sabato 28 settembre 2019

La reggenza di Michele Arcangelo nell'era dell'ascensione umana

Vi segnaliamo questo evento gratuito organizzato dall'associazione SARAS:

La reggenza di Michele Arcangelo nell'era dell'ascensione umana
sabato 12 ottobre ore 20,30 via A. Volta, 1 - Gattinara (VC)


mercoledì 25 settembre 2019

La magia. Nei secoli e secondo Giordano Bruno

La magia. Nei secoli e secondo Giordano Bruno

di Gianmario Ricchezza e Daniele Trucco

Il lavoro cerca di procedere in modo cronologico mettendo in luce contemporaneamente l’evoluzione del pensiero magico con tutti i suoi notevoli cambiamenti concettuali e gli elementi che invece accomunano da sempre la sua storia. In particolare si è notato quanto il suono e la figura siano ancora oggi elementi indispensabili all’efficacia dell’atto magico: nonostante l’era informatica abbia modificato l’approccio a un certo tipo di ritualità, l’idea chiave della visualizzazione simbolica e della sonorizzazione del comando non si è estinta. Completa il lavoro una nuova traduzione del De magia di Giordano Bruno.


La magia. Nei secoli e secondo Giordano Bruno
Collana: Magia, miti e culti
Pagine: 198
Prezzo: € 16,50
ISBN: 9788871693019



Gianmario Ricchezza ha studiato filosofia all’Università Statale di Milano. Ha curato per Excelsior1881 (Milano) le edizioni moderne dei testi di Giordano Bruno: Il candelaio (2008), La cabala e l'asino (2010), La cena delle Ceneri (2012). Ha pubblicato con M. Cavallero per la Golem Edizioni (Torino) Giordano Bruno e la nascita dell'arte moderna (2016).

Daniele Trucco si è laureato in Lettere presso l’Università di Torino, ha conseguito il Diploma in Pianoforte al Conservatorio “G. Verdi” di Torino e quello di Composizione al Conservatorio “F. Ghedini” di Cuneo. Collabora con riviste di arte e di matematica, ha pubblicato saggi, narrativa e composizioni per vari strumenti e, oltre all’insegnamento di materie letterarie nella scuola pubblica, si dedica alla musica condirigendo lo CFAM di Verzuolo.


sabato 21 settembre 2019

I primi libri spagnoli sugli UFO (anni ’50)

tratto da http://www.cacciatoredilibri.com/i-primi-libri-spagnoli-sugli-ufo-anni-50/

di Simon Berni

L’anno zero delle pubblicazioni sugli UFO in Spagna (e nel mondo): 1950

Se andiamo alle origini del fenomeno Ufo in Spagna dobbiamo considerare due libri che uscirono nell’anno zero dell’Ufologia mondiale, ovvero Los “platillos voladores” (“I piatti volanti”) (Barcelona, Editorial Molino, 1950) di J. M. Díez Gomez e En el país de los platillos volantes (“Nel paese dei piatti volanti”) (Madrid, Gráficas Nebrija, 1950) di J. Curto Guzmán.
L’anno successivo si ebbe Platillos volantes (“Piatti volanti”) (Barcelona, Bruguera, 1951) di Peter Debry. A seguire, El secreto de los platillos volantes (“Il segreto dei piatti volanti”) (Madrid, Calleja, 1952) di Juan Antonio De Laiglesia. Sono questi quattro i primi libri sul fenomeno dei dischi volanti mai apparsi in Spagna. Sono questi che dovete cercare.
Parliamo un po’ delle loro ingenue ma spettacolari copertine. Los “platillos voladores” si presenta con un fiammeggiante “piatto” volante, che viene spettacolarmente inseguito da un bimotore il quale sale di quota verticalmente nel cielo, bucando le nuvole, come fosse un missile! Il secondo volume di questa mini-rassegna, En el país de los platillos volantes, invece, non ha una copertina illustrata. Presenta solo un titolo con caratteri “calligrafici”, che sono comunque testimoni del gusto e dello stile dell’epoca.
Platillos volantes ricorda un fumetto in bianco e nero, con un ipotetico agente segreto dell’epoca, armato di rivoltella, che fugge via in sella alla sua superaccessoriata motocicletta, inseguito da tre piatti bianchi saettanti nel cielo, al di sopra di una metropoli.
La copertina che preferisco, comunque, è quella di El secreto de los platillos volantes. Una donna misteriosa (o un essere androgino?) con una svolazzante camicia gialla è al cospetto di un extraterrestre (verde, ovviamente) dalle orecchie spropositate. Un lembo della camicia della donna si rivela provvidenziale nel coprire il sesso dello strano e buffo essere. Ma tutti e quattro i libri citati, che coprono gli anni che vanno dal 1950 al 1952, sono nella realtà delle opere di science fiction, non trattando di dischi volanti frutto di reali avvistamenti, ma solo platillos volantes come ingredienti “esotici” di novelle e romanzi. Questo sebbene nel libro di J. M. Díez Gomez alcune sue opinioni personali sui dischi volanti siano intercalate nel testo alla finzione letteraria, che è comunque prevalente.


