sabato 28 gennaio 2017

Furia, Odino o allucinogeni? Ecco la verità sui "berserkir"

tratto da "Il Giornale" del 20 dicembre 2016

I «guerrieri orso» sono una delle leggende vichinghe più famose. Un saggio svela i segreti della loro forza

di Matteo Sacchi

La leggenda parla di guerrieri di una ferocia inaudita. Vestiti di pelli di orso, o di lupo, si gettavano in battaglia in preda a un furore inspiegabile.


La loro rabbia li rendeva praticamente invulnerabili. Per usare le parole della antiche saghe scandinave: «In battaglia, Odino aveva il potere di rendere i loro nemici ciechi o sordi o colti da terrore, mentre le loro spade non tagliavano più di bastoni... Andavano senza corazza ed erano furiosi come cani o lupi, mordevano i loro scudi ed erano forti come orsi o tori... né il fuoco né il ferro facevano loro del male». E nella leggenda c'è un nome che ricorre sempre per questi soldati-belva: Berserkir. Che i miti sulla licantropia possano avere avuto origine in queste remote lande, dunque, è quasi un'evidenza. Ma cosa c'è di vero nelle storie che ci sono state tramandate? Sono decenni che gli studiosi se lo chiedono. Il filologo e storico medievale Vincent Samson ha cercato di arrivare ad una risposta definitiva con il suo: I Berserkir. I guerrieri-belve nella Scandinavia antica, dall'età di Vendel ai Vichinghi, VI-XI secolo (Settimo sigillo, pagg. 496, euro 34,50).

Quello che emerge con chiarezza è che i Berserkir sono esistiti davvero. Al di là dei testi poetici che, come la Ynglinga Saga, sono stati messi per iscritto molto più tardi, esistono prove archeologiche concrete. Statuette che rappresentano guerrieri coperti di pelli d'orso o di lupo. E tombe istoriate di rune che testimoniano come il sepolto fosse un guerriero-belva. Più difficile dire esattamente come si scatenasse lo stato di trance che era tipico di questi guerrieri. Molti studiosi, a partire da Samuel Lorenzo Ödman, teologo dell'università di Upsala, hanno legato il furore dei berserkir all'utilizzo di un fungo, l'amanita muscaria. E in effetti, alcune popolazioni, come i lapponi, lo utilizzano a scopo sciamanico. La tesi convince poco Samson. Nelle fonti antiche questo furore guerriero, indotto dal dio Odino, sembra poter essere scatenato da chi è in grado di farsene possedere senza alcuna preparazione chimica. Secondo Samson, la furia era più che altro il risultato di una profonda convinzione religiosa. E almeno sino ad un certo periodo i guerrieri belva erano con buona probabilità membri dell'élite delle antiche popolazioni scandinave. Così era almeno sino ai tempi di re Harald Bellachioma (850-933 d.C.). Quando sconfisse i suoi nemici durante la battaglia navale di Hafrsfjord (convenzionalmente collocata nel 872 d.C.). Gli antichi poemi legano la sua vittoria alla presenza di guerrieri coperti di pelle di lupo che combattevano sulla sua nave ammiraglia. «Le camicie d'orso grugnivano, il combattimento dava loro rabbia, le tuniche di lupo urlavano e le armi brandivano». Per altro anche le forze opposte al re schierano dei guerrieri belva come Thoris Hakland.

Insomma quella dei guerrieri mascherati da animali sembra essere stata una pratica molto in voga nella civiltà vichinga prima del cristianesimo. Una prassi limitata ai vichinghi? Sembra che i suoi echi si possano rintracciare anche tra le tribù germaniche, ce ne sarebbero addirittura le prove nei rilievi della colonna Traiana. La radice secondo Samson potrebbe ritrovarsi in antichi rituali della civiltà del bronzo che tra le popolazioni nordiche sono sopravvissuti a lungo. Ma resta molto difficile giungere ad una interpretazione univoca. Quel che è certo è che quando la Scandinavia divenne cristiana per i berserkir non ci fu più posto. Erano il reperto più bellicoso e furente della precedente religione. Così nel tramandarsi dei miti la loro figura fu messa in ombra o trasfigurata. Spesso rimase solo l'eco della violenza e il versante religioso, la loro etica guerriera, fu messa da parte.

