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sabato 23 settembre 2023

A VITORCHIANO NASCE IL MUSEO DEL MISTERO DELLE TERRE SCOMPARSE

tratto da L'Opinione del 02 agosto 2023

di Laura Bianconi


Chi visita il ben curato centro storico di Vitorchiano, il delizioso borgo viterbese circondato da mura duecentesche posto nella Valle del torrente Vezza, s’imbatte in un imponente Moai alto oltre sei metri, che da un affaccio panoramico sembra guardare lontano, quasi a voler rintracciare le sculture gemelle dell’isola di Rapa Nui, in Cile, più nota sotto il nome di Isola di Pasqua. Non è un esemplare originale, ma perché è proprio lì questo singolare e suggestivo monumento realizzato nel 1990 da undici scalpellini Maori provenienti dall’Isola di Pasqua? Perché proprio a Vitorchiano si trova questa riproduzione fedele di un Moai?

L’incipit si deve rintracciare in un’idea del giornalista Mino Damato per la trasmissione della Rai, Alla ricerca dell’Arca, che, all’epoca, propose una interessantissima operazione culturale per salvare e restaurare i Moai che, a causa del tempo e degli effetti atmosferici, si stanno deteriorando. Si trattava di rintracciare una pietra di origine vulcanica non dissimile da quella esistente nell’Isola di Pasqua e, proprio a Vitorchiano, patria del peperino, gli scalpellini di Rapa Nui trovarono la pietra più adatta. Fu così che per mettere alla prova il materiale, gli undici artigiani scolpirono manualmente, con il solo uso di asce e pietre taglienti, un enorme blocco di peperino di circa trenta tonnellate, lasciando a Vitorchiano un monolite che rappresenta un esperimento unico al mondo. Per questo motivo, su iniziativa della Casa Editrice Serena con il patrocinio del Comune, a trentatré anni dalla realizzazione del Moai, è nato l’ambizioso progetto di allestire, a pochi metri dal luogo dove sorge il monolite, un museo dedicato alle civiltà dei continenti scomparsi, a partire, intanto, da Rapa Nui, che secondo alcune ipotesi sarebbe un frammento di terra residuo del leggendario continente sprofondato di Mu, similmente ad Atlantide e a Lemuria. Il progetto, che necessiterà di diverse tappe prima di essere portato al suo pieno completamento, prevede, tra l’altro, la realizzazione di plastici dell’isola di Rapa Nui e fantasiose ricostruzioni di Atlantide sulla base della narrazione lasciataci da Platone nel Crizia e nel Timeo. Inoltre, non si limiterà ad essere solamente una mostra, ma dovrà anche divenire un luogo di incontri per studiosi di archeologia del mistero e di astroarcheologia, ricercatori ed appassionati di arcani.

Il via della mostra, previsto a gennaio del 2024, avverrà con l’esposizione dei reperti originali dell’isola di Rapa Nui appartenenti all’eminente studioso ed esploratore Ennio La Malfa, che costituiranno la prima sezione del mistero dei continenti scomparsi in seguito allo sconvolgimento geologico ricordato nel mito del “diluvio universale”.

 

sabato 2 maggio 2020

Atlantide fu distrutta da uno tzunami, ora la cercano in Andalusia

tratto da "Il Giornale" del 28/08/2009

Esperti concordi sull'idea che fu un'onda (molto) anomala a distruggere la civiltà  di cui racconta Platone e che con il suo mito  affascina il mondo occidentale da tre secoli. Ora in Spagna cominciano le ricerche guidate da due scienziati tedeschi

di Vincenzo Pricolo

Per la prima volta nella storia delle ricerche su Atlantide i maggiori esperti sembrano finalmente d'accordo su un punto centrale: la grande civiltà tramandata dagli Egizi e raccontata da Platone fu travolta da un enorme tsunami.
«Le due tesi principali oggi in concorrenza su quale fosse l'Atlantide di Platone sono Santorini, nell'Egeo, e Donana, sulla costa atlantica spagnola, e in entrambi i casi gli esperti sono ormai orientati a credere che venne distrutta da un grande tsunami», dice all'Ansa Rainer Kuehne. Lo studioso tedesco è con le sue ricerche l'ispiratore, insieme a Werner Wickboldt, degli scavi che iniziano sulla costa dell'Andalusia alla ricerca della misteriosa città di Tartessos, forse all'origine del mito di Atlantide.
«Io sono convinto dell'ipotesi Tartessos - dice Kuehne - anche se alcuni argomenti giustificano la tesi, proposta nel 1950 da Spyridon Marinatos, secondo cui la grande eruzione vulcanica che distrusse Santorini sarebbe stata all'origine sia del collasso della civiltà minoica che della leggenda di Atlantide».
Nel racconto di Platone Atlantide era una potenza navale situata oltre le Colonne d'Ercole che dominò parte dell'Europa occidentale e dell'Africa 9mila anni prima del tempo di Solone, che avrebbe appreso della civiltà scomparsa dagli egizi. E furono gli egizi, secondo Platone, a raccontare a Solone che, dopo avere fallito l'invasione di Atene, Atlantide sprofondò «in un giorno e una notte di disgrazia».
Essendo una storia funzionale ai dialoghi di Platone, quella di Atlantide è stata a lungo, almeno fino a tutto il Medioevo, considerata come un mito concepito dal filosofo greco per illustrare le proprie idee politiche.
E fu solo nel corso dell'Ottocento e del Novecento si moltiplicarono le teorie più o meno scientifiche, le rivelazioni di sensitivi, ricostruzioni «fantastoriche» e soprattutto le ipotesi su dove si trovasse la mitica civiltà platonica: dai Caraibi all'Antartide passando per Lemuria, il «continente perduto». E ancora, la stessa America (con le sue civiltà precolombiane), la Sardegna (con le Colonne d'Ercole «spostate» al Canale di Sicilia), il deserto del Sahara, in mezzo all'Oceano Atlantico (e quindi ora sotto il Mar dei Sargassi), Cipro, Rodi, Creta...
Quel che è certo è che il mito di Atlantide affascina l'immaginario letterario e culturale dell'Occidente da almeno tre secoli, da quando cioè all'inizio del Settecento lo studioso svedese Olaus Rudbeck ipotizzò che la civiltà scomparsa fosse fiorita in Scandinavia.
Come osservò lo scrittore americano Lyon Spraugue de Camp: «La ricerca di Atlantide colpisce le corde più profonde del cuore per il senso della malinconica perdita di una cosa meravigliosa, una perfezione felice che un tempo apparteneva al genere umano. E così risveglia quella speranza che quasi tutti noi portiamo dentro: la speranza tante volte accarezzata e tante volte delusa che certamente chissà dove, chissà quando, possa esistere una terra di pace e di abbondanza, di bellezza e di giustizia, dove noi, da quelle povere creature che siamo, potremmo essere felici».