Los “platillos voladores”, di J. M. Díez Gomez (Barcelona, Editorial Molino, 1950)

Platillos volantes, di Peter Debry (Barcelona, Bruguera, 1951)

El secreto de los platillos volantes, di Juan Antonio De Laiglesia (Madrid, Calleja, 1952)

Los platillos volantes y la evidencia, di Manuel Pedrajo (Santander, edizione privata, 1954).

Le perle più rare

Il super esperto di ufo-bibliofilia spagnola, Antonio González Piñeiro, suggerisce due titoli veramente introvabili e che farebbero “impazzire” qualsiasi cercatore di libri. Il primo è anche il primo libro pubblicato in Spagna sul “problema” dei dischi volanti, Los platillos volantes y la evidencia (“I piatti volanti e l’evidenza dei fatti”) (Santander, edizione privata, 1954) di Manuel Pedrajo. Il libro fu fatto stampare dallo stesso autore. Il secondo pezzo raro di questa mini rassegna è Astronaves sobre la Tierra (“Astronavi sulla Terra”) (Barcelona, Oromí, 1955) di Eduardo Buelta, un opuscoletto, 28 pagine, credo uno dei pochi documenti al mondo sulla cosiddetta teoria del ciclo bienal marciano, in voga tra i primi contattisti spagnoli e poi derelitta.

Fernando Sesma

Se ritorniamo all’intrigante Fernando Sesma – vedi un precedente articolo: Ummo, il libro “que no se piede hallar”: la chimera introvabile dello’ufologia spagnola – non possiamo fermarci al suo libro sugli ummiti, come se niente fosse. L’esperto di libri sugli Ufo (e non solo) Marco Mucci di Roma mi segnala di essere in possesso del rarissimo Los platillos volantes vienen de otros mundos (“I piatti volanti vengono da altri mondi”) (Madrid, Editorial Fiel, 1955). Da una breve ricerca incrociata tra gli appassionati è risultato che nessuno abbia mai avuto questo volume fra le proprie mani. A volte viene citato nelle bibliografie, come se il suo contenuto fosse di dominio pubblico e ben conosciuto a tutti, ma chi lo ha mai visto veramente? Si tratta per la verità di un grosso opuscolo, conta 78 pagine. Il libro fa un’analisi dell’Ufologia mondiale dei primi anni ‘50, con un occhio particolare ai contattisti d’oltre oceano come Adamski. Trovarne una copia sul mercato è la speranza di molti, ma pochi la vedranno realizzarsi. Abbastanza raro è pure Yo, confidente de los hombres del espacio (“Io, il confidente degli uomini dello spazio”) (Madrid, Editorial Tesoro, 1965), nel quale l’autore getta, per così dire, le basi della sua ricerca, ne delinea l’approccio e ne rammenta gli esordi, citando esperienze “significative” durante le sue interminabili e proficue passeggiate nel parco centrale di Madrid.
Sempre di Sesma, da cercare anche l’intessante ¡Sensacional! Hablan los extraterrestres! (“Sensazionale! Parlano gli extraterrestri”) (Madrid, Gráficas Espejo, 1966). Sempre più difficile da rintracciare, invece, è La logica del visitante del Espacio (Madrid, Editorial Tesoro, 1969) che, come si dice in copertina:

“No es un libro más sobre OVNIS. Es una primera y auténtica explicación sobre la conducta desconcertante de sus tripulantes y su filosofía (“Non è un altro libro sugli Ufo; è una prima autentica spiegazione sulla condotta sconcertante dei loro abitanti e della loro filosofia”)”.

Ritengo tuttavia che due delle opere sui dischi volanti più introvabili di Fernando Sesma (alla pari di Los platillos volantes), collocate anch’esse negli anni ‘50, siano da considerarsi rispettivamente La piedra de la sabiduría (“La pietra della sapienza”) (Madrid, Marisal, 1956) ed Esquema de la nueva filosofia de la piedra del espacio (“Schema della nuova filosofia della pietra dello spazio”) (Madrid, stampato in proprio, 1958); si tratta di due opuscoli, contando il primo 78 pagine e il secondo appena 24. L’argomento di questi due lavori ruota attorno al misterioso significato di strani caratteri incisi su una pietra che un sedicente extraterrestre avrebbe consegnato a un anonimo infermiere (e poi famoso contattista), Alberto Sanmartín, pare nel novembre del 1954. Devo ammettere (senza nulla togliere all’importanza del reperto) che quei geroglifici incisi sulla pietra rettangolare (avendoli visti) sembrano piuttosto ingenui, specialmente se osservati oggi e non cinquant’anni fa.
Un altro opuscoletto di Sesma, non facile da rinvenirsi, è La llama de seda (“La fiamma di seta”) (Madrid, Marsiega, 1976), che racchiude massime filosofiche ed esistenziali. A Barcellona ne ho trovata una copia sciaguratamente sfuggita ai cercatori spagnoli con una preziosa dedica autografa dell’autore al grande ufologo Antonio Ribera. All’interno dell’opuscolo, ben ripiegata, ho inoltre rinvenuto una lettera manoscritta di Sesma datata 11 marzo 1976 indirizzata allo stesso Ribera, dalla quale si evince l’amicizia che legava i due autori e il loro continuo scambio di informazioni e di libri. Il libretto faceva probabilmente parte della collezione personale di Ribera, fortunatamente dispersasi in chissà quanti paesi. Colpevoli i librai.

