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domenica 1 giugno 2025
Il mistero di Stonehenge, cosa ci rivelerà la Luna piena di gennaio
martedì 21 gennaio 2025
"Sedute spiritiche" per comunicare con Alberto: l’ultimo segreto della regina Vittoria
tratto da "Il Giornale" del 3 Dicembre 2024
Il dolore per la morte dell’amato marito avrebbe portato l’integerrima regina Vittoria a tradire il proprio ruolo istituzionale
di Francesca Rossi
La regina Vittoria (1819-1901), celebre per la sua dedizione al dovere e il rigore morale che caratterizzò non solo la sua personalità e la sua politica, ma l’intero periodo che da lei prese il nome, età vittoriana, avrebbe anteposto i propri sentimenti al ruolo ufficiale solo una volta nella vita. Sopraffatta dal dolore per la morte del principe consorte Alberto e contravvenendo alle regole e ai principi della Corona, la sovrana avrebbe cercato conforto in una pratica molto in voga all’epoca, sebbene totalmente priva di basi scientifiche e fin da subito dimostratasi pura illusione: lo spiritismo.
Un matrimonio riuscito
Per la regina Vittoria la scomparsa del marito, il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha (1819-1861), rappresentò una sorta di spartiacque esistenziale. Da quel 14 dicembre 1861, quando Alberto morì di febbre tifoidea e congestione polmonare al Castello di Windsor (benché recenti studi abbiano avanzato l’ipotesi di un cancro ai polmoni), nulla fu più come prima.
La sovrana cedette alla sofferenza: decise di far chiudere per sempre gli appartamenti del consorte, ordinando che rimanessero inalterati, quasi cristallizzati al suo ultimo giorno di vita, come se si aspettasse davvero il ritorno di Alberto da uno dei suoi viaggi. Portò il lutto per il resto della sua vita (Vittoria sopravvisse quarant’anni ad Alberto) e scelse di ritirarsi quasi completamente dalla vita pubblica, pur continuando a svolgere i suoi doveri ufficiali.
La Regina aveva incontrato per la prima volta il principe, suo cugino di primo grado (la madre di Vittoria, Maria Luisa Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld era la sorella del padre di Alberto, cioè Ernesto I di Sassonia-Coburgo-Gotha) nel 1836. Nonostante la diffidenza del governo e del popolo, date le origini tedesche di Alberto, i due si sposarono il 10 febbraio 1840.
Ebbero nove figli e Alberto si dimostrò un consigliere leale e intelligente, oltre che un marito premuroso e apparentemente non in competizione con la potente moglie (anche se su quest’ultimo punto il dibattito è ancora aperto). La loro fu un’unione riuscita, d’amore. Non vi fu il classico colpo di fulmine, bensì un sentimento che crebbe col tempo, dimostrandosi più solido di un diamante, inattaccabile.
Quando Alberto morì Vittoria si sentì improvvisamente sola, privata dell’unica persona che la conoscesse davvero. Con ogni probabilità ebbe davvero la sensazione che il mondo le cadesse addosso. Può sembrare esagerato, poiché le biografie ci restituiscono una Regina inflessibile e forte, eppure anche lei attraversò un momento di profonda fragilità emotiva, che non superò mai del tutto.
Proprio in questo frangente di sofferenza acuta, secondo il libro “Whisperers. The Secret History of the Spirit World” di James Herbert Brennan (2013), la regina Vittoria avrebbe compiuto un gesto inaspettato, chiedendo a un medium di mettersi in “contatto” con il mondo dei morti per tentare di “comunicare” con il principe Alberto.
Sedute spiritiche
Stando a Brennan Vittoria avrebbe organizzato delle sedute spiritiche credendo davvero di poter vedere e sentire ancora l’amato marito. All’epoca lo spiritismo, nato in Francia a metà Ottocento, era una pratica molto conosciuta e seguita. La presunzione di poter parlare con gli spiriti attraverso un “medium” affascinava le persone (accade ancora oggi), convincendole (ma sarebbe più giusto dire illudendole) che fosse possibile conoscere i segreti della vita dopo la morte e ritrovare, seppur per un breve momento, chi aveva ormai lasciato questo mondo. Sembra paradossale, ma allo spiritismo si dedicò persino Arthur Conan Doyle, il famoso creatore di Sherlock Holmes.
Naturalmente nessuno dei presunti “medium” e degli studiosi di questo particolare ambito dell’occultismo è mai riuscito a dimostrare l’esistenza di spiriti e, più in generale, di entità paranormali. Nessuno ha mai portato prove che fossero analizzabili dal punto di vista scientifico (il famoso divulgatore scientifico e illusionista James Randi mise in palio un milione di dollari nel suo “One Million Dollar Paranormal Challenge” per chi fosse riuscito a riprodurre un cosiddetto fenomeno paranormale in un contesto controllato: la ricompensa “attende” ancora un vincitore).
Al contrario, purtroppo, molti usarono (e continuano a usare) lo spiritismo e, in generale, le pratiche legate all’occultismo, per imbrogliare gli altri, facendo leva sulle loro debolezze. Il “medium” consultato dalla regina Vittoria avrebbe detto che sarebbe stato possibile mettersi in “contatto” con il defunto Alberto solo attraverso “il ragazzo che, di solito, portava la pistola [del principe] a Balmoral”, ovvero il valletto scozzese John Brown (1826-1883) al servizio della sovrana dal 1848.
Confidente o amante?
Brennan sostiene che la regina Vittoria avrebbe “parlato” con il defunto marito proprio attraverso John Brown il quale, dunque, sarebbe stato una sorta di tramite, di medium, durante le presunte sedute spiritiche. Brown, però, fu anche al centro di un altro mistero. Sulla stampa dell’epoca e nei salotti più frequentati si diffusero dei pettegolezzi secondo i quali dopo la morte del principe Alberto Vittoria e John sarebbero diventati amanti e si sarebbero perfino sposati in segreto, mettendo al mondo un figlio.
Storie mai suffragate da fatti che oggi gli storici considerano niente più di frottole. In quel momento, però, ebbero una grande eco, indebolendo ulteriormente l’istituzione monarchica già provata dal rigido lutto della regina Vittoria. In realtà sembra che John Brown fosse solo un confidente di Sua Maestà, invidiato per il favore regale ottenuto e, per questo, vittima di calunnie inventate allo scopo farlo cadere in disgrazia. Senza contare che l’amicizia tra un regnante e un servitore era, a priori, malvista, data la differenza di ceto sociale.
Le chiacchiere, però, non ebbero alcun effetto su Vittoria. Dopo la morte di Brown, nel marzo 1883, la sovrana lo definì “il più devoto dei servitori e il più sincero e caro degli amici…Forse mai nella Storia c’è stato un legame così forte e vero, un’amicizia così cordiale e affettuosa tra un sovrano e un servitore…”.
Vittoria e lo spiritismo
Impossibile dire se la Regina abbia davvero partecipato a delle sedute spiritiche. Allo stesso modo non tutti gli studiosi concordano sul suo presunto interesse verso l’occulto. Secondo Brennan Vittoria avrebbe lasciato delle pagine manoscritte sulla sua amicizia con Brown, ma sarebbero state nascoste o distrutte dalla royal family. Anche il carteggio tra il valletto e la Regina sarebbe stato definitivamente eliminato. Così, purtroppo, non sapremo mai se tra quelle righe Sua Maestà parlò anche delle sedute spiritiche per “contattare” il defunto Alberto, o se si tratti di semplici pettegolezzi.
Elizabeth Longford, studiosa e biografa della regina Vittoria, sosteneva che non esistesse alcun prova dell’interesse della sovrana nei confronti dello spiritismo, ma la storica Helen Rappaport ricorda che alla morte della monarca, nel 1901, sua figlia, la principessa Beatrice, avrebbe applicato una rigida censura sulle lettere e sui diari della madre. I motivi di questa revisione invasiva e davvero molto discutibile sono intuibili e, almeno per certi versi, comprensibili: i discendenti di Vittoria volevano lasciare ai posteri e alla Storia l’immagine di una sovrana impeccabile, conservatrice, tradizionalista, ligia al dovere. Dunque inattaccabile sotto ogni punto di vista.
Per quanto riguarda le sedute spiritiche, di cui comunque non abbiamo prove, c’è anche un ulteriore problema di non poco conto: la regina Vittoria, in quanto monarca britannica, era anche il Capo Supremo della Chiesa anglicana. Non poteva permettersi di scendere a compromessi con la superstizione e con pratiche che, in un altro momento storico, le sarebbero addirittura costate una condanna per stregoneria. Il compito di Sua Maestà era quello di tenere alti i principi del Cristianesimo e della Chiesa d'Inghilterra.
Cosa sarebbe accaduto se il popolo avesse saputo delle sedute spiritiche? Quanto sarebbe stato danneggiato l’Anglicanesimo? Nel libro “Queen Victoria. A Biographical Companion”, citato da Vanity Fair UK, la Rappaport ha scritto che la royal family voleva “assicurarsi che la reputazione di Vittoria sia come persona, sia come Capo della Chiesa d’Inghilterra, non venisse infangata dalla sopravvivenza, nei suoi scritti, di qualunque riferimento a pratiche religiose poco ortodosse”.
