimore Filosofali.

Una mostra “sensoriale” dunque, che coinvolge il visitatore anche con i profumi oltre che con la vista e il tatto in un percorso, quasi un cammino iniziatico, suddiviso in otto singolari tappe: Le esequie alchemiche; L’anticamera ardente; Nel crogiuolo della Granda; Sei artieri ermetici; Un Oratorio “eretico”; Alla ricerca dell’oro ceramico; L’aroma del Sacro; Le alchimie ludiche.

Tutte queste diramazioni, otto vie ermetiche che conducono a un’unica Verità sapienziale, in realtà sollevano nuovi enigmi, ulteriori misteri da rivelare da parte di tutti coloro che avendo anima, spirito e corpo ancora vivi, non hanno timore a fare un passo oltre la Soglia del conosciuto in cerca del Sole di Mezzanotte.