Libri fantasma

Entrambi gli autori hanno fatto uso di pseudonimi durante la loro attività. Dr. Kérek per Fernando Sesma e Anthony Simons per Antonio Ribera. Per chiudere il discorso sui rari libri di Fernando Sesma, voglio esibirmi in un colpo di scena finale. Sempre su imbeccata del competente Mucci cito infatti la commedia El secreto de Lady Margarita. Non esistono dati bibliografici su questo libro. Forse non esiste neppure il libro (ma se esiste fu stampato sicuramente prima del 1965). Il fatto è che Sesma lo cita ripetutamente in diversi suoi lavori e nonostante ciò esperti bibliofili spagnoli, pur avendo effettuato ricerche in tutte le direzioni, non ne hanno mai trovata traccia. La misteriosa signora sarebbe una nobildonna di Albacete, Margarita Ruiz de Lihori, invischiata in non si sa bene quale strana faccenda con il popolo extraterrestre degli ummiti. Il mito della mano cortada (“mano recisa”) sembra presiedere il tutto. Non ci è dato aggiungere di più. Ecco un vero e proprio misterio, al quale corrisponde il suo immancabile “libro proibito”.
A proposito di “donne fatali” nella vita di questo insolito autore, un cenno lo merita la conturbante figura di Mercedes de Sosa. Vi aleggia un piccolo mistero, ma sono cose di mezzo secolo fa, ormai. Un altro enigma ruota invece attorno a un numero che risulta indissolubilmente legato a Fernando Sesma: 372452. E lo sarà per gran parte della sua esistenza. Ma è un mistero per i più.

[testo tratto da “Dischi volanti e mondi perduti“, in: A caccia di libri proibiti, di Simone Berni (Edizioni SimOn, 2019)]


lunedì 16 settembre 2019

Memorie del mito, presentazione a Udine

Venerdì 20 settembre Andrea di Lenardo e Federico Divino con l'avv. Nino Orlandi a Udine, alla Libreria Tarantola di Giovanni Tomai, presenteranno il loro libro "Memorie del mito".

Una breve presentazione del libro: i due autori propongono il loro nuovo studio in un'alternanza dialogica di capitoli in cui analizzano il tema del mito e della religione, l'evoluzione del concetto di divinità, i contatti tra India e Grecia, il ponte tra Vicino Oriente ed Europa, miti e filosofie dell'Asia e questioni linguistiche, proponendo tesi innovative tra storia delle religioni e filologia, antropologia e filosofia.


La presentazione del libro:
Venerdì 20 settembre ore 18,30
Libreria Tarantola
Via Vittorio Veneto 20
Udine