La Rappaport ha riportato anche un aneddoto molto interessante in proposito: sembra che in punto di morte il primo ministro Benjamin Disraeli (1804-1881) si sia rifiutato di ricevere Vittoria perché, disse, “vuole solo chiedermi di portare un messaggio ad Alberto”.
Il ruolo di John Brown
Dal punto di vista umano la fragilità di Vittoria a seguito della scomparsa del marito è un fatto del tutto normale, ma in quanto Regina, guida per il popolo, era necessario che mostrasse una parvenza di contegno, la regale impassibilità che contribuisce a rafforzare l’immagine della Corona.
In ogni caso rimane un dubbio: se davvero Sua Maestà ha organizzato delle sedute spiritiche, quale sarebbe stato davvero il ruolo di John Brown? Per quale ragione il medium consultato avrebbe individuato proprio nel valletto il “tramite” per arrivare al principe Alberto? Può darsi che sia trattato di un caso, ma data l’incertezza sull’intera vicenda non è possibile escludere un accordo tra Brown e il medium.
Siamo nel campo delle congetture, ma le opzioni non sono poi molte: forse il servitore credeva davvero nello spiritismo. O magari si sarebbe prestato al rito solo per compiacere la Regina. Ma potrebbe anche aver agito per prendersi gioco di lei, oppure per guadagnare un più ampio favore, diventando indispensabile a corte. Per quel poco che ne sappiamo del rapporto tra John e Vittoria, queste ultime due ipotesi sembrerebbero le meno probabili, ma non impossibili.
L’esorcismo della regina Elisabetta
Il caso della regina Vittoria e delle presunte sedute spiritiche parrebbe avere qualche punto in comune con una sorta di esorcismo che Elisabetta II avrebbe fatto praticare nel 2001, a Sandringham. La monarca, convinta che il Palazzo fosse infestato dal fantasma di Lady Diana, avrebbe chiesto l’esecuzione di un “rito” per “riportare la tranquillità”, come ha raccontato il giornalista Kenneth Rose nei suoi diari: “La dama di compagnia della sovrana mi disse che era stata invitata dalla Regina a Sandringham per assistere a una funzione condotta dal parroco locale in una delle stanze della residenza reale, quella in cui morì Re Giorgio VI nel 1952”, perché “infestata da uno spirito che rendeva impossibile il lavoro”.
Il parroco avrebbe spiegato lo strano fenomeno, sostenendo che “l’atmosfera potesse essere dovuta alla principessa Diana: cose simili potevano accadere quando qualcuno moriva di morte violenta”. Anche questo rituale, sebbene non confermato, si troverebbe in bilico tra ciò che è giusto e appropriato per un sovrano e ciò che non lo è.
La regina Elisabetta si è rivolta a un uomo di Chiesa, rimanendo nell’ambito della religione anglicana da un punto di vista formale, ma una monarca che sembrerebbe ammettere l’esistenza dei fantasmi e che cerca
di scacciarli (o di evocarli, come nel caso della regina Vittoria) rimane comunque una situazione controversa, un’ombra che deve rimanere confinata tra le mura del Palazzo, affinché non offuschi lo splendore della Corona.
sabato 11 gennaio 2025
Human Ecology Fund, la missione della Cia per il lavaggio del cervello
tratto da Insideover del 27 Settembre 2022
di Emanuel Pietrobon
La pandemia di Covid e la guerra in Ucraina hanno spianato definitivamente la strada alle guerre cognitive, un’arte bellica destinata a restare, per sempre, a causa del concatenamento di alcuni fattori globali, sociali e tecnologici.
Nelle guerre cognitive tutto è o può essere un’arma: da un canale Telegram ad un gruppo Facebook. E l’obiettivo è uno: la mente. O meglio, il dominio della mente. La fantascienza che diventa realtà: neuro-armi, tecnologia menticida, candidati manciuriani. Destabilizzazione di intere società a mezzo di influencer, piattaforme sociali, blog, eserciti di troll e messaggistica istantanea.
Le origini delle guerre cognitive risalgono ad un’epoca precisa, la Guerra fredda, della quale è necessario parlare e nella quale si deve tornare indietro al fine della loro comprensione. Perché le tecniche, le tattiche e le conoscenze dei neuro-strateghi di oggi non sono che il frutto degli accadimenti di ieri, come il progetto MKULTRA, gli esperimenti di Montreal, gli studi di Kurt Plötner, Sidney Gottlieb, William Sargant e Donald Cameron e le indagini dello Human Ecology Fund.
Il contesto storico
Non si può capire a fondo la logica dello Human Ecology Fund, un’indagine sul funzionamento della mente umana finanziata dalla Central Intelligence Agency, senza una ricostruzione del contesto storico.
Erano gli anni Sessanta, il confronto con l’Unione Sovietica era entrato nel vivo, e gli Stati Uniti, preda della paura rossa, temevano la propaganda invisibile del nemico ed erano convinti che vi fossero quinte colonne ovunque: dal Pentagono a Hollywood. La società era in fermento, nell’aria si respirava la prossima esplosione dei movimenti controculturali, e nelle stanze dei bottoni si discuteva di come trasformare la sfida del mutamento sociale in corso in un’opportunità.
Fu nel contesto delle tensioni interrazziali, delle maxi-dimostrazioni pacifiste e delle violenze politiche dei turbolenti anni Sessanta che la Casa Bianca delegò a Langley l’onere-onore di trovare una soluzione all’infiltrazione della propaganda sovietica negli Stati Uniti. Soluzione che gli psico-guerrieri della CIA provarono a cercare nell’emergente campo degli studi cognitivi.
Ecologia umana, o ingegneria sociale
Dello Human Ecology Fund, uno dei programmi più segreti targati CIA di cui si abbia notizia, ancora oggi si sa poco e nulla. Date, nomi, numeri; molto è rimasto avvolto da un manto di mistero. Il che ha contribuito, naturalmente, ad alimentare il cospirazionismo.
Lo HEF sarebbe stato fondato nel 1955, con il nome di Società per l’investigazione dell’ecologia umana, presso il dipartimento di psichiatria della Cornell University. A dirigere l’entità, ufficialmente focalizzata sullo studio di tecniche persuasive di interrogatorio, il neurologo Harold Wolff.
Nel 1957, dopo soli due anni di attività, Wolff fu esautorato e sostituito da James Monroe, un militare con esperienza nelle guerre psicologiche, e da Carl Rogers, tra i più eminenti psicologi dell’epoca. Langley, in particolare, era interessata ad un’applicazione militare delle teorie di Rogers sulla terapia non direttiva.
Sarebbe esistito un modo per spingere le persone ad agire contro la loro volontà, ad esempio rivelando dei segreti senza accorgersene e senza bisogno di un duro interrogatorio. Gli psico-guerrieri dello HEF ne erano convinti. E la CIA leggeva i loro rapporti periodici con ottimismo, perciò le decisioni di allargare i collaboratori dello HEF – dall’Ufficio di ricerca navale al Fondo Geeschickter per la ricerca medica – e di ampliare il raggio d’azione delle ricerche – passando dalla semplice psicologia all’impiego di stupefacenti e psichedelici, tra i quali la dietilamide dell’acido lisergico (LSD).
I risultati
Ad un certo punto, all’acme delle ricerche, i destini dello HEF si sarebbero intrecciati con il famigerato Allen Memorial Institute della McGill University, teatro dei concomitanti esperimenti di Montreal sul lavaggio del cervello effettuati nell’ambito di un altro progetto della CIA sulla mente: MKULTRA. Con risultati di tutto rispetto.
Nei laboratori dello HEF, molte volte coincidenti con le celle di istituti psichiatrici, le teorie sull’ingegneria sociale e sulla manipolazione mentale venivano testate, portate all’estremo e superate. Pazienti catatonici riportati alla normalità. Pazienti sani ridotti alla catatonia. Esperimenti sul bombardamento psicologico, sulla resistenza allo stress, sulla guida psichica, sulla modifica del comportamento. Il tutto nel nome della lotta al comunismo.
Nonostante i successi decantati dai neurologi e dagli psicologi dello HEF, la CIA avrebbe ordinato l’interruzione dei lavori nel 1965. Forse per fonderlo nel calderone del MKULTRA. O forse per portarne avanti le ricerche in totale segretezza, dietro il paravento della fine delle operazioni.
lunedì 6 gennaio 2025
Acerenza, il borgo che potrebbe custodire il Sacro Graal
tratto da "Il Giornale" del 1 Febbraio 2022
Acerenza è un borgo della Basilicata ritenuto tra i più belli d'Italia: nasconde inoltre una leggenda, sembra custodisca il Sacro Graal
di Claudio Schirru
Acerenza è un piccolo borgo che si trova in provincia di Potenza, in Basilicata. Noto per essere uno dei borghi più belli d'Italia, ha rappresentato per anni un importante crocevia per il passaggio dei cavalieri templari. Secondo una leggenda ospiterebbe inoltre una delle reliquie più ambite da secoli: il Sacro Graal.