Samson prova a farla rivivere e a fornire al lettore tutti gli strumenti per capire la complessità del tema. Il risultato è un libro non facile che chiede al lettore di famigliarizzarsi almeno un po' con le forme dell'antica poesia scaldica. Ma il viaggio nel tempo sulle orme di questi guerrieri, capaci di avere accesso al lato animalesco dell'uomo, ne vale la pena.

mercoledì 25 gennaio 2017

Il simbolismo del gioco degli scacchi

Pubblicato in Lex Aurea n. 58 del 10 maggio 2015

di Vito Foschi

Il gioco degli scacchi è piuttosto antico godendo di una diffusione planetaria e si presta ad un interessante studio simbolico. Potrebbe sembrare una forzatura, una lettura non corretta, ma ci conforta in tale interpretazione, il ritrovare un uso simbolico della scacchiera nel Medioevo nella bandiera dei templari e uno più propriamente esoterico nel caso della scacchiera dipinta al centro dei tempi massonici.

La scacchiera è quadrata, divisa in caselle bianche e nere. I quattro lati della scacchiera, rappresentano le quattro direzioni e i quattro elementi. Altro numero importante degli scacchi è l’otto. Ogni lato è diviso in otto e il totale delle caselle è 8x8 = 64. L’otto è l’ottagono, figura intermedia fra quadrato, terra e cerchio, il cielo. Indica una tendenza spirituale in sviluppo, uno stato intermedio e il percorso dell’iniziato. La scacchiera non è solo rappresentazione di un campo di battaglia, ma nella sua divisione ottonaria simboleggia l’elevazione spirituale, una spinta verso lo spirito, verso il cerchio, il poligono con infiniti lati.
Otto sono le direzioni della rosa dei venti e ritroviamo la dimensione geografica, ma ancora la croce tridimensionale con le sei direzioni spaziali più l’asse del tempo con le due direzioni del passato e del futuro. Il numero otto è  anche associato al fiore del loto con il suo significato di purezza e di tensione verso il cielo e gli altri molteplici significati.
La scacchiera poteva essere divisa in sette o in nove, ma in un caso sarebbe risultato un gioco più facile, e nell’altro più difficile. L’otto è una sorta di numero di equilibrio fra un gioco troppo facile e uno troppo difficile. Tra l’altro, per gli indiani, inventori del gioco, c’erano otto pianeti, ed è un altro possibile legame con il numero otto.
La scacchiera dal punto di vista macrocosmico rappresenta il mondo, mentre dal punto di vista microcosmico la mappa dello spirito e in particolare lo spirito frantumato dell’iniziato che si accinge alla sfida, un miscuglio di bianco e nero, di luce e tenebre.

Se paragoniamo la scacchiera ad un campo di battaglia non può non venirci in mente “L’arte della Guerra” di Sun Tzu e le massime sullo scansare il pieno e attaccare il vuoto. Se pensiamo ai colori, comunemente associati alla luce e alle tenebre, possiamo associarli anche ai vuoti a ai pieni. Così possiamo associare il bianco al vuoto e il nero al pieno o alla materia. La scacchiera assume una diversa dimensione macrocosmica rappresentando i vuoti dello spazio e i pieni delle stelle e dei pianeti. La battaglia degli scacchi a questo livello è uno scontro fra angeli e demoni. Il vuoto associato alla luce e alla spiritualità; il nero, alle tenebre, alla materia, materia oscura o alla prima fase del processo alchemico, la nigredo, il marcio.
I vuoti e i pieni possono rappresentare la fermentazione, la vitalità, il caos della vita. La partita diventa, quindi, un processo per ordinare il caos o trovarvi una direzione. Lo spirito frantumato che tramite l’azione del Re deve essere ricondotto ad unità. Il re bianco rappresenta il Sé che deve vincere l’Ego rappresentato dal Re nero.
A questo proposito un interessante simbolismo lo suggerisce il libro “Natura simbolica del gioco degli scacchi” di Mario Leoncini di cui riportiamo un passo: «Boucher mette in rilievo il simbolismo delle linee divisorie tra le caselle: su di esse si muoverebbe l’iniziato, alieno dall’abbandonarsi al bianco e al nero, mentre il profano passerebbe dall’uno all’altro senza equilibrio, e scatenando ogni volta reazioni contrastanti».