lunedì 9 settembre 2019

La vera storia di Pedro Gonzalo

di Nicoletta Travaglini

Correva l’anno millecinquecento trentotto per la precisione era il ventisette di luglio quando si è tenne il regale matrimonio tra Enrico II di Francia e Caterina De’ Medici. La sontuosa celebrazione si svolse nel giardino del castello imperiale della coppia a Fontainebleau in Francia. Agli occhi degli invitati, questa festa apparve subito da sogno. Come in una fiaba, il castello era illuminato a giorno da migliaia di fiaccole che accompagnano il cammino degli illustri ospiti.
Una soave musica melodiosa intratteneva gli invitati che quasi non facevano caso ad essa tra il brusio di sottofondo che spesso veniva sovrastato da una allegra risata delle nobildonne fasciate nei loro variopinti abiti, adoranti da acconciature meravigliose e da cappellini vistosi; il guaito dei cani, le voci baritonali maschili e il rumore delle armature dei soldati, rendevano questa celebrazione una delle più importanti manifestazioni mondane dell’epoca.
Nelle vaste e sale affrescate che si aprivano lungo i corridoi ornati da dipinti e da statue gigantesche di marmo bianco, gli ospiti si divertivano a raccontare aneddoti curiosi, parlare di affari di stato, a danzare o semplicemente ad annoiarsi tra un calice di vino, una risata e un flirt amoroso, la serata scorreva tranquilla.
Nel salone principale si stendevano lunghe tavole su cui erano appoggiati vassoi enormi traboccanti di selvaggina e di frutta anche esotica, mentre gli invitati mangiavano di gusto queste prelibatezze.
La serata stava quasi per volgere al termine quando…  improvvisamente, giunsero diversi carri scortati dai soldati. Nessuno si accorse della loro presenza finché uno squillo di una tromba annunciò l’arrivo della carovana. Enrico II precipitò a vedere cosa stava accadendo, giunto vicino ai carri un soldato gli consegnò uno stravagante regalo per gli sposi: un animale peloso chiuso in una gabbia.
Dopo lo stupore iniziale, però, tutti gli invitati e i regali consorti realizzarono che, in realtà, non si trattava di un animale, bensì di un adolescente il cui viso e corpo era ricoperto di lunghi peli!
 Gli ospiti stupefatti e curiosi guardavano il ragazzino spaventato, mentre molti pensarono che i regali non avrebbero mai tenuto al castello questo bizzarro e curioso regalo ma invece……..., non fu così.
Infatti era il 17 agosto 1538, quando Caterina ed Enrico battezzarono questo ragazzino con il nome di Pedro Gonzales e fu accettato da tutta la corte imperiale. Enrico lo fece studiare e lo trasformo in un vero gentiluomo. Si narra che Caterina lo chiamasse con l’appellativo di “Barbet”, per via della somiglianza con una razza canina… fin qui una il racconto romanzato delle nozze di Caterina ed Enrico a cui fecero un regalo alquanto bizzarro e che poi da semplice dono di nozze Pedro Gonzales divenne il protagonista di una delle più belle favole di tutti i tempi: “La Bella e la Bestia”.
Ma in realtà la vita di Pedro fu così bella come si raccontato fino ad ora?
Secondo Angela Grazia Arcuri la storia sembra essere andata diversamente e non tutto fu come in una fiaba!  Secondo quando si legge nel sito  https://www.2duerighe.com/rubriche/storie/37089-petrus-gonsalvus-il-gentiluomo-alla-corte-di-enrico-ii-che-ispiro-la-favola-della-bella-e-la-bestia.html la storia del protagonista della favola La Bella e la Bestia pare abbia avuto una vita molto movimentata. A tal proposito scrive Angela Grazia Arcuri:
    “ Petrus Gonsalvus, nella sua singolarità, fu nella vita uomo di successo. L’ipertricosi che lo affliggeva e che destava sicuramente grande curiosità, anziché essere un limite finì per rivelarsi un “atout”. Grazie alle sue doti intellettuali, fu considerato uno dei personaggi più noti nell’ambiente aristocratico del XVI secolo. E questa è la sua storia. Nacque nel 1537 a Tenerife, discendente dei “mencey”, i re degli aborigeni delle Canarie (guanchi) sopraffatti e resi schiavi dalla conquista spagnola a fine ‘400. Sembra che Pedro Gonzales, questo il suo nome, era un “muchacho muy hermoso”, la cui caratteristica era quella di avere il volto e il corpo coperti da una fine peluria rosso scuro, che tuttavia scopriva nel volto dei bei lineamenti regolari, come riportano le cronache dell’epoca. All’età di dieci anni, pare che fu inviato come “regalo” dalle Canarie al Re Carlo V nei Paesi Bassi, ma durante la traversata un’incursione di corsari francesi portò alla cattura di Pedro che fu condotto invece, giochi del destino, in omaggio ad Enrico II re di Francia. A quella Corte dominava allora la storica Caterina de’Medici, moglie del re, una donna dalla forte personalità caratteriale e politica, piccola di statura e assai poco piacevole d’aspetto, piuttosto egoista e spesso crudele, con alcune peculiarità come l’essere estremamente golosa (fu la prima ad introdurre a corte l’uso della forchetta), nonché amante di tutto ciò che fosse esotico. L’ingresso del ragazzo “guancho” suscitò quindi in lei estremo interesse, l’ambizione davanti ai cortigiani di ospitare una testimonianza unica del suo genere. Pedro fu visto come un’icona