Il borgo si staglia su una collina di tufo, a 800 metri s.l.m., dalla quale domina la vallata delineata dal fiume Bradano e dal torrente Fiumarella. Anche detta "città-cattedrale", Acerenza vede nella cattedrale consacrata all'Assunta e a San Canio il suo monumento principale.
Si tratta di una cattedrale dell'XI secolo, realizzata in stile romanico-cluniacense e tornata ai suoi antichi splendori dopo i restauri operati negli anni '50. Al tramonto risulta particolarmente suggestiva in virtù della luce del sole che passando per il rosone finisce con l'illuminare direttamente l'altare maggiore.
Acerenza, si trova qui il Sacro Graal?
Un'opera che per la sua bellezza varrebbe già la visita a questo piccolo borgo lucano. Lo spettacolo monumentale della cattedrale non esaurisce però le curiosità e il fascino di questa cittadina. Proprio all'interno di questa costruzione sarebbe celato il Sacro Graal, da cui Gesù avrebbe bevuto durante l'ultima cena e che Giuseppe D’Arimatea avrebbe utilizzato per raccoglierne il sangue durante la Passione di Cristo. Un calice che secondo le leggende donerebbe l'immortalità a chi dovesse bervi.
Alla base della leggenda i citati Cavalieri Templari, che ad Acerenza avrebbe installato un punto ristoro di grande importanza per i soldati impegnati nella Sesta Crociata (1227). A stabilire di nascondere il Graal nella cattedrale di San Canio sarebbe stato lo stesso fondatore dei Templari, Hugues de Payns (in latino Hugo De Paganis), che alcune ipotesi del '600 vedevano come di origini italiane e più precisamente lucane. La storiografia sembrebbe in seguito aver smentito l'origine italica del primo templare, ribadendo quella francese.
Malgrado ciò non ha perso forza la teoria secondo la quale lo stesso "Ugo dei Pagani" avrebbe nascosto ad Acerenza il sacro calice, ma sarebbe stata rafforzata da diversi indizi. A cominciare dalla piazza dove sorge la cattedrale, Glizzi: rappresenterebbe il genitivo di lingua gaelica "glin"; stessa origine gaelica anche per la leggenda del Santo Graal.
Altri due indizi accendono particolarmente la curiosità degli appassionati del Graal. Il primo fa riferimento ancora alla lingua gaelica, con il nome di San Canio che significherebbe "magnifico sorvegliante". Stando al secondo indizio l'oggetto tanto prezioso da sorvegliare sarebbe stato ulteriormente nascosto nel 1524. In base a quanto riportato dalle cronache del tempo una delle finestrelle della cattedrale venne murata dietro ordine del Conte Ferrillo Balsa, membro dell’ordine dei Cavalieri di Gerusalemme. Nessuno sa però quale, tra le tante, fosse la finestrella da celare e dove sia collocata. Una vera e propria caccia al tesoro che dura ormai da circa 500 anni.
La figlia di Dracula
Acerenza è al centro anche di un altro, a metà tra storia e leggenda. Si parla in questo caso di vampiri, o meglio, del vampiro per eccellenza. Cosa collega il famigerato conte Dracula, al secolo Vlad III di Valacchia (Vlad Hagyak lll Drăculea), con il borgo potentino?
La risposta è nelle narrazioni popolari, secondo le quali nella citata cattedrale di San Canio riposerebbero le spoglie della figlia di Vlad III. Ad alimentare la credenza la scoperta della rappresentazione di un drago alato, simbolo del conte, su una delle pareti della chiesa. Ulteriori "prove" a sostegno della teoria sono le statue che mordono sul collo le loro vittime.
Lilith
A quanto detto si accosta anche una leggenda dai tratti "horror".
Si dice che sia possibile intravedere il demone Lilith nei pressi della tomba, che in tempi passati sembra si aggirasse intorno alla cattedrale per consumare il sangue delle sue vittime. Una storia che non potrà che scatenare la curiosità dei veri amanti del mistero.
venerdì 15 novembre 2024
Misteri, incontri, tragici incidenti. Il "fuoco segreto" di Julius Evola
tratto da "il Giornale" del 14 Maggio 2024
Una raccolta di testi rari e lettere mai viste illumina gli interessi del "barone": dalla pittura alla rivolta contro il mondo moderno
di Andrea Scarabelli
giovedì 7 novembre 2024
Storia di Karl Maria Wiligut, il Rasputin di Himmler
domenica 6 ottobre 2024
La lunga caccia al Santo Graal. Da Artù ai Nazisti
lunedì 30 settembre 2024
Ecco le mappe per trovare il diabolico regno del Male
tratto da "Il Giornale" 23 Giugno 2024
La genesi, l'ingresso, le voragini e l'iconografia Un saggio svela i dettagli dell'antro di Satana
di Alessandro Gnocchi
Si fa presto a dire «va' all'Inferno». Bisogna trovare l'ingresso, superare il seno di Abramo o Campi Elisi, trovare un varco attraverso il Purgatorio e infine raggiungere il centro della Terra. Alt. L'Inferno infatti potrebbe coincidere con il Sole. Oppure essere sospeso nei cieli con vista sul Regno. E poi quale ingresso? La bocca dei vulcani, come da antica credenza popolare, o un antro o una voragine? In che modo si scende: con una scala o con i gradini? Bisogna poi affrontare le schiere dei diavoli. Difficile evitarli. Gli ex angeli ribelli sono 47.168.616. Li ha contati Giovanni Maria Bonardo, autore del trattato La grandezza et larghezza et distanza di tutte le sfere (1563; dal 1584 commentato da Luigi Groto, importante umanista). Se riuscite a passare, vi attende una lunga camminata: l'Inferno misura 7875 miglia di circonferenza, con diametro di 2505,5. Satana vi attende in fondo anche in senso etimologico: la parola «inferno» indica ciò che sta più in basso. Dovreste riconoscerlo: è quello a forma di dragone che sputa fiamme oppure quello incatenato che bestemmia oppure il signore oscuro assiso su un trono blasfemo. Nel caso tornaste a riveder le stelle e vi venisse la tentazione di raggiungere il Paradiso, preparatevi a viaggiare per 1.799.953.758,25 miglia (in chilometri: 3.333.246.167).
Queste e altre suggestive informazioni sono contenute nel saggio di Matteo Al Kalak intitolato Fuoco e fiamme. Storia e geografia dell'inferno (Einaudi, pagg. 270, euro 25). Al Kalak, docente di Storia moderna all'università di Modena, aveva pubblicato, nel 2021, un altro libro sorprendente, Mangiare Dio. Una storia dell'eucarestia (2021). Lo studioso si concentra in particolare sull'Inferno cristiano in tutte le sue declinazioni: letterarie, artistiche e teologiche. Un modello internazionale è la Divina commedia di Dante Alighieri, cristallizzazione e insieme superamento delle idee medievali. Nell'iconografia rinascimentale, Le Grand Saint Michel di Raffaello si impone come termine di paragone, visto il suo successo. Raffaello isola il momento nel quale san Michele schiaccia il dragone. L'Inferno, appena abbozzato, è raffigurato come un antro pronto a richiudersi sul diavolo per sempre. Esistono anche opere che sfuggono all'influenza di Raffaello. Domenico Beccafumi mette in scena la battaglia nei cieli, con gli spiriti degli sconfitti che precipitano in una voragine infuocata. Anche Giorgio Vasari affrontò il tema, riducendo però i contendenti: sette angeli in posa guerriera, agli ordini di Michele; e sette ribelli guidati da Satana. Il numero allude ai peccati capitali e alla loro punizione.
Questa idea dell'Inferno, nato dalla caduta del diavolo, inghiottito dalla Terra, nasce da un equivoco. La fonte infatti è l'Apocalisse. Giovanni descrive una battaglia nei cieli tra una donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi, e un drago rosso con sette teste e dieci corna. La donna è incinta e partorisce un bimbo. Il neonato fugge in cielo, la madre si allontana nel deserto. A questo punto, Michele attacca e sconfigge la bestia, che precipita a terra. Giovanni prende spunto dalle immagini infernali della tradizione giudaica. Ma probabilmente voleva rappresentare lo scontro tra la vera chiesa di Cristo e le eresie. Il passo però era troppo invitante, e divenne subito la storia del diavolo ribelle (il dragone) abbattuto da Michele. La Terra si ritrae e Satana sprofonda, dando vita all'Inferno.