Il gioco di origini indiane, arrivò in Europa grazie alle mediazioni persiana e araba. In origine il pezzo affiancato al Re era il consigliere, ma nell’Europa si trasforma in regina, perché le pedine vennero assimilati ad una corte. Il passaggio è significativo. La donna ha una sua precisa simbologia e può essere assimilata alla Sapienza. Il Re che rappresenta il Sé ha al suo fianco la Sapienza.

La scacchiera è il campo di battaglia dove si affrontano due eserciti. C’è una precisa disposizione iniziale da cui partono le pedine. Nella disposizione iniziale sono contenuti tutti i possibili sviluppi futuri: dallo stesso inizio si possono sviluppare molteplici battaglie. Essendo una creazione umana le possibilità non sono infinite, ma comunque in gran numero. Questa idea che dallo stesso schieramento iniziale si possano sviluppare innumerevoli possibilità è simbolo dello sviluppo del cosmo. L’Uno iniziale, l’uovo primordiale ha in sé tutte le possibilità di sviluppo futuro, come lo schieramento iniziale degli scacchi. Con lo svilupparsi, il processo di materializzazione si realizza in una precisa combinazione come negli scacchi si realizza una precisa partita. Al termine della partita i pezzi tornano nella disposizione iniziale e può ricominciare una nuova battaglia. Ritroviamo il concetto di ciclicità. Dopo lo svilupparsi completo di un mondo, si torna all’Uno iniziale da dove può ripartire un nuovo sviluppo, un nuovo mondo. Concetto comune nel mondo antico, dal mondo classico, agli indiani e dall’altra parte dell’oceano ai Maya. Gli scacchi, con il loro svilupparsi in battaglia e il ritornare al termine di tutti i possibili sviluppi al punto di partenza, simboleggiano i cicli cosmici.

sabato 21 gennaio 2017

La caccia e il mito nel libro di Calasso

tratto da "L'Opinione" del 27 novembre 2016

di Giuseppe Talarico

Per cogliere il momento aurorale della civiltà umana, quando migliaia di anni fa l’uomo si separò dal mondo animale, è utile e fondamentale leggere l’ultimo libro di Roberto Calasso intitolato “Il cacciatore celeste” (Adelphi).


In questo libro, in cui l’autore con la sua cultura sconfinata spazia dall’antropologia alla storia, dalla letteratura alla filosofia, Calasso mostra come all’inizio non vi fosse nessuna distinzione tra gli uomini, gli animali, gli dèi, la natura. In virtù di due eventi capitali, che avvennero nel Paleolitico, la pratica della caccia e il passaggio alla dieta carnea da parte dell’homo sapiens, si ebbe la separazione tra mondo umano e mondo animale. Vi è, secondo Calasso, un’evidente e innegabile relazione tra la pratica della caccia e l’elaborazione di una sequenza di pratiche rituali. Infatti, per separarsi dal branco animale, l’homo sapiens dovette ricorrere al travestimento e all’uso della maschera. Imitando gli animali predatori, l’homo sapiens divenne a sua volta cacciatore.

Tra la figura dello sciamano, che con il tamburo rivestito dalla pelle di animali evocava il mondo invisibile, attirando a sé gli animali, e l’uomo cacciatore, che mirava ad ucciderli, vi è una somiglianza sorprendente. L’invisibile, a cui i riti sacrificali fanno costante riferimento, è il luogo in cui si trovano gli dèi, i morti, gli antenati, il passato intero della civiltà umana.

Analizzando le opere di Esiodo e Apollonio Rodio, Roberto Calasso descrive l’età degli Eroi, quando il divino scorreva tra gli esseri umani, perché Zeus o Poseidone o Afrodite si erano mescolati nell’Eros con i mortali. I peccati capitali di fronte agli dèi commessi dagli uomini furono l’imitazione dei predatori e la loro separazione dal mondo animale. Fu necessaria l’incubazione di cinquantamila anni affinché l’homo sapiens scoprisse la tecnica legata all’agricoltura e sperimentasse la vita domestica.