esotica da conservare con tutti i riguardi. Fu instradato verso lo studio del latino parlato e scritto ( a quel tempo considerato come la più alta forma di cultura) e delle materie umanistiche, sì che crebbe come un vero gentiluomo restando a Corte per ben 44 anni con il nome di Don Petrus Gonsalvus, un atto dovuto alle sue origini reali. Nel 1573, avendo Petrus 36 anni, la regina credette bene di dargli una moglie. La scelta cadde non tanto casualmente su Catherine, la più bella delle sue damigelle d’onore, forse per la curiosità…scientifica di vedere cosa sarebbe sorto da quel contrastante connubio. Si narra che la fanciulla, al momento di venire presentata a Petrus come moglie, svenne al suo cospetto. Tuttavia, al di là di quella peluria che scuriva il suo volto e che avrebbe intimorito qualsiasi fanciulla in attesa del principe Azzurro, Petrus era dotato di una corporatura imponente, quella caratteristica dei guanchi di Tenerife, i quali avrebbero avuto alle origini infiltrazioni di popoli nordeuropei, di carnagione chiara e capelli biondi. Da qui è ragionevole desumere la peluria rossiccia di Petrus. E’ da supporre che l’iniziale deliquio di Catherine e il matrimonio forzato si risolvessero in un’unione insperatamente felice, in quanto la sensibilità, la dolcezza e la cultura di Petrus finirono per conquistarla. Ne nacquero infatti ben sei figli, quattro dei quali affetti da ipertricosi. E la Regina fu accontentata. Ulisse Aldrovandi, appassionato naturalista del ‘500, studiò i membri della famiglia Gonsalvus, pubblicandone le immagini su uno dei suoi volumetti dal titolo “De Monstris”, laddove il termine latino “monstrum” non aveva quel significato negativo che noi moderni usiamo attribuirgli, ma qualcosa fuori dall’ordinario, di portentoso, di eccezionale. Infatti, Aldrovandi presentava quelle malformazioni che la natura spesso regala a sorpresa a tutti gli esseri di questa terra, umani, animali e vegetali. A sua volta, la ritrattista Lavinia Fontana, amica della famiglia Aldrovandi, ritrasse la figlia di Petrus Antonietta, detta Tognina, e così anche lo stesso Petrus. Ma cos’è l’ipertricosi? La causa è da riscontrare in un’alterazione genetica a carico di alcuni cromosomi, un capriccio del dna. Venne chiamata “sindrome del lupo mannaro” ed anche “sindrome di Ambras”, dal nome di un castello presso Innsbruck, capoluogo del Tirolo, dove furono scoperti i ritratti della famiglia Gonsalvus tuttora conservati nella “Camera dell’Arte e delle curiosità”. Varrebbe la pena come interessante meta turistica. Pare che Petrus Gonsalvus e la sua famiglia siano i più antichi casi di ipertricosi documentati in Europa. Tale disturbo è poco riscontrato nelle etnie asiatiche e nere e poco comune nel nord Europa, più frequente invece nel bacino mediterraneo. Attualmente, in tutto il mondo sono noti un centinaio di casi di questa che è ritenuta una vera malattia, strumentalizzati dai mass media e visibili ormai da tutti in note trasmissioni televisive nazional-popolari. Questa insolita storia d’amore è stata popolarmente assimilata a quella de “La Bella e la Bestia” e per certi versi vi sono delle chiare similitudini. La fiaba, scritta nel 1550 dall’ italiano Gianfrancesco Straparola e poi dal francese Charles Perrault a fine ‘600, pur se con ogni probabilità ispirata alla figura di Gonsalvus a quel tempo molto noto, in realtà trova le sue origini nell’antica letteratura classica greco-latina , ricordando “Le Metamorfosi” di Apuleio, scrittore filosofo di scuola platonica originario della Numidia. Ci sarà poi tutto un fiorire di riletture della fiaba nel corso del ‘700 a sfondo sociale-educativo, fino ai giorni nostri con versioni cinematografiche, letterarie, teatrali e nel piccolo schermo. Dopo la morte di Caterina de’Medici nel 1589, Petrus Gonsalvus con la famiglia lasciò la corte francese per recarsi in Italia, dove soggiornò alla corte di Parma. In seguito, si stabilì definitivamente a Capodimonte sul lago di Bolsena (Viterbo), dove morì nel 1618, all’età di 81 anni. I particolari della sua vita si trovano nell’Archivio Vaticano e negli Archivi di Stato di Roma e Napoli.
“ El salvaje gentilhombre de Tenerife” (Il selvaggio gentiluomo di Tenerife), come intitola il suo libro Roberto Zapperi, scrittore di storia e antropologia, terminò i suoi giorni nella tranquillità del lago laziale, lontano dai clamori delle Corti reali. E questo “lupo mannaro” buono e sensibile ci può insegnare quanto relativo sia il valore della bellezza. Imparò a capirlo la sua devota Catherine.”
Secondo alcune fonti affermano che la progenie di Petrus sia stabilità in Abruzzo dando vita un fiorire di leggende su strani esseri che popolavano i boschi e che erano simili a persone affette da ipertricosi, facendo nascere il mito del selvaggio che sembrerebbe essere metà umano e metà animale. Altri affermano che Maddalena Ventura o Donna barbuta  la protagonista del dipinto di Jusepe de Ribera presente al museo del Prado di Madrid non sia la sola che all’epoca viveva in Abruzzo. Infatti pare che in alcuni paesi dell’Abruzzo interno vivessero alcune donne affette da ipertricosi.(1)