C'è poi il versante teologico, piuttosto complesso. Rinviando al saggio per i dettagli, qui notiamo alcune cose. Il peccato di Satana è variamente descritto ma in sostanza consiste in un orgoglio così forte da spingere a una ribellione già sconfitta in partenza. Ma Satana può decidere e sceglie l'impossibile battaglia. Il diavolo perseguita gli uomini perché non può sopportare che Dio abbia preferito incarnarsi in una creatura insignificante. Ecco spiegata la presenza del Male nella storia. La Chiesa ha sempre insistito sulla realtà concreta e non metaforica dell'Inferno. Ecco spiegata l'esigenza di descriverlo. La voragine risponde a un duplice scopo: spaventare il fedele ma anche mantenerlo sulla retta via. La struttura dell'Inferno riflette l'andamento del dibattito: quello della Controriforma è diverso da quello medievale; quello illuministico e moderno è una risposta a quello uscito dal Concilio di Trento. La dannazione assume contorni più sfumati fino a sparire del tutto, secondo la famosa immagine dell'Inferno totalmente vuoto di Hans Urs von Balthasar (1905-1988). Il punto è l'amore infinito di Dio e non il suo spirito vendicativo. Abbiamo ancora paura dell'Inferno? Indagini, risalenti al 2009, dimostrano che la prigione eterna è temuta dal 41,8 per cento degli italiani. E dire che la nostra società sembra infastidita dal solo parlare di Bene e Male con la maiuscola. Ci siamo già assolti senza bisogno del prete. Figuriamoci se possiamo credere all'Inferno... Eppure molti temono ancora il signore oscuro. D'altronde, l'oscurità ce l'abbiamo nel cuore e dobbiamo lottare per non perderci del tutto.
L'Inferno è anche lo specchio di ciò che ci fa paura dentro e fuori di noi. Sarà vuoto ma resta la libertà, forse la tentazione, di coltivare il male e autoconfinarsi nell'antro eterno, dove le fiamme e il ghiaccio tormentano le anime di chi ha scelto di negare la speranza.
venerdì 9 agosto 2024
I dolori, le messe nere, i tribunali speciali: cosa fu l'Affare dei Veleni del Re Sole
tratto da "Il Giornale" del 3 Ottobre 2023
Avvelenamenti, omicidi, messe nere. Sono questi gli elementi inquietanti di uno degli scandali più terribili della Storia, capace di macchiare in modo indelebile il regno di Luigi XIV, gettando ombre sinistre perfino sui personaggi più in vista alla corte di Versailles
di Francesca Rossi
L’Affare dei Veleni (1679-1682) è una di quelle pagine del passato agghiaccianti che, pur essendo di grande interesse storico, di solito non vengono studiate a scuola. Eppure, oltre a essere uno scandalo senza precedenti alla corte di Luigi XIV, poiché coinvolse diversi membri altolocati della corte, fece emergere tutte le debolezze del mondo dorato creato dal Re Sole per controllare i nobili francesi. In un certo senso l’Affare dei Veleni fu un fallimento politico e personale del sovrano.
Prima dell’inizio: la morte di Enrichetta d’Inghilterra
Nella primavera del 1670 Enrichetta Anna d’Inghilterra (1644-1670), cognata di Luigi XIV (aveva sposato il fratello del Re, Filippo duca d’Orléans), iniziò a lamentarsi a causa di strani dolori al fianco. Con il passare del tempo questi fastidi si estesero all’apparato digerente, tanto da renderle molto difficile mangiare. Il 29 giugno di quell’anno, dicono gli storici, durante il suo soggiorno a Saint Cloud, Enrichetta bevve un bicchiere d’acqua di cicoria fredda.
Non sappiamo se e in che misura quest’ultimo dettaglio abbia influito o meno su ciò che accadde subito dopo, ma è bene tenerlo a mente. Dopo aver bevuto, infatti, la cognata del Re si sentì malissimo. Sosteneva di avere dolori al fianco ed era convinta che qualcuno l’avesse avvelenata. I medici di corte tentarono di curarla, ma non vi fu niente da fare: Enrichetta morì il 30 giugno 1670. Tra i cortigiani si mormorava che fosse stata assassinata dal Cavaliere di Lorena, amante del duca d’Orléans e, per questo, nemico giurato della duchessa, che era riuscita anche a farlo esiliare per un periodo. I dubbi e i pettegolezzi non si indebolirono neppure quando l’autopsia rivelò che la morte era da imputare a una gastroenterite.
Stando alle ricostruzioni il Re Sole avrebbe interrogato di persona il maggiordomo del fratello, il quale gli avrebbe rivelato che Enrichetta era stata davvero avvelenata dal cavaliere di Lorena. Benché quest’ultimo avesse un movente molto forte, non possiamo dire con certezza che avvelenò Enrichetta d’Inghilterra. Anzi, non possiamo affatto sostenere che la duchessa fu uccisa. Secondo gli studi più recenti la cognata del Re potrebbe essere morta di peritonite. C’è anche chi sostiene che fosse malata da molto tempo. Perché, allora, Enrichetta gridò di essere stata avvelenata? Potrebbe essere stata una semplice suggestione. La nobildonna sapeva di avere dei nemici e di doversi guardare le spalle.
Anche i cortigiani insistettero sulla tesi dell’avvelenamento, ma non certo perché avessero delle prove. In quell’epoca, infatti, non era raro che invidie, gelosie, vendette venissero risolte, “aiutate”, per così dire, dall’omicidio. Dall’avvelenamento in particolare. Forse la morte di Enrichetta d’Inghilterra non ha nulla a che vedere con tutto questo, ma rende bene il clima sospettoso, di pericolo di quegli anni e per questo può essere una specie di preludio a quello che accadde tra il 1679 e il 1682.
Il Vaso di Pandora
Paradossalmente fu una morte accidentale e non un avvelenamento ad aprire il Vaso di Pandora. Il 31 luglio 1672, infatti, l’avventuriero appassionato di alchimia Jean Baptiste Godin de Sainte Croix morì nel suo laboratorio, forse a causa di un esperimento malriuscito. L’uomo aveva così tanti debiti che i suoi creditori chiesero un inventario dei beni, sperando di riuscire a recuperare il loro denaro. Tra i suoi oggetti venne trovato uno scrigno di pelle rossa accompagnato da un biglietto su cui era stato scritto: “Da aprire solo in caso di morte precedente a quella della marchesa”.
Gli ispettori incaricati dell’inventario scoprirono che l’aristocratica a cui si riferiva Saint Croix era Marie Madeleine d’Aubray, marchesa di Brinvilliers. Nel cofanetto, infatti, erano custodite delle lettera inviate da quest’ultima all’alchimista, di cui era amante. Ma la scoperta vera fu un’altra: in quelle missive la marchesa ammetteva di aver ucciso il padre, due fratelli con l’acqua tofana, per prendersi la loro eredità. Non solo: accanto alle lettere vi era anche una fiala di veleno.
Marie Madeleine, condannata in contumacia nel 1673 e braccata dalla polizia, fuggì in Inghilterra, ma poi decise di nascondersi in un convento di Liegi nel 1673 (all’epoca non c’era estradizione nei luoghi di culto). Servì a poco. Nel 1676 venne catturata con uno stratagemma, torturata e decapitata il 16 luglio 1676. Era stato Saint Croix a insegnare alla marchesa "l’arte dei veleni", da lui appresa durante la sua reclusione alla Bastiglia, quando si era ritrovato in cella con un italiano esperto in materia, un certo Exili.
Forse questa vicenda non avrebbe avuto grande eco se la Brinvilliers, prima di morire, non avesse confessato di non essere la sola a fare commercio di veleni. La marchesa affermò che molti erano coinvolti, perfino persone dalla reputazione apparentemente immacolata. Il Re Sole, turbato da quanto accaduto e ben consapevole del fatto che nel suo regno il veleno fosse un’arma usata con eccessiva frequenza, decise di aprire un’inchiesta, affidata al luogotenente generale di polizia Gabriel Nicolas de la Reynie. Ciò che l’uomo scoprì è a dir poco tremendo.
Veleni e messe nere
Nel gennaio del 1679 le indagini arrivarono a una svolta con l’arresto di Marie Bosse, chiromante e nota avvelenatrice che si era vantata in pubblico di aver venduto rimedi “fatali” a molti personaggi di spicco della nobiltà francese. Prima di finire al rogo, l’8 maggio 1679, Marie fece il nome di un’altra maga, Catherine Deshayes, vedova Montvoisin, detta La Voisin (1640-1680).
Con l’arresto de La Voisin, avvenuto il 12 marzo 1679, l’Affare dei Veleni entrò in una fase cruciale: la donna si era reinventata come chiaroveggente e ostetrica dopo la bancarotta del marito gioielliere, ma non ci aveva messo molto a capire che vendendo pozioni fatte con polvere di ossa umane e veleni i suoi guadagni sarebbero stati molto più lauti. In fondo gli uomini e le donne che la contattavano chiedevano, sostanzialmente, due cose: trovare l’amore, essere ricchi e potenti. E per farlo erano disposti a “rimuovere” qualunque tipo di ostacoli.
Poco importava se la persona che volevano conquistare era già sposata, se il denaro che pretendevano apparteneva ai loro genitori, se la posizione che bramavano era già stata conquistata da un altro. Nessuno avrebbe avuto sospetti se un genitore avaro avesse reso l’anima prima del tempo, o un rivale in amore fosse morto in circostanze apparentemente naturali. In fondo poteva capitare. Questi erano i macabri, terrificanti ragionamenti della Deshayes e delle persone che si rivolgevano a lei.