Secondo Teofrasto il sacrificio cruento, di cui vi è testimonianza in diverse civiltà del passato, da quella dei Veda a quella egizia e greca, si basava su tre elementi fondamentali: reverenza, utilità, riconoscenza. Il sangue, ricavato dal rito sacrificale, doveva purificare l’uomo della sua colpa originaria, dovuta alla sua attività di predatore e cacciatore. Proprio un paleoantropologo nel 1995 ha rinvenuto a Göbekli Tepe (Turchia) un sito archeologico nel quale sono state riportate alla luce enormi pietre in cui sono rappresentati gli animali che si mostrano ostili verso l’uomo. Ovidio nella suo poema i “Fasti” ha descritto i riti sacrificali che avvenivano nella Roma antica, alcuni dei quali sono avvolti dal più fitto mistero come i Lupercalia. I romani celebravano i riti sacrificali senza essere consapevoli del loro significato spirituale, perché la città si fondava sui riti. Nel libro XV delle “Metamorfosi” di Ovidio, che racchiude il racconto della mitologia classica, Pitagora con tono ispirato dal divino definisce la dieta carnea come la colpa irredimibile dell’uomo. Numa, suo allievo, osserva che la pratica rituale costituisce il primo stadio della civilizzazione avvenuta a Roma, fin dalla sua fondazione.

Nel libro vi è un capitolo dedicato alla interpretazione del dialogo di Platone “Le Leggi”. In questo dialogo l’ateniese, che personifica Platone, conversando con due suoi amici, si pone l’interrogativo filosofico decisivo e ineludibile per capire se le vicende umane siano governate dal caso oppure da Dio, chiedendosi quale importanza debba essere attribuita alla fortuna. Per gli uomini il riferimento al mondo degli dèi e al divino è stato sempre imprescindibile e fondamentale per vagheggiare la città giusta e la costituzione della Polis, giusta ed esente da imperfezioni. Il capitolo dedicato alle “Enneidi” di Plotino, che a distanza di sette secoli commentò nella sua opera i testi di Platone, è nel libro di Calasso bello e indimenticabile. Per Plotino la creazione coincide con la contemplazione, in virtù della quale dall’Uno, che è eterno e immobile, ha avuto origine la Mente, da cui ha preso forma l’anima universale e quella individuale di ogni persona. L’Uno è all’origine del mondo, del bene e del bello. Per mostrare quanto fosse importante la relazione tra l’umano e il divino, Calasso nel libro racconta l’episodio della notte delle Ermocopidi, quando le Erme vennero ad Atene devastate e sfigurate. Le Erme, che simboleggiavano il Divino, erano visibili di fronte ai templi e ai santuari, ma sovente si trovavano collocate dinanzi alle case di privati. Per questo crimine vennero condannate a morte venti persone. I misteri di Eleusi, una città che si trovava a venti chilometri di Atene, distrutta in seguito ad una guerra dagli ateniesi, contemplavano il compimento di una serie di miti, osservati per undici secoli. Per svelare il mistero che circonda questi riti, Calasso offre al lettore una descrizione assai coinvolgente delle diverse interpretazioni avanzate dagli studiosi lungo i secoli. In un punto di questo libro, Calasso cita un frammento tratto dal Tieste: “Non vi è nulla per gli umani senza gli dèi”.

Un libro imperdibile.

mercoledì 18 gennaio 2017

“GOETEIA: ARS CONGRESSUM CUM DAEMONE - L’ARTE DI EVOCARE I DEMONI”

Sabato 28 Gennaio 2017 e.v. alle ore 21,15 presso i locali del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 - Via Don Minzoni 39, Bellinzago Novarese (NO) - nell’ambito delle serate dedicate ai “Dialoghi di Esoterismo”, la nostra Associazione ha il piacere di invitarvi ad un imperdibile appuntamento in compagnia di CORINNA ZAFFARANA e GIUSEPPE GIORGIO che parleranno sul tema:

“GOETEIA: ARS CONGRESSUM CUM DAEMONE - L’ARTE DI EVOCARE I DEMONI”

Cosa sono i demoni? 
Forme di energia psichica o proiezioni delle nostre più profonde paure? 
Qualsiasi sia la definizione, esiste davvero la possibilità di evocare un "demone" in forma visibile e sensibile senza postulare uno stato semplicemente folle o allucinatorio?
La tradizione esoterica è ricca di indicazioni relative all'Ars Congressus cum Daemone e la stessa psicoanalisi si è a lungo occupata dell'incontro con forme, volti e voci inquietanti provenienti dalle profondità del nostro inconscio.
In questa serata dedicata ad uno degli aspetti più controversi dell'esoterismo cercheremo di capire cosa siano veramente i "demoni"; se si tratti solo di simboliche leggende o se sia davvero possibile incontrare le nostre paure attraverso i metodi tradizionalmente insegnati nelle Scuole di Alta Filosofia Iniziatica; quali siano i procedimenti corretti e i pericoli legati a questa elevata forma di "Magheia".