1) https://www.2duerighe.com/rubriche/storie/37089-petrus-gonsalvus-il-gentiluomo-alla-corte-di-enrico-ii-che-ispiro-la-favola-della-bella-e-la-bestia.html

mercoledì 4 settembre 2019

NURKARON, L'ARCIERE DELL'ISOLA DEI NURAGHI

Un romanzo che introduce al mondo misterioso della Sardegna del 10° secolo a.C. E’ uscito ai primi di maggio, a cura della Carlo Delfino Editore, l’opera prima di Giuseppe Tito Sechi, dall’arcano titolo “Nurkaron, l’arciere dell’isola scomparsa”. Ma, fin dalle prime righe dell’originale e accattivante prefazione, il lettore scopre che quell’isola dall’infelice sorte è tuttora baciata dal mare ed è la Sardegna, quella di qualche millennio fa; quella che ha espresso la bella civiltà dei nuraghi.

 Un’isola reale e fantastica in pari tempo che emerge dalla penna di un sardo doc che, alla bella età di settantasette anni, ha realizzato il sogno cullato fin da quando era dirigente di banca e specialista di diritto tributario. Sorprendentemente la Sardegna di Grazia Deledda, di Giuseppe Dessì, di Salvatore Satta, di Marcello Fois, di Michela Murgia, riscopre uno scrittore dalla felice scrittura, forbita, vivida e coinvolgente. Una prosa classica, che descrive straordinari scenari bucolici, situazioni drammatiche, timori e paure ancestrali, nella quale trovano spazio similitudini che conferiscono forza suggestiva a sensazioni e moti dell’anima.

Né mancano i momenti aulici, nei quali la poesia offre il destro agli ispirati sentimenti dell’arciere protagonista del romanzo. Così come quando sulle alture del Sinis, giubilante per la grande meraviglia che aveva preso l’amata giovane Kersa, alla scoperta per la prima volta dell’azzurra distesa del mare, egli canta: “Non volle Dio Creatore/ che del piede suo/ la solitaria impronta di pietra/ i figli di Sardegna tenesse prigionieri./ Così cullati dal Grande Mare,/ così liberi/ e soli./ Si commosse al vederli/ in quell’esilio dorato. / Al primo Sardo che bagnò il suo piede/ nel salato mare/ mostrò la navicella e la rotta, / guidò il suo sguardo/ verso le infinite sponde abitate/ che la vastità dell’inesplorate acque/ nascondeva.” Si coglie in diverse parti del romanzo di Sechi il filo conduttore di una struggente passione per la sua terra, nell’epoca indagata ancora più bella e misteriosa.

Sentimento presente specie nella descrizione dei paesaggi, della flora e della fauna che arricchiscono i luoghi, degli ambienti di vita e di lavoro, dove si muove un’umanità semplice, che tiene in gran conto i defunti, che nutre una profonda fede verso “Babbai nostru”, il Dio creatore del cielo e della terra. Così assume corpo e anima l’affresco di una Sardegna risalente a trenta secoli prima, frutto di attenta indagine delle fonti accreditate, nonché di recupero di sentimenti e passioni atavici e di antichissime tradizioni, di cui ancor oggi la Sardegna mantiene viva memoria.

 Si pensi, ad esempio, alla pratica della più cordiale accoglienza al forestiero, tuttora riscontrabile, specie nei centri dell’interno. Forti così si possono cogliere l’anima e le esteriori manifestazioni di una antica e affascinante civiltà, ancora poco indagata e raccontata, specie per quanto riguarda i costumi, la vita sociale, l’organizzazione amministrativa, la fede. Ma perché, potrebbe chiedersi chi legge queste note, il titolo del libro rimanda ad un’isola “scomparsa”? La ragione la rivela l’autore nella prefazione e risiede nell’infausta sorte che toccò alla Sardegna nella seconda metà del sesto secolo avanti Cristo a causa dell’invasione subita da Cartagine.

Questa potenza emergente d’Africa, occupate le coste dell’isola e sospinte all’interno le popolazioni rivierasche, chiuse per sempre al popolo dei nuraghi le millenarie vie del Mediterraneo che aveva percorso fin dai lontani tempi del commercio dell’ossidiana, la pietra vulcanica lucida e tagliente tratta dal suo Monte Arci. Questo drammatico evento avrebbe così cancellato dalle mappe nautiche, e dalla storia, l’isola di Sardegna. Da allora, e per secoli, l’isola “scomparsa” prese ad emergere dai racconti dei naviganti, fantastica, prospera e felice, ricca di foreste e di selvaggina, priva di fiere e animali velenosi. Forse la favoleggiata Atlantide siccome, con dotte argomentazioni, ha supposto Sergio Frau, nel suo argomentato “Le Colonne d’Ercole”. Quell’evento, per quanto attestano via via gli scavi archeologici, deve esser stato realmente deleterio per i Sardi.

