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mercoledì 4 settembre 2019

NURKARON, L'ARCIERE DELL'ISOLA DEI NURAGHI

Un romanzo che introduce al mondo misterioso della Sardegna del 10° secolo a.C. E’ uscito ai primi di maggio, a cura della Carlo Delfino Editore, l’opera prima di Giuseppe Tito Sechi, dall’arcano titolo “Nurkaron, l’arciere dell’isola scomparsa”. Ma, fin dalle prime righe dell’originale e accattivante prefazione, il lettore scopre che quell’isola dall’infelice sorte è tuttora baciata dal mare ed è la Sardegna, quella di qualche millennio fa; quella che ha espresso la bella civiltà dei nuraghi.

 Un’isola reale e fantastica in pari tempo che emerge dalla penna di un sardo doc che, alla bella età di settantasette anni, ha realizzato il sogno cullato fin da quando era dirigente di banca e specialista di diritto tributario. Sorprendentemente la Sardegna di Grazia Deledda, di Giuseppe Dessì, di Salvatore Satta, di Marcello Fois, di Michela Murgia, riscopre uno scrittore dalla felice scrittura, forbita, vivida e coinvolgente. Una prosa classica, che descrive straordinari scenari bucolici, situazioni drammatiche, timori e paure ancestrali, nella quale trovano spazio similitudini che conferiscono forza suggestiva a sensazioni e moti dell’anima.

Né mancano i momenti aulici, nei quali la poesia offre il destro agli ispirati sentimenti dell’arciere protagonista del romanzo. Così come quando sulle alture del Sinis, giubilante per la grande meraviglia che aveva preso l’amata giovane Kersa, alla scoperta per la prima volta dell’azzurra distesa del mare, egli canta: “Non volle Dio Creatore/ che del piede suo/ la solitaria impronta di pietra/ i figli di Sardegna tenesse prigionieri./ Così cullati dal Grande Mare,/ così liberi/ e soli./ Si commosse al vederli/ in quell’esilio dorato. / Al primo Sardo che bagnò il suo piede/ nel salato mare/ mostrò la navicella e la rotta, / guidò il suo sguardo/ verso le infinite sponde abitate/ che la vastità dell’inesplorate acque/ nascondeva.” Si coglie in diverse parti del romanzo di Sechi il filo conduttore di una struggente passione per la sua terra, nell’epoca indagata ancora più bella e misteriosa.

Sentimento presente specie nella descrizione dei paesaggi, della flora e della fauna che arricchiscono i luoghi, degli ambienti di vita e di lavoro, dove si muove un’umanità semplice, che tiene in gran conto i defunti, che nutre una profonda fede verso “Babbai nostru”, il Dio creatore del cielo e della terra. Così assume corpo e anima l’affresco di una Sardegna risalente a trenta secoli prima, frutto di attenta indagine delle fonti accreditate, nonché di recupero di sentimenti e passioni atavici e di antichissime tradizioni, di cui ancor oggi la Sardegna mantiene viva memoria.

 Si pensi, ad esempio, alla pratica della più cordiale accoglienza al forestiero, tuttora riscontrabile, specie nei centri dell’interno. Forti così si possono cogliere l’anima e le esteriori manifestazioni di una antica e affascinante civiltà, ancora poco indagata e raccontata, specie per quanto riguarda i costumi, la vita sociale, l’organizzazione amministrativa, la fede. Ma perché, potrebbe chiedersi chi legge queste note, il titolo del libro rimanda ad un’isola “scomparsa”? La ragione la rivela l’autore nella prefazione e risiede nell’infausta sorte che toccò alla Sardegna nella seconda metà del sesto secolo avanti Cristo a causa dell’invasione subita da Cartagine.

Questa potenza emergente d’Africa, occupate le coste dell’isola e sospinte all’interno le popolazioni rivierasche, chiuse per sempre al popolo dei nuraghi le millenarie vie del Mediterraneo che aveva percorso fin dai lontani tempi del commercio dell’ossidiana, la pietra vulcanica lucida e tagliente tratta dal suo Monte Arci. Questo drammatico evento avrebbe così cancellato dalle mappe nautiche, e dalla storia, l’isola di Sardegna. Da allora, e per secoli, l’isola “scomparsa” prese ad emergere dai racconti dei naviganti, fantastica, prospera e felice, ricca di foreste e di selvaggina, priva di fiere e animali velenosi. Forse la favoleggiata Atlantide siccome, con dotte argomentazioni, ha supposto Sergio Frau, nel suo argomentato “Le Colonne d’Ercole”. Quell’evento, per quanto attestano via via gli scavi archeologici, deve esser stato realmente deleterio per i Sardi.