Anche in questo caso il nostro Centro si pregia di invitarvi ad un evento di grande interesse a cui, naturalmente, non dovete assolutamente mancare!

ATTENZIONE: Solo in occasione di questa conferenza il nostro Centro offrirà la possibilità di acquistare il volume "LA GOETIA DI RE SOLOMONE" di Aleister Crowley, edito in italiano dal S.O.T.V.L., con uno sconto speciale del 5 euro sul prezzo di copertina!

La partecipazione a questa serata è soggetta a Tesseramento A.S.I. ed è obbligatoria la prenotazione da effettuarsi chiamando il numero 3803149775 o scrivendo a: cta102@cta102.it
Si precisa inoltre che la sola adesione all’evento effettuata su Facebook non è considerata una prenotazione valida.

Per i nostri Associati che volessero seguire la conferenza a distanza sarà naturalmente disponibile il collegamento in streaming video.


sabato 14 gennaio 2017

Cento anni fa con Rasputin moriva la Russia zarista

tratto da "Il Giornale" del 30 dicembre 2016

Fu assassinato a Palazzo Mojka da un complotto di aristocratici che ne temevano l'ascendente sulla zarina. Il racconto della sua morte ne alimentò la leggenda nera. La profezia (avverata) sullo zar Nicola: "Se mi uccidono i nobili, nessuno di voi rimarrà in vita entro due anni".

di Giovanni Vasso

Giusto cento anni fa moriva Grigorij Efimovich Rasputin, il 30 dicembre 1916, nella notte tra il 16 e il 17 dicembre secondo il calendario giuliano in uso nella Russia del tempo.

Immagine tratta da Wikipedia di pubblico dominio
A seguito di una congiura, di un attentato al Palazzo Mojka di San Pietroburgo, la cui memoria contribuirà – e non poco – a costruire la fama sinistra e occulta dello starec venuto da Pokrovskoe. Per ammazzarlo, il principe Jusupov e i suoi complici dovettero – nell’ordine – prima avvelenarlo coi pasticcini al cianuro, poi sparargli e infine gettare il corpo (davvero privo di vita?) nel fiume Malaya Nevka. Tutto in una notte, infinita e drammatica, in cui si compì la prima parte di quella sua profezia destinata, poi, ad avverarsi tragicamente nei tumulti della rivoluzione d’Ottobre.

Sfrenato, ammaliatore, seducente, carismatico. L’icona che lo ritrae è impressa a fuoco nell’immaginario collettivo: capellacci lunghissimi e corvini, barba nerissima e stopposa, occhi gelidi e penetranti, la mano che si alza a benedire o si posa sul petto nel tentativo di mitigare, con un gesto che richiama la prassi religiosa, l’infuocato vitalismo sfrenato che emana in un'aurea mistica e maledetta. Popolare, legatissimo alle origini contadine. La leggenda che in questo senso meglio ne riassume la vulgata che poi di lui è nata è quella del suo presunto priapismo grazie al quale avrebbe conquistato, secondo i maligni (e non furono pochi), i favori di nobildonne e gentili dame grazie alle quali sarebbe riuscito a compiere una scalata senza pari in un ambiente politico e sociale, come quello della Russia zarista, che definire sclerotico è davvero poco.
Fu al centro di cento scandali e sempre ebbe la benigna indulgenza della zarina Alessandra, a lui devotissima perché convinta che il monaco avesse salvato da morte certa – con le sue preghiere e i suoi pretesi poteri taumaturgici – il figlioletto, lo tsarievich Aleksej, affetto da emofilia. Per lei, Rasputin era “l’uomo inviato da Dio” e avrebbe desiderato che suo marito, lo zar Nicola, gli prestasse un po’ d’ascolto. Specialmente quando gli sconsigliò di entrare in guerra. Anche perché le sue profezie si sarebbero tutte avverate, ma questo la zarina non poteva ancora saperlo.