 Essi, che in tutto il millennio precedente, in piena libertà e autonomia, avevano preso a occupare con molte migliaia di torri megalitiche troncoconiche – singole o riunite con antemurali a formare vere fortezze – ogni contrada dell’Isola, si ritirarono in gran parte nei luoghi più sicuri dell’interno. Quando, in sul finire del terzo secolo a.C., Roma strappò dalle mani di Cartagine la Sardegna, si trovò, malgrado la fiera resistenza delle genti dell’interno, in una terra che era regredita ad un regime di sopravvivenza: lo spirito illuminato e civile, profondamente religioso, che aveva contraddistinto quell’epoca era stato umiliato e soffocato. Sul terreno, e sotto terra, di essa rimasero le gigantesche torri nuragiche, le grandi tombe “di Giganti”, i preziosi pozzi sacri, le piccole immagini espresse con grande maestria nel bronzo.

Di queste straordinarie testimonianze di civiltà, del resto, neppure la superba Roma si era curata. Tutto ciò l’Autore accoratamente esprime tra le righe del romanzo e, come già detto, nella sua prefazione, facendo di ciò un’appendice di estremo interesse per il lettore che si avvicina per la prima volta alla conoscenza dell’antica civiltà sarda. Giuseppe Tito Sechi – studi classici al liceo Azuni e laurea in giurisprudenza nell’Università di Sassari, dove è nato e risiede – prova sofferenza per quegli eventi storici che hanno mortalmente ferito l’antica civiltà espressa dai suoi avi. Ma, come egli argomenta, con la sua isola, comunque, il tempo è stato galantuomo: ancorché non siano state rintracciate finora attendibili testimonianze scritte, il frutto degli scavi archeologici finora effettuati le sostituisce degnamente. Quanto sinora è venuto alla luce costituisce autentica narrazione di una storia realmente vissuta e testimoniata.

Infatti, non solo i numerosissimi monumenti megalitici che costellano il paesaggio sardo, ma anche le straordinarie opere d’arte rappresentate dai “bronzetti nuragici” già ricordati, all’attento osservatore dicono in termini non equivoci del grado evoluto e dello sviluppo sociale raggiunto in crescendo sino al 6° secolo a.C.. Queste singolari statuette, fuse nel bronzo col metodo della cera persa, si trovano esposte nei principali musei archeologici, specie dell’Isola. Al visitatore si mostrano in una variegata gamma di personaggi appartenenti ad ogni ceto sociale: sono arcieri, opliti, frombolieri, sacerdoti, capi dei villaggi, offerenti che si accostano alla divinità con spirito devoto, donne e sacerdotesse, madri che recano sul grembo e offrono al Dio il figlio esanime; tutti in significativi abbigliamenti e austeri portamenti.

Non manca una rassegna di animali domestici e una ricca collezione di navicelle, talune recanti a bordo uccelli, carri e bovi. Vi è da osservare che le ricerche archeologiche degli ultimi decenni hanno fornito un ulteriore insperato contributo alla riscrittura della storia della Sardegna: a occidente dello stagno di Cabras, non molto distante dall’approdo nuragico di Tharros e dalla penisola del Sinis, prima richiamata, cinquemilatrecento grandi e piccoli frammenti di bianca arenaria, ivi ritrovati, sono stati in buona parte ricomposti dall’Istituto del restauro di Sassari in ventisei gradi statue di atleti e guerrieri, ribattezzate Giganti di Mont’e Prama dal sito del ritrovamento.

Queste opere, di straordinario rilievo artistico anche per l’epoca nella quale sono state realizzate, precedente alla grande fioritura della straordinaria scultura greca, sono richiamate nel romanzo di Sechi e immaginate a corredo e lustro del Tempio di “Babbai Nostru”, un santuario che secondo taluni sarebbe realmente esistito; descritto nel romanzo, perché mèta del pellegrinaggio di Nurkaron e Kersa prima della partenza del guerriero alla volta della Palestina. La narrazione, per tutte le oltre trecento pagine del volume, procede fluida e coinvolgente, conducendo il lettore con straordinaria ispirazione a rivivere il mondo dei Nuragici in sul finire del decimo secolo a.C.

E’ questa l’epoca in cui i Libri Storici della Bibbia (Samuele 1-2) collocano una precisa fase della lunga guerra tra le cinque città confederate dei Filistei e Israele: quella della sanguinosa battaglia del Monte Gelboe, nella quale l’esercito israelita condotto da Saul subisce la sconfitta e lo sfortunato Re, persi nello scontro Gionata ed altri due suoi figli, si procura eroicamente quella morte che tanta letteratura e teatro ha ispirato fino ai nostri giorni. Nurkaron, alla guida della compagine degli arcieri nuragici, si distingue nello scontro cruento e riesce a portare a salvamento il re della città confederata di Gath.