 Essi, che in tutto il millennio precedente, in piena libertà e autonomia, avevano preso a occupare con molte migliaia di torri megalitiche troncoconiche – singole o riunite con antemurali a formare vere fortezze – ogni contrada dell’Isola, si ritirarono in gran parte nei luoghi più sicuri dell’interno. Quando, in sul finire del terzo secolo a.C., Roma strappò dalle mani di Cartagine la Sardegna, si trovò, malgrado la fiera resistenza delle genti dell’interno, in una terra che era regredita ad un regime di sopravvivenza: lo spirito illuminato e civile, profondamente religioso, che aveva contraddistinto quell’epoca era stato umiliato e soffocato. Sul terreno, e sotto terra, di essa rimasero le gigantesche torri nuragiche, le grandi tombe “di Giganti”, i preziosi pozzi sacri, le piccole immagini espresse con grande maestria nel bronzo.

Di queste straordinarie testimonianze di civiltà, del resto, neppure la superba Roma si era curata. Tutto ciò l’Autore accoratamente esprime tra le righe del romanzo e, come già detto, nella sua prefazione, facendo di ciò un’appendice di estremo interesse per il lettore che si avvicina per la prima volta alla conoscenza dell’antica civiltà sarda. Giuseppe Tito Sechi – studi classici al liceo Azuni e laurea in giurisprudenza nell’Università di Sassari, dove è nato e risiede – prova sofferenza per quegli eventi storici che hanno mortalmente ferito l’antica civiltà espressa dai suoi avi. Ma, come egli argomenta, con la sua isola, comunque, il tempo è stato galantuomo: ancorché non siano state rintracciate finora attendibili testimonianze scritte, il frutto degli scavi archeologici finora effettuati le sostituisce degnamente. Quanto sinora è venuto alla luce costituisce autentica narrazione di una storia realmente vissuta e testimoniata.

Infatti, non solo i numerosissimi monumenti megalitici che costellano il paesaggio sardo, ma anche le straordinarie opere d’arte rappresentate dai “bronzetti nuragici” già ricordati, all’attento osservatore dicono in termini non equivoci del grado evoluto e dello sviluppo sociale raggiunto in crescendo sino al 6° secolo a.C.. Queste singolari statuette, fuse nel bronzo col metodo della cera persa, si trovano esposte nei principali musei archeologici, specie dell’Isola. Al visitatore si mostrano in una variegata gamma di personaggi appartenenti ad ogni ceto sociale: sono arcieri, opliti, frombolieri, sacerdoti, capi dei villaggi, offerenti che si accostano alla divinità con spirito devoto, donne e sacerdotesse, madri che recano sul grembo e offrono al Dio il figlio esanime; tutti in significativi abbigliamenti e austeri portamenti.

Non manca una rassegna di animali domestici e una ricca collezione di navicelle, talune recanti a bordo uccelli, carri e bovi. Vi è da osservare che le ricerche archeologiche degli ultimi decenni hanno fornito un ulteriore insperato contributo alla riscrittura della storia della Sardegna: a occidente dello stagno di Cabras, non molto distante dall’approdo nuragico di Tharros e dalla penisola del Sinis, prima richiamata, cinquemilatrecento grandi e piccoli frammenti di bianca arenaria, ivi ritrovati, sono stati in buona parte ricomposti dall’Istituto del restauro di Sassari in ventisei gradi statue di atleti e guerrieri, ribattezzate Giganti di Mont’e Prama dal sito del ritrovamento.

Queste opere, di straordinario rilievo artistico anche per l’epoca nella quale sono state realizzate, precedente alla grande fioritura della straordinaria scultura greca, sono richiamate nel romanzo di Sechi e immaginate a corredo e lustro del Tempio di “Babbai Nostru”, un santuario che secondo taluni sarebbe realmente esistito; descritto nel romanzo, perché mèta del pellegrinaggio di Nurkaron e Kersa prima della partenza del guerriero alla volta della Palestina. La narrazione, per tutte le oltre trecento pagine del volume, procede fluida e coinvolgente, conducendo il lettore con straordinaria ispirazione a rivivere il mondo dei Nuragici in sul finire del decimo secolo a.C.

E’ questa l’epoca in cui i Libri Storici della Bibbia (Samuele 1-2) collocano una precisa fase della lunga guerra tra le cinque città confederate dei Filistei e Israele: quella della sanguinosa battaglia del Monte Gelboe, nella quale l’esercito israelita condotto da Saul subisce la sconfitta e lo sfortunato Re, persi nello scontro Gionata ed altri due suoi figli, si procura eroicamente quella morte che tanta letteratura e teatro ha ispirato fino ai nostri giorni. Nurkaron, alla guida della compagine degli arcieri nuragici, si distingue nello scontro cruento e riesce a portare a salvamento il re della città confederata di Gath.