La perquisizione in casa de La Voisin aggiunse altro orrore a quello già visto e ascoltato da La Reynie: i poliziotti vi trovarono un forno crematorio dove sarebbero stati bruciati dei feti dopo gli aborti condotti clandestinamente proprio dalla “maga”. Dagli interrogatori venne fuori che la Deshayes aveva amicizie tra loschi personaggi che per anni avevano organizzato delle messe nere, durante le quali venivano sacrificati dei neonati. La donna venne condannata al rogo in Piazza de Gréve, dove morì il 22 febbraio 1680.
Accuse alla favorita del Re
Il Re Sole, deluso, furioso, incredulo di fronte allo scandalo, istituì un tribunale speciale, la Camera Ardente (il nome venne scelto per via delle torce che illuminavano la sala), che lavorò al caso dall’aprile 1679 al luglio 1682. La Camera Ardente nacque per tentare di mantenere il più possibile la riservatezza sull’Affare dei Veleni, dato il rango di molti degli accusati. Dopo tre anni, però, Luigi XIV ordinò, di punto in bianco, di chiudere l’inchiesta. Il motivo di tanta fretta era semplice: la viglia di Catherine Deshayes, Marguerite, aveva fatto il nome della marchesa De Montespan, all’epoca favorita del Re.
La donna si sarebbe rivolta molte volte a La Voisin, chiedendole di organizzare messe nere, con tanto di sacrifici umani, che le “assicurassero” l’amore del sovrano. Quando la Montespan capì che il regale amante cominciava a stancarsi di lei, avrebbe addirittura tramato con la “maga” per ucciderlo. Luigi XIV venne anche a sapere che la sua favorita lo avrebbe drogato con un afrodisiaco. Disgustato, cercò un modo per allontanarla da sé e, nello stesso tempo, proteggerla dal processo. Del resto rimaneva la madre dei suoi figli. Le accuse contro di lei avrebbero potuto danneggiare irreparabilmente la monarchia.
Il Re Sole fece bruciare i documenti che riportavano il nome della sua amante (non sapendo che la Reynie aveva fatto delle copie), ma non la perdonò mai. La Montespan cadde in disgrazia, ma non pagò per i suoi presunti crimini. Nel 1691 si ritirò in convento e morì il 27 maggio 1707.
La fine dell’intrigo
La Camera Ardente ascoltò 442 imputati, emise 319 ordini di cattura, 36 condanne a morte e 30 verdetti di assoluzione. Per la politica di Luigi XIV l’Affare dei Veleni fu un fallimento, perché dimostrò l’incapacità del Re di controllare quella stessa nobiltà che aveva tramato contro di lui all’epoca delle Fronte, quando aveva solo 10 anni. Non era riuscito davvero ad asservirla al potere assoluto. Nemmeno la gabbia dorata che aveva creato per i nobili a Versailles, residenza in cui la corte si trasferì nel 1682, in concomitanza con la fine ufficiale dell'Affare dei Veleni, cambiò la situazione.
Versailles, con i suoi riti immutabili, la sue gerarchie e i privilegi tanto ambiti assecondò, in un certo senso, la brama dei cortigiani più malvagi e disonesti, continuando a "istigarli" nella ricerca spasmodica di titoli, favori, ricchezze e potere a qualunque prezzo.
giovedì 11 luglio 2024
Le alchimie della musica fra rock e occultismo
sabato 29 giugno 2024
La storia del volo “magico” di Rudolph Hess, il delfino di Adolf Hitler
tratto da Insideover del 7 GIUGNO 2021
https://it.insideover.com/storia/la-storia-del-magico-volo-di-rudolph-hess-il-delfino-di-adolf-hitler.html:
di Luca Gallesi
Esattamente ottant’anni fa, nel maggio 1941, la Storia era sul punto di cambiare bruscamente e radicalmente il suo corso: Rudolph Hess, numero 2 del Partito Nazionalsocialista e delfino di Adolf Hitler, era arrivato in Scozia ai comandi di un caccia Messerschmitt-110 su cui aveva fatto appositamente montare dei serbatoi supplementari di carburante. La sua missione, come aveva lasciato scritto in una lettera indirizzata al Führer, era quella di ottenere una pace separata con l’Inghilterra, perché la guerra tra due popoli fratelli come quello inglese e quello tedesco era una follia: lo spazio vitale della Germania, e di tutta l’Europa “ariana”, andava, infatti, conquistato a Est, a spese della Russia.
Attraversata la Manica a bassa quota, sfidando la contraerea e i radar britannici, Hess era giunto nei pressi di Dungavel, vicino a Glasgow, per paracadutarsi poco lontano dal castello di un nobile amico di Re Giorgio VI, il Duca di Hamilton, che il tedesco aveva incontrato a Berlino durante le Olimpiadi del 1936. Avvisato dell’arrivo dell’”inviato non invitato”, il Duca si mise immediatamente in contatto con Lord Halifax, il Ministro degli Esteri inglese, e Rudolph Hess venne arrestato e interrogato. La notizia suscitò immediatamente un clamore mondiale: il Vertreter, il “Vicario” del Cancelliere tedesco, con cui si era sempre sentito in perfetta sintonia, tanto da ricevere, sotto dettatura, il testo del Mein Kampf quando avevano condiviso il carcere dopo il tentato putsch del 1923, si era consegnato nelle mani degli Inglesi, che lo avevano immediatamente giudicato pazzo, mentre Hitler lo aveva denunciato come traditore.
Ma la storia era, sicuramente, ben più complessa e, forse, Hess non era pazzo né, tantomeno, traditore. Come lui stesso avrebbe confidato molti anni dopo all’ufficiale americano che lo custodiva nel carcere di Spandau, dove era stato rinchiuso al termine della guerra e dove sarebbe morto nel 1987 in circostanze misteriose, la sua “era una grande missione. Era una missione per l’umanità, volevo por fine alla guerra e arrivare a un accordo con l’Inghilterra: per far cessare sofferenze e spargimento di sangue. Mi assunsi ogni responsabilità. Presi la decisione. Non immaginavo di ricevere l’accoglienza che… ho ricevuto”.
Il “folle volo” era una missione segreta concordata con Hitler, o l’iniziativa personale di un pazzo? Forse c’è una terza ipotesi, suggestiva ma non fantasiosa, che riguarda il lato occulto della storia, quello che il compianto Giorgio Galli, l’autorevole politologo scomparso pochi mesi fa, definiva “il nazismo magico”, ovvero le “componenti esoteriche del Reich millenario”. Rudolph Hess, infatti, faceva parte di quella ristretta élite di iniziati che agiscono -o credono di farlo- dietro le quinte della storia, e che, per dare un senso alle proprie azioni, invece di seguire i dettami della ragione scrutano gli astri per scoprirne le influenze che esercitano sui destini del mondo. E, tra costoro, purtroppo per Hess, c’era anche Churchill, assolutamente contrario a qualsiasi pace con Hitler, che, in uno dei primi discorsi alla Camera dei comuni aveva elevato a nemico metafisico, un male assoluto da sconfiggere a ogni costo, perché il destino aveva deciso che quella guerra era lo scontro finale tra le forze del bene e quelle del male.
L’oroscopo consultato da Hess prima del volo era favorevole, e numerosi sogni premonitori lo avevano convinto che l’esito della sua missione sarebbe stato positivo, come gli aveva confermato il suo maestro e mentore, il generale Karl Haushofer, professore di geopolitica, cultore di esoterismo, fondatore della società segreta Vril, da cui sarebbe poi nata la più famosa Società Thule, a cui erano affiliati molti importanti esponenti nazionalsocialisti. Come ricorda Giorgio Galli nel suo libro di culto, Hitler e il nazismo magico, “attorno a Hess gli astrologi continuano a lavorare, mentre Haushofer lo ispira coi suoi sogni preveggenti, secondo quanto avrebbe dichiarato durante la detenzione a Norimberga e anche a sua moglie”.
Gli astrologi avevano “letto nelle stelle che egli era predestinato a realizzare la pace”, e gli avevano programmato anche il volo in Scozia, vicino a Glasgow dove, secondo quanto annotato da Goebbels nel suo diario in data 18 maggio 1941, “è stata scoperta un’organizzazione nazionalsocialista. Non è molto grossa, ma comunque interessante come sintomo”. Non erano molti, ma rivestivano una certa importanza, infatti, gli aristocratici inglesi favorevoli a un’intesa col Führer, incluso il Re Edoardo VIII, costretto ad abdicare nel 1936, e quel Lord Darlington a cui è dedicato il romanzo di Kazuo Ishiguro Quel che resta del giorno. Nobili che, molto spesso, erano anche cultori di esoterismo, e che condividevano con i sodali tedeschi l’affiliazione a circoli, logge e società segrete che operavano (o credevano di farlo) dietro le quinte della Storia. La loro missione era di evocare le forze occulte per scatenarle contro il Nemico, o, più raramente, per difendersi dai suoi sortilegi, come accadde, ad esempio, quando, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’occultista britannica Dion Fortune costituì un circolo iniziatico, la Società della Luce Interiore, che si incontrava settimanalmente per formare una catena magica in grado di contrastare l’avanzata, che sembrava inarrestabile, della Wehrmacht. Ma questa è un’altra storia.
domenica 2 giugno 2024
ATLANTIDE Il posto delle favole
tratto da "Il Giornale" del 31 Dicembre 2006
di Idolina Landolfi
È il Platone del dialogo «atlantico» Crizia (ma anche del Timeo, sebbene in minor misura), ad avere innescato nel IV secolo a.C. uno dei dibattiti più durevoli che si conoscano, che attraversa tutto il mondo antico, quello latino, il medievale, il secolo dei Lumi e l’Ottocento romantico, fino ai nostri giorni, in cui non pare placato - sebbene ridotto, ormai, a qualche voce isolata e per lo più bislacca. È mai esistita la mitica Atlantide, il continente sommerso dai flutti per volere di Zeus, una volta accortosi che la nobile schiatta dei suoi abitanti «stava degenerando verso uno stato miserevole», quello di ogni cupidigia ed eccesso?