Ma prima che le ombre della notte siano calate sulla spianata insanguinata resta ferito, vaga febbricitante nel buio, finisce in territorio nemico. Ma è il vecchio pastore Ibrahim – un saggio ebreo, potenziale nemico – che lo porta a salvamento, l’ospita nella sua casa e lo affida alle cure della giovane e bella figlia Anna. In quel frangente una serie di avvenimenti cambiano la vita del guerriero toccandolo nel suo intimo: inconsci stati d’animo lo turbano, mentre scopre altre ragioni che rafforzano l’idea che già s’era fatta in terra di Palestina: che quella guerra tra Filistei ed Ebrei sia insensata, giacché accordi di pace potrebbero favorire la convivenza dei due popoli e assicurare agli Ebrei l’accesso al Mediterraneo.

 Dopo, si apre la via del ritorno al suo accampamento, ai suoi arcieri, all’isola avita e alla sua promessa sposa Kersa. Drammatica è l’attesa dei familiari a Shardara, tra una ridda di voci che dai lontani lidi giungono agli approdi dell’isola, e drammatico ancor più è l’arrivo del drappello dei cavalieri condotti da Nurkaron nella spianata delle adunanze del suo villaggio di Sa Costa”. Vi è da notare che, tra le altre, due interessanti tracce arricchiscono il romanzo. Una, che percorre tutta la narrazione, costituita dall’ordine perentorio impartito all’Arciere dall’Autorità degli Otto Cantoni in cui è suddivisa la Sardegna: impadronirsi ad ogni costo del segreto del ferro negato dall’alleato filisteo.

L’altra coinvolge – in una costruzione fantastica il cui ordito è costituito dalla narrazione biblica – Davide, rifugiato in una città filistea del regno di Gath, al tempo in cui Saul gli dà ostinatamente la caccia. Nurkaron, ospite coi suoi cinquanta guerrieri, di re Achis, sovrano della stessa Città, ha la ventura d’incontrare il giovane Unto del Signore nel palazzo reale e, alla fine delle libagioni, invitati dal sovrano entrambi i guerrieri declamano versi. Davide, accompagnandosi con la cetra, canta il Salmo 17, a lui attribuito secondo la tradizione.

Nurkaron, al suono delle launeddas, antichissimo strumento di Sardegna, rende omaggio all’intrepido israelita e al suo Jhwh, che riconosce essere lo stesso Babbai Nostru , il Dio unico dei Sardi. Egli così canta: “Il Dio, creatore del cielo e della terra,/che, sull’Isola nostra del Grande Mare,/ impresse l’orma del suo piede/ non è forse anche/ il Dio di Abramo e di Mosè?/ Quale misteriosa forza/ ha guidato i nostri Padri/ verso la Verità del Cielo/ se non lo stesso Jhwh?” E’ singolare e degna di nota l’intuizione espressa nel romanzo che il Popolo dei nuraghi credesse nel Dio unico, creatore del cielo e della terra, portato in Sardegna – forse una delle bibliche “lontane isole” del Mediterraneo – dalla travagliata diaspora ebraica. La supposizione è giustificata da Sechi con riferimento a quanto ebbe a scrivere lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni nel suo trattato del 1912, “La religione primitiva in Sardegna”.

Questo assunto, ampiamente giustificato nel contesto del libro, porta l’Autore a credere che le torri nuragiche, presenti in ogni contrada dell’isola, siano state erette, con grande perizia ed enorme dispendio di energie, primieramente per rendere omaggio al Dio dei Sardi. Le loro circolari aggettanti terrazze erano ciascuna l’occhio levato alto al cielo, sede della divinità, dalle popolazioni dell’isola. Solo una fede forte e condivisa poteva giustificare quelle torri megalitiche sparse per tutta l’isola. L’assunto – che esclude sia la destinazione a guerre intestine, sia l’esclusivo uso abitativo dei nuraghi – appare giustificato sia dalla presenza di numerose abitazioni circolari che attorniano molti nuraghi, sia dall’assenza di città fortificate e plaghe disabitate; e ancor più da una fede consolidata, testimoniata da centinaia di personaggi fusi nel bronzo colti nell’atto di salutare o di offrire doni alla divinità.

In conclusione si può ben affermare che il romanzo costituisce lo straordinario affresco di un’isola e di un’epoca così mai prima a vive tinte indagata e, in pari tempo, un contributo alla speculazione e alla ricerca di un mondo che ancora tarda ad essere riportato completamente all’attenzione dell’umanità. Una storia così articolata e nuova per ambienti e costumi che potrebbe facilmente suscitare l’interesse del cinema e della tv. Un’opera che per la novità del filone storico meriterebbe di dare spunto a una lunga serie di contributi letterari e teatrali. Niente di più, niente di meno, di quanto sinora alla letteratura, al teatro e al cinema hanno ispirato i più noti giacimenti storico-culturali specialmente dell’antico Egitto, di Grecia, di Roma.