Come riporta nella biografia che gli ha dedicato lo storico franco-armeno Henry Troyat citando Aron Simanovic, Rasputin lo aveva detto e scritto quale sarebbe stato il destino suo e della Russia: “Se vengo ucciso da volgari assassini, in particolare dai miei fratelli contadini, tu, Zar di Russia, non avrai nulla da temere per i tuoi figli: regneranno per secoli. Ma se invece vengo ucciso da boiardi, se i nobili verseranno il mio sangue, le loro mani resteranno insanguinate per venticinque anni. Dovranno lasciare la Russia. I fratelli si scaglieranno contro i fratelli, si uccideranno a vicenda e si odieranno e per venticinque anni non vi saranno più nobili nel paese. Zar della terra russa, quando udrai il suono della campana che annuncia l’assassinio di Grigorij sappi che se è stato un tuo parente a provocare la mia morte, tutti i tuoi, compresi i tuoi stessi figli, non vivranno oltre due anni. Saranno uccisi dal popolo russo”. In un'altra (pretesa) profezia, Rasputin (che fu sempre contrario all'entrata in guerra della Russia nel '14) asserì che il sangue dei mugiki, dei poveri contadini russi mandati al macello sulle trincee della Prima guerra mondiale, sarebbe ricaduto non sui nobili e sui generali ("che si ingrassano e se ne fregano") ma sulla famiglia reale. "Lo Zar è il padre dei mugiki e il loro sangue e la collera di Dio cadranno su di lui". Un richiamo, questo, che sembra avere un importante significato politico attualizzabile in ogni tempo, anche nel nostro: chi ha responsabilità di governo non può e non deve ignorare il popolo per fare ciò che chiedono le élites.

E andò proprio così come il monaco pazzo aveva preconizzato. Perché se a San Pietroburgo si festeggiò, nei salotti, alla notizia della morte di Rasputin, nelle campagne il popolo reagì male. Era stato, come dice ancora Troyat, il contadino che più di tutti s'era avvicinato al trono. Era, nonostante tutto, uno di loro. E lo avevano ucciso. Con Rasputin, ucciso dal complotto degli aristocratici nel palazzo della cugina dello zar, morirà e con lui scomparirà un mondo bizantino di icone, formalismi e caste ormai svuotato da ogni senso e travolto dal fuoco della rivoluzione che trasformerà San Pietroburgo in Leningrado. Il principe Feliks Jusupov, padrone del Palazzo della Mojka e coinvolto nel complotto, morirà anch'egli. Ma in esilio a Parigi, lontanissimo dai fasti di una corte che ormai non c'era più, nel 1967.

La figura di Rasputin, criticata e apertamente bistrattata dai politici, dal clero ortodosso diventerà popolarissima seppure con l'alone malvagio di una leggenda nerissima, più nera della sua stessa barba. La sua figura, quasi a sublimarsi nel cliché letterario del romanzo gotico del monaco pazzo, divenne popolarissima in tutto il mondo.

A Rasputin si sono ispirati in moltissimi, da Hugo Pratt che sullo starec disegnerà uno dei personaggi più popolari delle storie di Corto Maltese (insieme a Ungern, ricalcato da Pratt su Roman Fiodorovic Ungern von Sternberg, il "barone pazzo", che fu l'ultimo generale bianco costretto alla sconfitta dall'ormai vittoriosa Armata Rossa, in Mongolia) fino alla musica pop e al cinema oltre che una sterminata letteratura.

martedì 3 gennaio 2017

Presentazione del libro "C'era una volta" di Alessandro Moriccioni

Domenica 8 Gennaio dopo le 17:30 al teatro Velly di Formello l'associazione Viviamo le Rughe in collaborazione con l'autore Alessandro Moriccioni presenta il libro "C'era una volta". L'ingresso è gratuito.

Le Fiabe e le favole ebbero origine dalle prime comunità tribali umane, quelle più primitive, e dai loro riti di passaggio all'età adulta. Nel corso del tempo questi riti furono dimenticati e sostituiti da racconti fantastici che, una volta fissati sulla carta, sono giunti sino a noi. Le storie che raccontiamo ai nostri figli sono l'eredità ancestrale della cultura umana sopravvissuta attraverso il folclore, i testi sacri e le figure mitologiche. Narrarne una significa raccontare l'umanità stessa.