Ma prima che le ombre della notte siano calate sulla spianata insanguinata resta ferito, vaga febbricitante nel buio, finisce in territorio nemico. Ma è il vecchio pastore Ibrahim – un saggio ebreo, potenziale nemico – che lo porta a salvamento, l’ospita nella sua casa e lo affida alle cure della giovane e bella figlia Anna. In quel frangente una serie di avvenimenti cambiano la vita del guerriero toccandolo nel suo intimo: inconsci stati d’animo lo turbano, mentre scopre altre ragioni che rafforzano l’idea che già s’era fatta in terra di Palestina: che quella guerra tra Filistei ed Ebrei sia insensata, giacché accordi di pace potrebbero favorire la convivenza dei due popoli e assicurare agli Ebrei l’accesso al Mediterraneo.

 Dopo, si apre la via del ritorno al suo accampamento, ai suoi arcieri, all’isola avita e alla sua promessa sposa Kersa. Drammatica è l’attesa dei familiari a Shardara, tra una ridda di voci che dai lontani lidi giungono agli approdi dell’isola, e drammatico ancor più è l’arrivo del drappello dei cavalieri condotti da Nurkaron nella spianata delle adunanze del suo villaggio di Sa Costa”. Vi è da notare che, tra le altre, due interessanti tracce arricchiscono il romanzo. Una, che percorre tutta la narrazione, costituita dall’ordine perentorio impartito all’Arciere dall’Autorità degli Otto Cantoni in cui è suddivisa la Sardegna: impadronirsi ad ogni costo del segreto del ferro negato dall’alleato filisteo.

L’altra coinvolge – in una costruzione fantastica il cui ordito è costituito dalla narrazione biblica – Davide, rifugiato in una città filistea del regno di Gath, al tempo in cui Saul gli dà ostinatamente la caccia. Nurkaron, ospite coi suoi cinquanta guerrieri, di re Achis, sovrano della stessa Città, ha la ventura d’incontrare il giovane Unto del Signore nel palazzo reale e, alla fine delle libagioni, invitati dal sovrano entrambi i guerrieri declamano versi. Davide, accompagnandosi con la cetra, canta il Salmo 17, a lui attribuito secondo la tradizione.

Nurkaron, al suono delle launeddas, antichissimo strumento di Sardegna, rende omaggio all’intrepido israelita e al suo Jhwh, che riconosce essere lo stesso Babbai Nostru , il Dio unico dei Sardi. Egli così canta: “Il Dio, creatore del cielo e della terra,/che, sull’Isola nostra del Grande Mare,/ impresse l’orma del suo piede/ non è forse anche/ il Dio di Abramo e di Mosè?/ Quale misteriosa forza/ ha guidato i nostri Padri/ verso la Verità del Cielo/ se non lo stesso Jhwh?” E’ singolare e degna di nota l’intuizione espressa nel romanzo che il Popolo dei nuraghi credesse nel Dio unico, creatore del cielo e della terra, portato in Sardegna – forse una delle bibliche “lontane isole” del Mediterraneo – dalla travagliata diaspora ebraica. La supposizione è giustificata da Sechi con riferimento a quanto ebbe a scrivere lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni nel suo trattato del 1912, “La religione primitiva in Sardegna”.

Questo assunto, ampiamente giustificato nel contesto del libro, porta l’Autore a credere che le torri nuragiche, presenti in ogni contrada dell’isola, siano state erette, con grande perizia ed enorme dispendio di energie, primieramente per rendere omaggio al Dio dei Sardi. Le loro circolari aggettanti terrazze erano ciascuna l’occhio levato alto al cielo, sede della divinità, dalle popolazioni dell’isola. Solo una fede forte e condivisa poteva giustificare quelle torri megalitiche sparse per tutta l’isola. L’assunto – che esclude sia la destinazione a guerre intestine, sia l’esclusivo uso abitativo dei nuraghi – appare giustificato sia dalla presenza di numerose abitazioni circolari che attorniano molti nuraghi, sia dall’assenza di città fortificate e plaghe disabitate; e ancor più da una fede consolidata, testimoniata da centinaia di personaggi fusi nel bronzo colti nell’atto di salutare o di offrire doni alla divinità.

In conclusione si può ben affermare che il romanzo costituisce lo straordinario affresco di un’isola e di un’epoca così mai prima a vive tinte indagata e, in pari tempo, un contributo alla speculazione e alla ricerca di un mondo che ancora tarda ad essere riportato completamente all’attenzione dell’umanità. Una storia così articolata e nuova per ambienti e costumi che potrebbe facilmente suscitare l’interesse del cinema e della tv. Un’opera che per la novità del filone storico meriterebbe di dare spunto a una lunga serie di contributi letterari e teatrali. Niente di più, niente di meno, di quanto sinora alla letteratura, al teatro e al cinema hanno ispirato i più noti giacimenti storico-culturali specialmente dell’antico Egitto, di Grecia, di Roma.