venerdì 3 luglio 2015

Atlantide e altri non-luoghi Alla ricerca del mito perduto

tratto da Il Giornale del 22 febbraio 2010

di Gianfranco de Turris

Il 26 dicembre 2004 sul fondo dell’Oceano indiano, a 200 km a Ovest di Sumatra, la Placca indiana all’improvviso scivolava rapidamente sotto la Placca birmana spingendola verso l’alto di cinque metri e spostando l’isola indonesiana verso Est di una ventina di metri. Il risultato di questo terremoto sottomarino di magnitudo 9,3 e di 8,5 gradi della Scala Richter e del successivo spostamento della massa d’acqua superiore, era un’onda anomala che si propagava alla velocità di 850 chilometri l’ora per tutto l’Oceano Indiano raggiungendo con uno tsunami dai dieci ai trenta metri di altezza a oriente le coste di Indonesia, Malaysia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh, e ad occidente quelle di Sri Lanka, India e Maldive, sommergendo tutte le piccole isole che si trovava davanti. Coste devastate, isole sommerse, intere popolazioni scomparse su quelle più piccole, danni incalcolabili. I morti e i dispersi accertati hanno superato i trecentomila, anche se una cifra esatta non si saprà mai. Il maggior disastro dell’epoca moderna.
Se tutto questo è avvenuto nel XXI secolo, perché non potrebbe essere avvenuto anche 9mila anni prima di Platone che ci racconta nel Timeo e nel Crizia come nel corso di «una notte tremenda» terremoti e maremoti sommersero l’isola di Atlantide che sprofondò nell’oceano? Questo solo per dire che dal punto di vista «scientifico» la storia che ci racconta il filosofo greco può non essere considerata una fandonia agli occhi dei «moderni». Il fatto è che, esistito o meno nella realtà il regno di Atlantide, esso servì a Platone per lanciare nel tempo il suo mythos, la sua fabula, che contiene degli insegnamenti in positivo e in negativo: al tempo stesso la sua «utopia» e la sua «antiutopia», descrivendoci una società perfetta di discendenza divina che diventa arrogante ed «empia» nel momento in cui dimentica o perde, appunto, quella «scintilla divina» che aveva dentro di sé.
Un mito così affascinante che nell’arco di due millenni e mezzo è giunto sino a noi, un mito a cui molti hanno creduto e che si è andato arricchendo e ampliando a seconda del periodo storico in cui venne accolto. Di tutta questa affascinante storia ci parla Davide Bigalli, che insegna storia della filosofia all’Università di Milano ne Il mito della terra perduta (Bevivino, pagg. 226, euro 20) che segue passo passo il tema dalle origini ai nostri giorni.
Il professor Bigalli scrive dunque che Atlantide «appartiene al mondo del pensiero», è «un consapevole mythos, volto a delineare, in una remota antichità, modelli di civiltà, dove le costruzioni politiche, a misura che si distaccano dall’immagine ideale, corrono a catastrofe divenendo esemplari di una contro utopia». Nello stesso tempo, l’autore fa notare, credo per primo, come questo mito, quando su quella ideale/filosofica/simbolica prevale la parte della narrazione, del racconto, della elaborazione fantastica (del resto il termine greco mythos proprio questo vuol dire) «diventa una esemplare non-luogo, il regno di una alterità che non può rinchiudersi né venire raggiunta per entro i termini di realismo geografico. Diventa un altro mondo».
Ecco perché nel corso dei secoli ha appassionato anche esploratori, avventurieri, geografi, personaggi folli e bizzarri che ne sono andati concretamente alla ricerca tentando di localizzare Atlantide qui e la, in quasi tutte le parti del mondo. E perché il suo archetipo abbia dato vita ad altre «terre perdute» di cui sempre parla Bigalli: Mu e Lemuria, ad esempio, ma anche Agartha e Shamballah, forse anche l’Eldorado, e addirittura la fantastica teoria ottocentesca della Terra Cava.
Un libro denso, zeppo di riferimenti e di citazioni tratte dai testi più singolari e sconosciuti che ci dimostra come anche di miti viva il genere umano, ancorché sempre più dotto e scettico. È sufficiente che questo mito da pura idea filosofica esemplare sia trasformato in riferimento storico-geografico, come in effetti è avvenuto.