Platone lo propone nel Timeo come «un discorso certamente singolare, ma tutto vero», stando almeno a come lo raccontò un giorno Solone, riferendo eventi anteriori di novemila anni. (Discorso soprattutto di natura politica: l’Atene preistorica, «la migliore in guerra e \ governata da ottime leggi» sconfigge con il suo valoroso esercito la potenza marinara.) E se è esistita, dov’era esattamente collocata? Ancora la tradizione platonica resta in tal senso la più autorevole: oltre le colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), in pieno oceano, ed era più grande della Libia e dell’Asia messe insieme: un’isola meravigliosa, regno di una perpetua età dell’oro; ma fattasi in seguito bellicosa, tanto da attaccare vari imperi del Mediterraneo e la stessa Atene. La quale, come dicevamo, riesce a contrastare l’aggressione.
Era quella, però, un’epoca di continui rivolgimenti ambientali, in un pianeta ancora magmatico e non ben raffermato nei suoi confini: le distruzioni «per acqua» erano le più frequenti, diluvi e maremoti scompigliavano le linee del mondo e annegavano il genere umano, metodo evidentemente tra i più pratici per la divinità, quando riteneva giunto il momento di punire quel «coso con due gambe» (per dirla con Gozzano) se alzava un po’ troppo la cresta - salvo risparmiarne sempre, chissà perché, due esemplari, una coppia che in maniere più o meno fortunose (Deucalione e Pirra, per citarne una, dai cui sassi gettati sulla Grande Madre Terra rinascono gli uomini e le donne) perpetua il genere umano. Così, per Atlantide, e per la stessa Atene, il destino è segnato: «Dopo che in seguito, però, avvennero violenti terremoti e diluvi, nello spazio di un sol giorno e di una sola notte funesti, tutta la nostra flotta fu inghiottita d’un sol colpo sottoterra e l’isola Atlantide s’inabissò allo stesso modo nel mare».
La ricerca di Atlantide - intellettuale, per pura sete di conoscenza, e materiale, per via dei tesori che essa celava - sarà da allora in poi inesausta; di fantasie atlantidee abbonda la letteratura di ogni epoca, e anche di spedizioni più o meno disastrose negli abissi oceanici - comunque a tutt’oggi fallimentari. Del resto Platone la descrive nel Crizia in maniera straordinariamente allettante: proprietà di Poseidone al momento della pacifica spartizione del mondo tra gli dèi olimpî, egli la rende un vero paradiso in onore della fanciulla Clito, che fa sua sposa e con la quale genera le cinque coppie di maschi, primo fra tutti Atlante, futuri sovrani del regno, origine della stirpe (e non si sa come, data la mancanza di femmine - ma certi eccessi del vecchio filosofo sono noti: nella gerarchia delle incarnazioni sostiene che le peggiori siano quelle di donna e di animale, ultimi i pesci). La terra spontaneamente ferace, le fonti di acqua calda e fredda, i preziosi metalli che vi abbondano (tra cui il leggendario oricalco «dai riflessi di fuoco», che rivestiva statue e palazzi), gli animali di ogni specie, domestici e selvaggi, elefante compreso, «il più grosso e il più vorace»; e ancora le opere che Poseidone compie, «da dio par suo», le plurime cinte murarie, il sistema di canali e il porto, crocevia di popoli dove giungevano le merci più disparate e preziose, e i templi d’oro e d’avorio e d’argento...
Una sorta, insomma, di paese fuori dal tempo e dallo spazio, che sarebbe facile riferire - come è stato ampiamente fatto - all’opera di una razza non terrestre. Ben a ragione, fra le tante altre cose interessanti, scrive Pierre Vidal-Naquet, nel suo ultimo saggio Atlantide. Breve storia di un mito (Einaudi, pagg. 141, euro 18, traduzione di Riccardo Di Donato), a proposito del racconto di Atlantide e della guerra contro Atene, che Platone «ha inventato un genere letterario che resta ancora in vita, \ la fantascienza. Di tutti i miti che ha creato, è in qualche modo il solo che abbia attecchito».
Dalle prime ipotesi di localizzazione, quelle greche (l’isola di Creta, e Santorini, Thera per gli antichi, sconvolte entrambe da un’eruzione vulcanica), lo studioso francese segue le tracce del mito nelle varie epoche: dalla letteratura ellenistica, Diodoro Siculo, attraverso Plinio il Vecchio, Ammiano Marcellino, fino, in era cristiana, ai vari tentativi di conciliare la tradizione biblica con la classica greca (individuando talvolta il continente perduto nella Palestina). Alcuni, come Origene, si concentrano sul conflitto Atlantide-Atene, metafora dello scontro di forze entrambe demoniache. Altri, come Proclo, vi vedono l’opposizione cosmica tra «il mondo dell’Uno e quello della Diade, tra lo Stesso e l’Altro». Per l’umanista Marsilio Ficino Atlantide era e resta un luogo della mente (ma non per questo meno veridico); quindi, con la scoperta dell’America, nasce tutto un filone di ricerca atto ad identificare Atlantide col Nuovo Mondo, nonché a giustificare storicamente, a vario titolo, i diritti accampati su di esso dal regno di Spagna (operazione nazionalistica ripresa dalla Germania nazista e dai suoi ideologi, Himmler in testa, che riconoscerà in Atlantide la patria favolosa della superiore razza ariana).
Eredità di Atlantide ritroviamo nell’isola di Bensalem di Francesco Bacone, governata da sapienti e abitata da una popolazione casta; mentre ancora nel XVII secolo la bizzarra mente di uno svedese, Olaüs Rudbeck, la ravvisa nella Svezia, e con sussidio di ponderosi volumi tende a dimostrare che la Scandinavia, con i suoi gloriosi abitatori, è appunto culla di ogni civiltà occidentale. L’ubicazione nelle Canarie o nelle Azzorre è più volte ripresa, a distanza di secoli; per Voltaire è l’isola di Madera. Il padre dell’occultismo francese, Fabre d’Olivet, fonde tradizione biblica e racconto platonico, col risultato di uno stupefacente pastiche. E, per rimanere in ambito esoterico, ecco William Blake, che complica il succitato pastiche con la tradizione americana e celtica, e il suo Albione, antenato dei Bretoni, altri non era se non il «patriarca del continente atlantico».
Approdando alla Francia ottocentesca, chi non conosce il viaggio tra le rovine di Atlantide del capitano Nemo e del professor Arronax in Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne? Meno noto da noi, ma egualmente significativo, il romanzo Atlantide di Pierre Benoit, che la colloca nell’Hoggar, altipiano sahariano, e le attribuisce una società governata da donne, la cui regina, Antinea, si serve degli uomini e poi li uccide, esponendoli, ben imbalsamati, nella «sala di marmo rosso». Vedete un po’ come e quanto può ribaltarsi la misoginia platonica.
venerdì 31 maggio 2024
"Gli Ufo, sono gli Ufo!". E la partita fu interrotta
tratto da "Il Giornale" del 9 Settembre 2023
Il 27 ottobre del 1954 al Comunale di Firenze Fiorentina e Pistoiese si affrontano nell'antenato del campionato primavera. Fino a quando in cielo non spuntano degli oggetti non identificati
di Paolo Lazzari
Cielo terso, ora di pranzo, mercoledì lavorativo. Al Comunale di Firenze, futuro Artemio Franchi, si disputa una gara senza pretese: campionato Cadetteria, l'antenato dell'odierno Primavera. Non ci sarebbero dunque le premesse per attirare un grande pubblico, ma la Viola in città resta un culto in ogni sua declinazione e poi un derby richiede sempre di gonfiare il petto. In campo scendono quindi Fiorentina e Pistoiese, accolte da diecimila persone. Fuori si dipana placido il 27 ottobre del 1954.
La folla accorsa ancora non può saperlo, ma quei ragazzini che compongono la squadra di casa faranno più avanti da pilastri nella formazione campione d'Italia e finalista in coppa dei campioni. Circostanze futuribili destinate a sorprendere, ma comunque con una forza d'urto minore rispetto a quello che sta per succedere.
Fiorentina in controllo. Non c'è proprio partita. La Pistoiese ha approntato una tattica sbilenca, non tiene le distanze tra i reparti, affonda vorticosamente sotto i fendenti gigliati. Poi però arrivano le 14.30. Un gong fatidico, perché d'un tratto la folla cessa di mirare al campo e si mette tutta col naso all'insù. Dopo poco lo fanno anche l'arbitro, i calciatori, le panchine. Nel cielo sopra allo stadio sta succedendo qualcosa di inedito. C'è un oggetto che fluttua sopra il campo, ma non è un aereo, né un aliante, tantomeno un dirigibile.
Il pubblico si alza in piedi. In pochi minuti si crea una specie di ressa per guadagnare i gradoni più in alto. Decifrare quello che sta succedendo pare intricato. Ad un certo punto qualcuno indica la soluzione più plausibile: "Gli Ufo! Sono gli Ufo!". E non si tratta di un banale agit - prop del "C'è vita nell'universo". Perché davvero tutti la pensano allo stesso modo. Negli anni Cinquanta, del resto, dilaga la cultura degli avvistamenti alieni. Ma qui c'è qualcosa che travalica la suggestione.
L'arbitro sospende la partita. Diecimila persone osservano questo oggetto che sembra avere le sembianze di un grande uovo scintillante. Poi se ne aggiungono altri. Dall'alto iniziano a cadere centinaia di sottilissimi filamenti luccicanti. L'intrigo si fa ancora più evidente. Pupille sgranate, bocche spalancate. Poi gli oggetti riprendono la corsa e se ne vanno. Dopo lo stordimento collettivo la gara riprende. La Fiorentina vincerà 6 a 2, ma non sarà questa la notizia sui giornali del giorno dopo.
"Ufo su Firenze", titolano i principali quotidiani, riferendo di dischi volanti che sono transitati sopra lo stadio per poi svignarsela. E aggiungendo che la cosa possiede un fondamento di verità difficilmente scardinabile, dato che non si tratta del solito testimone isolato e discutibile. Qui parliamo di 10mila persone e 20mila occhi. In seguito il fenomeno viene sviscerato. I più razionali, i boiardi del terracentrismo, escludono che si tratti di navicelle aliene che si erano fermate per godersi la partita.
Avanza, piuttosto, la singolare teoria dei ragni migratori. Ragni volanti, a tutti gli effetti. Una minuscola specie di aracnidi in grado di librarsi in aria formando grossi gruppi e di percorrere decine di migliaia di km producendo filamenti che, irrorati dalla luce del sole, diventano scintillanti. Peccato che i materiali raccolti e analizzati non c'entrino nulla con le bave degli amabili insetti.
In seguito si affastellano i documentari postumi, alla ricerca della verità. Che fino ad oggi ancora langue. Nessuno sa ancora fornire una spiegazione plausibile. Nessuno, probabilmente, ci riuscirà più. Così può valere ancora tutto. Compresi gli alieni appassionati di pallone.
lunedì 20 maggio 2024
Erzsébet Bàthory: la storia oscura di una "Dracula al femminile"
tratto da "Il Giornale" del 17 ottobre 2023
Passata alla storia come la "contessa Dracula”, Erzsébet Bàthory avrebbe ucciso centinaia di donne, ma ancora oggi c’è chi mette in dubbio questa cupa versione dei fatti
di Francesca Rossi
Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento la contessa Erzsébet Bàthory avrebbe assassinato tra le 100 e le 300 persone, diventando uno dei più feroci serial killer che la storia abbia mai conosciuto. Per alcuni, addirittura, le sue vittime sarebbero state più di 600, sebbene per gli storici questo numero non sia confermato. La vita della “contessa Sanguinaria” o “contessa Dracula”, come è passata alla Storia la Bàthory, è sempre stata in equilibrio tra realtà e leggenda nera e oggi c’è persino chi ritiene che la contessa possa essere finita al centro di un complotto studiato per screditare il suo nome e la sua famiglia.
La giovane Erzsébet
Un’aristocratica che fa il bagno nel sangue delle sue vittime: questa è una delle prime immagini che vengono in mente quando ci ritroviamo di fronte al nome della contessa ungherese Erzsébet Bàthory (1560-1614). Giovani donne uccise per garantire un folle ideale di eterna bellezza e giovinezza, terrore e torture che sarebbero cessati solo nel 1610, con l’arresto della nobildonna. I fatti, però, potrebbero essersi svolti in un altro modo. Erzsébet, erede di una delle dinastie protestanti più importanti e potenti della Transilvania, visse la sua giovinezza con i genitori, Anna e George Bàthory, nel castello di Čachtice, il luogo che ben presto sarebbe divenuto il teatro dei suoi presunti, efferati omicidi.
La contessa ricevette un’educazione eccellente, degna del suo rango e quando compì 11 anni il padre, come da tradizione all’epoca, la promise in matrimonio al conte Ferenc Nàdasdy, un cugino che aveva 5 più di lei. Erzsébet si trasferì nel castello del futuro sposo, dove sarebbe rimasta incinta di un servitore. Ferenc, però, avrebbe deciso di non punirla: troppo interessato alle ricchezze dei Bàthory, per nulla al mondo si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di un matrimonio così vantaggioso. Così avrebbe riversato tutta la sua rabbia sul servitore, evirato e messo a morte.
L’8 maggio 1575 Ferenc ed Erzsébet si sposarono a Varanno (oggi in Slovacchia). Dettaglio interessante: fu il marito a prendere il cognome della moglie, data la fama dei Bàthory. La coppia andò a vivere nel castello di Čachtice ed ebbe 4 figli. Ferenc era spesso assente, impegnato nelle battaglie contro i turchi. La sua ferocia e la sua audacia gli valsero il soprannome di “Cavaliere Nero d’Ungheria”. Il 4 gennaio 1604, però, morì durante uno degli scontri con l’impero ottomano. La presunta leggenda nera di Erzsébet iniziò ufficialmente da questo momento.
Sadismo e magia
Gli storici non escludono che il re Mattia II d’Ungheria (1557-1619) fosse coinvolto nella morte di Ferenc, che in qualche modo l’avesse favorita per prendersi i possedimenti dei Bàthory. In fondo, potrebbe aver pensato il sovrano, morto il Cavaliere Nero ad amministrare le ricchezze della famiglia rimaneva solo sua moglie, una donna che non aveva né esperienza, né capacità. Se davvero era questa la sua opinione, si sbagliava. Erzsébet dimostrò di saper governare il suo feudo e si alleò persino con il nipote, il principe di Transilvania Gàbor I, per muovere guerra contro Mattia II d’Ungheria.
Era diventata un personaggio pericoloso, scomodo. Da eliminare. Nei fatti, però, non era così semplice, dato il potere di Erzsébet. Bisognava trovare o, se era il caso, addirittura inventare un appiglio, qualcosa che avrebbe distrutto per sempre sia lei, sia la sua dinastia. Dal 1604 iniziarono a circolare voci inquietanti su ciò che accadeva tra le mura del castello di Čachtice. Si diceva che la contessa Bàthory praticasse la stregoneria, a cui l’avrebbe iniziata una certa Dorothea Szentes, detta Dorka. Ma questo è niente. I servitori sarebbero stati puniti in modo atroce e sadico anche per delle piccole mancanze. Inoltre continuavano a scomparire misteriosamente le ragazze più belle e giovani del luogo. Mattia II volle vederci più chiaro e avviò un’indagine sulla Bàthory.
Stando alle ricostruzioni la contessa avrebbe iniziato a compiere le sue efferatezze molto prima del 1604, forse già dal 1585. Suo marito non solo sarebbe stato a conoscenza degli atti di sadismo e degli omicidi, ma avrebbe addirittura assecondato questo comportamento deviato. Sembra, infatti, che Ferenc non fosse tanto diverso da Erzsébet, visto che i due si scambiavano per lettera “consigli” sui modi più atroci per torturare le loro vittime. Non basta: la contessa avrebbe mostrato segni di squilibrio mentale già da ragazzina, insieme all’epilessia di cui soffriva, malattie che sarebbero state molto comuni nella sua famiglia.
Il castello degli orrori
Mattia II d’Ungheria ordinò al conte György Thurzo di organizzare una spedizione al castello di Čachtice per rendersi conto di persona quanto fossero veri i sinistri pettegolezzi sulla Bàthory. Quando varcò la soglia della residenza, il 30 dicembre 1610, Thurzo si sarebbe trovato di fronte uno spettacolo raccapricciante: una serva era distesa agonizzante in giardino, un’altra ragazza forse già morta era all’interno del castello, mentre decine di altre si trovavano, ferite o moribonde, nei sotterranei. Erzsébet avrebbe accolto il suo ospite con grande disinvoltura, come se fosse tutto normale e non vedesse lo scempio che aveva compiuto.
La contessa venne arrestata e condotta a Bytca (nel Nord della Slovacchia), dove venne processata. Dato il suo rango, rifiutò di essere giudicata da una corte, ma ciò non cambiò affatto la sua sorte. La sua piccola corte venne interrogata e confessò che la Bathory avrebbe attirato nel castello molte ragazze con la scusa di un lavoro oppure, nel caso di giovani nobildonne, della possibilità di entrare a far parte del suo seguito. Una volta chiuse nella residenza per le vittime sarebbe iniziato l’inferno: i complici della contessa le avrebbero picchiate, torturate con ferri incandescenti, frustate. I loro cadaveri sarebbero stati sepolti nel parco del castello.
Qui storia e leggenda, già fortemente intrecciate, si fondono senza soluzione di continuità. Questa pazzia cruenta, infatti, avrebbe avuto uno scopo altrettanto folle e terribile: assicurare a Erzsébet Bàthory l’eterna giovinezza. Alcuni testimoni raccontarono che un giorno, mentre picchiava una delle sue domestiche, la contessa si sarebbe sporcata la mano di sangue. Mentre si ripuliva avrebbe notato che nel punto esatto in cui erano cadute le gocce la pelle pareva ringiovanita, più morbida. Un delirio assoluto che l’avrebbe spinta a farsi il bagno nel sangue delle vittime e persino a berlo. Da questo aneddoto sarebbe nato l’appellativo di “contessa Dracula”.
Rinchiusa a vita
La Bàthory evitò il processo, ma non la condanna. Il tribunale stabilì che venisse rinchiusa a vita in una delle stanze del suo castello, senza la possibilità di vedere la luce del sole. L’unico contatto tra la contessa e il mondo esterno era una fessura da cui le veniva passato il cibo. Erzsébet morì il 21 agosto 1614. Nel testamento chiese di essere sepolta nella chiesa di Čachtice, ma gli abitanti del villaggio non vollero nemmeno sentir parlare di una sepoltura in terra consacrata. Così la “contessa Sanguinaria” finì nel cimitero di Ecsed, nella zona Nord Est dell’Ungheria.
I suoi complici vennero giustiziati e le loro ceneri disperse, in modo che, come suggeriva un’antica superstizione, le loro anime non potessero riposare in pace. Tutti i beni di Erzsébet Bàthory vennero incamerati dalla Corona ungherese. Ciò impone una riflessione: la leggenda nera della contessa è reale, oppure venne inventata da Mattia II come pretesto per impossessarsi dei beni dei Bàthory? È impossibile stabilirlo con certezza, ma forse ci troviamo di fronte a uno di quei casi per cui vale il detto secondo il quale “la verità sta nel mezzo”.
Forse la contessa non fu una serial killer e il numero di vittime attribuitole venne gonfiato da un’abile campagna diffamatoria. D’altro canto, però, Erzsébet sarebbe stata tutto fuorché un angelo. La violenza cruda, la profonda malvagità che avrebbero caratterizzato la sua personalità potrebbero aver avuto origine dai disturbi mentali di cui avrebbe sempre sofferto.
La contessa, in un certo senso, avrebbe offerto il fianco a Mattia II, aiutandolo inconsapevolmente a tessere la tela che l’avrebbe imprigionata fino alla morte.
martedì 9 aprile 2024
Zersetzung, il controllo mentale ai tempi della Stasi
tratto da: https://it.insideover.com/schede/storia/zersetzung-il-controllo-mentale-ai-tempi-della-stasi.html
del 15 AGOSTO 2022
di Emanuel Pietrobon
Il dominio di guerra del futuro è la mente, o meglio il suo controllo. Perché controllare un singolo equivale a farne un candidato manciuriano, sebbene non per forza programmato per uccidere, ma per votare in un certo modo, per pensare in una determinata maniera, per agire prevedibilmente. E perché controllare una massa intera, cioè l’opinione pubblica, significa avere in mano i destini di uno stato.
L’era di questo nuovo modo di fare la guerra, denominata cognitiva, è albeggiante: la pandemia di COVID19 e la guerra in Ucraina ne hanno catalizzato l’ascesa, le ricerche sulla mente degli scienziati nazisti e dei due blocchi nel corso della Guerra fredda ne hanno gettato le fondamenta. E se si scrive delle ricerche avvenute all’interno del Secondo mondo, allora è necessario raccontare la storia di una tecnica pionierizzata dalla Stasi: la Zersetzung.
Le origini della "destabilizzazione psicologica" alla tedesca
Zersetzung è un termine tedesco che può avere una pluralità di significati, tutti interrelati tra loro, che sono corrosione, destabilizzazione, decomposizione e dissolvimento. Che è esattamente ciò che accade, poi, alla mente della vittima di questa psico-tecnica, che viene, passo dopo passo, corrosa, destabilizzata, decomposta e, infine, dissolta.
Zersetzung, la decomposizione della mente. Una tecnica di manipolazione cognitiva e destabilizzazione psicologica nata ai tempi della Germania nazista, nei laboratori di Kurt Plötner, e che nel dopoguerra è stata perfezionata dalla temibile Stasi della Germania Est, trovando vasta applicazione durante l’era Honecker.
Obiettivo del recupero degli studi nazisti sulla decomposizione della mente era la volontà di combattere più efficacemente l’opposizione politica e la resistenza sociale al regime comunista. Perché reprimere il dissenso con la forza, più che insufficiente, sarebbe potuto rivelarsi controproducente. Occorreva qualcosa di nuovo, che fosse pervasivo ma invisibile e pernicioso ma intangibile. E la Zersetzung premetteva e prometteva di avere tali caratteristiche.
Con lo scorrere degli anni Sessanta, di pari passo con il perfezionamento della Zersetzung, le autorità della Germania Est avrebbero progressivamente diminuito il ricorso a strumenti quali la persecuzione giudiziaria e la violenza fisica ai danni di dissidenti, oppositori e critici. Ma non perché l’opposizione dal basso fosse venuta meno, quanto per via dell’estesa applicazione della Zersetzung. Una tendenza accelerata da Erich Honecker a partire dagli anni Settanta.
Teoria e prassi della decomposizione
La Zersetzung, così come strutturata e applicata dalla Germania Est, fu sviluppata da un gruppo di scienziati sociali nella Scuola di legge per la sicurezza statale (JHS, Juristische Hochschule der Staatssicherheit), altresì nota come la Scuola della Stasi.
Attingendo al legato nazista in materia di propaganda e guerra psicologica, che era piuttosto vasto, i ricercatori della Stasi complessificarono e perfezionarono la Zersetzung, facendone un metodo per aggredire l’autostima della vittima al punto tale da suscitare gravi crisi di identità.
Un oppositore politico carismatico e seguito, quando colpito dalla Zersetzung, avrebbe cominciato a vivere dei periodi particolarmente bui, fatti di alienazione sociale, strani incidenti, ostracizzazione e rifiuti. Eventi strettamente personali, apparentemente scollegati alle attività politiche del soggetto, ma psicologicamente destabilizzanti e in grado di provocare delle crisi identitarie ed emozionali. L’esaurimento come capolinea, talvolta accompagnato dal suicidio.
Ogni mezzo era lecito al fine della decomposizione mentale del soggetto da estinguere socialmente: invogliarlo ad avere dei rapporti sessuali con dei minori, farlo entrare in circoli insalubri – con tossicodipendenti –, coinvolgerlo in piccoli delitti – come i furti –, corromperne i colleghi affinché lo emarginassero e i capi affinché lo ostacolassero e/o lo trasferissero in luoghi remoti, farlo dubitare della sua stessa realtà circostante nella speranza di condurlo alla pazzia – la tecnica del cosiddetto gaslighting.
La Zersetzung era un metodo efficiente ed efficace perché personalizzabile e, quasi sempre, personalizzato. Gli addetti alla decomposizione mentale della vittima ne studiavano i tratti caratteriali, i valori e le abitudini, elaborando dei sociogrammi e degli psicogrammi a partire dai quali sviluppare la strategia di emarginazione. Schematismi e piani preconfezionati venivano evitati nella maggior parte dei casi, elevando le prospettive di successo.
L'eredità
Jürgen Fuchs, un intellettuale ribelle che fu vittima della Zersetzung negli anni Settanta, descrisse quell’inusuale periodo di perdurante ostracizzazione – durato anni – come un “crimine psicosociale” ed “un assalto all’anima umana”. Come lui, secondo alcune stime, almeno 5-10mila persone sarebbero state colpite dalla Zersetzung durante l’era Honecker.
Fu proprio Fuchs, deportato in Germania Ovest nel 1977, a mettere il pubblico tedesco a conoscenza della Zersetzung. Sulle colonne dell’influente Der Spiegel, che ripose fiducia nelle sue testimonianze, Fuchs cominciò a pubblicare una mole di documenti relativi all’utilizzo della psicologia da parte della Stasi. Una palla di neve che avrebbe dato vita ad una valanga, tra libri, documentari e inchieste giornalistiche, sebbene la giustizia abbia mantenuto un atteggiamento stranamente ambiguo sulla prosecuzione degli 007 impegnati nella Zersetzung.
Curiosamente, negli stessi anni in cui la Stasi applicava con successo la Zersetzung, nella Romania di Nicolae Ceaușescu veniva eretto il più grande regime di sorveglianza di massa del pianeta – per numero di spie pro capite –, tra Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese tornavano in auge i corsi di rieducazione e negli Stati Uniti, capifila del mondo libero, si realizzavano dei programmi di manipolazione mentale non meno distopici di quelli sperimentati al di là della Cortina di ferro, da MKULTRA a Mockingbird, passando per COINTELPRO. E oggi come allora, nulla è cambiato: l’obiettivo dei potenti resta il controllo della mente degli individui.